Arabia Saudita. La patente e poi?

Dopo anni di lotte, arresti, insulti, vessazioni, dopo campagne social planetarie come “Io guido con Manal”, a sostegno di Manal ash-Sharif che si fece riprendere alla guida violando la legge saudita che impediva alle donne la possibilità di conseguire la patente e di mettersi al volante, il re Salman ha fatto decadere il divieto. 

Dunque non più ostaggio dei ritardi, dei capricci, delle dispute con gli indispensabili traghettatori, parenti maschi o autisti di professione, cui doversi sottomettere per potersi muovere, ma libere dal loro “guardiano”, a dispetto dei teologi wahabiti, esponenti del tradizionalismo sunnita che vige in Arabia Saudita, sempre ostili e contrari a questa incredibile autonomia femminile, più intangibile che il diritto di voto: guidare l’automobile. 

La revoca è entrata  in vigore il 24 giugno scorso, celebrata dalla versione araba della rivista di moda Vogue, con la principessa Hayfa bint Abdullah al Saud, una delle figlie del defunto re Abdullah, ritratta al volante di una decapottabile rossa. 

Il permesso di guida sostenuto dal principe ereditario Mohammed Bin Salman, che ha avviato un programma di riforme per innovare un Paese, tra cui la possibilità di entrare negli stadi o di essere imprenditrici senza il consenso di un parente uomo, potrebbe cambiare la vita delle saudite. La ragione del via libera si fonda principalmente su motivazioni economiche.

Ma perché proprio ora? 

Per la prima volta dopo sessant’anni l’Arabia Saudita è in una grave situazione economica; non più sostenuta dagli ingenti introiti petroliferi ha bisogno dell’apporto lavorativo di uomini e donne. Una popolazione giovane sotto i trent’anni in rapido incremento non permette di mantenere i livelli attuali di assistenza sociale ai ventidue milioni di abitanti della monarchia assoluta. L’ambizioso programma economico promosso dal principe Bin Salman, SaudiVision2030 vuole trasformare l’economia basata sul petrolio in un’economia post-petrolio dipendente, e immettere la maggior parte della popolazione nel mercato del lavoro con criteri rivoluzionari per la tradizione del paese: rinuncia all’apporto dei milioni di immigrati forza lavoro, accesso alle carriere per merito e capacità, non per appartenenze tribali familiari.

Le donne sono la chiave di volta del cambiamento: meglio istruite, meno riluttanti degli uomini a svolgere lavori di cura, più desiderose di assumere ruoli attivi. 

La tradizione saudita le pone in una posizione subordinata nella rigida società patriarcale e tribale. La sottomissione alla custodia maschile e il divieto di guida sono stati finora l’ostacolo insormontabile per far crescere il numero di donne impiegate come forza lavoro. La classe media odierna non può sostenere le spese di un autista per portare le donne al posto di lavoro; istituzionalizzare l’assenza dal lavoro del marito per portare la moglie dal medico dal dentista o a fare la spesa in assenza di mezzi pubblici adeguati e fruibili per le donne, è inconcepibile. Alla fine meglio togliere il divieto alla guida per le donne, per il bene dell’economia del Paese, con l’intento di alzare il rapporto di solo una donna su cinque occupati, beneficiando del loro sapere e dello stimolo inevitabile che la loro presenza pubblica darà al mercato del lavoro.

In uno Stato in cui la situazione dei diritti umani resta in ogni caso critica, decine di attiviste per il loro impegno nella difesa dei diritti delle donne sono in carcere: far guidare l’automobile alle donne è insieme uno specchio per le allodole e una questione cruciale. 

L’istallazione dell’artista Manal Al Dowayan, uno stormo di duecento colombe di carta in volo realizzata con i permessi di viaggio delle donne, era la denuncia delle leggi di tutela che interdicevano possibilità alle saudiane di guidare e di essere indipendenti. Oggi grazie alla patente le donne potranno spiccare  il volo. Questa riforma davvero farà valicare quei confini di autonomia, gli hudud inviolabili, o si limiterà a spostare gli steccati? 

Figura 1

https://theconversation.com/the-real-reason-saudi-arabia-lifted-its-ban-on-women-driving-economic-necessity-97267




La Poesia è donna: AfroWomanPoetry

Di Arianna Marziali

La poesia è donna da sempre, dalle sue origini: già nell’antica cultura greca, è stata utilizzata dalle donne per parlare di loro stesse e della propria  condizione di vita, il linguaggio poetico si è dimostrato quello  che più si addice all’universo femminile perché fortemente simbolico ed evocativo. La poesia può parlare di amore senza doverlo nominare, può trattare di libertà senza dover dichiarare di esserne privati, può raccontare del coraggio e della forza senza doverli ostentare. La poesia è donna perché è un linguaggio per tutti, caldo e accogliente come il ventre materno ma, allo stesso tempo, difficile da cogliere nella sua profondità, perché richiede coraggio: il coraggio di immergersi negli abissi della propria anima.

Il mondo moderno ha bisogno più che mai di poesia per sensibilizzare gli animi e per metterci in condizione di saper ascoltare noi stessi e gli altri. Questo è il grande dono che ci viene offerto oggi da una giornalista italiana, Antonella Sinopoli, direttrice della testata giornalistica on-line “VOCI GLOBALI”https://vociglobali.it, attraverso il progettoAfroWomanPoetry.

Si tratta di un progetto che ha come obiettivo raccontare l’Africa “delle donne” attraverso la voce delle donne che utilizzano la narrazione poetica. Si è partiti dal Ghana, Paese dell’Africa sub-Sahariana, dove le donne rivestono ruoli di spicco nel mondo politico, economico e sociale ma dove le tradizioni culturali e le condizioni socio economiche delle classi meno abbienti hanno ancora un peso determinante rispetto alla questione della parità di genere. E Il Ghana è tra l’altro anche il Paese dove, Antonella Sinopoli, l’ideatrice di AfroWomenPoetry vive. Il Paese successivo è stato il Togo.

L’ambizioso obiettivo dunque è quello di raccontare la storia delle donne di diversi Paesi dell’Africa sub-Sahariana, per poter dar voce a tutte coloro che sono state bersaglio di violenza,  private dei loro diritti, vittime di pregiudizi legati alla società maschilista di appartenenza o derivati dall’arrogante e supposta superiorità della civiltà occidentale. Ma ci sono anche storie di riscatto, di forza, di emancipazione.

La descrizione del progetto, la formazione dello staff e la divulgazione delle opere è affidata al sito internet https://afrowomenpoetry.net/it nel quale vengono presentati i video delle poetesse mentre interpretano i loro poemi, sotto la schermata del video è possibile leggere i versi della poesia tradotti in lingua italiana, dagli originali inglese o francese. Attraverso il menu possiamo ritrovarci a curiosare nel backstage durante le riprese delle interpreti, leggere le interviste fatte all’ideatrice del progetto o gli articoli inerenti il progetto stesso. Ed è proprio grazie al sito che abbiamo la possibilità di cogliere la magia delle parole di questi testi attraverso la voce di coloro che gli hanno dato vita.

Le poetesse, protagoniste di AfroWomanPoetry, sono state raggiunte nei contesti a loro familiari all’interno delle proprie comunità di appartenenza, si è creato tra loro e le giornaliste di Voci Globali, arrivate lì per filmare le loro interpretazioni, un clima di fiducia ed empatia che ha reso possibile una comunicazione autentica. Le artiste coinvolte nel progetto sono tutte molto diverse tra loro, per classe sociale, appartenenza culturale e territoriale, molte di loro sono note perché hanno già pubblicato oppure ricoprono ruoli importanti in ambito politico, accademico o sociale.

