«Il gap è un divario, una frattura molto spesso vista come incolmabile, o che si fa molta fatica a compensare». È una parola che leggiamo, sentiamo e usiamo quasi tutti i giorni e, in generale, sappiamo che è inglese. Chi si avventurasse in paesi anglofoni troverebbe il monito «mind the gap» ad ogni fermata di metropolitana, a raccomandare attenzione allo spazio vuoto fra la banchina e il treno, ma anche nel nostro parlato quotidiano usiamo ormai disinvoltamente questo vocabolo esoticamente monosillabico, accompagnandolo ad aggettivi colti come “generazionale” o “tecnologico” che ci riempiono la bocca di sillabe e attenuano il retrogusto legnoso di quelle tre lettere, trendy sì ma, insomma, così secche.
Poco o nulla, però, sappiamo del perché e del percome l’antico norvegese “gap”, ovvero “crepaccio”, sia arrivato in Inghilterra e lì abbia trovato accoglienza: non è obbligatorio avere interesse e curiosità per una scienza tanto pignola e poco glamour come la filologia. Ma, per citare una frase fin troppo citata di Nanni Moretti, «chi parla male pensa male», e informarsi sulla storia delle parole è un buon inizio per cominciare a pensare bene.
In questo ci è di aiuto un sito fondato proprio sulle parole, sulla loro etimologia e sulla loro storia, che racconta ogni giorno di una parola diversa, talvolta coltissima o desueta, talvolta ovvia e quotidiana: “Una parola al giorno”, che troviamo in rete all’indirizzo <https://unaparolaalgiorno.it/>.
Possiamo consultarlo come un vocabolario e cercare fra le sue pagine digitali la parola che ci manca, o di cui non ci è chiaro il senso, o della quale non capiamo perché significhi quello che significa, o ancora di cui vogliamo accertarci che, oltre al suo uso più scontato, non ne celi un altro, magari minaccioso.
Possiamo registrarci e ricevere ogni giorno una email con la parola quotidiana. Tale omaggio, privo di pubblicità e di tentativi di adescamento di qualunque genere, ha il sapore di un piatto del giorno, è presentato sempre con garbo e in un italiano appetitoso, colto ma privo di spocchia. Non è un sito per chi intenda conseguire un dottorato in filologia romanza alla Normale di Pisa, ma è utile e divertente (e anche alla Normale rompere l’uovo di Pasqua e trovarci la sorpresa fa comunque piacere).
È possibile commentare una parola e anche adottarla come fosse un cucciolo o una piantina, perché ci piace particolarmente e proviamo gratitudine per chi l’ha rispolverata e mostrata in tutta la sua bellezza. In questo caso possiamo fare una piccola donazione, anche per ricordarci che ricercare, scrivere ed editare costano tempo e fatica.
La parola “gap”, si diceva, significa “divario”, ed è stata pubblicata il 16 marzo scorso.
Ma Gap erano anche i Gruppi di azione patriottica, formazione partigiana comunista attiva in Italia dal settembre 1943 alla Liberazione. E Gap erano anche i Gruppo di azione partigiana e i Gruppi armati proletari che, fra la strage di piazza Fontana (12 dicembre 1969) e la fine degli anni Settanta agirono, spesso in clandestinità e con metodi violenti, e che dalla formazione partigiana presero l’acronimo.
Sui primi non credo vi sia nulla da dire. Sui secondi, quarant’anni dopo il rapimento di Aldo Moro, non è stata fatta la chiarezza che sarebbe necessaria in un Paese democratico. Tra loro e la Storia c’è ancora un gap, e un gap, ritengo, divide e allontana le componenti della nostra società frammentata.