EUROPA – Agenzia Ue Ambiente: “467.000 morti l’anno per inquinamento”

Votata a Strasburgo la direttiva che introduce nuovi limiti alle emissioni inquinanti per il periodo 2020-2030. Lo studio presenta una panoramica aggiornata e l’analisi della qualità dell’aria in Europa per il periodo 2000-2014 sulla base di dati provenienti da stazioni di monitoraggio ufficiali, tra cui più di 400 città in tutta Europa. Risulta che nel 2014 circa l’85% della popolazione urbana nell’UE è stata esposta a particolato fine (PM2.5) a livelli ritenuti dannosi per la salute dalla Organizzazione Mondiale della Sanità. Nonostante la qualità dell’aria in Europa stia migliorando, l’inquinamento atmosferico resta il principale fattore ambientale di rischio per la salute umana, abbassa la qualità della vita ed è la causa stimata di 467mila morti premature l’anno in tutto il continente. Sono i dati del Rapporto “Qualità dell’aria in Europa 2016” pubblicato stamattina dall’Agenzia europea per l’ambiente (Eea).

“E’ chiaro che i governi locali e regionali svolgono un ruolo centrale nella ricerca di soluzioni” al problema, ha commentato il commissario europeo all’ambiente Karmenu Vella, auspicando per oggi un voto positivo del Parlamento europeo sui nuovi tetti alle emissioni inquinanti (Nec). Il commissario ha accennato alla necessità di “aiutare i diversi livelli di governo a lavorare meglio insieme” alludendo al fatto che a volte le istituzioni locali hanno strategie più ambiziose dei governi in tema di riduzione delle emissioni.

Imporre limiti più bassi ai principali inquinanti per abbassarne entro il 2030 la quantità nell’atmosfera sotto i livelli del 2005 è l’obiettivo di una direttiva approvata dal Parlamento europeo in seduta plenaria per ridurre l’impatto dell’inquinamento atmosferico sulla salute di circa il 50%. Le particelle incriminate vanno dal biossido di zolfo, causa delle piogge acide, al particolato che può causare malattie respiratorie e cardiovascolari. Nella normativa, approvata con 499 voti a favore, 177 contrari e 28 astensioni, si stabiliscono i nuovi limiti nazionali per ridurre le emissioni di biossido di zolfo (SO2), ossidi di azoto (NOx), composti organici volatili non metanici (COVNM), ammoniaca (NH3) e particolato fine (inferiore a un diametro di 2,5 micrometri). I tetti erano gia’ stati concordati informalmente con la Presidenza del Consiglio dei Ministri Ue.




FRANCIA – Tre giorni di lutto nazionale per la strage di Nizza

Terrore e strage a Nizza, durante la festa del 14 luglio. Un camion a 80 km all’ora ha falciato la folla: 84 morti, molti bambini e adolescenti. E il bilancio potrebbe salire ulteriormente. Il procuratore, Francois Molins, ha riferito di 202 persone ferite, 52 in condizioni gravissime e 25 in rianimazione.

Anche tra i feriti tanti bambini, diversi di loro lottano tra la vita e la morte. Due sono deceduti questa mattina dopo un intervento chirurgico. Molti italiani risultano ancora dispersi. La Farnesina è al lavoro. Identificato l’attentatore, che è stato ucciso: Mohamed Lahouaiej Bouhlel, un franco-tunisino di 31 anni. Era depresso per il divorzio. Noto alla polizia per violenze e uso di armi, era stato in libertà vigilata, ma non risultano legami con il terrorismo. Secondo fonti tunisine invece l’attentatore sarebbe un tunisino emigrato con il padre estremista islamico. Media francesi riferiscono che sarebbe stata fermata la moglie e che nella casa del killer non sono state trovate né armi né esplosivi . Sempre secondo i media francesi il killer avrebbe beffato i servizi di sicurezza della Promenade des Anglais fingendosi un fornitore di gelati.

Gravissimo un italiano. Andrea Avagnina, 53 anni, consigliere comunale di S. Michele di Mondovì (Cuneo), uno degli italiani coinvolti  che mancano all’appello, è stato trovato dai familiari e ricoverato all’ospedale Pasteur di Nizza. Non si hanno ancora notizie, invece, della moglie, Marinella Ravotti, 55 anni, dipendente dell’Asl. La coppia era in vacanza dall’inizio della settimana nella ‘capitale’ della Costa Azzurra, dove è proprietaria di una casa.

La prima vittima dell’attentato terroristico è una donna musulmana, Fatima Charrihi, madre di sette figli. Lo riporta l’Express citando il figlio della donna che la definisce “una vera musulmana”. “Indossava il velo, praticava l’islam vero, non quello dei terroristi”, ha raccontato. L’Express pubblica anche la foto del permesso di soggiorno della famiglia. Secondo il figlio la donna è la prima vittima perche’ “prima di lei non c’erano altri cadaveri”.