Le autrici che, ad oggi, hanno partecipato al progetto interpretando i loro scritti sono donne originarie del Ghana e del Togo, come dicevamo. Analizzando le loro poesie possiamo già trovare delle differenze circa i temi trattati e la modalità con cui vengono affrontati:  le donne del Ghana mostrano di possedere una capacità espressiva più diretta e sembrano godere di una maggiore libertà; le donne del Togo a volte sono più intimiste e utilizzano una maggiore cautela non tanto nel trattare tematiche sociali quanto politiche.  In tutte comunque c’è chiarezza e coraggio nell’affrontare temi come la violenza, i pregiudizi sociali, la voglia di affrancamento. Questo già ci dà un’idea della variegata realtà culturale dell’Africa e di quanto donne che hanno vissuto vite diverse tra loro abbiano, comunque, raggiunto un alto grado di consapevolezza rispetto al mondo che le circonda.

AfroWomanPoetry ci dà la possibilità di comprendere quante cose accomunino le donne in quanto appartenenti allo stesso genere: nonostante le diverse coordinate geografiche c’è un “fil rouge” che unisce i nostri percorsi di donne e che ci ha portato a lottare per affermare chi siamo e cosa vogliamo, e per liberarci dalle catene di una società che è ancora oggi fortemente patriarcale e maschilista, da qualsiasi latitudine la si voglia osservare. Ora attendiamo le prossime tappe, molto presto il sito avrà esponenti dell’arte poetica femminile di altri Paesi del sub-Sahara.

 




Giovanissime inventrici ecologiche: dalla pioggia energetica alla degradazione naturale delle plastiche

Sono cresciuta con una mamma che spesso mi regalava anche dei libri: una volta fu capace di trovarne uno in cui la protagonista, scritta a lettere enormi sulla copertina rigida, si chiamava come me! Tutti mi sono stati molto utili e uno lo è stato in particolare, quello nel quale c’erano consigli di bellezza naturali tra cui la raccolta d’acqua piovana usata come detergente per il viso. Ho i miei dubbi che oggi si possa seguire tale consiglio …

1. Reyhan Jamalova

Reyhan Jamalova, una giovane ragazza indiana di 15 anni, però, ha pensato di utilizzare la pioggia per la bellezza del nostro Pianeta: ha trovato, infatti un metodo per produrre energia elettrica in modo rinnovabile e pulito e dalla sua idea è nata la start-up Rainergy. Il dispositivo nella parte superiore ha un secchio che raccoglie l’acqua piovana e la versa in un serbatoio collegato a un generatore attraverso il quale viene fatta scorrere l’acqua per generare energia elettrica, immagazzinata successivamente in una batteria in modo da poterla usare anche quando non piove. 

Per le famiglie dei Paesi particolarmente piovosi come la Malesia, l’India, l’Indonesia e le Filippine, Rainergy potrebbe essere una fonte eccezionale di luce ed energia, tra l’altro, con una produzione di anidride carbonica inferiore rispetto ad altre fonti rinnovabili, anche perché raccogliendo energia dalla pioggia si è in grado di produrre un quantitativo di elettricità pari a 3626 kWh in un anno, quasi sufficienti per il 92% al bisogno di una casa.

2. Miranda Wang

Un altro ‘trattamento di bellezza’ viene da un’altra giovane di origini cinesi, Miranda Wang, che ha trovato il modo per degradare la plastica ottenendo dei prodotti utilizzabili per molte applicazioni. Quindi, dopo i famosi bruchetti ed enzimi mangiaplastica, attraverso un catalizzatore che permette una reazione a pressione atmosferica e a temperature non troppo alte è possibile decomporre la plastica e la società americana da lei cofondata, la BioCellection, ne darà una dimostrazione il prossimo ottobre convertendo in tre mesi 17 tonnellate di rifiuti di plastica in 6 tonnellate di sostanze chimiche di valore.  

… E che bello per la natura!




I conti mentali

Abbiamo visto le difficoltà che incontriamo quando dobbiamo gestire i nostri risparmi per non rimanere invischiate nelle trappole mentali e per non  prendere decisioni basate sull’emotività o utilizzando scorciatoie che apparentemente ci semplificano le scelte ma che spesso non sono razionali.

Un altro dei meccanismi che siamo portati ad attivare è quello dei “conti mentali”. Si tratta della tendenza ad adottare una ripartizione delle nostre risorse per blocchi associandoli ad obiettivi specifici.

Anche in questo caso si tratta di meccanismi che abbiamo sempre usato. Solo qualche decennio fa, quando ancora molti percepivano lo stipendio in contanti, era abitudine che chi si occupava della gestione delle spese suddividesse la disponibilità per obiettivi : l’affitto, le spese alimentari, gli acquisti programmati, lo svago e, se possibile, una quota di risparmio per far fronte agli imprevisti. Era chiaro che queste “scatole” dovessero essere separate tra loro ed essere aperte solo per lo scopo ad esse assegnato onde non esporre la famiglia al rischio di “non arrivare a fine mese”.

Si è notato che gli investitori e le investitrici tendono a ripartire le risorse finanziarie in almeno tre blocchi, uno che copre esigenze di sicurezza e protezione, generalmente soddisfatto con la liquidità, uno che riguarda i grandi obiettivi di vita ed uno che copre l’aspetto divertimento inteso sia come svago che come ad esempio speculazione finanziaria di breve periodo.

In questo caso è opportuno assecondare questa nostra naturale predisposizione e utilizzarla come base per una corretta pianificazione finanziaria con lo scopo  di creare i nostri conti mentali associati a singoli obiettivi e una volta creati ricordarci che andranno aperti solo per lo scopo per cui sono stati creati.

Ciascuno di questi “cassetti” andrà riempito con strumenti finanziari coerenti per orizzonte temporale e profilo di rischio e con caratteristiche che meglio si adattano all’obiettivo da raggiungere. Ad esempio, inserire in un progetto di lungo periodo strumenti che distribuiscono cedole può creare inefficienza in quanto le cedole distribuite confluiscono sul c/c dove noi generalmente deteniamo le somme immediatamente spendibili, se non saremo pronte a reinserirle nel progetto di origine andremo a sottrargli risorse indispensabili al raggiungimento dell’obiettivo.

Anche il monitoraggio nel tempo andrà effettuato separatamente e le eventuali modifiche da apportare valutate in base alla specificità del progetto.

La separazione rappresenta quindi un valido aiuto nella gestione dei nostri risparmi e nel contrastare emotività e cattive abitudini.

 

 

 




Elogio del cartoccio. A che serve la scuola? (Seconda parte)

