La piccola e ribelle Taiwan, secondo la vecchia definizione di Pechino, ha una presidente e le femministe cinesi l’hanno già eletta a modello.
«La vittoria di Tsai è una fonte di grande incoraggiamento per tutte noi sul continente, un esempio di partecipazione alla politica», ha detto da Pechino Zeng Jinyan, attivista e scrittrice. Zeng propone anche collaborazione e scambi tra femministe continentali e isolane. E qui viene un’altra sfida per la nomenclatura della Cina, che pretende di gestire il dialogo con Taiwan solo a livello di rapporti di forza, commerciali e politici. Un dialogo tra esponenti della società civile femminile dei due Paesi porterebbe invece ad aprire il capitolo dei diritti.
I grigi dirigenti non sono abituati a negoziare con una signora cinese: tra i 25 membri del Politburo del Partito comunista ci sono solo due donne, su poltrone di seconda fila; tra i 205 del Comitato centrale le compagne sono meno del 5%, una percentuale più bassa di cinquant’anni fa, ai tempi di Mao e delle sue poetiche frasi sull’altra metà del cielo. E per non sbagliare, alla vigilia dell’8 marzo l’anno scorso la polizia di Pechino ha fatto una retata tra le attiviste dei diritti femminili: chiedevano solo giustizia contro le violenze sessuali e gli abusi subiti in famiglia, per le autorità «causavano turbamento dell’ordine».