Irlanda – Le femministe Rosa e il diritto all’aborto

Il 25 maggio 2018 è diventata già una data storica per molte e molti irlandesi. 

Chiamata al voto per decidere del diritto all’aborto della donna, il 66,4% della cittadinanza, in un Paese all’80% cattolico, ha votato per il sì, decidendo così, attraverso un referendum, l’abrogazione dell’ottavo emendamento della Costituzione, introdotto nel 1983 che, di fatto, rende illegale l’aborto anche in caso di malformazioni del feto, stupro, incesto e altro. L’interruzione di gravidanza è possibile soltanto in caso di pericolo di vita della donna.

Questa legge ha causato la morte di alcune donne (cui è stato comunque rifiutato l’aborto anche se in pericolo di vita) e anche una sorta di ‘turismo’ verso il Regno Unito, dove la pratica è consentita, relegando le donne più povere a strade insicure e pericolose.

Contro molte previsioni che fino agli ultimi giorni davano una sostanziale parità fra le due parti in gioco, ha vinto il Sì. Ora tocca al Parlamento emanare una nuova legge che abbia come focus il diritto della donna ad abortire e a essere tutelata e seguita in questa sua scelta.

Nei mesi precedenti molte attiviste sono scese in piazza e hanno organizzato marce e manifestazioni per il Sì. Mentre gli anti-abortisti hanno giocato su una vecchia retorica che dipinge l’aborto come un omicidio e che ha diffuso false notizie, donne e uomini per il Sì hanno posto l’accento sulla necessità di garantire la libertà di scelta della donna sul proprio corpo. 

Fra le principali organizzazioni attive nel campo c’è Rosa (for Reproductive rights, against Oppression, Sexism & Austerity), gruppo di femministe fondato da alcune donne del Partito socialista irlandese e poi ampliatosi. Rosa in onore di Rosa Luxemburg e di Rosa Parks: entrambe rivoluzionarie, attiviste, impegnate in primo piano nella lotta. 

Fra i dieci propositi del gruppo Rosa ha un posto fondamentale la salute della donna. È per questo che fra i primi punti, oltre all’eliminazione dell’ottavo emendamento, ci sono anche la tutela della salute della donna come obiettivo dello Stato, la completa gratuità dell’aborto, la disponibilità immediata della pillola anticoncezionale, l’educazione sessuale nelle scuole per rimuovere la cultura dello stupro. 

Ma accanto a queste mete, le attiviste di Rosa pongono altre questioni fondamentali: la separazione fra Stato e Chiesa è una di queste, perché è dalla Chiesa cattolica che i retaggi conservatori e sessisti si trasmettono nelle scuole e negli ospedali. Ma c’è anche un’istanza anticapitalista, che chiede di tassare i “super ricchi” e di favorire invece le donne, i lavoratori e i disoccupati. No all’austerity, ma sì a investimenti nel settore pubblico (ospedali, scuole, servizi sociali).

Negli ultimi mesi l’operato di queste attiviste si è concentrato sul referendum, al grido di #time4choice. L’hashtag è diventato virale sul web, proprio accanto a quel “Repeal” (Abroga), che adesso è diventato il simbolo di una vittoria. Sono scese in piazza, con gli abiti delle ancelle (The Handmaid’s Tale, la serie tv distopica che parla di donne e ribellione) o più semplicemente con una maglietta nera che gridava repeal.

Ma non bisogna dimenticare che il loro è un femminismo socialista, che combatte il sessimo così come il capitalismo, consapevole che le due lotte sono intrecciate e che non c’è femminismo vero senza lotta anticapitalista. Si ispirano a Marx ed Engels, lotta di classe e oppressione fanno parte del loro vocabolario, ma anche intersezionalità, lotta per i diritti civili e post-modernismo rientrano nei loro dibattiti e nel loro pensiero. 




Ni una menos: nuovi femminismi dall’America Latina all’Italia

Proprio quando tutto sembrava più depresso e avvilito, un grido dall’America Latina risveglia le coscienze femministe e le scuote: Ni una mujer menos, ni una muerta más («Non una donna in meno, non più neanche una morta»). Un grido che nasce in Argentina, nella primavera del 2015, preso in prestito dalla poetessa e attivista messicana Susana Chávez (di lei si parla oggi nella nostra rubrica letteraria Les Salonnières) e diventato simbolo internazionale della lotta delle donne.

All’inizio è solo un gruppo di giornaliste, attiviste e artiste a riunirsi, ma il richiamo è forte: organizzazioni dal basso, comunità locali, donne e uomini si avvicinano alla campagna diffusasi presto in tutta l’America Latina. Ni una menos è la parola chiave, proprio perché è sul corpo delle donne che la violenza maschilista e femminicida continua a manifestarsi ogni giorno. 

L’America Latina, infatti, ha registrato negli ultimi anni un aumento dei casi di femminicidio e del numero di violenze contro le donne, spesso avvenuti nella completa impunità. Al grande insieme di attiviste per i diritti umani, ambientali, locali si accompagna un egual numero di donne minacciate, violentate, uccise. Susana Chávez è una di loro, ma con lei anche Berta Cáceres, Marielle Franco, Maria Guadalupe Hernández Flores. Per non parlare poi delle donne ‘che non conosce nessuno’, quelle che vogliono semplicemente vivere la loro vita ma che vengono bruscamente fermate: secondo la CEPAL (Commissione economica per l’America Latina e i Caraibi) sono 4.000 ogni anno (12 ogni giorno) le donne uccise nel continente sudamericano per motivi legati al loro genere.

Per questo motivo le donne di Ni una menos hanno posto fin dall’inizio l’accento sulla lotta alla violenza di genere e sulla necessità di predisporre un piano antiviolenza che entri nell’agenda politica di ogni comunità. 

Quali sono i punti fondamentali di questa agenda? 

Rendere accessibili aiuto e protezione alle vittime di violenza e garantire un percorso legale che porti alla denuncia delle violenze subite, ma anche monitorare – costantemente – il numero dei femminicidi (perché solo misurando quello che succede si potrà costruire una politica pubblica efficace) e portare l’educazione sessuale completa nelle scuole. Un punto fondamentale, perché è proprio dall’insegnamento delle differenze che nasce il rispetto e si annulla la violenza machista. 

La prima vera battaglia è stata lanciata con uno sciopero di un’ora contro il femminicidio, un’ora in cui le donne si sono astenute da tutte le attività (anche quelle riproduttive). Un modo per attirare l’attenzione, certo, ma anche per far capire l’importanza delle attività svolte da ognuna di loro. Lo sciopero è presto diventata un’arma di lotta internazionale, globale.