C’è anche un bambino svizzero tra le vittime, oltre a una ticinese 54enne. Lo riferisce un comunicato delle autorità elvetiche citato dall’agenzia di stampa svizzera Ats.

L’attentato di Nizza, “anche se non è stato ancora rivendicato, corrisponde esattamente agli appelli di omicidio delle organizzazioni terroristiche islamiche diffusi sulle loro riviste” e sui media, ha detto il procuratore Francois Molins.




ISTANBUL – I Falchi del Kurdistan rivendicano l’attentato

Un gruppo radicale vicino ai ribelli del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), i Falchi per la libertà del Kurdistan (Tak), hanno rivendicato l’attentato con autobomba che ha fatto 11 morti, sette poliziotti e quattro civili, martedì nella zona turistica di Istanbul.

“La mattina del 7 giugno abbiamo portato un attacco contro la polizia anti-sommossa per vendicare la sporca guerra condotta in Kurdistan” dalle forze turche, ha precisato il gruppo in un comunicato pubblicato sul sito internet in cui ha messo in guardia anche i turisti stranieri da altri possibili attacchi e li ha invitati a non visitare la Turchia.




FRANCIA – Scontri violenti per la Riforma del lavoro: 124 fermi e 28 poliziotti feriti

Un bollettino da guerra civile. Al termine della quarta giornata di mobilitazione contro la riforma del codice del Lavoro in Francia, la polizia ha dovuto procedere a 124 fermi tra casseurs e facinorosi che si sono introdotti nei cortei pacifici per seminare violenze e disordini. Ventotto sono invece gli agenti feriti di cui tre in condizioni gravi: è quanto ha riferito il ministro dell’Interno, Bernard Cazeneuve.




BRUXELLES – L’Austria appoggia il Migration compact, il piano italiano per la gestione dei migranti

“Rafforzeremo il controllo dei flussi verso il Brennero, ma abbiamo ribadito il no al controllo austriaco in territorio italiano – ha dichiarato Alfano -. Il ministro Sobotka ci ha detto che nessun muro sarà edificato. Ci sono delle attività preparatorie, ma dimostreremo che quelli dell’Austria sono soldi sprecati e l’Italia non si fa spaventare da un gabbiotto. L’accordo di polizia tra Italia e Austria firmato nel 2014 sarà ratificato dal Parlamento e questo rafforzerà la cooperazione. In più stabiliremo un contatto quotidiano tra il prefetto Pinto e un uomo della polizia austriaca in modo che non nascano più equivoci sui numeri dei transiti”.

“Noi dobbiamo evitare – ha sottolineato ancora il titolare del Viminale – che ci sia un transito, da parte austriaca essere ragionevoli per evitare un blocco che farebbe un enorme danno al turismo di entrambi i Paesi, all’import-export e al transito per ragioni di lavoro”. In ogni caso, spiega Alfano, “non prevediamo il rischio di grandi afflussi di migranti alla barriera del Brennero. Questo non sulla base di una teoria astratta, ma sui numeri: ad oggi infatti sono 2722 i migranti da noi fermati in Italia provenienti dall’Austria e questo numero è superiore a quelli che hanno fatto il tragitto inverso”.

Le parole di Alfano sciolgono la tensione tra Roma e Vienna, giunta al livello di guardia negli ultimi giorni. Ma quel “finora”, e lo fa capire anche il ministro, mantiene la questione sospesa in attesa della prova dei fatti, perché 24 ore prima il Parlamento austriaco ha votato un pacchetto anti-immigrazione che comprende norme più restrittive sulle richieste di asilo e la concreta possibilità di erigere una recinzione al confine con l’Italia. Anche Vienna prova a smorzare i toni: “L’Austria non fa nulla contro il diritto europeo. Rispetta la convenzione di Ginevra e ha appena varato una legge sull’asilo. Ci muoviamo sempre in base al diritto europeo e ci auguriamo che lo stesso facciano tutti, vogliamo la solidarietà di tutti”, dice il ministro dell’Interno austriaco Wolfang Sobotka

Decisioni che preoccupano Bruxelles, dove la portavoce della Commissione, Mina Andreeva, annuncia in merito l’incontro tra Jean-Claude Juncker e Mattero Renzi il 5 maggio a Roma.”La Commissione europea segue tutti gli sviluppi in Europa che vanno contro la tabella di marcia per tornare” al normale funzionamento della libera circolazione nelllo spazio comunitario sancita dal trattato di Schengen e, in riferimento al progetto austriaco di una barriera al Brennero, “con grave preoccupazione. La Commissione valuterà qualsiasi misura decisa o annunciata dal governo austriaco secondo i criteri di necessità e proporzionalità”.

