Le visioni oniriche di Ana Juan

Pittura, scultura e in particolare illustrazione per libri e riviste: i campi d’azione in cui Ana Juan è attiva sono molteplici, ma in ognuno di essi è riconoscibile il suo stile assolutamente unico e inconfondibile.

Nata a Valencia nel 1961, si trasferisce a Madrid appena ventenne, agli inizi degli anni Ottanta, distinguendosi per la qualità del suo lavoro, che nel 2010 le farà vincere il prestigioso Premio Nazionale di Illustrazione (un riconoscimento conferito dal Ministero della Cultura Spagnolo).

In Italia è diventata famosa grazie alle splendide copertine realizzate per i libri di Isabelle Allende, ma in realtà, Ana Juan si muove in molti settori.

1. Copertine The New Yorker

Da un lato ci sono le collaborazioni con importanti riviste:  El Pais, El mundo e in particolare The New Yorker, per la quale ha realizzato più di venti copertine (tra cui una dedicata all’attentato alla sede della rivista francese Charlie Hebdo). Dall’altro, invece, c’è tutta la produzione di libri per bambine e bambini dove è evidente la varietà di stili e di temi che è in grado di padroneggiare.

Si passa da visioni oniriche e poetiche ad atmosfere oscure e angoscianti, da esplosioni di colore a tavole in bianco e nero, che l’artista ha ammesso di prediligere, in particolare per la possibilità di inserire dei dettagli colorati e creare così forti contrasti.

I protagonisti delle sue illustrazioni sono sempre presentati nell’incredibile molteplicità dei propri stati d’animo, espressi attraverso i loro corpi.

È proprio da questi ultimi che si rendono più evidenti i riferimenti a grandi maestre e maestri della storia dell’arte. Modigliani, Chagall, Tamara de Lempicka, Picasso, Gaugin, e così via: il corpo diventa protagonista, rappresentato senza fronzoli, adattato alle emozioni che lo muovono, ora etereo e quasi intangibile, ora monumentale e scultoreo.

Nel 2015 la casa editrice Logos (che ha pubblicato i suoi lavori in Italia) ha realizzato una raccolta delle sue opere. Non solo le numerose copertine, ma anche le tavole per i suoi libri.

2. Amantes

Ci sono i suoi Amantes, che ci mostrano diversi tipi di amore, da quello settimanale a quello finale.

C’è una Snowhite oscura, sfruttata da sette nani spietati e da un principe senza cuore.

3. Snowhite

Ci sono le Sorelle, legate l’un l’altra dalla nascita attraverso i loro stessi capelli e da un amore ossessivo (in copertina).

C’è L’isola, dove un guardiano del faro, annebbiato dall’alcol, si innamora di una donna immaginaria, che si insinuerà anche nei rapporti con la sua famiglia.

4. L’isola

E così via, in un universo onirico, senza tempo, dove i personaggi delle sue storie sono costretti a fare i conti con la realtà più cruda, con le proprie ossessioni, paure, la propria solitudine, sempre in equilibrio tra dolcezza, inquietudine e, spesso, tragedia.




Orsi dispettosi e cavalli ribelli: il mondo di Noemi Vola

Quest’anno un grande orso nero e goffo e una marea di verdetti giganti hanno invaso le città: prima è stato il turno di Bologna, presso il Mambo, poi c’è stata Macerata e pare siano stati avvistati anche a Torino. Sembra che gli animali siano innocui, anzi, l’orso è particolarmente appiccicoso e non ama essere lasciato solo.

Questo è il mondo di Noemi Vola, classe ’93 nata a Bra (CN) nel 1993, diplomata nel 2016 al corso di Fumetto e Illustrazione all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Attualmente frequenta il corso di Illustrazione per l’Editoria a Bologna. Nel 2014 fonda Blanca, rivista autoprodotta per bambini.

Nel 2017 inizia la sua collaborazione con la storica Corraini Edizioni. Al primo libro, Un orso sullo stomaco, è seguito Filastrocche di vetro, con i testi di Sabina Italiano.