La loro lotta, infatti, ha ridato slancio ai vari gruppi e movimenti femministi nel resto del mondo e ha germogliato in America, ma soprattutto in Europa e in Italia, dove Non una di meno è grido nelle piazze del 25 novembre e dell’8 marzo, scritta sui muri, parola d’ordine nel “Piano Femminista contro la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere” del movimento in Italia.  

Consultori, associazioni contro la violenza di genere, centri antiviolenza, nuove femministe e femministe storiche hanno contribuito alla nascita di questo piano e lottano ogni giorno per attuarlo. Come la violenza sulle donne è trasversale, così lo deve essere anche il piano che la combatte: «libere dal sessismo» nelle scuole, negli ospedali, nella famiglia, nel lavoro. 

Ogni anno, in Italia e nel mondo, i cortei promossi da Ni una menos diventano più folti e trasversali dal punto di vista generazionale, uniscono i sessi nella lotta al patriarcato e al maschilismo, crescono e creano nuove progettualità sul territorio. 

Proprio per questo, accanto allo slogan Ni una menos, ne è stato aggiunto un altro: Vivas nos queremos. Non solo queste donne non vogliono morire, ma vogliono essere libere di sentirsi vive e di vivere senza paura.




RAWA, le donne rivoluzionarie dell’Afghanistan

Nell’Afghanistan martoriato dai regimi e dalle bombe, è attiva fin dal 1977 una piccola organizzazione che lotta per i diritti delle donne e per la democrazia: si tratta di RAWA (Revolutionary Association of Women of Afghanistan), fondata dall’attivista Meena Keshwar Kamal a Kabul.

L’associazione nasce con lo scopo di promuovere la democrazia, l’alfabetizzazione (nel Paese vi è uno dei tassi più bassi di alfabetizzazione), i diritti delle donne e di combattere la dittatura (che sia quella sovietica o quella del fondamentalismo islamico poco importa), l’ignoranza voluta dai regimi e soprattutto la repressione della libertà delle donne.

L’ambito dei diritti delle donne va di pari passo con quello di giustizia sociale ed è per questo che RAWA negli anni si è impegnata anche attraverso la costruzione di orfanotrofi, ospedali, scuole, aiuti per i rifugiati e per chi scappa dalla guerra.

Ma facciamo un passo indietro: in un Paese come l’Afghanistan un’associazione del genere non ha vita facile. E in effetti, nel 1980 Meena – che è la fondatrice – decide di spostare la sede operativa da Kabul a Quetta, nel vicino Pakistan. Meena dedica tutta la sua vita a questa organizzazione, in senso letterale: nel 1987 viene infatti uccisa dagli agenti del KHAD (il braccio afghano del KGB) e da quel giorno è la martire del movimento.

Il suo esempio, però, non scoraggia ma piuttosto brilla, infonde speranza, tanto che RAWA resiste ed è operativa persino durante il governo dei talebani (1996-2001), che impongono un regime teocratico basato su un’interpretazione fondamentalista della Shari’a con dirette conseguenze sulla vita delle donne. Dopo l’invasione dell’Afghanistan del 2001, poco è cambiato e le lotte restano quelle di sempre: contro un’interpretazione fondamentalista dell’Islam e a favore di una democrazia reale.

Come fare tutto questo, come portare avanti la loro lotta? Prima di tutto attraverso la parola, importante veicolo di messaggi rivoluzionari. È per questo che RAWA pubblica “Payam-e-Zan”, un giornale bilingue (in persiano e pashtu) su cui vengono sviscerate le tematiche più importanti (dal rifiuto della guerra all’autodeterminazione delle donne).

FOTO 1. http://pz.rawa.org/pz/

La parola però non è solo quella scritta: le militanti di RAWA si muovono, partecipano a dibattiti internazionali, si mostrano nei canali della tv afghana dal 2006, dove per la prima volta avviene uno storico dibattito con un sostenitore dell’integralismo islamico.

Ma la più importante di tutte è la parola che viene insegnata. RAWA promuove l’alfabetizzazione di donne e bambini, spesso in clandestinità e a domicilio, affiancandovi l’insegnamento della tolleranza e del rispetto delle diversità: un’azione pervasiva, che parte dal basso e si muove su un piano orizzontale, sia in Afghanistan che in Pakistan. Del resto, RAWA si impegna anche nel campo della giustizia sociale e nel tempo è riuscita a costruire cliniche e a operare con team mobili di medici all’interno di campi profughi, garantendo un servizio gratuito a donne, bambini e uomini che non hanno altre possibilità di cura.

Al sociale e ai diritti delle donne si aggiunge la battaglia politica e in particolar modo il rifiuto della guerra. Le donne di RAWA denunciano senza se e senza ma la situazione in cui versa l’Afghanistan: nulla è cambiato dal 2001, lo scettro del potere è passato di mano in mano ed è sempre dei “signori della guerra”, ma la vita all’interno del Paese è sempre la stessa, soprattutto per le donne. Se un cambiamento ci deve essere, deve avvenire in direzione della pace, della democrazia e del secolarismo (come recita lo slogan dell’associazione).

Revolutionary Association of Women of Afghanistan (http://www.satyamag.com/oct05/rawa.html)

Nonostante le difficoltà, però, anche la battaglia prosegue e ha l’obiettivo di espandersi. Già a livello internazionale le donne di RAWA sono conosciute e spesso sostenute: Iran, Italia e Sudan sono fra gli Stati che contano maggiori iscritti all’associazione, ma il supporto giunge anche da organizzazioni territoriali del Giappone, dall’Australia, da quegli stessi Stati Uniti che ne hanno provocato la caduta in una guerra senza fine.

Il supporto da parte della comunità internazionale si trasforma in operatività sul territorio e quindi, negli ospedali, le volontarie insegnano a scrivere a bambine e vedove, scuole di inglese. «Siamo fermamente convinte» si legge sul sito dell’associazione, «che la conoscenza è un grande potere e che farà crescere la consapevolezza delle donne dei loro diritti e del loro posto nella società».

 

 

 




Le mujeres del Chiapas

Nel cuore dell’America centrale, un altro esperimento rivoluzionario ha preso vita a partire dal 1994 e ha trovato nelle donne uno dei suoi agenti principali. In Messico, dalle montagne del Chiapas le donne indigene lottano contro patriarcato e colonialismo.

Qui come in Kurdistan, l’emancipazione della donna è diventata un fattore politico importante e indispensabile per una società che si possa dire libera e rivoluzionaria.