Renzi, che ieri ha definito la possibilità di una barriera austriaca al Brennero “sfacciatamente contro le regole europee, oltre che contro la storia, contro la logica e contro il futuro”, ha ribadito il punto nel corso della diretta video sui social #matteorisponde: “Mentre noi abbattiamo i muri con la banda larga, altri costruiscono muri e chiudono confini, una cosa fuori dal senso della storia, slegata da ogni realtà”.

Anche papa Francesco segue evidentemente con attenzione la vicenda. Dell’importanza di assistere i rifugiati e del ripristino della frontiera al Brennero il Pontefice ha parlato durante una conversazione con il vescovo di Bolzano-Bressanone, monsignor Ivo Muser, avvenuta ieri al termine dell’udienza generale. Il Papa, spiega una nota della diocesi di Bolzano, ha sottolineato l’urgenza di aiutare le persone in fuga. Contro la barriera al confine con l’Italia muove anche la Conferenza episcopale austriaca: “Non può essere
in alcun modo la soluzione, servono decisioni coordinate a livello europeo, che tutelino la dignità delle persone – dichiara il portavoce Paul Wuthe -. La risposta deve essere la pace in Siria e in Libia, il sostegno agli interventi umanitari internazionali in quei Paesi e nelle regioni limitrofe e infine un coordinamento politico europeo all’insegna dell’accoglienza”.

Di particolare rilievo, perché pronunciato proprio davanti al Parlamento austriaco, il duro discorso del segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon contro le “politiche sull’immigrazione e i rifugiati sempre più restrittive” adottate dai Paesi europei. “Un messaggio molto negativo sugli obblighi degli Stati membri previsti dalla legislazione internazionale e dal diritto europeo. Sono allarmato dalla crescente xenofobia qui e altrove”.

All’indirizzo del governo nuove critiche dalla Lega. Il governatore lombardo Roberto Maroni giustifica le mosse di Vienna: “L’Austria fa quello che i Paesi normali fanno: controlla i suoi confini. Siamo noi a meravigliarci e stupirci, ma Vienna fa solo quello che serve ai suoi cittadini”. Commentando i risultati del recente voto austriaco per le presidenziali, in cui al primo turno ha trionfato la destra anti-migranti, Maroni osserva come “i partiti tradizionali che, come avviene in Italia, dicono che certe cose non vanno fatte, sono stati esclusi dal ballottaggio delle presidenziali. Si è aperto un altro mondo. Non capirlo vuol dire non capire cosa sta succedendo. Invece di protestare, il nostro Governo dovrebbe bloccare i flussi. Altrimenti questi muri sorgeranno spontaneamente, non c’è il minimo dubbio”.

Mentre il senatore Roberto Calderoli attacca direttamente Renzi, un “ignorante, perché ignora quanto previsto dal codice sulle frontiere di Schengen”. “Vada a rivedersi il capo II, in particolare l’articolo 26 – è l’invito del vicepresidente del Senato -, dove si specifica che in circostanze eccezionali in cui il funzionamento globale dello spazio senza controllo alle frontiere interne è messo a rischio, a seguito di carenze gravi e persistenti nel controllo alle frontiere esterne, e nella misura in cui tali circostanze costituiscono una minaccia grave per l’ordine pubblico o la sicurezza interna” il controllo di frontiera “può essere ripristinato per una durata massima di sei mesi e prorogato non più di tre volte, per ulteriori sei mesi al massimo, se le circostanze eccezionali perdurano”. “Non è quindi colpa dell’Austria quanto sta accadendo al Brennero, ma dell’Italia – accusa Calderoli -, ovvero del governo Renzi, e prima ancora dei due precedenti esecutivi pure loro mai eletti dai cittadini: è il governo Renzi che non ha attuato i controlli alle frontiere interne previsti dal codice Schengen”.




USA – E’ polemica sulle trivelle in mare

Mentre il governo italiano toglie la data di scadenza alle concessioni entro le 12 miglia, gli USA riducono il campo d’azione delle trivelle in mare.

Anche negli Stati Uniti infuria la polemica politica sulle trivelle e le estrazioni di idrocarburi in mare. Mentre l’Italia non cancella il regalo del governo Renzi alle concessioni petrolifere entro le 12 miglia, l’amministrazione Obama ha varato  le nuove regole per le perforazioni al largo delle coste USA. La motivazione è semplice: evitare un nuovo disastro ambientale come quello causato dall’esplosione, nel 2010, della piattaforma Deepwater Horizon della BP.
Le nuove norme, secondo l’industria petrolifera, avranno impatti per 31,8 miliardi di dollari sul settore, mettendo in pericolo 50 mila posti di lavoro. Il Dipartimento degli Interni, che ha deciso di rendere obbligatori gli standard, stima i costi di adeguamento degli impianti in meno di 1 miliardo e ha insistito sul fatto che la produzione di petrolio nel Golfo del Messico «è una componente fondamentale del portafoglio energetico della nostra nazione». In realtà, rappresenta il 16% della produzione totale di petrolio degli Stati Uniti e il 5% della loro produzione di gas naturale domestico.