Vent’anni fa Lucio Russo, fisico dell’università di Roma Tor Vergata, diede alle stampe Segmenti e bastoncini. Dove sta andando la scuola, un saggio molto ben scritto e documentato dal contenuto piuttosto terrificante. La tesi di Russo è che la scuola italiana sia stata da tempo avviata verso un immiserimento dei contenuti attuato attraverso un’apparente semplificazione formale, dove per semplificazione non s’intende la possibilità, attraverso il ragionamento critico e l’adozione di una didattica efficace, di sfrondare le discipline da barocchismi che ne rendono difficile la digestione – e quindi di rendere comprensibile e utilizzabile la cultura a tutti – ma, al contrario, di purgare il ragionamento astratto da qualunque “difficoltà” rendendolo concreto. L’esempio che dà il titolo al libro è questo: poiché la nozione di “segmento” è astratta (il segmento è una porzione di retta di lunghezza finita ma che, come la retta, ha una sola dimensione, quindi non esiste nel mondo sensibile) essa sarebbe “difficile” da capire, e nelle scuole elementari si fa strada la pratica di sostituirla con “bastoncino”, oggetto tangibile e di cui chiunque ha esperienza, dunque “facile”. Peccato che un bastoncino abbia tre dimensioni mentre un segmento una sola: dire che un triangolo è formato da tre bastoncini equivale a dire che è una figura solida e non piana. Il che distrugge alla base l’idea stessa di geometria. L’astrazione è il pensiero e, senza di essa, la scuola abbandona la sua vocazione primaria per entrare nel mondo del consumo. Come scrive Lucio Russo, «per creare la nuova scuola per consumatori occorre portare a compimento un processo di “deconcettualizzazione”, eliminando dall’insegnamento gli strumenti intellettuali tradizionali, basati sull’uso di concetti teorici». In questi ultimi vent’anni le cose non sembrano migliorate, anzi l’Italia sembra allinearsi a esempi stranieri che in apparenza sfornano “successi” ma dai quali la stessa comunità scientifica mette in guardia. Un esempio è fornito dal matematico Giorgio Israel nel suo blog, e riguarda la scuola di un paese considerato all’avanguardia nella didattica e traboccante di “successo scolastico”: la Finlandia. Il processo di semplificazione che dovrebbe rendere la scuola facile, partecipativa, eccetera, è culminato nella sostituzione, in aritmetica, del simbolo “uguale” (=) con la lettera V, iniziale della parola “vastaus”, ovvero “risultato“ o “risposta”. Il simbolo “uguale” significa che due elementi di un’equazione sono interscambiabili, ovvero che se a=b allora anche b=a, cioè che la lettura può avvenire da sinistra a destra e viceversa perché, appunto, i due termini sono uguali. Il “risultato”, invece, è la conclusione di una procedura: se metto i panni sporchi in lavatrice, il detersivo nella vaschetta n. 1, l’ammorbidente in quella n. 2, collego la lavatrice alla presa di corrente, scelgo il programma di lavaggio e avvio la macchina, il risultato è che avrò panni puliti, ma la procedura contraria non sarà vera, ovvero dalla fase finale non potrò mai risalire a quella iniziale. Non è uguale. Scrive Israel: «alla fine del percorso primario un bambino finlandese non conosce il simbolo e il concetto di uguaglianza e concepisce pertanto ogni espressione matematica come la richiesta di ottenere un “risultato”. La sostituzione del simbolo “=” con quello di “risultato” implica quindi l’identificazione del concetto di uguaglianza con quello di risultato, e questo è talmente volgare e ignorante da non meritare commenti, se non l’osservazione che così vengono cancellati più di duemila anni di matematica e di logica per tornare allo stadio della matematica pratica, approssimata e puramente operativa dei babilonesi. Con tutto il rispetto per le conquiste di questi ultimi, straordinarie in relazione con i tempi, far fuori il grandioso impianto concettuale della matematica da Euclide in poi non è un progresso, bensì un autentico imbarbarimento».

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Figura 1. Tre stuzzicadenti non sono un triangolo

Successo e insuccesso sono percepiti dalle famiglie attraverso i voti, che in realtà non sono giudizi ma semplici simboli, che dovrebbero riassumerli in modo chiaro e sintetico e che sono sempre il risultato di una valutazione attenta. I voti, dicevamo, sono spesso arrotondati per eccesso, ma i motivi di tale arrotondamento, ben al di là del buon senso e dell’algoritmo, sono da ricercare anche nella situazione in cui versano oggi scuole, docenti e dirigenti. Una quantità eccessiva di bocciature comporta il passaggio di un numero troppo esiguo di studenti all’anno seguente, ovvero una classe successiva troppo poco numerosa, cosa che al Ministero non piace perché non gli fa quadrare i conti. Per esempio la seconda B di 20 persone, che diventerebbe una terza B di sedici, viene smembrata, ridistribuita fra le altre terze e scompare. In questo modo, però, saltano posti di lavoro – il che è effettivamente un grave problema – e si può anche arrivare alla chiusura di una scuola o all’accorpamento con un’altra, ovviamente con una sola figura dirigente, un solo ufficio di segreteria, eccetera. Al Ministero non pare importare nulla del fatto che in una classe piccola si lavora meglio, perché pagherebbe troppe persone per insegnare a poche. Gli affari sono affari. Perciò, durante gli scrutini, i voti salgono anche per non perdere classi e ci si ritrova, alla fine, ad ammettere all’esame di Stato persone che non ne sarebbero all’altezza. «Qui bisogna essere chiari», dice il professor Z., «se la scuola ha cambiato il senso della valutazione – cosa che non mi convince ma che per ora non discuto – forse è ora di dividere la valutazione dall’insegnamento, altrimenti noi insegnanti diventiamo un mucchio di frustrati, perché stabiliamo un minimo e poi, obtorto collo, lo modifichiamo, per di più brontolando e litigando in quegli psicodrammi che sono i consigli di classe». Non è un caso se professori e professoresse, già svalutate da stipendi bassi e da un ruolo sociale marginale rispetto all’importanza e alla difficoltà oggettive del loro lavoro, si sentano col fiato delle famiglie sul collo e accusino una sempre maggior frustrazione, oltretutto paralizzate dalla minaccia incombente dell’abbandono scolastico. Le famiglie non indigenti spesso aggirano lo spettro dell’insuccesso iscrivendo i figli alle scuole private che, in Italia, sono mediamente abominevoli sul piano culturale ma elargiscono promozioni on demand purché si paghi, mentre quelle che non riescono a mettere insieme il pranzo con la cena (basta dare un’occhiata agli indici di povertà) si rassegnano e la scuola finisce là. Dunque, se si dà un giudizio di non sufficienza, le prospettive sembrano solo due: il marketing o l’abbandono. Come dire: al di fuori del mercato, il nulla. Per questo la scuola pubblica deve sfoderare tutto il suo fascino e lo fa in due modi: la semplificazione e l’appeal tecnologico. La rincorsa all’aggiornamento digitale sembra essere diventata una priorità didattica. In molte scuole la carta è scomparsa e tutto è online. Ciò significa che il funzionamento delle classi – dall’appello alle giustificazioni delle assenze alle circolari – è possibile solo se la rete è efficiente. E non sempre lo è. Secondo i dati Istat, la percentuale di famiglie italiane che nel 2017 hanno avuto accesso a internet rasentava il 70% mentre, fra i 15-24enni, la percentuale supera il 92%. Ma il ricorso alla tecnologia migliora l’apprendimento o le competenze? L’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) dice il contrario: in Italia quasi una persona su tre è analfabeta funzionale, ovvero sa leggere ma non capisce quello che legge. Chi volesse approfondire la questione potrebbe leggere un libro dall’eloquente titolo Demenza digitale, del neuropsichiatra Manfred Spitzer. Il giudizio di Spitzer, basato su esperienze cliniche e su una bibliografia ponderosissima, è che il digitale, soprattutto nell’infanzia e nell’adolescenza, rende stupidi. Gli esempi sono moltissimi: dall’inibizione della memorizzazione dovuta all’uso esclusivo dei motori di ricerca al divorzio fra mente e corpo causato dall’abbandono della scrittura a mano; dallo spaesamento nel cercare dati archiviati chissà dove (hard disc? Cloud? Memorie usb?) all’illusione delle relazioni virtuali dei social network; dallo stress per sovraccumulo di informazioni all’incapacità di decidere; dal disorientamento spaziale al vero e proprio distacco dalla realtà. Vale la pena riportare qualche riga del libro: «Chi si informa su un argomento, svolge quello che da circa un secolo e mezzo viene definito “circolo ermeneutico”. Chi vuole comprendere, riconosce il tutto attraverso le parti e le parti attraverso il tutto; approfondisce l’indizio di una fonte attendibile e, se non approda a nulla, torna alla fonte attendibile, perché questa contiene sempre numerosi indizi. […] I nativi digitali non compiono il circolo ermeneutico della comprensione: cliccano qua e là acriticamente, senza tornare mai a una fonte attendibile; cercano in maniera orizzontale (vale a dire superficiale) anziché verticale (non vanno in profondità). […] La permanenza di un contenuto nel cervello dipende dalla profondità di rielaborazione». La definizione di demenza digitale non è un titolo a effetto: è un precisa sindrome definita per la prima volta in Corea del Sud (sì, quella della tanto celebrata eccellenza scolastica, insieme alla Finlandia) in cui, nel 2010, il 12% della popolazione scolastica è stata riconosciuta dipendente da internet. E più giovane è l’età e maggiore è il danno neurologico. Ma allora perché si insiste tanto con la digitalizzazione sempre più estrema della scuola? Perché, tanto per fare un esempio citato da Spitzer, solo nella digitalizzatissima Inghilterra, nel 2015, si sono spesi 65 milioni di euro per acquistare, manutenere e riparare le lim (lavagne interattive multimediali), ormai diffusissime anche nelle nostre aule, che costano circa cinquemila euro l’una e hanno una fastidiosa tendenza a rompersi (come qualunque computer). Se la stessa somma venisse destinata ad assumere, formare e pagare meglio gli e le insegnanti, il beneficio sarebbe maggiore. Ma il mercato non sarebbe d’accordo. 