Qui le donne guidano – al fianco degli uomini – la rivoluzione, partecipano alle assemblee, supportano la lotta anche grazie al lavoro domestico e sono uscite da un buio secolare in cui il maschilismo della loro cultura d’origine e quello dei colonizzatori europei le avevano relegate.

La loro lotta va inserita all’interno di quella dell’EZLN (Ejercito Zapatista de Liberaciòn Nacional), che è un movimento clandestino anticapitalista e libertario legato al territorio del Chiapas, uno dei più poveri del Messico. L’EZLN si è fatto conoscere in tutto il mondo a partire dal ‘94, quando, entrato in vigore il NAFTA (North American Free Trade Agreement), ha deciso di insorgere ‘prendendo’ alcune città del Chiapas e instaurando un autogoverno che dura tuttora.

All’interno di questo grande contenitore, dove la popolazione indigena ha deciso di vivere secondo le proprie regole di democrazia diretta, si è avuta la rivoluzione delle donne, che è allo stesso tempo parte e inizio della rivoluzione stessa.

«Se non partecipiamo non possiamo cambiare la nostra situazione, non può trionfare una rivoluzione; se partecipano solo gli uomini alla lotta allora non è una lotta completa, perché mancherebbe la partecipazione delle compagne; è meglio lottare uniti, uomini, donne e bambini perché un giorno i nostri figli possano vivere una vita giusta e degna». Così hanno dichiarato le zapatiste.

Lo stesso subcomandante Marcos, infatti, a posteriori ha affermato che la data di inizio della rivoluzione era non il 1994, ma il 1993, anno in cui la “Legge rivoluzionaria delle donne” era stata adottata dall’EZLN. Una legge che si esprime contro ogni discriminazione sessista, per l’autonomia personale delle donne e per l’emancipazione e la dignità.

Da quel momento c’è stato un cambiamento: nelle comunità indigene qualcosa si è mosso, le donne hanno cominciato a partecipare alle assemblee, a dire la propria opinione, ad autogovernarsi e a indicare la direzione della lotta rivoluzionaria. Nel 1994, a San Cristobal, c’è stata una prima grande riunione fra le donne chiapaneche: la “Primera Convenciòn Estatal de Mujeres Chiapanecas”. Un incontro che ha rappresentato un passo avanti nella lotta per l’emancipazione da una “triplice oppressione”: di genere, di classe, di etnia. La loro lotta si è saldata inestricabilmente con quella della popolazione contro l’oppressione capitalista.

Nei venti anni e passa che sono seguiti le chiapaneche hanno dato vita a un filone di pensiero femminista, che però non è da intendere alla maniera occidentale. Sebbene vi siano dei punti in comune – come la battaglia per gli stessi diritti –, il femminismo zapatista si esprime anche contro la tradizione tipicamente occidentale e opta per un recupero della propria radice comunitaria.   È per questo che si parla di “femminismo comunitario”: una lotta contro il patriarcato e il maschilismo che tenga conto dei bisogni specifici delle indigene, delle loro tradizioni, della loro cultura. Il filtro del colonizzatore europeo viene eliminato, nel femminismo zapatista così come nel concetto di rivoluzione dell’EZLN.

Proprio lo scorso marzo, nei giorni che vanno dall’8 al 10, si è tenuto il “Primo incontro internazionale politico artistico sportivo e culturale delle donne che lottano”, nel caracol zapatista di Morelia “Torbellino de Nuestras Palabras”. Un evento aperto a donne di tutto il mondo, in cui si è discusso insieme sui modi di continuare la lotta ed eliminare la paura che condiziona quotidianamente la vita di ogni donna. Una paura spesso legata al proprio corpo: paura di essere violentate, molestate, giudicate. Un segno che la strada da percorrere è ancora lunga, ma che piccole comunità come quelle delle donne indigene del Chiapas possono essere d’esempio per tutti e per tutte. E sprigionano una luce che brilla al di là di qualsiasi confine.

 

 

 




Donne rom fra tradizione ed emancipazione

Parlare dell’altroè sempre difficile, soprattutto quando c’è un concreto rischio di banalizzazioni e stereotipi. Per questo, parlare delle donne rom – che appartengono a un gruppo che è altro per eccellenza, straniero in ogni paese – è un compito che va portato avanti con cautela. Tanto più perché la classica prospettiva emancipazionista potrebbe risultare fallimentare nel comprendere fenomeni in cui razza, genere e classe sono strettamente interconnessi.

Chi sono, dunque, queste donne rom? C’è del fermento femminista fra di loro? E se sì, in cosa consiste?

Prima di tutto è necessario specificare una cosa: parlare di donne rom ha senso finché si tiene presente che le comunità in Europa e nel mondo sono tante e spesso diverse fra di loro, con tradizioni che subiscono variazioni da gruppo a gruppo, anche per via di coordinate esterne.

Quello che sappiamo, in generale, delle donne rom deriva più che altro dai giornali, dai racconti e dal nostro immaginario comune. Sono di volta in volta zingare che rubano o che ammaliano (come Esmeralda), che fanno l’elemosina portando con sé i propri figli, necessariamente sottomesse alla cultura patriarcale della loro comunità, portano ampie gonne dai colori sgargianti e capelli lunghi, spesso raccolti in una coda.

E sì, sono discriminate per ben tre volte: in quanto donne, in quanto straniere e in quanto rom. Ma, sebbene in molte rivendichino con orgoglio la propria cultura di appartenenza e la volontà di non abbandonarla, ci sono segnali di qualcosa che sta cambiando, soprattutto fra le più giovani.

L’idea che si sta diffondendo è che, in fondo, si possa scegliere di ‘andare avanti’ senza per questo rinunciare alla propria identità rom. Questo significa combattere quegli elementi maschilisti e patriarcali della propria comunità senza rinunciare alla propria tradizione culturale, linguistica e sociale in toto. È questo il loro cambiamento.

All’interno di alcune comunità rom, infatti, vigono delle ‘regole’ che limitano la libertà di scelta di queste donne: i matrimoni precoci sono l’esempio più lampante, sebbene non identico in tutte le comunità in Europa. È per questo che una parte della lotta delle donne rom si incentra proprio su questo argomento: “Terni bori” vuol dire “giovane sposa” ed è il nome con cui è stato lanciato il sito (http://www.ternibori.org/en/) del progetto europeo “Marry When You Are Ready”. Lo scopo? Porre fine ai matrimoni precoci delle minori rom, imparare a considerarli come una forma di violenza contro le donne, che incide dal punto di vista psicologico, sociale e culturale. Da qui, secondo le donne rom che portano avanti il progetto, bisogna ripartire per dare vita ad un’autodeterminazione femminile, in cui le donne non vengono salvate dall’esterno da un deus ex machina, ma imparano ad autodeterminarsi. Un progetto che assume una prospettiva europea e internazionale e che conta associazioni partner nei Balcani (Croazia, Serbia, Macedonia, Bosnia Erzegovina), in Bulgaria, in Italia e in Austria. E che parte, necessariamente, dalla scelta delle donne sul proprio corpo.