I regolamenti varati dall’amministrazione USA, sostanzialmente, aumentano il monitoraggio dei pozzi e il controllo e manutenzione delle piattaforme. In particolare, i nuovi e più stringenti standard vengono applicati al blowout preventer, dispositivo utilizzato durante la perforazione di un pozzo che ha il compito di metterlo in sicurezza nel caso i fluidi dovessero accidentalmente migrare all’esterno.
L’industria ha avvertito che quasi i due terzi dei pozzi perforati nel Golfo del Messico dal 2010 non soddisfano i nuovi standard. Ma dovranno adeguarsi: nessuno ha voglia di vedere un altro cataclisma nelle acque dell’Atlantico. Secondo una nuova analisi dell’impatto di quel disastro, prodotta dalla ONG Oceana, fino a 800 mila uccelli marini e un gran numero di delfini e balene sarebbero morti a causa della fuoriuscita del petrolio. Molti altri hanno sofferto di problemi riproduttivi per anni, e una superficie corallina delle dimensioni di Manhattan è stata danneggiata.
Oceana dichiara che «l’apertura di nuove aree di perforazione in mare aperto comporta rischi inaccettabili. Non dovremmo espandere la perforazione nelle acque statunitensi o utilizzare tecnologie devastanti come l’airgun, che può compromettere la vita marina».




UK – Obama: “L’accordo tra Ue e Usa porterà miliardi alle nostre economie e farà da modello per il resto del mondo”

Il Regno Unito deve rimanere nella Ue non solo per ragioni economiche ma anche per permettere di combattere “più efficacemente” il terrorismo. Lo ha detto Barack Obama, a Londra con la moglie Michelle, dalle colonne del Daily Telegraph che oggi pubblica un suo messaggio all’alleato britannico. Parole nette, al di là di ogni diplomazia: con il presidente americano che oltre ai vantaggi economici del legame di Londra con Bruxelles, sottolinea l’interesse degli Stati Uniti che guardano con apprensione al referendum britannico sulla Brexit del prossimo 23 giugno, per decidere se restare o meno in Europa. Concetti poi ripetuti parlando a Londra durante la conferenza stampa congiunta con il primo ministro del Regno Unito, David Cameron e che hanno scatenato la dura reazione del sindaco di Londra che è arrivato a definire il presidente “un mezzo keniano”. Un attacco evidentemente non condiviso dal premier Cameron che ha definito Obama “un uomo che dà saggi consigli ed un grande amico del Regno Unito”.

All’intervento di Barack Obama sul Daily Telegraph, il sindaco Johnson ha risposto con un articolo sul Sun. Dove non solo definisce l’appello del presidente americano “incoerente, inconsistente e assolutamente ipocrita” aggiungendo che “gli Stati Uniti chiedono alla Gran Bretagna di restare nell’Ue ma non cederebbero mai il controllo di così tanta parte della loro democrazia come ha fatto il Regno Unito con Bruxelles”. Ma si appropria anche del celebre slogan elettorale di Obama “Yes we can”, piegandolo alla campagna referendaria degli euroscettici per dire che la Gran Bretagna “può riprendersi il controllo dei suoi confini, del suo denaro e del suo sistema di governo”.
Ma la polemica non finisce qui: nell’articolo sul Sun Johnson ricorda infatti un episodio, secondo cui Obama avrebbe fatto rimuovere dallo Studio Ovale un busto del celebre premier inglese Winston Churchill. Per il sindaco di Londra “l’esempio dell’avversione ancestrale del presidente mezzo keniano per l’impero britannico, di cui Churchill fu uno dei più ferventi difensori”. Peccato che l’episodio citato sia in realtà falso: la decisione di rimuovere il busto fu presa, in realtà, dal predecessore di Obama, George W. Bush, e certo non per motivi politici.

“Adoro Winston Churchill, un suo busto è appena fuori il mio ufficio”, è stata la risposta di Obama.

La gaffe di Johnson fa insorge il Labour che le definisce parole “offensive e razziste”. Prende le distanze anche il premier David Cameron, in una conferenza stampa a Londra con il presidente Usa, senza citare esplicitamente la Brexit e le affermazioni del sindaco di Londra: Barack Obama “è un uomo che dà saggi consigli ed è un grande amico”, ha detto. Per Cameron la Gran Bretagna resterà un forte alleato degli Stati uniti e dell’Europa. Il premier ha comunque fatto riferimento all’accordo di libero scambio tra Ue e Usa: “Porterà miliardi alle nostre economie e sarà da modello per il resto del mondo”, ha detto il premier riguardo all’intesa da cui il Regno Unito rischia di essere escluso qualora decidesse di uscire dall’Unione Europea al referendum in programma a giugno.