Figura 2. I libri di Lucio Russo e di Manfred Spitzer

Il mercato ha sempre maggior peso nella scuola. Ne sono alfieri alcuni concetti-cardine attorno ai quali la vita scolastica ruota sempre più vorticosamente: le competenze, i progetti, l’alternanza scuola-lavoro, previste dai dpr 87 e 88 del 2010. Cosa sono esattamente? «Devo dirtelo?» borbotta il prof. Z. «In parole povere le competenze sarebbero le capacità di utilizzare conoscenze e abilità personali in situazioni di lavoro o di studio. In pratica applicare quello che hai studiato. Ma se non sai o non riesci a imparare, cosa applichi? I progetti sarebbero un modo per far entrare soldi a scuola, visto che di fatto le scuole non ricevono quasi più nulla dallo Stato (l’Ocse ci dice che la percentuale di prodotto interno lordo destinato in Italia all’istruzione è la terzultima in Europa). L’alternanza scuola-lavoro è la destinazione di molte ore scolastiche all’esperienza lavorativa nei modi più disparati. Forse negli istituti tecnici e professionali può avere un senso – anche perché la cosiddetta terza area, ovvero centinaia di ore in più destinate a materie “professionalizzanti”, è sparita perché costava troppo – ma mi dici a che serve nei licei? Ho sentito un sacco di studenti lamentarsi di essere stati mandati a compiere “esperienze” facendo fotocopie in aziende varie. Ma se un’azienda ha forza-lavoro gratis, perché dovrebbe assumere? Non è un gatto che si morde la coda?».

Ma allora a che serve la scuola? «Il problema è proprio questo: si pretende che serva a qualcosa e poi uno studente bravo e digitalizzato, che non sa separarsi un momento dal suo iPhone, non sa fare un cartoccio. Ma perché mai la scuola dovrebbe servire a qualcosa? Gli istituti tecnici e professionali un tempo insegnavano un mestiere, ma avevano moltissime ore di laboratorio e formavano persone pronte a entrare nel mondo del lavoro. Adesso però il lavoro è merce rara. Tanto varrebbe restare un po’ di più a scuola e imparare quel tanto che basta per godere ciò che si studia. Perché non lo dice nessuno, ma lo scopo della cultura è il piacere di comprendere la bellezza. A scuola bisogna imparare a godere.

In conclusione, chiedo al mio amico professore: «Insomma, questa scuola serve a qualcosa o non serve a nulla?». E mi risponde: «Una volta un tale chiese ad Aristotele: “A che serve la filosofia?” e lui rispose: “La filosofia non serve a nulla perché non è la serva di nessuno”. Ecco, se pensiamo che la scuola debba servire a qualcosa, vuol dire che la consideriamo una serva».

Fonti:

Lucio Russo, Segmenti e bastoncini. Dove sta andando la scuola?, Milano, Feltrinelli, 1998

Manfred Spitzer, Demenza digitale, Milano, Corbaccio, 2013 (edizione originale: Digitale Demenz. Wie wir uns und unsere Kinder u, den Verstand bringen, München, Droemersche Verlagsanstalt, 2012)

Il blog di Giorgio Israel: http://gisrael.blogspot.com/2011/05/il-bluff-della-matematica-finlandese.html

Sull’uso di internet: https://www.istat.it/it/archivio/207825

Sull’analfabetismo funzionale: http://espresso.repubblica.it/inchieste/2017/03/07/news/analfabeti-funzionali-il-dramma-italiano-chi-sono-e-perche-il-nostro-paese-e-tra-i-peggiori-1.296854

Sul rapporto pil/istruzione in Italia e in Europa: http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2017-08-29/italia-terzultima-europa-spesa-istruzione-germania-spende-doppio-190050.shtml?uuid=AE8jEVJC




Un piccolo pezzo di una storia grande: i treni della felicità

Il primo convoglio partì da Roma, Stazione Termini, il 19 gennaio del ’46. Non era più un treno di morte come i convogli dei deportati, ma ricostruiva la vita.

Nell’immediato dopoguerra, per anni, migliaia di famiglie di lavoratori del centro-nord, per lo più emiliane e romagnole e toscane, aprirono le proprie case a bambini provenienti dalle zone del Paese più povere e più colpite dalla guerra. Da Cassino bombardata, da Napoli semidistrutta, da Roma baraccata, poi dalle campagne affamate della Puglia e della Sicilia. Essi trovarono nelle nuove città cose mai viste: l’acqua corrente nelle case, le lenzuola profumate nel letto, la carne sulla tavola. Furono curati e vaccinati. Impararono a leggere e a scrivere. 

Tornati a casa raccontarono della prima volta che videro il mare. Del primo gelato della vita. Della cioccolata. Così diversa la vita di un piccolo coltivatore o di un artigiano emiliano – che pure certo non erano benestanti – da quella di un bracciante del mezzogiorno, dove si viveva del lavoro precario di una giornata e si mangiava quando si poteva.

A chiamarli “treni della felicità” fu il sindaco di Modena; a lanciare l’iniziativa furono le donne della neonata Udi, a partire dall’idea di solidarietà laica che animava Teresa Noce, battagliera dirigente comunista e partigiana da poco rientrata dal campo di sterminio di Ravensbrük.

«La risposta fu al di là di ogni legittima speranza – si legge nella prefazione di Miriam Mafai al libro dell’antropologo Giovanni Rinaldi “I treni della felicità”, edito da Ediesse – tanto generosa che si decise di estenderla e radicarla nel Mezzogiorno (…) Solo nei due inverni immediatamente successivi alla fine del conflitto, migliaia di bambini lasciarono le loro famiglie per essere ospitati da altrettante famiglie contadine, nei paesi del reggiano, del modenese, del bolognese. Lì vennero rivestiti, mandati a scuola, curati», in cambio di niente, grazie anche all’appoggio del Pci, dei Cln locali, delle sezioni Anpi, delle amministrazioni e della popolazione in genere. Un numero sorprendente, in tutto 70mila.

“Andate in Alta Italia? Attenti, che quando arrivate i comunisti vi trasformano in sapone!” Allora spaventata dissi: “Io non ci vado più.” Mio fratello e mia sorella invece, che erano più piccolini, dicevano: “Andiamo, andiamo col treno! Non l’abbiamo mai preso il treno”, Luigina, 13 anni, Lazio.