A questa prospettiva internazionale si rifà anche l’International Roma Women Congress (http://dromkotar.org/congress/), che quest’anno è giunto alla sua seconda edizione e che si è tenuto a Barcellona il 23 e il 24 marzo. Sono donne rom che parlano ad altre donne rom, parlano di sé stesse e dei propri problemi, che spesso sono simili anche da un Paese all’altro per via delle condizioni di discriminazione cui sono soggette. In questo caso lo scopo non è una singola battaglia, ma è in generale la riabilitazione dell’immagine delle rom in senso positivo e la lotta alle disuguaglianze di genere e alla violenza contro le donne. L’approccio è stato orizzontale e partecipativo: oltre agli incontri accademici, si è avuto modo di discutere insieme, partendo dalle esperienze comuni.

E poi c’è “Barabal” (http://barabal.eu/), che significa “uguaglianza”. È anch’esso un progetto europeo, che vuole aiutare le rom d’Europa attraverso un adeguato accesso all’istruzione. Si calcola, infatti, che mediamente una donna rom sia meno istruita di un uomo rom: in Italia nel 2014 il 23% di donne rom ha dichiarato di non saper né leggere né scrivere a fronte di un 12% maschile. Questo anche perché nelle comunità rom si tende a insegnare alle bambine il “mestiere della casa” e a prepararle ad essere madri e mogli perfette.

In Italia rappresentante di questo cambiamento che vuole combattere la tripla discriminazione cui sono soggette le rom è il Rowni-Roma Women Network Italy (https://sites.google.com/site/rowniromawomennetworkitaly/home). Una rete che come primo compito ha proprio quello di unire tutte quelle donne, appartenenti a questa minoranza, che si sentono discriminate. E da questa rete partire per promuovere l’autodeterminazione, l’autoimprenditorialità, la fiducia in sé stesse.

Gli elementi che tutte queste realtà portano avanti sono tanti: libera scelta del proprio corpo e libera rivendicazione delle proprie tradizioni rom sono le più evidenti e importanti. Ma dietro c’è molto altro, che si sovrappone e si interseca: la scuola e la possibilità di un’istruzione, la battaglia alla violenza sulle donne, l’incentivazione a usare saperi tradizionali in modo innovativo, lo “scoperchiamento” di discriminazioni di genere e lo sviluppo della consapevolezza della propria condizione. Con un ribaltamento di quest’ultima: essere donne rom è un valore aggiunto, che va potenziato – non eliminato.

Foto di Andrea Zennaro (Roma, 2017)

 

 

 




Il Kurdistan a Roma

Biji berxwedana Afrine (Viva la resistenza di Afrin) scandiscono insieme le centinaia di persone che danzano in cerchio mentre le punte delle fiamme illuminano la stella al centro della bandiera rossa issata sull’ex mattatoio della capitale. Siamo ad Ararat, centro culturale e luogo di ritrovo della comunità curda nel quartiere romano di Testaccio, dove si celebra il Newroz, il tradizionale capodanno curdo. Arrivando ad Ararat l’atmosfera è accogliente e calorosa, non manca mai qualcuno pronto a offrire a chi arriva un çay, l’immancabile tè caldo, e a raccontare la propria storia, spesso facendosi capire pur non sapendo una parola di italiano né d’inglese. Molti dei presenti ad Ararat vivono in Italia con lo statuto di rifugiati, dato che nella propria terra sarebbero perseguitati in quanto curdi.

FOTO 1

Oggi il Kurdistan si presenta diviso in quattro Stati (Turchia, Siria, Iraq e Iran), in ognuno dei quali è vietato parlare il curdo e celebrare le proprie tradizioni, prima fra tutte il Newroz, ed è imposta la fede musulmana; eppure, in nome dello stesso Corano cui si appellano gruppi di fanatici ed esaltati terroristi, il popolo curdo ha costruito una società basata sul rispetto dell’ambiente, sull’emancipazione delle donne e sulla convivenza pacifica tra i popoli.

Nel Kurdistan turco (Bakur), da cui proviene la maggior parte delle persone che si incontrano ad Ararat, l’ostilità verso l’identità curda è sempre stata forte. Il principale soggetto guida della lotta in Bakur è il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), fondato da Abdullah Öcalan nel 1978 e dichiarato illegale dal governo di Ankara. Negli ultimi anni il governo sunnita di Erdogan si è fatto sempre più autoritario e la repressione sempre più spietata ma il PKK, pur avendo abbandonato le idee marxiste-leniniste di partenza e rinunciato a uno Stato curdo indipendente, continua la lotta armata perché il popolo curdo possa vivere in pace e dignitosamente sulle proprie montagne. Recentemente, Erdogan ha dato il via a una campagna di arresti di magistrati, docenti, giornalisti e deputati e varato una nuova Costituzione che aumenta enormemente i propri poteri. I deputati e le deputate del Partito Democratico dei Popoli (HDP), principale opposizione parlamentare al regime turco, sono attualmente in carcere con l’accusa di costituire il braccio legalitario del PKK.

FOTO 2. CARTA DEL KURDISTAN

Allo scoppiare della guerra civile in Siria contro il tiranno Bashar Al Assad, la popolazione del Kurdistan siriano (Rojava) ha approfittato della difficoltà del governo di Damasco per attuare il sistema di democrazia diretta ecologista e femminista, noto come confederalismo democratico, proposto da Abdullah Öcalan, recluso in un carcere turco dal 1998. Frequentando la comunità curda è evidente il rispetto e la centralità di cui le donne godono, elementi che costituiscono una lezione di civiltà per l’Occidente tanto evoluto, dove centinaia di donne vengono assassinate ogni anno anche dentro le mura domestiche. Jin Jiyan Azadî (Donna Vita Libertà), recita uno dei principali slogan curdi.

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In Rojava sono nate le YPG, unità di difesa del popolo curdo, e le YPJ, milizie femminili. Ma il confederalismo democratico ha attirato l’ostilità degli islamici più intolleranti. La questione delle donne in particolare è stata molto rilevante: scardinare il patriarcato ha infastidito non solo la Turchia sunnita ma anche gli integralisti sciiti di Daesh, gruppo terroristico nato in seno alla guerra civile siriana ma con armi e finanziamenti occidentali.