Da pochissimo nelle librerie troviamo anche Un libro di cavalli, uscito il mese scorso ancora con Corraini. Sempre a maggio è uscito FIM? ISTO NÃO ACABA ASSIM per la casa editrice spagnola Planeta Tangerina. Insomma, Noemi non si ferma, e sembra non avere nessuna intenzione di farlo.

Le illustrazioni di Noemi Vola sono ironiche e leggere, realizzate con tecniche manuali come matite colorate e pennarelli. La grande forza delle sue illustrazioni non sta in un particolare virtuosismo tecnico, ma nella loro capacità di stupirci per la maniera ironica di vedere la realtà e per la capacità che hanno i suoi libri, una volta presi in mano, di convincerci a continuare a sfogliarli fino all’ultima pagina.

Il suo primo libro edito da Corraini, Un orso sullo stomaco, narra di un grande orso nero dall’aspetto goffo e di una ragazzina che quell’orso proprio non lo sopporta. Qualunque tentativo di scacciare via l’orso è vano (neanche il cioccolato o la matematica) perché l’orso la segue ovunque lei vada, e anche se scompare, poi ritorna sempre. Insomma, un vero disastro avere a che fare con gli orsi!

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Ho intervistato Noemi Vola per curiosare un po’ nel suo mondo.

Con il tuo primo libro Un orso sullo stomaco realizzi anche laboratori per bambini. È arrivato un orso a mangiarsi tutti i pastelli colorati?

Come si può vedere nel libro, quest’orso ce l’ha messa tutta per complicarmi la vita, e l’ ha fatto fino alla fine, quando è stato così dispettoso da mangiarsi letteralmente tutti i pennarelli che avrei voluto usare per disegnarlo.

Era da molto tempo che non disegnavo usando solo il nero (e non l’avrei fatto nemmeno questa volta!), la scelta di eliminare i colori é stata presa insieme all’editore. Inizialmente non è stato molto facile cedere all’idea di eliminare il colore, ma  l’uso del bianco e nero mi ha costretta a riportare sulla carta nient’altro di più che il necessario alla narrazione, e di non allontanarmi troppo dalla spontaneità grafica delle bozze iniziali. Sono stata felice di questa scelta e devo ringraziare infatti l’editore che ha insistito parecchio per farmelo capire.

Spesso anche nei laboratori invito i bambini a usare solo il nero per disegnare orsi di ogni tipo. È un limite che può diventare interessante, perché li costringe a non usare tutti i colori come d’abitudine, ma a inventare nuove soluzioni che spesso portano a risultati inaspettati.

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I personaggi che popolano i tuoi libri sono sempre fortemente caratterizzati: un orso dispettoso,  cavalli sovversivi, e poi i vermetti, di cui voglio sapere assolutamente qualcosa di più. Come lavori alla costruzione dei tuoi personaggi?

Ho sempre pensato prima alla storia che ai personaggi, infatti non sono mai stata una grande appassionata di orsi, cavalli o lombrichi, ma avevo un’idea da rappresentare e mi servivano dei buoni “attori ” adatti a interpretare delle parti.

Quando ho scritto Un orso sullo stomaco non avevo in mente di scrivere un libro con un orso come protagonista, avevo piuttosto la necessità assoluta di raccontare e scrivere quello che mi stava pesando addosso. Non sapevo bene cosa fosse, che forma avesse, quale fosse il suo nome; sapevo solo che era pesante, fastidioso, dispettoso, molto ingombrante e per niente amichevole. Insomma, una descrizione che assomigliava e aveva molti punti in comune con un orso. E d’altronde una sensazione del genere non poteva di certo assomigliare a una formica o a uno scoiattolo!

