Lingua di genere in… formazione (seconda parte). Uno sguardo ai manuali scolastici

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Se è vero che attraverso la lingua non solo descriviamo la realtà vissuta e/o percepita, ma la costruiamo e la plasmiamo, e partendo dal presupposto che il processo di acquisizione di una lingua perdura fino ai quattordici anni circa, c’è da chiedersi in che modo viene trasmessa e quindi acquisita nella scuola la sensibilità alla lingua di genere. Una sensibilità che, con buona probabilità, segnerà il ragazzo e la ragazza, nel bene o nel male, in modo incisivo, condizionando le scelte, linguistiche e non, nel futuro. Per farlo ci soffermiamo in questo articolo sui testi di grammatica adottati nelle scuole, e in particolare su come viene trattata una questione apparentemente banale, ma tuttavia significativa: il genere dei nomi.

Certamente “il genere del nome” è un argomento affrontato ampiamente alle scuole primarie, così come il cambio di genere dal maschile al femminile e viceversa.  I bambini e le bambine quindi, arrivati/e alle medie, studieranno l’argomento partendo da concetti già acquisiti sia dall’esperienza, sia dalla formazione precedente impartita a scuola.  Normalmente, però, fino alla soglia della scuola media, l’attenzione è più concentrata al cambio di genere riguardante i nomi di animali e i nomi di persona afferenti all’area di esperienza personale dei/delle bambini/e. È in prima media che s’inizia ad affrontare più sistematicamente il cambio di genere dei nomi di mestieri e professioni, sul quale vogliamo brevemente concentrare l’attenzione per le sue implicazioni a livello culturale e sociale.

Abbiamo preso in considerazione alcuni libri di testo, manuali di grammatica della lingua italiana per la scuola secondaria di primo grado, in particolare il testo di morfologia, in uso generalmente nella prima media, in edizioni piuttosto recenti (L. Peruzzi, G. Martini, La grammatica dei perché, Le Monnier Scuola, 2013; M. Sensini, L’italiano di tutti, A. Mondadori Scuola, 2012; S. Rossi, G. A. Rossi, Italiano istruzioni per l’uso, Zanichelli, 2012; A. Palazzo, M. Ghilardi, A chiare lettere, Loescher, 2011; F. Musso, Parole che contano, Lattes, 2009).

Questi manuali non esauriscono certamente tutta la produzione di corsi di grammatica per la fascia considerata, ma ne costituiscono un campione significativo.

Diverse sono le considerazioni che si potrebbero fare a proposito di questi testi in un’ottica di sensibilità alla parità di genere, dall’uso della grafica, alla formulazione degli esercizi, alla scelta lessicale.

Ci soffermeremo tuttavia soprattutto su due punti, chiedendoci:

  • se nei paragrafi dedicati al cambio di genere la forma maschile è considerata la forma base, secondo un principio androcentrico per cui – come sostiene Alma Sabatini – “l’uomo è il parametro intorno a cui ruota e si organizza l’universo linguistico”;
  • come viene affrontata la questione dei nomi di professione, nell’ambito della quale è più evidente la dissimmetria grammaticale e semantica che emerge nel linguaggio comune, spesso avvallata dai media.

 

Notiamo quindi che nei testi presi in esame le posizioni sono varie: in alcuni casi si propongono schemi sotto forma di “passaggio dal maschile al femminile”, in altri ci si limita a fornire alcuni esempi significativi di cambio di genere evitando di addentrarsi in questioni “sensibili”, non presentando nello specifico i nomi di professione. Altre volte si espone un’amplissima serie di esempi con una preponderante presenza del suffisso–essa.

Se prendiamo il famoso Sensini, della casa editrice Arnoldo Mondadori, manuale fra i più diffusi nelle scuole, nel paragrafo chiamato “Dal maschile al femminile” si propone una pagina intera di esempi con un ricco corredo di esercizi. A conclusione troviamo un riquadro di approfondimento significativo dal titolo “Il femminile dei nomi indicanti cariche e professioni” (p. 100). Anche in questo testo la forma base è quella maschile, e la declinazione femminile dei nomi di professione viene affrontata come un problema da risolvere in termini di “femminilizzazione”. Il consiglio che appare con priorità è quello di usare il nome maschile anche per la donna, mentre un accenno alle proposte per un uso non sessista della lingua viene fatto in conclusione e per chi sarà così paziente da leggere fino in fondo il riquadro (forse non tutti/e i/le docenti, certamente pochissimi/e studenti). La questione viene poi liquidata piuttosto sbrigativamente prendendo ad esempio riviste, biglietti da visita e targhette, dove – si nota – prevale la tradizione, vale a dire l’uso del cosiddetto “maschile neutro”.

Anche nel testo della Zanichelli, Italiano istruzioni per l’uso, che a sua volta dedica diverse pagine all’argomento, nel paragrafo “Il cambiamento di genere”, dopo vari esempi volti a esplicitare la regola, è posto un approfondimento (p. 181), ma anche in questo caso la questione rimane aperta, con la descrizione di alcune soluzioni ovvie, come ad esempio l’invariabilità dei nomi con suffisso in –e, senza però mettere in discussione il mancato passaggio del suffisso –oin –a, previsto nella lingua italiana per tutti i cambiamenti di genere ma non contemplato fra le possibilità nel caso di professioni quali avvocato, notaio, ministro.

Il testo della Loescher A chiare letterepropone anch’esso un riquadro con un testo di approfondimento (p. 94) dal titolo “Mestieri e professioni”. È già un passo in avanti il fatto che la forma femminile non appaia come una deviazione dalla norma maschile ma ambedue vengano messe sullo stesso piano. Si apre, seppur timidamente, all’eventualità che si usino forme come ministra, magistratae prefettae la scelta dei nomi che non contemplano il maschile non può che confermare che la difficoltà del “passare dalla forma femminile a quella maschile e viceversa” è tutta culturale e non certo grammaticale.

Da questa veloce analisi, non certo esaustiva, notiamo che i nomi femminili di cariche e professioni come la sindaca, la ministra ecc. vengono proposti con esitazione, quasi a margine, in riquadri separati, con riflessioni complesse che si prestano solitamente a essere ignorate dagli/dalle studenti, mentre in molti testi il suffisso –essaè posto accanto agli altri, con pari enfasi. Sembrerebbe emergere, in conclusione, come la sensibilità per una lingua non sessista sia ancora da formare nelle formatrici e nei formatori prima ancora che nei discenti.