Noto per la sua brutalità, Daesh ha attaccato il Rojava spingendosi fino al confine turco-siriano, il che ha portato le milizie curde sotto i riflettori di tutto il mondo durante i mesi dell’assedio di Kobane. Con l’appoggio solo formale della coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti, le YPG e le YPJ hanno cacciato Daesh da Kobane e ripreso la città da sole. Nel frattempo, Kobane era attaccata anche alle spalle, dal lato turco. Insieme alle Forze Democratiche Siriane, un esercito misto arabo-curdo, le milizie curde hanno lanciato l’offensiva che ha portato a liberare anche la città di Raqqa, ultima roccaforte di Daesh.

Sembrava che i sogni curdi stessero vincendo. E invece, violando a sorpresa il diritto internazionale, secondo il quale il Rojava è sotto la giurisdizione esclusiva di Damasco, Erdogan ha iniziato a bombardare il cantone di Afrin, dove avevano trovato rifugio migliaia di civili in fuga dalla guerra. L’ONU è intervenuta chiedendo un immediato cessate il fuoco ma il dittatore turco continua indisturbato la carneficina. La cosa più eclatante è che ad attaccare Afrin è non soltanto la Turchia da Nord-Ovest, ma anche da Sud-Est le bande jihadiste di Al Qaeda, Al Nusra e ciò che resta di Daesh. Un Paese della NATO è alleato dei gruppi terroristici che hanno costituito il pretesto per cui la NATO stessa ha dato inizio alle guerre in Medio Oriente.

In simili occasioni di gravi crisi internazionali la Chiesa è intervenuta a tutelare la pace ma stavolta il Papa ha stretto la mano al dittatore turco responsabile del genocidio in corso. Il Pontefice, di solito tanto attento ai casi di pedofilia, non ha criticato nemmeno la nuova legge turca che autorizza il matrimonio delle bambine a partire dai nove anni di età.

L’altra realtà che ha gravemente taciuto sui fatti di Afrin è l’Unione Europea, che ha firmato un accordo con Erdogan in base al quale la Turchia blocca i flussi migratori dal Medio Oriente verso l’Europa in cambio di sei miliardi di euro all’anno e del silenzio sulla questione curda: sotto la continua minaccia di rompere l’accordo e far affluire i profughi in Europa, Bruxelles e Strasburgo non possono ricordare al sultano il rispetto dei diritti umani. Lo Stato italiano in particolare, oltre a sostenere diplomaticamente la Turchia e a venderle armi, cerca di impedire ogni iniziativa di solidarietà con il popolo curdo: domenica scorsa un corteo spontaneo di poche decine di persone che tentavano di raggiungere l’ambasciata turca a volto scoperto e a mani nude è stato fermato dalla polizia, che ha ferito alla testa una giovane manifestante.

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Il 24 marzo a Roma è una giornata importante perché ricorre l’anniversario dell’eccidio nazista delle Fosse Ardeatine. La mattina un corteo cittadino ha attraversato la Garbatella, quartiere popolare dove abitavano numerosi partigiani, ed è giunto fino al luogo della strage.

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La comunità curda si è unita alla commemorazione portando l’attenzione sulla pulizia etnica in corso oggi in un Paese in cui, di nuovo come nell’Europa degli anni Quaranta, le opposizioni sono in carcere e un’intera etnia viene sterminata.

La sera ad Ararat si balla intorno al fuoco e vari gruppi musicali sia italiani che curdi intrattengono le persone presenti. L’aria è festosa e allegra, il Newroz è un momento importantissimo nella vita curda. Eppure una notizia recentissima crea nell’aria un’amarezza di fondo: dopo alcune settimane di cannonate turche e colpi di mortai jihadisti, Afrin è caduta. Tra un çay e l’altro ci si chiede cosa fare, come continuerà la resistenza.

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L’esercito turco ha mandato i superstiti di Daesh e le bande di Al Nusra (sorella siriana dell’araba Al Qaeda) in avanscoperta e solo dopo, fuggita quasi tutta la popolazione civile, i carri armati di Ankara sono entrati nella città. Fonti militari turche si vantano di aver annientato alcune migliaia di «terroristi», ovvero civili inermi, prevalentemente minori. Ora su Afrin sventola la bandiera turca con la mezzaluna al posto dei vessilli delle milizie popolari.

Difficile prevedere cosa accadrà da adesso in poi. Stando a quanto dichiarato dalle YPG, una cosa è chiara: la resistenza continua.

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Servizio fotografico realizzato a Roma, il 24 marzo 2018




Parità di genere e integrazione. Il ruolo del ricongiungimento familiare

Il ricongiungimento familiare, che negli ultimi anni costituisce la principale modalità d’ingresso nel nostro Paese, è un istituto pensato già a partire dalla legge n. 943/86 al fine di stabilizzare i flussi migratori. Ricongiungimento che assume però dinamiche e caratteristiche a volte inaspettate dallo stesso legislatore e quindi, pur contribuendo a stabilizzare i flussi, in alcuni casi può disarticolare la forma familiare precedentemente costruita.

La migrazione in coppia non è priva di cambiamenti, di tensioni, di ripercussioni sulle dinamiche relazionali, in quanto i coniugi sono chiamati ad assumere nuovi stili di vita, nuovi comportamenti, nuovi ruoli, comprese nuove modalità di socializzazione dei figli, nuovi rapporti con il Paese di approdo. La migrazione può accentuare la solidarietà di coppia così come può ridurla: la famiglia migrante si colloca in un sistema sociale in cui i ruoli e le relazioni non sono più quelli della tradizione ma si sono modificati o sono in fase di modificazione con il conseguente rischio di un processo di marginalizzazione e di conflitti a livello di coppia o intergenerazionale. Facendo parte di quell’oscillazione tra la società di accoglienza e quella di origine, il nucleo familiare diventa “di transizione”: la famiglia rischia di perdere le proprie radici, oppure, in un processo di acculturazione forzata potrebbe reciderle di netto. Al contrario, può capitare che non si adegui al nuovo contesto sociale, con le regole della società di arrivo.