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Per Un libro di cavalli rivoluzionari, invece, l’idea di partenza riguardava un concetto che mi è sempre sembrato molto interessante e poco discusso: la disobbedienza e l’importanza di pensare con la propria testa. Avevo letto Rodari (in particolare Tonino l’ Obbediente, Il giovane gambero, Il Re Federico), Disobbedienza Civile di Thoreau, L’obbedienza non é più una virtú di Don Milani, e ho pensato che mi sarebbe piaciuto provare a raccontare questo concetto in un modo molto semplice ed elementare, adatto tanto a bambine e bambini quanti agli adulti, come Rodari ha abilmente fatto nelle sue filastrocche.

Ma per parlare di disobbedienza mi serviva qualcuno o qualcosa che fosse simbolo dell’opposto contrario, ovvero dell’obbedienza. E i cavalli erano perfetti: fin dall’antichità hanno seguito senza opporsi i loro padroni che li hanno usati come macchine da guerra o da corsa, oggi li troviamo immobili su piedistalli di marmo, schiavi di un moto perpetuo come il dondolo o la giostra, manovrati come le pedine sulle scacchiere.

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I lombrichi, invece, fanno parte di un progetto a cui sto lavorando, purtroppo non posso dire molto di più perché è tutto ancora molto incerto. A grandi linee si tratta di una storia il cui protagonista è un lombrico molto sconfortato, incerto e confuso, che riflette sulla vita.

Ora che sei un’illustratrice affermata e i tuoi libri popolano le librerie, hai un sogno nel cassetto che vorresti tirare fuori?

Sarebbe molto bello (ma non sarà molto facile) avere il tempo necessario per dedicarmi al lombrico e pensare completamente solo a lui. Per ora è il progetto in corso a cui tengo maggiormente, che ho iniziato e che come al solito non so dove mi porterà.

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Thomas Ott: l’umanità che emerge dal nero

Figura assolutamente eclettica e impegnata in campi d’azione diversi, Thomas Ott è noto per lo più come illustratore e in particolare come fumettista.

Svizzero, classe 1966, inizia a farsi conoscere, giovanissimo, già dagli anni Ottanta collaborando a una rivista underground di Zurigo (Strapazin). 

Partendo da tecniche quali l’inchiostro di china e l’incisione a puntasecca, Ott si avvicina presto a quello che diventerà (e rimarrà) il suo “modus operandi” prediletto: lo scratchboard, che in italiano è chiamato da alcuni “sgraffito”. 

Si parte dal ricoprire totalmente un foglio di carta con dell’inchiostro nero, dopodiché si gratta via con un pennino o una punta, facendo emergere il disegno.

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Si tratta di una tecnica pesante da utilizzare, in quanto richiede molto più tempo per poter lavorare sui dettagli di quanto invece richiederebbe la realizzazione a partire dal “positivo”: il punto di partenza è infatti sempre il nero su cui si va a incidere la luce. 

Con incredibile maestria, Ott gratta via moltissimi segni, sottilissime linee bianche attraverso cui riesce a creare sfumature e definire nel minimo particolare i dettagli e le espressioni dei personaggi, senza mai perdersi nel nero, che comunque fa sempre da padrone.

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Lo stesso artista ha affermato più volte che la difficoltà (e anche la bellezza) di questa tecnica sta proprio nell’imparare a usare il nero, a calibrarlo senza esserne sopraffatti, imparare a capirlo.

L’effetto è sicuramente potente e mostra chiaramente i riferimenti ai maestri  dell’Espressionismo tedesco (sebbene manchi l’uso del colore).

Le atmosfere sono invece un chiaro richiamo ai film noir e dell’orrore, a cui lo stile così complesso si abbina perfettamente. Vizi, violenze, deliri, perversioni, paure, morte: l’umanità che viene presentata è espressione di una realtà terribile e terrificante. 

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I suoi personaggi sono sempre psicologicamente complessi, disturbati e disturbanti, e attingono pienamente da un immaginario crudo e violento. 

Le storie di Ott diventano quindi dei brevi racconti dell’orrore, ricchi di suspence, che turbano e stordiscono chi legge, narrati in una quasi totale assenza di parole, ma solo attraverso vignette che emergono dal nero con spettacolari tagli e inquadrature cinematografiche.