“Mi sembrava di essere in una favola, dentro quel treno. Vedevo tutti queste luci nel mare che rispecchiavano, e io non potevo riuscire a capire che cos’erano, perché non avevo mai sentito che c’era il mare”, Erminia, 7 anni, Puglia.

Fig. 1. Bambine e bambini sui treni della felicità

L’idea fu replicata in successive situazioni di emergenza: nel 1950 per lo sciopero di San Severo, che portò all’arresto di molte coppie di braccianti, vittime della repressione di Scelba, costretti a lasciare soli i propri figli; e poi nel 1951/52, per bambine e bambini del Polesine alluvionato.

Si intrecciarono non solo storie pratiche di soccorso, ma storie emotive di relazioni e di affetti che poi durarono nel tempo. Storie di chi sapeva costruire comunità.

La vicenda dei bambini che partirono con i treni della felicità è straordinaria al punto da sembrare oggi frutto di fantasia, ma è assolutamente vera e fa parte, per fortuna, della nostra storia. “Questo è un paese che ha bisogno di ricordarsi che ha fatto delle cose bellissime” (Luciana Viviani in “Pasta nera”, documentario del regista Alessandro Piva).

Un insegnamento che acquista ancora più valore in un momento come questo, dove assistiamo allo sbarco di migliaia di disperati e abbiamo dimenticato il valore dell’accoglienza, in anni in cui essere solidali è ben più facile di allora. 




La febbre dell’oro

Fin dai tempi più remoti l’oro è stato considerato un bene prezioso dagli uomini tanto da diventare un elemento distintivo nell’appartenenza alle classi sociali più elevate.

Addirittura verso la fine del XIX secolo si verificò la cosiddetta “Febbre dell’Oro” con la scoperta di notevoli quantità del metallo prezioso nei territori nordamericani che portò a una febbrile migrazione di lavoratori in queste aree alla ricerca dell’oro e quindi di un riscatto sociale e di un arricchimento in breve tempo.

Da quando poi l’oro viene usato dai vari Stati come “riserva monetaria”, a fronte dell’emissione della carta moneta, svolge addirittura una funzione di danaro.

Così, durante le varie crisi economiche verificatesi nel corso degli anni, dove l’incertezza del futuro regna sovrana, risparmiatori e risparmiatrici si sono orientate sempre di più verso beni sicuri tra i quali, appunto, l’oro.

Si può investire nell’oro o attraverso strumenti finanziari o nell’oro fisico.

Nel primo caso di possono acquistare ETF, Azioni, Opzioni ma qui entriamo nel campo del fai da te che ci guida più a scelte emotive che razionali. Oppure si può farlo attraverso i Fondi di Investimento specializzati, delegando a figure professionali ben precise le nostre scelte.

Nel secondo caso si possono acquistare monete e lingotti. Al riguardo, operatrici e operatori del settore si sono messi subito all’opera dando la possibilità di acquistare, anche tramite sportelli automatici, dei piccoli lingotti con una spesa veramente irrisoria, tanto da divenire una moda.

Bisogna comunque tenere ben presente che investire nell’oro significa scommettere su un rialzo o un ribasso del suo valore (quotazione) nel tempo. In tempi di crisi si assiste a una corsa a questo tipo di investimento, con il raggiungimento di quotazioni elevate, mentre in momenti di tranquillità sui mercati finanziari il prezzo si abbassa.

Quindi, come tutte le altre tipologie di investimento anche quella nell’oro richiede una razionale diversificazione e un orizzonte temporale medio lungo.

 




Elogio del cartoccio. A che serve la scuola? (Prima parte)

Con le vacanze scolastiche la cronaca nera ha subito un arresto. Fino a settembre, infatti, i casi di aggressione a docenti e presidi da parte di studenti e genitori – oltre 30 quest’anno – dovrebbero interrompersi, per riprendere presumibilmente alla riapertura delle scuole. Le notizie delle violenze hanno riempito le pagine dei giornali, i social media le hanno fatte rimbalzare e la percezione di esse si è moltiplicata. Della situazione della scuola italiana si parla molto, perché alcuni aspetti appaiono paradossali o addirittura drammatici e molte voci lamentano un progressivo e inarrestabile peggioramento generale. Vorrei però non tanto soffermarmi sugli aspetti più grandguignoleschi, che si trovano facilmente sui media, quanto riflettere su cambiamenti, cause, prospettive. Comincerò con un aneddoto.

Un simpatico e bravo studente quattordicenne, che per comodità chiameremo A., un giorno fu sorpreso dal suo insegnante di disegno e storia dell’arte, che per comodità chiameremo professor Z., a temperare la matita sul banco, disseminandolo di trucioli e grafite. Il professor Z. lo riprese immediatamente, intimandogli di pulire subito il banco e di usare il cestino. A. rispose che la punta della matita aveva un continuo bisogno di essere affilata e che  il continuo andirivieni suo e del resto della classe avrebbe causato grande confusione. Il mio amico Z. convenne che A. aveva ragione e gli disse di farsi un cartoccio con un foglio di carta usato, attaccarlo al banco con del nastro adesivo e adoperarlo come cestino personale, gettandolo via alla fine dell’ora. «Un cartoccio? Cioè?» chiese A. «Ma sì, un cartoccio, un cono di carta, hai presente quello delle caldarroste?». «Ah, sì» rispose A., «e come si fa?». Il mio amico Z., perplesso, glielo fece vedere e poi disse «Ora fallo». A quel punto A. assunse un’espressione sinceramente angosciata e disse: «Prof, per favore, me lo faccia lei, che a me mi viene l’ansia». 

1. Costruzione del cartoccio

Mentre mi racconta l’episodio, Z. è turbato. La parola “ansia”, a quanto mi dice, è diffusissima nel lessico scolastico e compare spesso anche, e soprattutto, nei colloqui con i genitori, i quali parlano dell’ansia che provano nei rapporti con i figli e le figlie nell’attesa di prestazioni che viene continuamente frustrata. Il numero di disturbi specifici dell’apprendimento (o dsa, per usare uno degli infiniti acronimi che ormai funestano la vita dei e delle docenti) come dislessia, disgrafia, discalculia e via discorrendo, e di bes (bisogni educativi speciali) pare aumentare a dismisura. I dsa sono diagnosticati da appositi esami psicologici mentre i bes sono testimoniati da dichiarazioni genitoriali. Bes e dsa danno la possibilità di un trattamento di riguardo: programmi semplificati, interrogazioni programmate, possibilità di usufruire di “mappe” (schemini riassuntivi) che aiutano nelle verifiche scritte e orali. Il professor Z., che non ha competenze psicologiche precise se non quelle affinate da anni di lavoro scolastico, sostiene che, secondo la sua esperienza, non è affatto detto che chi sia affetto da dsa, alla prova pratica, dimostri poi un’effettiva difficoltà o raggiunga comunque risultati inferiori a quelli del resto della classe. «Quanto ai bes», aggiunge, «stiamo parlando di adolescenti. Vorrei sapere quale adolescente normale non ha bisogni educativi speciali. Oggi si può chiedere il riconoscimento dei bes perché i genitori si stanno separando, perché si è subita una delusione d’amore, perché la morte della nonna ha inferto un duro colpo al proprio mondo affettivo, cioè perché è accaduto quello che la vita, inevitabilmente, ci regala: l’incontro con il dolore, la frustrazione del senso di onnipotenza infantile, lo scontro con le avversità, insomma tutto ciò che ci fa crescere». Z. ha anche la sensazione che lo stesso status di bes o di dsa, così solennemente affibbiato dall’alto allo scopo di semplificare la vita scolastica, contribuisca invece al convincimento della propria debolezza. «Tanto è vero» aggiunge Z., «che parlando di loro si sbaglia sempre ausiliare: si dice che il tizio o la tizia non hanno un bes o un dsa, bensì sono bes o dsa. Non una caratteristica della persona ma la persona stessa. Poi vorrei anche vedere che non si sentono inferiori».