“Legittime le opinioni di leader stranieri”. Il premier britannico ha spiegato che la presenza o meno della Gran Bretagna nell’Ue ha conseguenze anche sugli altri Paesi europei e “su partner come gli Usa”, per questo le opinioni di leader stranieri sul referendum del 23 giugno (“che non è un’elezione politica”) sono legittime. Poi, semplificando, Cameron ha ricordato il ruolo avuto dal suo Paese per garantire, d’intesa con Washington, l’imposizione recente di sanzioni contro Mosca per quella che ha definito “l’aggressione della Russia” in Ucraina e ha aggiunto di non essere “sicuro” che tali sanzioni sarebbero state imposte e mantenute nello stesso modo se il Regno Unito fosse stato fuori dal Club dei 28.

Obama ribadisce: “No alla Brexit”. Durante la conferenza stampa, il presidente americano ha sottolineato che decidere se restare o meno nell’Unione Europea è una questione che riguarda i cittadini britannici, ciò premesso ha ribadito la sua contrarietà alla Brexit e ha rimarcato il vantaggio politico ed economico, anche per gli Stati Uniti, di una permanenza del Regno Unito nel Club dei 28: gli Usa “vogliono che l’influenza britannica cresca, anche nella Ue”, ha detto il presidente americano sottolineando di aver “parlato onestamente” al riguardo: “Il risultato del referendum è di grande interesse per gli Stati Uniti. Perché gli Stati Uniti vogliono un Regno Unito forte e il Regno Unito dà il suo meglio quando è all’interno di un’Europa forte. E questo avviene facendo parte dell’Unione europea”.

“Benefici se Londra nella Ue”. Secondo il presidente Usa “l’Unione europea amplifica i valori britannici, il mercato unico porta benefici al Regno Unito e per gli Usa è meglio quando uno dei suoi più forti alleati ha un’economia in crescita. Gli americani vogliono vederla crescere anche dentro l’Europa. Nel mondo di oggi servono azioni collettive. Gli Usa riconoscono che si rafforza la sicurezza e la prosperità con la Nato, col G20. E il Regno Unito si rafforza attraverso l’Unione europea”. Oggi, ha sottolineato Obama, “non sono le nazioni che fanno da sole a far sentire la loro voce ma quelle che fanno squadra. Vogliamo fare in modo che l’influenza della Gran Bretagna venga ascoltata perché quando il Regno Unito è coinvolto in un problema riesce ad affrontarlo e risolverlo nel modo giusto”.

“In Libia abbiamo l’opportunità di sostenere un nuovo governo” e di contrastare l’infiltrazione “degli estremisti” dell’Isis, ha detto Obama. “Non ci sono piani per l’invio di truppe di terra in Libia” ha chiarito il presidente degli Stati Uniti. “Non credo che sia necessario. Non credo” che i soldati “sarebbero i benvenuti”. L’invio dei soldati “manderebbe il segnale sbagliato”, ha aggiunto Obama sottolineando la sintonia e gli sforzi comuni di Usa e Gran Bretagna anche su altri dossier mediorientali, a cominciare dalla Siria. A questo proposito Obama non ha nascosto di essere “gravemente preoccupato” per la tenuta della tregua e di essere “scettico” sulle intenzioni del presidente russo Vladimir Putin, indicato come uno dei maggiori sostenitori del “regime assassino” di Bashar al-Assad. Ma allo stesso tempo ha sottolineato che una riduzione della violenza c’è stata nel Paese dopo gli accordi di cessate il fuoco e che la crisi siriana non può essere risolta senza un negoziato politico che coinvolga anche interlocutori “con i quali non siamo d’accordo” su diversi punti.

Durante il vertice i due leader hanno anche parlato della questione migranti: una sfida, a livello europeo e internazionale, da affrontare valutando la possibilità di un impiego della Nato anche nel “Mediterraneo centrale”, vale a dire a largo della Libia. Ma della questione migranti e di come colpire i trafficanti di persone “si parlerà meglio nel summit di lunedì ad Hannover con Francia, Germania e Italia”, ha aggiunto Cameron.

“La regina è un gioiello”. Inevitabile, poi, un riferimento a Elisabetta II: “La vostra regina è stata una fonte di ispirazione per me come lo è per tanta gente nel mondo. È una delle mie persone preferite. È sbalorditiva e fantastica. È un gioiello per il mondo intero e non solo per il Regno Unito”.

Sabato, ultimo giorno della sua visita nel Regno Unito prima di partire per la Germania dove incontrerà Angela Merkel, Obama parteciperà a una riunione municipale con giovani londinesi dove si parlerà proprio dei rapporti tra Stati Uniti e Gran Bretagna. Il vice consigliere per la sicurezza nazionale Ben Rhodes ha riferito che durante la riunione di sabato Obama potrebbe ancora una volta esprimere il suo punto di vista su “Brexit”.