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Sembrerebbe un lavoro cinico, distaccato, ma in realtà l’intento dell’artista, come lui stesso ha dichiarato, è ben diverso. 

L’idea di fondo è infatti liberarsi dalle paure che lo attanagliano normalmente, esorcizzarle, trasferirle sulla carta per non tenerle dentro di sé. 

Attraverso il suo lavoro, Thomas Ott esprime la volontà di mostrare nel modo più brutale possibile il lato più oscuro delle cose, tutta una parte di realtà di cui nessuno vuole parlare, per poterla accettare e così, in qualche modo, aprirsi al mondo e alla vita.




Ironia e leggerezza nelle illustrazioni di Isidro Ferrer

Lo scorso 14 aprile sono stata a Macerata per la quinta edizione festival di illustrazione Ratatà; durante il festival c’è stata l’inaugurazione della Retrospettiva su Isidro Ferrer, che ho avuto la fortuna di conoscere e di osservare all’opera.

L’artista si aggirava con il suo cappello e il suo bicchiere in mano, e non appena qualcuno gli si avvicinava per una firma o una dedica, dimenticava la folla intorno per realizzare dei piccoli ma accurati disegni su qualunque tipo di supporto: un poster, un quadernetto o un foglio strappato, e in assenza di acqua bagnava la brush pen nel suo bicchiere di vino.

Isidro Ferrer, classe ’63, nato a Madrid, grafico e illustratore, si forma in drammaturgia ma scopre presto la sua vocazione per la comunicazione visiva. Dalla fine degli anni ’80 inizia a emergere nel panorama della grafica; nel 2002 vince il National Design Award.

Si distingue nel panorama nazionale con la vincita di numerosi premi e con le numerose pubblicazioni che girano presto il mondo. Dal 2000 è membro AGI, una prestigiosa associazione che riunisce i migliori grafici, designer e illustratori mondiali.

L’opera di Ferrer conta numerosi manifesti, spesso legati al mondo del palcoscenico, da cui proviene.

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La seconda parte della sua produzione riguarda i libri, specialmente quelli per bambini, che gli permettono una maggiore libertà espressiva.

Se si osservassero tutti i libri di Isidro Ferrer uno accanto all’altro (e ci vorrebbe un tavolo davvero grande, perché stiamo parlando di trentuno pubblicazioni a oggi!) si noterebbe una grande variazione. Piccoli libricini che si nascondono nelle librerie, grandi libroni ai quali è difficile trovare un posto, libri rilegati in brossura e leporelli… la produzione di Ferrer è totalmente variegata in termini di formato e dimensione, che sarebbe difficile trovare un libro simile a un altro.

Ciò che accomuna le sue opere sono la delicatezza, la potenza comunicativa, l’utilizzo di forme rotonde e sinuose, i colori scelti e dosati con saggezza e i suoi personaggi, sempre costruiti con grande ironia e capaci di generare un effetto di sorpresa in chi osserva.

Sembra che Isidro non immagini altri mondi, ma si limiti a tradurre la realtà nella quale siamo immerse e trasformarla in poesia, donandoci la sua personale visione ironica, leggera, e per questo sempre riconoscibile.

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In Un Jardin (A buen paso, 2016) Isidro Ferrerrealizza le illustrazioni peril testo della poetessa cilena María José Ferrada Lefendi: la storia parla di un uomo che sogna un giardino, e si trasforma nelle creature che immagina. Le illustrazioni danno vita a uno spazio sospeso, popolato da strani animali che interagiscono con gli elementi geometrici posizionati nella pagina.

Il libro è un leporello: proseguendo con la lettura il volume si apre fino a diventare un grande panorama in cui perdersi.

Per quanto riguarda la tecnica, l’illustratore predilige tecniche manuali, facendo interagire il disegno, grazie all’uso del collage, a elementi materici come il legno, che donano alle sue opere una sensazione di tridimensionalità: non a caso realizza anche sculture in legno dei suoi personaggi.