Il ricongiungimento familiare della donna, può rappresentare una forma di emancipazione, in quanto la migrazione può aumentare il potere decisionale della stessa. Per molte costituisce un modo per affrancarsi e prendere le distanze da tradizioni non più accettabili. Il ricongiungimento è altresì desiderato perché rappresenta la possibilità di mettere in cantiere progetti che nel Paese di origine non sarebbero possibili. Infine, le donne possono essere chiamate a risolvere i problemi posti dall’articolazione della famiglia nel nuovo contesto: rapporti con il vicinato e altre culture, inserimento dei figli nella scuola, sollecitazioni dalle diverse strutture e istituzioni amministrative, sociali e sanitarie. La donna gioca un ruolo centrale anche per il recupero delle tradizioni del luogo d’origine ma soprattutto nell’aggiustamento delle posizioni di gestione della famiglia, quindi assunzione di nuovi ruoli, di nuove aspettative, anche perché il controllo sociale della famiglia d’origine si affievolisce a causa della distanza e perché ci si confronta con il Paese di accoglienza. La donna che si fa carico della cura dei figli ed è garante del suo patrimonio identitario–culturale, ma anche la donna che ha affrontato il processo migratorio da sola e si trova facilmente in una situazione di marginalizzazione, deve poter usufruire di un supporto da parte delle istituzioni. Così come la donna che ha vissuto separata dal compagno per molto tempo e si ritrova in difficoltà a ricongiungersi.
Discorso a parte quando il ricongiungimento fallisce o la donna si trova in condizioni di separazione o diventa vittima di episodi di maltrattamenti da parte del compagno. Ciò determina un problema opposto: la separazione dal ricongiungimento. Questa procedura in casi del genere dovrebbe essere automaticamente slegata dal legame familiare e diventare individuale. Ostacoli procedurali ed estrema burocratizzazione fanno sì che alcuni legami rimangano tali anche quando i fatti li smentiscono: le mogli vengono a trovarsi in situazioni di rischio perché prive di protezione.
Una questione relativamente recente è quella creata dal cosiddetto “ricongiungimento strumentale”, che pone le donne in una condizione di grande incertezza: le future spose contrattano il matrimonio con un partner anche sconosciuto al solo fine di mettersi nelle condizioni di migrare legalmente. Questa è la sola esigenza e giustifica la fragilità e i malintesi che ne derivano, con conseguenze di una sicura frattura. La programmazione dei flussi, la chiusura delle frontiere potenziano questo fenomeno che è legato esclusivamente alla possibilità di ingresso regolare.

Va ricordato inoltre che il ricongiungimento sancisce “il diritto a mantenere o a riacquistare l’unità familiare nei confronti dei familiari stranieri”, e, oltre che alla stabilizzazione dei flussi migratori, costituisce una svolta nel percorso delle famiglie stesse, che possono riscoprire al loro interno nuove risorse. Si assiste alla trasformazione dall’essere famiglia magrebina, cinese, peruviana in Italia alla famiglia magrebina, cinese, peruviana d’Italia in quanto la permanenza diventa stabile. Per consentire che questo avvenga devono instaurarsi nuovi rapporti con le istituzioni, canali di mediazione che offrano con più snellezza dialogo e accoglienza anche da un punto di vista psicologico oltre che linguistico e culturale.
Aumentare il potere decisionale delle donne ampliando le opportunità culturali contribuisce senz’altro alla diminuzione delle difficoltà psicologiche-relazionali, sia delle madri sia dei figli, nel contesto della società di accoglienza e per far ciò una conoscenza del diritto di famiglia effettuato nella realtà scolastica, quale può essere quella dei figli può essere di aiuto. Questo consentirebbe prima di tutto di superare le difficoltà linguistiche e di comprendere il nuovo contesto, individuando riferimenti, facilitando le condizioni di integrazione e contribuendo a diminuire le difficoltà di inserimento nel mondo scolastico di ragazze e ragazzi immigrati. Finora la carenza informativa e i servizi alle persone e del territorio non sono riusciti ad attrezzarsi per offrire le risorse adeguate alle persone propense a un inserimento stabile in Italia.

Una delle soluzioni potrebbe consistere nello svincolare il permesso di soggiorno dal ricongiungimento al marito o compagno in caso di separazione, divorzio, maltrattamenti in quanto lo status di residente non può dipendere da quello del coniuge o partner. In caso di divorzio o scioglimento della relazione, le donne devono acquisire un titolo autonomo di soggiorno, come previsto dall’articolo 59 della convenzione di Istanbul del 11-5-2011, ratificata dall’Italia con la legge del 27-6-2013 n 77, che trova però nel lasso di tempo trascorso dall’accertamento della problematica familiare al rilascio del nuovo permesso una norma di difficile attuazione.
Inoltre si dovrebbe proporre alle migranti una conoscenza del diritto di famiglia affinché si stabilisca una consapevolezza del ruolo di cittadine che costituisce la base per una migliore integrazione. Uno sforzo nel settore dell’istruzione diventa cruciale per preparare le donne immigrate e soprattutto le nuove generazioni a una partecipazione più effettiva nella società che le accoglie.

 

 




In Polonia il femminismo parte dai corpi delle donne

A partire dall’ottobre 2016, quando il governo polacco ha cercato di far passare una legge antiaborto poi respinta, il movimento femminista nazionale ha ripreso vigore ed è tornato a lottare per difendere l’autodeterminazione delle donne.

È difficile trovare informazioni attendibili e complete su quello che è oggi il femminismo polacco, che sta rivivendo proprio negli ultimi due anni un’imponente rinascita. Forse qualcuno dirà che è sbagliato parlare di “movimento femminista nazionale”. Ma c’è un dato di fatto: nell’ottobre 2016 tutti i giornali occidentali hanno riportato foto e testimonianze della Czarny Protest (“Proteste Nere”) organizzata dallo “Sciopero delle donne polacche”, raccontando di migliaia di donne che hanno manifestato per il diritto all’aborto, vestendosi di nero e affluendo nelle piazze e nelle strade.

FOTO 1. Czarny Protest

Cos’era successo? Il partito di maggioranza PiS (Diritto e Giustizia) aveva proposto una vera e propria legge antiaborto (che penalizzava ancor di più chi lo pratica e che riduceva le possibilità effettive di abortire), in un paese in cui questo diritto è già di per sé molto limitato.

Il disegno di legge allora proposto dal PiS è stato respinto, ma gli attacchi al corpo delle donne non si sono fermati. Al momento, infatti, un nuovo disegno di legge che limita il diritto di aborto è in discussione in Parlamento. Questa volta si vuole eliminare la clausola che permette alle donne di abortire in caso di malformazioni del feto.

Proprio per questo neanche le donne polacche si sono fermate e le “Proteste Nere”, lungi dall’essere una fiammata momentanea, hanno continuato a farsi sentire. Lo scorso gennaio, infatti, si è avuta una nuova giornata di manifestazioni – questa volta il “Mercoledì Nero” – da Varsavia a Cracovia, seppure più contenuta in termini numerici.