Tornando all’ansia, questa pare essere una caratteristica sempre più presente nei genitori. Non a caso, accade spesso che madri e padri pretendano di essere in contatto costante con la prole anche durante l’orario scolastico e al mio amico Z. è accaduto di dover intimare a qualche studente di non rispondere al telefono durante le lezioni, infrangendo peraltro il divieto di tenerlo acceso, e di sentirsi rispondere: «Ma è mio padre!». Il telefono, dunque, è diventato un legame inscindibile, una specie di nuovo cordone ombelicale. Tralasciando gli effetti dei mezzi digitali sulla crescita e sull’apprendimento, su cui torneremo, appare chiaro che ormai gli e le adolescenti non hanno più un momento di assoluta indipendenza. Il telefono, nella scuola del mio amico Z. (ma, sostiene, in tutte le scuole), è il mezzo che assicura un legame continuo con la famiglia. Contemporaneamente, il cosiddetto tempo libero appare sempre più inesistente. 

2. Il cellulare a scuola

«Da ragazzini» dice Z. «si andava a giocare a pallone da qualche parte, se andava bene al campetto dell’oratorio, altrimenti – e molto più spesso – dove capitava. Io andavo con i miei amici in un ritaglio d’erba sparuta delimitato dai bastioni delle mura, di forma triangolare e con un albero nel mezzo. Giocavamo con una sola porta e dovevamo stare continuamente di vedetta perché se arrivava un vigile ci sequestrava la palla. Le regole del calcio, giocoforza, le piegavamo alle nostre necessità; non avevamo divise né scarpe apposite, le mamme ci sgridavano perché rovinavamo i vestiti, litigavamo spesso e ci divertivamo un mondo perché eravamo liberi. Adesso chi fa sport – direi la maggioranza – lo fa all’interno di istituzioni, con precisi orari di allenamento, impegni agonistici, allenatori severi, abbigliamento tecnico e costi elevati. La mancanza di un tempo di gioco veramente libero comporta anche una maggior difficoltà nella formazione di una coscienza autonoma. Il gioco non è solo svago, è anche l’apprendistato di un ruolo sociale: non è un caso che maschi e femmine abbiano sempre fatto giochi diversi e adatti al ruolo che la società impone loro. Questo è un altro problema che prima o poi dovremo affrontare, ma nel gioco, al di là dei condizionamenti sociali, c’è sempre stato apprendimento e soprattutto libertà, perché non serve un campo regolamentare, una palestra attrezzata, una piscina olimpionica o un abbigliamento adatto, basta un cortile. 

3. Il gioco in cortile

Invece ora i genitori sborsano un sacco di soldi e quindi si aspettano il successo. Inoltre spesso non sono pronti a cogliere i talenti: ho avuto in quinta liceo un ragazzo che era innamorato della meccanica e il cui massimo desiderio era stare in mezzo a motori e motociclette. I compagni e le compagne di classe gli affidavano i loro motorini e lui ne faceva dei gioielli, e mi diceva che il suo piacere era avere le mani sporche di grasso. I genitori, mamma medica e papà avvocato, volevano farne un ingegnere: non capivano che il figlio non voleva progettare, voleva agire, altrimenti sarebbe stato sempre un frustrato. Poteva diventare un meccanico geniale, e invece loro volevano un figlio di successo. Ecco, anche “successo” è una parola che sento spesso. La mia impressione è che madri e padri, sempre più indaffarati, si sentano colpevoli del cosiddetto “insuccesso” di figli e figlie». L’osservazione mi pare pericolosa: sarebbe dunque meglio la mamma casalinga come un tempo? «Ma no», ribatte Z., «la questione non è la mamma, è anche il papà, è la presenza fisica su cui puoi contare. Il contatto digitale perenne non la sostituisce, anzi: il cellulare sempre acceso è un controllo occulto che non lascia spazi di libertà. Di questi tempi è quasi impensabile, ma davvero credo che quando hai un figlio dovresti avere anche un orario di lavoro ridotto per potertici dedicare, naturalmente senza ripercussioni economiche, cosa impossibile di questi tempi in cui uno stipendio solo o un part-time sono un lusso. Se lavori dalla mattina alla sera, è ovvio che ti attacchi al telefono, ma il telefono non è come parlare, coccolare, litigare di persona. Poi i genitori vengono a dirmi: “Eh, certo che non se ne può più, mio figlio usa il cellulare anche a tavola!”. Una madre una volta mi ha detto piangendo: “Professore, io non capisco più mio figlio!”. E vorrei anche vedere! Quale quaranta-cinquantenne “capisce” un quindicenne? Padri e madri non devono “capire”: devono amare, educare, guidare, sorreggere, incoraggiare, magari premiare e punire. A capire ci pensano gli amici». A questo punto mi chiedo se la situazione sia uguale per ragazzi e ragazze. Le aspettative dei genitori sono le stesse? Anche le ragazze vorrebbero fare le meccaniche? «Be’, quello del meccanico era solo un esempio. Spesso accade il contrario. Ora mi sembra che per le femmine la situazione sia migliore, almeno nei licei. All’università si iscrivono sempre più ragazze, anche nelle facoltà scientifiche, ma non so quanto l’aspettativa sociale per loro sia cambiata. Quando uscì Astrosamantha, il film su Samantha Cristoforetti, portai di corsa le mie classi a vederlo. Le ragazze ne uscirono emozionatissime. Una piangeva. “Ma allora lo potrei fare anch’io!”, mi ha detto. Pare strano, ma nel ventunesimo secolo è ancora opinione comune che una ragazza possa magari essere brava in matematica, ma poi se ne debba stare a casa o faccia l’insegnante invece di andarsene a esplorare lo spazio». Ma quello dell’insegnante è ancora un mestiere di ripiego? «Sempre meno, direi. Una volta lo era certamente, in particolare per le donne. Come ho detto, una laurea a pieni voti in matematica o in filologia greca non apriva la strada alla ricerca ma, per molte donne, all’insegnamento, perché era – era, nota bene – un lavoro a mezza giornata, con un sacco di tempo libero per stirare le camicie del marito, il quale, nelle famiglie borghesi, guadagnava abbastanza da compensare il magro stipendio della moglie. Un sacco di brave studiose sono finite a insegnare e, d’altro canto, un sacco di ottimi maestri e professori hanno finito col diventare meccanici, ingegneri, medici o operai per soddisfare le aspettative o le necessità della famiglia. Ora, per chi insegna, il lavoro è raddoppiato e lo stipendio non è cresciuto, ma la percezione che ne si ha è ancora quella. Anzi, il prestigio sociale è diminuito e anche per questo, quando parli con i genitori, hai a volte la sensazione che ti considerino uno sfigato. Quanto al tempo libero e alle vacanze smisurate, non ne voglio neppure parlare. Basti dire che l’insegnante ha la responsabilità penale della classe e che non può neanche andare a fare la pipì quando ne ha bisogno». 