UK – Britain exit? Perchè il referendum

Tra due mesi si terrà nel Regno Unito un importante referendum per decidere se il paese debba rimanere nell’Unione Europea o lasciarla, tema che è stato chiamato “Brexit” (“Britain exit”): e questo nome sarà sempre più presente nelle cronache e nei dibattiti da qui ad allora. La votazione, che si terrà giovedì 23 giugno, è molto attesa perché potrebbe condizionare non solo il futuro del Regno Unito ma anche quello dell’intera Unione e i suoi rapporti diplomatici internazionali. Da mesi comitati e partiti britannici fanno campagna a favore o contro l’uscita dall’UE ed è previsto che nelle prossime settimane il confronto si faccia più intenso, con il primo ministro conservatore David Cameron impegnato a convincere la popolazione a votare contro l’uscita. Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, è da oggi in visita a Londra ufficialmente per festeggiare i 90 anni della regina Elisabetta II, ma ha già fatto diverse dichiarazioni invitando esplicitamente il Regno Unito a votare per confermare la sua presenza nell’Unione Europea.
Perché si fa un referendum
Durante la campagna elettorale del 2015, Cameron promise che se fosse stato rieletto avrebbe organizzato un referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’UE, accogliendo le richieste presentate da diversi suoi colleghi di partito e da quello per l’indipendenza del Regno Unito (UKIP) di Nigel Farage, secondo i quali era tempo di organizzare una nuova consultazione, considerato che l’ultima risaliva al 1975 e che da allora molte cose sono cambiate in Europa. Cameron disse che avrebbe fatto campagna a favore dell’uscita se le autorità europee non avessero accolto le sue richieste su vari temi di politica estera ed economica. Dopo la sua elezione, i leader dell’Unione sono stati al gioco e hanno concesso buona parte delle richieste formulate da Cameron, che quindi ora è un convinto sostenitore della necessità di rimanere all’interno dell’UE.
L’accordo tra UK e UE
• Sussidi: Cameron aveva chiesto che fosse interrotta la pratica prevista dalle leggi europee che consente ai migranti con figli di inviare i soldi dei sussidi ricevuti nel loro paese di origine, ma la proposta è stata respinta e si è trovato un compromesso per cui l’entità dei sussidi sarà basata sul costo della vita nel paese natale del migrante e non su quello nel Regno Unito.
• Euro: Cameron ha riconfermato che il suo paese non si unirà al gruppo di nazioni che usano l’euro e ha ottenuto rassicurazioni e impegni sul fatto che questo non comporti una discriminazione da parte degli altri stati che fanno parte della moneta unica. Inoltre, il denaro messo dal Regno Unito nei fondi per salvare gli stati in difficoltà economiche dovrà essere rimborsato, se utilizzato.
• Politica estera: È stato formalizzato che il Regno Unito non fa parte dell’impegno per collaborare a “un’Unione sempre più stretta” come previsto nei trattati europei. Cameron ha anche ottenuto un nuovo meccanismo per consentire agli stati contrari a un nuovo regolamento di intervenire per bloccarlo, a patto che ci sia il 55 per cento dei parlamenti nazionali contro le nuove norme. Il meccanismo non è molto chiaro e secondo diversi osservatori sarà difficile, se non impossibile, metterlo veramente in pratica.
• Migranti: è stato concordato che i migranti che si trasferiscono per cercare lavoro nel Regno Unito accederanno più gradualmente ai sussidi e con modulazioni, ancora da definire, per ridurre il loro impatto sui conti pubblici.
Cameron ha detto che l’accordo soddisfa buona parte delle richieste formulate dal suo governo, di conseguenza si è schierato a favore della permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea. In realtà, diversi osservatori ritengono che il governo conservatore abbia ottenuto ben poco dalle autorità europee e che molte delle richieste non siano state soddisfatte.
Cosa dice il quesito
“Il Regno Unito deve restare nell’Unione Europea o deve lasciare l’Unione Europea?”
Che succede se vince la Brexit
Il referendum non ha quorum è di tipo consultivo e non è legalmente vincolante. In linea del tutto teorica, se vincesse la Brexit, il Parlamento potrebbe quindi intervenire per approvare una legge che impedisca l’uscita dall’Unione Europea, ma andare contro la volontà degli elettori sarebbe un suicidio politico. Per uscire dall’UE, il Regno Unito dovrà ridiscutere tutti i trattati e concordare le condizioni per il suo ritiro, processo che richiederà come minimo un paio di anni di lavoro. In questo periodo di tempo, il Regno Unito sarà formalmente parte dell’UE, ma non potrà partecipare alla creazione di nuove regole e leggi in ambito europeo.
Chi vuole che il Regno Unito resti nell’UE
Come abbiamo visto Cameron è a favore della permanenza nell’Unione Europea e la maggioranza dei ministri del suo governo è con lui. Il Partito Conservatore ufficialmente si è dichiarato neutrale sul tema, lasciando libertà di voto ai suoi elettori. Il Partito Laburista, il Partito Nazionale Scozzese, il Partito del Galles e i Liberal Democratici stanno facendo attivamente campagna contro la Brexit. A loro si sono aggiunti molti leader europei, come il cancelliere tedesco Angela Merkel e il presidente francese François Hollande, e capi di governo del mondo come di recente Obama. Dicono che i benefici della permanenza nell’UE superano di gran lunga gli svantaggi, di cui si fa del resto carico ogni stato membro, e tra questi ci sono: la possibilità di esportare con più facilità le merci, quella di avere più facilmente lavoratori qualificati e che contribuiscono a mantenere lo stato sociale, tramite il pagamento delle imposte, e di coordinare meglio le politiche di sicurezza nazionale integrandole con quelle degli altri stati.