Al disegno di legge in discussione al governo, le donne hanno opposto i propri corpi nei giorni della protesta ma oppongono ogni giorno il loro impegno costante nella società e anche una fitta rete di associazioni che, pur non politicizzata, opera concretamente per aiutare le donne. Proprio due di queste organizzazioni sono state colpite da perquisizioni governative a ridosso del Mercoledì Nero: Women’s Rights Center e Baba, entrambe organizzazioni che aiutano le donne vittime di violenza domestica. Per molte le perquisizioni, fatte per via di un’indagine che coinvolge il precedente Ministro della Giustizia polacco, sono un chiaro segnale.

Cosa reclamano queste femministe dell’Est Europa? Queste donne vogliono prima di tutto qualcosa che non hanno dal 1993: la possibilità di decidere del proprio corpo, scegliendo liberamente l’interruzione di gravidanza.

Dal 1993, infatti, le donne polacche possono abortire solo in tre casi: se la gravidanza nasce da uno stupro, se la vita della donna è in pericolo e se il feto presenta malformazioni. A tutto questo si aggiungono le procedure complicate che portano le donne a poter effettivamente usufruire dei servizi sanitari per l’aborto: permessi, dichiarazioni di medici, burocrazia che spesso rallenta il processo facendo superare quella 24esima settimana oltre cui non si può abortire.

Al di fuori di queste tre motivazioni, la possibilità di abortire non è contemplata dallo Stato. E così le più fortunate – quelle che ne hanno la possibilità economica – vanno ad abortire in qualche altro paese, mentre la fascia economicamente più debole si arrangia diversamente, praticando metodi rischiosi.

Una situazione, quella della Polonia, che è cambiata radicalmente dopo la caduta dell’Unione Sovietica e che però non è andata incontro a quella democrazia liberale tanto sognata. La Polonia post-sovietica si è invece trasformata in una gabbia per le donne, che, per ottenere la democrazia, hanno subito il “compromesso” con la Chiesa direttamente sui propri corpi.

Oggi queste donne vogliono l’aborto garantito dallo Stato, ma anche la fine di una cultura discriminatoria e maschilista: basta discriminazioni di genere, sia che avvengano sul posto di lavoro, in politica ma anche semplicemente in famiglia.

Vogliono una politica che tuteli le donne e il loro corpo. Vogliono una politica fatta da donne. Così aveva tentato di fare anche il “Partito delle Donne” fondato nel 2007 da Manuela Gretkowska, che ambiva a rappresentare le donne in parlamento e a sviluppare alcuni punti importanti: autodeterminazione, educazione sessuale, parità dei salari e fine del divario della retribuzione di genere. Un partito che però non ha fatto della lotta sulle strade la sua missione e che non troviamo nella rete della “Czarny Protest”.

Le donne polacche in sciopero sono anche profondamente antifasciste e fanno dell’antifascismo una, anzi, la linea guida. Contro tutti i rigurgiti fascisti che il paese sta sperimentando, partendo dalla marcia nazionalista dell’11 novembre al grido di “Polonia bianca” fino ai tentativi (falliti) del potere di portare tribunali e giudici sotto l’ala del governo.

FOTO 2. Marta Lempart

E allora, un movimento femminista nazionale polacco esiste. Ed è fatto dagli scioperi delle donne, da Marta Lempart, promotrice di questa coalizione, dalle quattro donne ferite a Varsavia e Cracovia in occasione delle proteste, dalle altre 12 aggredite e dalle quarantacinque fermate preventivamente dalla polizia in occasione delle ultime manifestazioni. È fatto dai centri antiviolenza che stentano a sopravvivere, dalle intellettuali, dai picchetti di fronte al Parlamento. È fatto da tutte le adolescenti che hanno deciso di indossare una maglietta nera quando era richiesto. E che magari, in futuro, saranno pronte a fare altro, perché hanno capito che la società non è libera quando anche una sola donna è oppressa.




Donne e pace: Bernice King a Monteleone di Puglia

“Questa parte istituzionale era importante perché siamo riusciti a portare un pezzo di Storia qui!” queste le appassionate parole del Sindaco Giovanni Campese nel salone del palazzo municipale quando sabato 11 marzo alle 10 circa Bernice Albertine King è arrivata a Monteleone di “Pughlia”, come poi avrebbe detto lei salutandoci, il comune che con molte Istituzioni scolastiche, locali e viciniori, ha avviato da ben tre anni un percorso, probabilmente unico in Italia, di educazione alla Pace e alla Nonviolenza.

Nell’attesa che Bernice King arrivasse nella tensostruttura che ospitava numerose e vivaci scolaresche, ci sono stati due importanti interventi: quello della presidente del Centro Studi Sereno Regis, Angela Dogliotti Marasso, che con incisiva brevità ha scandito le tappe fondamentali del pacifismo femminile partendo da Bertha von Suttner passando per Rosa Genoni fino a Leymah Gbowe e, appunto, Bernice King senza tralasciare naturalmente i vari movimenti e gruppi di donne che hanno fatto la storia della nonviolenza come le “Monteleonesse”, che nel 1942 lottarono contro il fascismo per il pane e la pace e da cui nasce tutto il percorso di riscoperta valorizzazione e ricerca avviato da questo piccolissimo comune montano pugliese. Di seguito l’intervento  della prof. dell’Università di Bari, Gabriella Falcicchio, che ha presentato con passione gli studi sul periodo perinatale e sulla “buona nascita”, sulle lotte nazionali e internazionali delle donne contro la violenza ostetrica, sulle dinamiche di genere, in rapporto alla formazione delle bambine e delle ragazze.

FOTO 1

Giunta l’attesissima King, il ritmo è diventato incalzante anche per la stessa presentatrice Rossella Brescia e davvero tanto commovente: studenti di tutte le età che le declamavano poesie in inglese, che cantavano “We shall overcome” e “Ebony and Ivory”, che danzavano con l’arcobaleno della bandiera della Pace; interventi calorosi come quello del prof. Rocco del Centro “Gandhi” di Pisa Altieri sulla necessità di eliminare le spese belliche a favore dell’istruzione perché l’alternativa è la nonviolenza alla non esistenza, ricordi ferventi delle battaglie di suo padre Martin Luther, ringraziamenti e riconoscimenti da parte delle rappresentanze varie di Amministrazioni, Provincia e Università ma non della Regione. Inoltre, come ricordato anche dal Ministro Plenipotenziario del CIDU (Comitato Interministeriale per i Diritti Umani), Fabrizio Petri, l’evento è stato particolarmente importante perché ricorre la celebrazione del 70° Anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, per la quale il Comitato Interministeriale per i Diritti Umani ha in programma di organizzare eventi in occasione di varie date significative delle Nazioni Unite nel corso del 2018.