4. I quadri di fine anno

Il tema del successo e dell’insuccesso mi pare interessante. Nella scuola i risultati sono misurati con i voti e la promozione appare il discrimine fondamentale anche se, in realtà, essa misura solo l’assimilazione di un programma svolto e la previsione che lo o la studente potrà affrontare l’anno seguente con un minimo di tranquillità. Non è, né è mai stata, il giudizio sulla persona né sui suoi molti e svariati talenti. Non ha un significato morale né, tantomeno, è una promessa o una condanna. Accade che una persona, nel delicato periodo dell’adolescenza, attraversi una fase più o meno lunga di distrazione e di fatica; in tal caso, ripetere l’anno è di aiuto. Il professor Z. prosegue: «La non ammissione all’anno seguente (guai, di questi tempi, a chiamarla bocciatura), così come il “debito” da recuperare a settembre, è una dilazione, un prolungamento dell’ospitalità che la scuola offre per acquisire una formazione sufficiente a proseguire. È una cosa buona, quando serve. Io, per esempio, sono stato bocciato in seconda liceo perché quell’anno mi ero innamorato e non capivo più niente. Lì per lì la cosa mi ha scottato, ma poi ho capito che quella prof di matematica, fermandomi con un cinque a settembre, mi ha salvato la vita. Poi è stato tutto facile. Ma ora, in altri Paesi europei, le superiori durano solo 4 anni, quindi abbiamo la sensazione di arrivare in ritardo. Ma in ritardo rispetto a cosa? La disoccupazione è arrivata a cifre drammatiche, i giovani, quando va bene, collezionano lauree stage e master e poi restano a casa, chi se la sente scappa all’estero e noi abbiamo fretta? Di che? Non sarebbe meglio approfittare e approfondire lo studio? Invece noi docenti, se fermiamo qualcuno, assistiamo a due fenomeni: innanzitutto la dolorosa delusione delle famiglie, che talvolta si tramuta in incredulità e in rabbia nei confronti della scuola, rea di non aver capito e/o di non aver aiutato; e poi il comportamento riflesso e timoroso di presidi e consigli di classe, che tendono a mitigare i giudizi e ad arrotondare i voti per eccesso. Ora, il punto è che il registro elettronico, che sta sostituendo ovunque quello cartaceo ed è consultabile in tempo reale dai genitori, ha eliminato qualunque forma di mediazione e di riflessione. I genitori vengono al colloquio non per conoscere e capire, ma per chiedere conto e contestare, dato che hanno accesso ai voti e dunque pensano di sapere già tutto. La media aritmetica è chiara e apparentemente oggettiva: i voti, allo scrutinio, sono arrotondati dal software, dunque da 5,00 al 5,49 è 5 e dal 5,50 al 5,99 è 6. È un calcolo molto semplice, meccanico. Poi, in sede di giudizio, il consiglio di classe può modificare il voto finale sulla base di varie considerazioni, ma intanto chi ha cinque virgola qualcosa sa già che avrà sei e, se ciò non avviene, si scatena la frustrazione. Non è solo una questione di decimali, perché nella scuola italiana la sufficienza è sei, dunque un voto inferiore a sei è insufficiente. Mi pare un ragionamento chiaro. E lo sanno bene anche gli e le studenti, infatti quando, appena compiuti i 18 anni, si mettono di lena a studiare per conseguire la patente di guida e si affannano ad esercitarsi per superare i quiz, è loro chiaro che dovranno rispondere a 40 domande in 30 minuti e che non potranno fare più di quattro errori. Il 10%. Se saranno cinque, ovvero solo il 12,5%, niente patente. Ma l’esame per la patente non presenta nessuna delle implicazioni psicologiche e affettive della scuola, ed è proprio tale anaffettività che dà l’illusione di un giudizio obiettivo, mentre la scuola è percepita come un prolungamento della famiglia, in cui tutto è riassorbito nella sfera affettiva. La scuola, in realtà, è una via di mezzo, un filtro fra la famiglia e il mondo esterno, quello adulto. Se in famiglia i conflitti vengono risolti sulla base degli affetti, nel mondo adulto gli errori hanno conseguenze gravi: paghi una multa, ti licenziano, vai in galera. La scuola è un filtro nel senso che gli errori sono sempre lievi, come pure le sanzioni, e hanno sempre uno scopo educativo e formativo. Il problema è appunto qui: l’educazione di una persona giovane deve basarsi sulla chiarezza, sulla precisione e sull’onestà. Non possiamo dare segnali ambigui, non possiamo dire sì quando intendiamo no. Anche perché rischiamo di minare alla base la stessa matematica. Il numero cinque virgola qualcosa, fosse anche una serie infinita di nove, non sarà mai sei. Se stabiliamo in confine fra sufficiente e insufficiente, dev’essere chiaro. E questa è solo la punta dell’iceberg di un problema molto serio che riguarda, tra l’altro, la comprensione della scienza». 

 




Facciamo un bel viaggetto, italiani brava gente?

Grazie anche ai voli low cost e alla diffusione di Internet, gli italiani sono diventati i più attivi d’Europa nel turismo sessuale. I “turisti” sono circa 80mila, per lo più uomini (90%), secondo le stime dell’organizzazione noprofit Ecpat (End Child Prostitution in Asia Tourism). Negli ultimi anni la loro età si è abbassata, ed è compresa tra i 20 e i 40 anni.


1. ECPAT

Si può scegliere un pacchetto all inclusive: viaggio, alloggio, vitto, drink e ragazze. Si paga un po’ di più per le vergini (“robetta tenera”, le chiamano), ma i confini tra chi va con adulti e chi con minori è labile: ovunque dominano il consumismo sessuale, il rapporto di dominio, il potere del denaro. A ogni latitudine il filo rosso che lega le vittime è quella della povertà.

A fronte di prestazioni a prezzi stracciati, il giro d’affari è colossale, stimato nel mondo intorno ai 5 miliardi di dollari all’anno, ed è in gran parte controllato dalle organizzazioni criminali.

Figli, mariti, padri, lavoratori. E poi un aereo. E poi in vacanza al Sud del mondo. E poi diventano il demonio. Italiani, tra quelli che ”consumano” di più a Santo Domingo, in Colombia, in Brasile. Italiani, i primi pedofili del Kenya. Attivissimi, nell’olocausto che travolge 15.000 creature, il 30% di tutte le bambine che vivono tra Malindi, Bombasa, Kalifi e Diani. Piccole schiave del sesso per turisti. In vendita a orario continuato, per mano, talvolta, dei loro genitori. In genere hanno tra i 12 e i 14 anni, ma possono averne anche 9, anche 7, anche 5. Minuscoli bottini per turisti. Burattini di carne da manipolare a piacimento. Foto e filmati da portare a casa come souvenir. Costa quanto una buona cena o un’escursione.

Dal blog del Ricciocorno schiattoso.

Complessivamente, i minori vittime di sfruttamento sessuale nel mondo sono stimati in 2 milioni; un quarto vive in Asia. La Thailandia, per anni destinazione preferita dei turisti-pedofili, negli ultimi tempi è meno gettonata a causa di una maggiore attenzione da parte delle autorità locali, pur sempre però in un quadro di illegalità diffusa.


2. Le rotte

A conferma del fatto che i nostri connazionali siano i principali fruitori di questo tipo di turismo sessuale, in alcune strade dell’Africa non è difficile trovare cartelli che intimano di non toccare i bambini, scritti in italiano.

Le ragioni che stanno dietro la scelta dei clienti non interessano, o peggio paiono ovvie: non ho letto una sola analisi psicologica in merito.

Il frequentatissimo www.gnoccatravel.it, o www.travelweare.com, i numerosi siti in cui i clienti scrivono le recensioni delle loro vittime, bastano a dimostrare che l’uomo non patisce oggi, come non pativa ieri, alcuno stigma.

Anche sui marciapiedi delle città italiane e negli hotel compiacenti stanno arrivando ragazze sempre più giovani: sono le più richieste. Emerge una pedofilia ben più diffusa di quel che pensiamo: la giovane età accentua il senso di supremazia del maschio.