L’utilizzo della sovrapposizione di strati e le forme che non sono mai colorate in maniera regolare ci fanno pensare alle tecniche di stampa manuale.

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Il mondo che Isidro Ferrer costruisce è un mondo in cui perdersi con leggerezza, per ricordarsi che se la realtà non ci piace, possiamo stravolgerla, accartocciarla, disegnarla, trasferirla su un pezzo di legno e appenderla al contrario.

Immagini dal sito: www.isidroferrer.com




Aaron Becker e la forza dell’immaginazione

Aaron Becker è un illustratore statunitense, autore della trilogia di cui fanno parte i libri senza parole Viaggio, Scoperta e Ritorno (pubblicati in Italia da Feltrinelli rispettivamente nel 2014, 2015 e 2016). 

Nato e cresciuto negli Stati Uniti, si può dire che la sua formazione sia in realtà legata ai numerosi viaggi compiuti, “zaino in spalla”, in giro per il mondo. Un’esperienza di vita riscontrabile nel suo lavoro, sia nelle tematiche che nei dettagli e nei riferimenti visivi a diverse culture, che vanno a popolare la sua opera.

FOTO 1. Viaggio

FOTO 2. Viaggio

Il primo capitolo della trilogia si intitola infatti Viaggio e racconta di una bambina che, sola e annoiata, disegna sulla parete della sua cameretta una porticina con un gessetto rosso, attraverso la quale riesce a entrare in un mondo spettacolare e magico. Un universo parallelo, ricco di colori e particolari, dove la bambina vivrà numerose avventure, tra cui la nascita di una nuova amicizia. 

FOTO 3. Scoperta

FOTO 4. Scoperta

Scoperta è il secondo libro della trilogia e riprende la storia di Viaggio, con la bambina e il suo nuovo amico cui viene affidata una missione da un misterioso re uscito da una porta magica, che consegna loro un altro gessetto colorato e una mappa per trovare tutti i colori dell’arcobaleno. Ritorniamo così nel mondo fantastico che avevamo incontrato nel primo libro, per vivere una nuova avventura alla ricerca della libertà dei colori.

L’ultimo capitolo che va a concludere la trilogia è Ritorno. La storia riprende ancora una volta i capitoli precedenti, ma stavolta vede il papà della bambina protagonista che scopre la porta magica ed entra così nel mondo fantastico alla ricerca della figlia. Combatterà al suo fianco e vivrà con i due bambini sorprendenti avventure, alla ricerca di un modo per sconfiggere i nemici e una macchina terribile che cattura i colori dell’arcobaleno.

FOTO 5. Ritorno

FOTO 6. Ritorno

Le tavole realizzate da Becker sprigionano colori vividi e avvolgenti, frutto di una maestria nella tecnica dell’acquerello, con i quali descrive luoghi grandiosi, ricchi di dettagli e pieni di vita. 

I volti e le espressioni sono invece sempre poco caratterizzati, a volte persino non visibili: la narrazione è, infatti, affidata alla spettacolarità delle ambientazioni, presentate con straordinarie prospettive cinematografiche (l’autore ha lavorato anche con gli studi della Disney e della Pixar) che segnano e accompagnano il ritmo della narrazione, serrato come nelle migliori avventure.

L’interpretazione e le molteplici letture che questi libri offrono, però, spettano a chi ha la fortuna di sfogliarli e di entrare in un magico mondo dove il colore diventa strumento delle più potenti “armi” contro la noia: l’immaginazione e la meraviglia. 

Due valori che, a mio parere, ci ricordano proprio l’importanza di saper viaggiare, di poter scoprire e, estremamente arricchiti, ritornare.




Giulia Pastorino: colore, ritmo e movimento

Colori caldi, stesi sul foglio con un tratto istintivo e gestuale, come una danza, a formare illustrazioni piene ma dove c’è sempre equilibrio.

