Reali e immaginari

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Secondo il premio Nobel per l’economia Douglass North, tutti gli elementi che costituiscono il mondo in cui viviamo sono il frutto dei nostri pensieri, e non esistono fuori di noi. Così pare che il reale sia solo il risultato dell’immaginario, e che quindi esistano molti reali, uno per ogni mente che lo ha concepito. Oppure, al contrario, non ne esista alcuno.  Se ciò è vero, si spiega la difficoltà che abbiamo nell’instaurare rapporti, nel capire il prossimo, nel dialogare.
Siamo tutti isole, immersi in un mare di pensieri, a volte calmi, spesso in tempesta. Le nostre aspettative non sono concrete, e affannosamente cerchiamo di realizzarle. Forse non le realizzeremo mai.
Ci alziamo al mattino con l’idea di quello che dovremo fare, di come dovremo comportarci fino al momento in cui la testa tornerà a toccare il cuscino. Momento in cui magari tireremo le somme della giornata trascorsa, chiedendoci se è valsa la pena di smettere di sognare il reale e cercare di realizzarlo davvero. Perché il reale immaginato da noi si scontra con quelli ideati dagli altri, e così nella vita di tutti i giorni assistiamo alla buffa danza degli intenti, ballo lento e incerto in cui bisogna essere bravi a non pestarsi i piedi l’un l’altro mentre ci si guarda negli occhi.
Pensando a me come a un’isola, ho stilato un elenco di tutti i miei tentativi, falliti e andati in porto, di costruire ponti con gli altri. Ho scoperto di avere una lista molto lunga.
Comunicare è sempre stato il mio cruccio, una necessità, a volte anche abilità o danno. Ma ho sempre cercato di non chiudermi in me stessa, anche quando sentivo che gli altri non erano sulla mia stessa lunghezza d’onda. Poche volte non mi è riuscito.
Ad esempio, durante la chemioterapia ho avuto accanto poche persone. Non è stata una mia scelta, forse nemmeno loro. È capitato semplicemente di non avere nessuno con il quale condividere davvero quell’estremo dolore. O forse non ho mai voluto comunicarlo.  Magari rabbia, tristezza, paura sì, ma mai il dolore. Non è tanto la nausea, la febbre, le fitte alle ossa e l’insonnia. Ma è senso di derealizzazione che ti colpisce mentre stai guardando la tv, parlando al telefono, mangiando quel poco che non ti sembra sappia di plastica. È in quei momenti che capisci di vivere in un’altra dimensione, ti stupisci della forma e del bordo delle cose che ti appaiono sfuggenti, come la vita che ti ruota vorticosamente intorno. I tuoi amici, i tuoi compagni di classe, i professori, i medici e gli infermieri, che importa: tutti uguali e tutti ugualmente distanti. Ciascuno immerso nei propri pensieri, con progetti e desideri.
Io immersa nel nulla di quel periodo, con una vaga idea del presente, chemioterapia, radioterapia, trapianto, ma mai più in là del nome di tutto questo, come se davvero non mi interessasse.
Tutto mi appariva strano, e soprattutto mi sentivo completamente vuota e stranita. Gli altri non credo che comprendessero il mio stato, aspettavano semplicemente che finisse il momento, giorno, settimana no. Chissà come vedevano la mia condizione, sicuramente in modo diverso da me. Mi sono poi informata sui miei sintomi e ho scoperto che la derealizzazione in oncologia è piuttosto frequente, associata all’effetto di alcuni farmaci chemioterapici.
Ripensandoci ora, non credo che quella sensazione fosse così negativa. Mi ha permesso di evadere dai problemi, di rimpicciolire tutto il male che provavo. Ovviamente eliminarlo completamente non era possibile: anche uno spillo, pur essendo sottile e minuto, quando punge fa male. Ma sono stata brava a tenerlo a bada, a cercare altrove un motivo per sorridere. Fuori dalla realtà come immagino potessero realizzarla gli altri: una ragazzina malata e senza capelli.
Ho imparato a vederla in modo diverso, ammettendo che quella versione di me non mi piaceva, non mi rappresentava.  Forse sì, ho immaginato qualcosa che non c’era, come non fare caso al fatto di essere calva. Ma se il pensiero di North è corretto, se il reale è solo il risultato dell’immaginario, non esiste un unico modo per guardare la realtà. Senza scomodare i premi Nobel, basta accorgersi della diversa consapevolezza con cui ognuno affronta i problemi. Un giorno una signora che condivideva con me la stanza di ospedale mi disse:” Valeria, non affezionarti ai capelli, affezionati alla vita!”.

E così ho fatto.