FOTO 2

Confusione e concitazione, avrei saputo dopo, hanno fatto saltare un po’ la scaletta e alcuni interventi come quello di Marinetta Cannito Hiort dell’Institute of Peace (Washington DC), in primo piano nell’organizzare l’evento, lasciato frettolosamente alla fine di tutto. Ma quando ha preso la parola Bernice la forza e l’impeto delle sue parole, un po’ tradite da una emozionata traduzione, ci hanno proiettato in un futuro denso di passato: “Mia madre Coretta diceva “Donne, se l’anima della Nazione deve essere salvata voi dovete diventare la sua anima!” e poi citando il padre “Abbiamo ancora una scelta oggi: la coesistenza nonviolenta o violento co-annichilimento.” Ringraziando per il premio, ci ha invitato a continuare la lotta, così come farà lei per il resto della sua vita perché crede che l’unica via è la nonviolenza e “God bless you!”.

 

 




KENYA – Umoja, il villaggio matriarcale delle donne fuggite dalla violenza

Nel centro-nord del Kenya esiste un villaggio fatto di sole donne, Umoja. Fondato nel 1990, è interamente gestito e sostenuto dalle donne che lo abitano con i loro figli, donne fuggite da violenze e cultura maschilista.

Cosa può nascere da colonizzazione, mutilazione genitale femminile e una cultura tradizionalista che discrimina le donne? Nessuno risponderebbe “un posto felice”. E invece questo è quello che è successo in Kenya, dove questi tre fattori diversi eppure ugualmente distruttivi hanno dato vita ad Umoja, un villaggio fatto di sole donne.

Umoja si trova nel centro-nord del Kenya, nella regione Samburu, e viene definito un villaggio “matriarcale”. È stato fondato nel 1990 da Rebecca Lolosoli e da altre donne keniote per accogliere tutte coloro che decidevano di scappare dalle violenze – o dei mariti o dei soldati inglesi o semplicemente della società patriarcale dei Samburu – e vivere un’altra vita. Infatti, solo le donne – e i bambini che sono nati e cresciuti lì – possono vivere ad Umoja. Gli uomini non sono ammessi, ma se accettano le regole di questa nuova società possono trascorrere del tempo nel villaggio.

Il villaggio nasce quindi prima di tutto come rifugio dalla violenza e accoglie 15 donne in cerca di un riparo. La stessa Rebecca Lolosoli ha subito aggressioni da parte di suo marito e di altri uomini soltanto per aver parlato con le altre donne del suo villaggio dei diritti per cui devono lottare. Una delle tante violenze che, però, questa volta la manda all’ospedale ed è decisiva nel farle intraprendere una nuova strada. Così anche le altre donne che sono con lei sono state picchiate, aggredite, violentate.

Dal 1990 il villaggio cresce, ora ha quasi trent’anni di vita e conta circa 50 donne e 200 bambini. Donne, ragazze e bambine continuano a scappare e ad andare ad Umoja, dove solitamente restano per lunghi anni se non per sempre. L’ostilità degli uomini – che si dicono contrari ad un’esperienza del genere perché “le donne devono necessariamente essere controllate dagli uomini” – non ha potuto fermare la sperimentazione di questa nuova società al femminile.

Ancora molte donne arrivano oggi ad Umoja. Le mutilazioni dei genitali femminili e i matrimoni precoci, infatti, sono all’ordine del giorno nella cultura Samburu. Nel primo caso si tratta di una pratica portata avanti da anni e mai contrastata: fra i Samburu una donna che non ha subito la mutilazione non può essere presa in sposa ed è naturale praticare la MGF sulle figlie femmine. Anche i matrimoni precoci, inoltre, sono molto diffusi: circa il 23% delle ragazze in Kenya sposa prima dei 18 anni, percentuale che nelle campagne sale al 29%. Percepite come un peso dalle rispettive famiglie, vengono quasi immediatamente “date” in matrimonio e costrette ad avere figli quando sono ancora molto giovani, con tutti i danni emotivi che ciò comporta.

Tutto questo si sorregge su una cultura fortemente maschilista e patriarcale. Gli uomini Samburu, infatti, credono che le donne non possano gestirsi da sole, ma che debbano necessariamente essere guidate e controllate; che le donne senza gli uomini non sappiano provvedere alla propria sicurezza; che le donne siano in tutto e per tutto proprietà (magari silenti) degli uomini. Ciò di cui non si rendono conto gli uomini Samburu, però, è che loro stessi rappresentano il pericolo per le loro donne e che da loro stessi queste donne stanno fuggendo.

Le donne di Umoja hanno dimostrato il contrario. Non solo sono fuggite dalle violenze, in un certo senso guarendo dal male che avevano subito, ma hanno saputo anche costruire una comunità duratura in cui è possibile vivere insieme, fra donne che si autogovernano. Ogni donna è uguale all’altra, non c’è un capo politico, ma solo una portavoce (incarnato nella figura di Rebecca Lolosoli). Le decisioni vengono prese tutte assieme attorno all’ “albero della parola” e ogni donna dona il 10% di ciò che guadagna per la comunità. Vivono con poco, vendendo collane di perle e manufatti tradizionali, ma riuscendo tuttavia a mandare avanti un’intera comunità, sostenendosi a vicenda.

Nel tempo queste donne sono state anche in grado di costruire una scuola e un asilo nido, che accolgono non soltanto bambini di Umoja ma anche quelli dei villaggi vicini, e che svolgono un importante compito educativo.

Tutte le donne che vengono accolte nel villaggio imparano che le violenze subite sono frutto di una cultura, che però può essere cambiata, sradicata, proprio partendo da lì, dalla loro esperienza. Un’esperienza che parla di donne prima di tutto libere. Libere di scegliere.

Nonostante gli uomini non siano ammessi, infatti, ciò non significa che le donne del villaggio ripudino il genere maschile nella sua interezza, al contrario. Le donne di Umoja decidono di avere rapporti e intessere relazioni con gli uomini dei villaggi vicini. A volte hanno anche dei figli, che spesso poi crescono con loro nel villaggio e quindi al di fuori del matrimonio. Una condizione che in molte altre città della zona sarebbe stata inaccettabile.

Ci sono anche alcuni uomini che frequentano il villaggio e ne accettano le regole: hanno imparato che il rapporto uomo-donna deve crescere in condizioni di parità e senza violenza. Esiste quindi la possibilità del cambiamento, non solo per le donne ma anche per gli uomini. Un cambiamento molto lento, ma che parte dal basso e dal vissuto delle protagoniste di questa storia. Un cambiamento che pochi passi alla volta sta funzionando ed è positivamente contagioso.