Giulia Pastorino si forma all’Accademia di Belle Arti per poi trasferirsi a Urbino per studiare Illustrazione all’ISIA. Nel 2016 è tra gli illustratori selezionati al Bologna Children’s Book Fair e nello stesso anno vince il concorso Tapirulan. Nel 2017 viene selezionata al Nami Island International Illustration Concours.

Dal 2016 collabora con la rivista autoprodotta Pelo, nata tra le mura dell’ISIA di Urbino.

Vince la XII edizione del concorso Tapirulan, il cui tema è Ciak, con l’illustrazione L’arte del sogno, ispirata all’ononimo film di Michael Gondry.

Per la XIII edizione del concorso le viene dedicata una mostra personale e la pubblicazione del catalogo, contenente i suoi lavori per magazine e progetti personali. Il nome del catalogo è Disordine. Disordine non è un tema scelto a priori, ma il filo rosso che lega tutte le illustrazioni: il disordine invade lo spazio ma raggruppa, ordina, dona una coerenza visiva che permette alle immagini di vivere indipendentemente l’una dall’altra.

Il disordine così diventa vita: una volta qualcuno ha detto che nel disordine c’è armonia, c’è completezza, che una scrivania piena è preoccupante ma non quanto una scrivania vuota.

Figura 1.

Nelle sue opere lo spazio è invaso da forme, colori, piccoli particolari in cui chi osserva si può perdere, ma è un pieno che è sempre stabile, attraverso un sapiente uso dei colori, delle forme, dei pieni e dei vuoti: un disordine in equilibrio. E poi il movimento: l’equilibrio si trova anche nella sua capacità di fermare un’immagine, catturare un momento.

Il tratto gestuale, immediato, la mancanza di contorni definiti e di una precisa definizione degli spazi, non possono che ricordarci i dipinti di Jean-Michel Basquiat. C’è un altro elemento che li lega: un richiamo sottile, ma tangibile, all’Africa. I toni caldi, le maschere, ma anche una sensazione di continuo movimento, come una danza ininterrotta, avvicina le illustrazioni di Giulia all’arte del continente africano.

Figura 2.

Lo strumento che caratterizza Giulia è il pastello a olio, che dona alle opere un sapore materico e fa emergere il segno: sembra quasi che la mano di Giulia si posi sul foglio e non si fermi finché il disegno non è completo.

Tre domande a Giulia Pastorino, per conoscere lei e il suo lavoro.

Nelle tue opere tutti gli elementi sembrano essere posizionati istintivamente, di getto: come costruisci le tue illustrazioni?

Non mi piace stare troppo tempo su uno stesso disegno, mi annoia.

In genere butto giù un’idea, qualche colore e inizio a disegnare. 

I pastelli a olio sono i miei migliori amici, ma, a seconda di quello che devo realizzare, mischio diverse tecniche (dal carboncino agli acrilici, dalle ecoline ai pastelli colorati). Ciò che mi rende felice e che abbatte ogni mia ansia è il colore, che non mi spaventa per niente.

Quello che in genere non viene percepito è l’utilizzo del digitale. In realtà le illustrazioni non sono quasi mai tavole uniche. In genere disegno soggetti separati, dei pezzi che poi assemblo su photoshop. 

Ci sono diverse motivazioni per le quali prediligo questo modo di lavorare. 

La prima è che mi diverte moltissimo. Mi piace sovrapporre i miei disegni, aggiungerci carte preparate e scoprire l’effetto che dà. Spostare, cambiare, muovere. Ciò non significa che non abbia un’idea chiara in testa, ma mi piace dare spazio anche alla casualità, che spesso mi suggerisce nuove idee.

La seconda motivazione è che disegnare pochi soggetti alla volta ti permette di poterli riutilizzare, dandogli nuova vita. La mia missione è di creare un archivio infinito di ometti, piante e animali fantastici.