In Italia li incontri a scuola, in ufficio, al bar, per strada; o in chiesa. E mentono, come quelli che negano di conoscere l’età delle ragazzine quando fanno carte false per usarle proprio perché giovanissime. Ricordate i facoltosi pedofili dei Parioli?

Esiste una tradizione. Durante la triste stagione del colonialismo italiano in Eritrea molti soldati italiani e gerarchi fascisti si concedevano una “Venere nera” bambina: la pratica si chiamava madamato. Era l’espressione del dominio autoritario del colonizzatore sull’indigeno, dell’uomo sulla donna, dell’adulto sul bambino, del libero sul prigioniero, del ricco sul povero, del forte sul debole. 

Nella prostituzione convergono gli effetti perversi di tre sistemi di dominio: il patriarcale, il capitalista e il razziale.

3. Foto ricordo

Ecco in che termini di malcelata soddisfazione il famoso giornalista Indro Montanelli in un’intervista del 1982 raccontava a Enzo Biagi la sua esperienza:

Aveva dodici anni, ma non mi prendere per un Girolimoni, a dodici anni quelle lì erano già donne. L’avevo comprata a Saganeiti assieme a un cavallo e un fucile, tutto a 500 lire. (…) Era un animalino docile, io gli (sic) misi su un tucul con dei polli. E poi ogni quindici giorni mi raggiungeva dovunque fossi insieme alle mogli degli altri ascari.

Montanelli era così sereno perché riteneva (non senza ragione) che gli italiani in grande maggioranza la pensassero come lui. 




Il voto in Turchia. La diretta al centro culturale curdo di Roma

Nel primo pomeriggio del 24 giugno il centro culturale Ararat si comincia a riempire. Pane, frutta e piatti mediorientali occupano la tavola dove è riunita la comunità curda di Roma. Mentre i bambini giocano a biliardino o si rincorrono nel cortile e gli adulti sorseggiano il çay bollente appena versato, il collegamento con la televisione turca inizia a mandare le prime notizie. Tutti i presenti hanno il fiato sospeso.

Nel frattempo, dall’altra parte del Mediterraneo, la popolazione turca sta votando per le elezioni parlamentari e presidenziali anticipate, indette dal presidente uscente Recep Tayyip Erdogan per frenare il calo di consensi che la sua politica di odio sta affrontando. «Se oggi cambiano le cose in Turchia, forse potremo finalmente tornare a casa», dicevano commosse alla vigilia delle elezioni alcune donne curde che vivono in Italia con lo statuto di rifugiate politiche.

Prima di indire le elezioni, per assicurarsi di rimanere al governo, Erdogan ha scritto una Costituzione che trasforma la Turchia in Repubblica presidenziale con un enorme potere in mano a un solo uomo, capo dello Stato e dell’esecutivo, ridimensionando di molto il ruolo del Parlamento. Tutt’altro che democratica è anche la legge elettorale turca, che presenta una soglia di sbarramento al 10%, la più alta al mondo, e i seggi che spetterebbero ai partiti che hanno mancato il quorum vengono attribuiti d’ufficio alla lista di maggioranza relativa (che è il partito di Erdogan); la legge prevede la possibilità di formare coalizioni di più partiti che si presentino separati alle parlamentari ma con un unico candidato alle presidenziali. 

Questa campagna elettorale è stata segnata da toni violentissimi. La faccia di Erdogan era presente su ogni muro del Paese, i suoi slogan citavano Dio e accusavano di terrorismo gli avversari e in particolare il popolo curdo. Per ottenere consensi ha attaccato la città curdo-siriana di Afrin e poi i villaggi curdo-iracheni del Qandil, muovendosi fuori dal proprio territorio e dal diritto internazionale. Era chiaro che il dittatore turco avrebbe fatto qualunque cosa pur di vincere la sfida. 

Quando inizia lo spoglio delle schede la tensione è alta. 

A effettuare lo scrutinio non sono persone indipendenti ma un’agenzia legata al partito di governo. Tramite gli osservatori internazionali (molti dei quali legati a Rete Kurdistan) arrivano notizie di brogli e violenze. Si parla di cinque italiani arrestati senza un’accusa chiara, di diecimila soldati inviati nelle zone a maggioranza curda, di schede sparite e altre truccate e di rappresentati di lista aggrediti. In alcuni seggi del Bakûr (il Kurdistan turco) l’esercito ha tolto le cabine elettorali e costretto i cittadini e le cittadine a votare apertamente davanti ai soldati in armi e un elicottero ha portato via urne piene di schede votate.

Ararat, fila di bandiere

Il clima ad Ararat è teso. Sono presenti ovunque le bandiere dell’HDP, il Partito Democratico dei Popoli, la principale opposizione al regime turco. 

La prima notizia che arriva è un duro colpo per chi sperava di poter tornare in Turchia da cittadino libero: con il 52% di voti della sua coalizione, Erdogan è di nuovo presidente.

Non tutti i dati sono attendibili per via dei brogli, risulta addirittura che Erdogan abbia vinto in città che hanno sempre sostenuto la guerriglia del PKK. Arrivano informazioni di numeri poco credibili. Le sorti dell’HDP sono ancora incerte, in condizioni normali potrebbe superare il 20%, ma con i voti che spariscono nel nulla è difficile fare previsioni attendibili. Alle presidenziali Selahattin Demirtaş, leader dell’HDP e fondatore della sezione turca di Amnesty International, candidato alla presidenza dal carcere in cui è rinchiuso da mesi, risulta essersi attestato all’8%. Far sparire l’HDP dalle istituzioni è il sogno del dittatore turco. I deputati e le deputate dell’HDP, che hanno sempre difeso i diritti umani e la causa curda, sono in carcere, accusate da Erdogan di avere legami con il PKK, ma la magistratura turca non ha mai emesso una condanna nei loro confronti.

Nel tardo pomeriggio all’improvviso un forte applauso scuote l’aria sotto la tettoia del centro Ararat. Secondo le ultime proiezioni, l’HDP ha superato lo sbarramento con l’11,2%, ottenendo così quei 66 deputati sufficienti per strappare la maggioranza all’AKP di Erdogan. Qualcuno alza il pugno e sorride, qualcuno telefona ai parenti rimasti in Bakûr, qualcun altro porta un vassoio pieno di bicchieri di çay. Quando vengono proiettati i risultati di Diyarbakir (una delle principali città curde) si sente esclamare Her bijî! (evviva!): nonostante i brogli l’HDP risulta aver ottenuto oltre il 65% dei voti locali. Alle elezioni parlamentari il partito di governo AKP si ferma al 42%, ben lontano dalla maggioranza assoluta cui puntava. 

Oltre all’HDP, all’opposizione parlamentare vi è anche il CHP, moderato partito kemalista nazionalista ma laico, non certo filocurdo ma comunque ostile alla esasperata islamizzazione della Turchia che Erdogan sta portando avanti. È rimasta invece fuori dal Parlamento la candidata ultranazionalista Akşener, anch’essa temuta e odiata dal popolo curdo. 

Persino i bambini interrompono i loro giochi e guardano lo schermo che mostra il nuovo Parlamento turco, dove il giallo dei conservatori occupa adesso meno di metà dell’emiciclo. Ora il vincitore solo formale, rimasto in realtà senza una maggioranza, non può più fare il bello e il cattivo tempo da solo. La Costituzione gli dà la possibilità di governare attraverso decreti d’emergenza, ma questi dovranno comunque confrontarsi con un potere legislativo non più asservito all’esecutivo. E, per poter stipulare accordi che gli permettano di governare, il presidente dovrà comunque rinunciare a parte del suo autoritarismo.