Il linguaggio giuridico rispettoso del genere (prima parte)

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Le somiglianze fra la lingua e il diritto sono molte: entrambi sono considerati sistemi, entrambi si basano sulla norma. Entrambi creano realtà con le parole.

Come Giorgio R. Cardona aveva ben messo in evidenza, la lingua è potere, da tanti punti di vista. Attraverso la lingua si definiscono i ruoli (simmetrici o asimmetrici, per esempio attraverso l’uso del tu o del lei, o di entrambi), e l’uso di particolari categorie definisce distanza e vicinanza (l’imperativo unidirezionale, la prosodia, il tono, il volume). Chi sa parlare, sa argomentare, può convincere, obbligare, creare una nuova realtà. 

Lo studio dei rapporti di potere fra il discorso giuridico e i suoi partecipanti, uomini e donne, aiuta a capire la realtà, anche politica. Del resto, il potere democratico presuppone una lingua più trasparente perché legittimato dai cittadini.

Il linguaggio giuridico è sicuramente il linguaggio di maggior prestigio e potere. È un linguaggio conservativo, maschile, in parte arcaico, non marcato. Il linguaggio giuridico è una finzione, nel senso che si tratta di una visione specifica della realtà, che serve a un determinato fine, non della realtà. Una scelta, appunto, che serve a gestire le situazioni da normare, disciplinare ed eventualmente sanzionare. Ma come tutte le scelte, questa selezione esclude altre visioni di realtà.

In questa scelta si inserisce anche l’uso del maschile al posto del femminile. Tutti i testi giuridici utilizzano il cosiddetto maschile inclusivo, o non marcato, intendendo con tale termine un uso valido al maschile e al femminile. La discussione su tale uso è viva, molti giuristi e molte giuriste ritengono che vada bene così, e ciò è vero anche per diverse linguiste da me interpellate. Ma se si interpretano le parole senza troppi filtri, si è portati a dire che il maschile è maschile ed esprime concetti relativi a esseri di genere maschile, mentre il femminile esprime concetti legati ad esseri di genere femminile.

Il fatto che il linguaggio giuridico italiano sia quasi esclusivamente androcentrico, scegliendo sempre la versione maschile al posto di quella femminile, pur in un’accezione non marcata, riproduce una realtà sociale, culturale, storica di un certo tipo. 

Il primo riscontro è quello legato ai nomi delle professioni giuridiche (il giudice, il magistrato, l’avvocato, il notaio), che solo lentamente, e non in maniera uniforme, si stanno trasformando e adeguando alla realtà lavorativa con l’uso, per lo meno, dell’articolo femminile nel caso in cui sia una donna a ricoprire tali incarichi.

La semplificazione – sia dal punto di vista della riduzione a una realtà, sia dell’uso delle parole, con utilizzo di parole della lingua comune (come indica il manuale per la redazione dei testi normativi del 2007) – porta nella direzione di maggior condivisione dei testi giuridici e amministrativi da parte di cittadini e cittadine. Ma significa anche provocare un cambiamento dal punto di vista della lingua di genere, che lentamente, ma con costanza, si fa strada nella comunicazione quotidiana. 

Certi esempi di linguaggio giuridico (il buon padre di famiglia, la perizia dell’uomo medio) contrastano con la realtà nella quale spesso esistono famiglie in cui il capofamiglia è rappresentato da una donna, e il sapere dell’uomo medio è spesso quello della donna media. La locuzione “il buon padre di famiglia” che dovrebbe corrispondere all’idea di un’azione positiva e “diligente” rimanda a un mondo in cui è il padre a gestire la famiglia, e non solo dal punto di vista economico-finanziario. L’espressione “la buona madre di famiglia” non solo non è recepita dalla giurisprudenza e dai testi normativi, ma potrebbe quasi far sorridere. Nella realtà di oggi sono molte le famiglie in cui il “buon padre di famiglia” non è presente e in cui è la donna a gestire i rapporti familiari e finanziari. Quello che emerge è sia la necessità di adeguare il linguaggio giuridico a una nuova realtà, trasformandolo, creando, dove necessario, dei neologismi (come è avvenuto per il codice del diritto di famiglia, in cui si parla di responsabilità genitoriale, e non più di patria potestà – passando dalla potestà genitoriale), o ripensando l’uso esclusivo del maschile. In questo senso, è necessario che il giurista capisca quali sono gli elementi rilevanti, filtrandoli (decisione politica del legislatore) per poi renderli nella realtà normativa. In tutto questo il linguista può essere d’aiuto sia nella necessaria semplificazione del linguaggio, sia nell’attenzione a un linguaggio rispettoso del genere e dei significati a esso collegati. In questo senso il potere del linguaggio potrebbe diventare maggiormente democratico; un potere democratico presuppone una lingua più trasparente perché legittimata dai cittadini e dalla cittadine.

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Stefania Cavagnoli è professoressa associata presso l’Università di Roma Tor Vergata (abilitata alla I fascia), dove insegna Linguistica generale e applicata e Teoria e prassi della traduzione. È delegata del rettore per il centro linguistico di ateneo e sua direttrice. I suoi campi di ricerca sono l’educazione plurilingue e la linguistica giuridica, con particolare attenzione alla lingua di genere.