Chi vuole che il Regno Unito lasci l’UE
Lo UKIP è il partito che sostiene più di tutti la necessità di uscire dall’Unione Europea, e fece già campagna su questo tema alle elezioni politiche dello scorso anno. È stato fondato nel 1993, ma ha ottenuto il suo primo seggio nel Parlamento britannico solamente dopo le elezioni politiche dello scorso anno, quando ha ottenuto il 12,6 per cento dei voti, mentre era andato molto bene alle elezioni Europee del 2014, quando risultò primo partito con il 27,5 per cento dei voti. L’obiettivo dichiarato dello UKIP è il ritiro del Regno Unito dall’Unione Europea, ma ce ne sono altri legati a fermare l’immigrazione, anche con soluzioni drastiche che hanno portato diversi osservatori a definire il partito di Farage xenofobo, populista e di estrema destra.
Il Partito Conservatore è diviso al suo interno, con circa metà dei parlamentari e cinque ministri del governo favorevoli all’uscita; ci sono anche alcuni esponenti politici del Labour e del Partito Unionista Democratico. Anche il sindaco conservatore di Londra, Boris Johnson, è a favore dell’uscita dalla UE. Con sfumature diverse, dicono che l’UE impone il suo controllo sulle politiche del paese e chiede ogni anno miliardi di sterline, dando indietro poco o niente, sono inoltre contrari alla libera circolazione delle persone e vogliono ridurre il flusso di migranti in cerca di lavoro.

Chi ha ragione
È difficile dirlo e i commenti di osservatori politici ed esperti sono inevitabilmente divisi, tra chi vuole o non vuole la Brexit. Chi crede nelle potenzialità di un’Europa unita è convinto che tutto debba restare così com’è, anche se negli ultimi decenni non ci sono stati molti progressi verso una vera unione politica. Chi ha fiducia nella condizione di privilegio e potere politico ed economico del Regno Unito sostiene da sempre che questa venga limitata dall’appartenenza all’Unione Europea. In quest’ottica è comunque indubbio che senza il Regno Unito il progetto di unificazione perderebbe parte della sua credibilità. Molti analisti ritengono inoltre che dal punto di vista economico l’uscita dall’Unione Europea potrebbe avere serie ripercussioni sulla sterlina, complicando i rapporti commerciali del paese.
Come sta andando la campagna
Ci sono due campagne elettorali ufficiali, una a favore dell’uscita che si chiama “Vote Leave” e una contro che si chiama “Britain Stronger in Europe”, che possono spendere un massimo di 7 milioni di sterline ciascuna per fare propaganda. A queste si possono aggiungere altri comitati spontanei, che però non potranno spendere più di 700mila sterline ciascuno e devono registrarsi presso la Commissione elettorale, i comitati non registrati hanno la possibilità di spendere solo fino a 10mila sterline. I partiti possono fare campagna elettorale, ma anche per loro ci sono limiti di spesa stabiliti in base alla percentuale dei voti ricevuti alle ultime elezioni politiche. Ufficialmente, la campagna elettorale è iniziata il 15 aprile scorso.
Cosa dicono i sondaggi
Secondo i sondaggi più recenti, ottenuti aggregando consultazioni svolte da diverse società demoscopiche, il 54 per cento della popolazione è a favore della permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea, mentre il 46 per cento è contro. Negli ultimi mesi il dato è oscillato di continuo e per lunghi periodi il divario tra favorevoli e contrari è stato minimo. Gli elettori più giovani sono tendenzialmente a favore della permanenza, mentre quelli più anziani sono per la Brexit. C’è una percentuale ancora alta di indecisi, che oscilla tra il 17 e il 20 per cento, su cui le due campagne si concentreranno nelle prossime settimane.
Precedenti
Non ce ne sono: se vincessero gli elettori a favore della Brexit, il Regno Unito sarebbe il primo stato membro a lasciare l’Unione Europea nella storia. La cosa che si avvicina di più a questo scenario avvenne nel 1982, quando la Groenlandia – uno dei territori della Danimarca – approvò con un referendum l’uscita dall’UE nell’ambito delle maggiori autonomie concesse al suo governo locale da quello centrale danese.




Disastri ecologici in Francia e in Tunisia. Maree nere a pochi giorni dal referendum

FRANCIA – Il danneggiamento accidentale di una condotta Total, provocato da una scavatrice,  ha causato la fuoriuscita di centinaia di litri di greggio. L’incidente è avvenuto nel corso di alcuni lavori di sbancamento del sito sull’estuario della Loira. La condotta sotterranea collegava la raffineria Total di Donges a un deposito a Vern-sur-Seiche, nei pressi di Rennes. Lo sversamento potenziale di idrocarburi è di circa 550mila litri.

LAMPEDUSA – Una marea nera si è riversata a 120 chilometri da Lampedusa, a causa di una perdita di petrolio proveniente da una piattaforma offshore.

Lo scorso 13 marzo, una marea nera si è riversata al largo delle coste appartenenti alle isole Kerkennah, nella regione di Sfax in Tunisia.

Sembra che responsabile dello sversamento in mare di petrolio sia una piccola impresa petrolifera locale, la Thyna Petroleum Services.

Secondo il Ministero dell’Industria e dell’Energia tunisino, ci sarebbe stata “una perdita di petrolio alla sommità del pozzo, “Cercina 7” (che dista circa 7 km dalla costa), derivanti da una rottura della provetta di controllo, un tubo con un diametro di circa 10 millimetri”. Al momento non è ancora disponibile alcun dato sulla quantità dispersa in mare di combustibile fossile.

La marea nera che ha interessato le isole Kerkennah, che vivono di pesca e turismo, ha provocato molte proteste nella popolazione locale. Nonostante questo, i media hanno dato poca attenzione alla notizia.

Sembra che le autorità tunisine siano già riuscite a contenere la marea nera ma, attualmente, non è dato sapere la quantità di petrolio riversato in mare e i danni sull’ecosistema.

Enzo di Salvatore, del Comitato NoTriv, spiega: “L’accaduto dimostra che non esistono progetti petroliferi che possano ritenersi al riparo dal rischio di incidenti rilevanti. Diventa sempre più urgente interessare della questione l’Unione europea e indire presto una conferenza dei Paesi del Mediterraneo affinché si discuta seriamente del problema“.

E come sottolinea , Rossella Muroni , presidente di Legambiente, “anche in Italia un eventuale incidente nei pozzi petroliferi offshore o durante il trasporto di greggio sarebbe fonte di danni incalcolabili con effetti immediati e a lungo termine su ambiente, qualità della vita, turismo e pesca. La fuoriuscita dal petrolio, necessaria anche per fermare il cambiamento climatico, deve essere graduale ma deve partire subito con un segnale netto. Come quello che chiediamo agli italiani: votare sì al referendum del 17 aprile per fermare le trivelle entro le 12 miglia dalla costa”.

Al momento le autorità tunisine hanno dichiarato che è stato attivato il protocollo di sicurezza e di contenimento disastri ambientali e sono in corso le procedure di bonifica e valutazione d’impatto ambientale.

La piccola compagnia tunisina, Thyna Petroleum Services, non ha emesso ancora alcun comunicato.




TURCHIA – La milizia armata del Pkk rivendica l’attentato di Diyarbakir

La milizia armata del Pkk rivendica l’attentato di giovedì a Diyarbakir, in Turchia. Nella città curda nel sud-est, l’esplosione di un’autobomba ha provocato la morte di 7 ufficiali di polizia e il ferimento di 27 persone. La reazione delle forze dell’ordine turche ha portato finora all’arresto di 9 persone e il premier turco, Ahmet Davutoglu, proprio da Diyarbakir avverte: “non ci faranno arretrare di un solo passo”.

“Non abbiamo mai avuto paura, non l’abbiamo e non l’avremo mai – ha aggiunto Davutoglu – Siamo sempre stati qui, siamo qui e saremo qui. Dio mi chiamerà un giorno. Io prego che mi chiami mentre sono tra i miei fratelli curdi di Diyarbakir”.

La reazione turca si estende anche al di fuori dei confini nazionali. L’aviazione di Ankara ha compiuto nuovi bombardamenti contro obiettivi del Pkk nel nord dell’Iraq, nelle regioni di Zap e Metina.

Le forze di sicurezza turche hanno ucciso o catturato oltre 5.300 ribelli curdi dall’inizio delle ostilità dallo scorso luglio. Nello stesso periodo, 355 tra soldati e poliziotti turchi hanno perso la vita.