La terza è che sono una persona parecchio disordinata e la precisione ammetto che non sia il mio forte (ho altri pregi). Così ho un sacco di fogli con soggetti singoli o con composizioni di oggetti, su formati più o meno grandi, su carte più o meno pregiate. Prima credevo che questo mio modo di lavorare fosse sbagliato, da tenere “segreto”. Ora non saprei. Non so se abbia senso parlare di cosa sia giusto o meno, se sono più o meno brava.

In realtà in questo momento mi rispecchia, poi magari cambierò, per ora tavole uniche solo su grandi dimensioni, nel piccolo sto stretta.

Figura 3.

Una storia che vorresti assolutamente illustrare?

Una storia che volevo illustrare l’ho illustrata. Ed è la storia di Enrico D’Albertis, un genovese d’altri tempi che ha viaggiato per il mondo portando nel suo castello meraviglie e ricordi di ogni dove. In questa biografia c’è la mia città, la navigazione, il mare e tutti quegli oggetti misteriosi che parlano di culture lontane.

Facendo un po’ meno la seria, gli spunti migliori per una storia si trovano nella quotidianità, nella follia di qualche personaggio, origliando qualche chiacchiera o in un semplice dettaglio. Proprio qualche giorno fa un’amica mi stava raccontando che è partita con il nipote per una breve vacanza, portandosi dietro un limone del suo orto. Scelta un po’ inusuale, ma credo che una storia sulle vicissitudini di un limone in gita, potrebbe essere divertente, soprattutto se sul finale comparisse una spremuta.

Di idee ne ho diverse, vorrei concludere la storia di Ernesto, il bradipo iperattivo e poi dare un volto a Graziella che è nata quando aveva 17 anni.

Piano piano, chissà…

Nel 2016 sei stata selezionata in un concorso internazionale e da lì non ti sei più fermata: quali sono i tuoi programmi?

Viaggiare, comprarmi una casa in più posti differenti perché non ho ancora trovato il mio posto e nel dubbio…

Imparare a non arrossire nei momenti meno opportuni, dipingere in un grande spazio, avere un grande spazio, e costruire una libreria di legno.

Scherzi a parte, a essere sincera non programmo quasi mai niente. Ho un grosso problema con questa parola. 

Il 2016 mi ha dato un piccolo aiuto a credere in quello che faccio. Piccolissimo. Ciò di cui sono contenta è che mi riconosco nelle mie illustrazioni, che non è così scontato.

Per il resto che dire, sono tornata da un viaggio in Centro America che inevitabilmente mi ha dato molti spunti sui quali lavorare a un nuovo progetto. Non vorrei stare troppo ferma, in tutti i sensi.

L’idea dell’illustratrice solitaria nella sua scrivania l’apprezzo, ma solo in parte e a piccole dosi. 

Cerco di collaborare anche con persone che sono lontane dal mondo dell’illustrazione, per far convivere diverse esperienze e imparare sempre qualcosa di nuovo.

Pelo, invece, rimane una costante.

Immagini dal sito: https://giuliapastorino.tumblr.com




La natura nell’opera di Daishu Ma

Daishu Ma è nata in Cina ed è cresciuta in Inghilterra, dove ha studiato al prestigioso Central Saint Martins College of Art and Design, a Londra. Attualmente vive e lavora a Barcellona. Illustratrice e spesse volte autrice dei suoi lavori, ha partecipato anche a molte diverse iniziative, ad esempio realizzando le immagini per l’edizione cinese di Sette brevi lezioni di fisica dello scienziato italiano Carlo Rovelli e di alcuni classici della letteratura per l’infanzia.

Le matite, le chine e l’incisione sono gli strumenti che solitamente predilige, per dare vita a un’opera delicata e dolce, profondamente evocativa.

Il punto di partenza delle sue illustrazioni è spesso l’amore e l’interesse che la natura e la scienza suscitano in lei, temi ricorrenti nel suo lavoro e che sembrano starle più a cuore.

Non a caso, il libro che probabilmente ha mostrato e reso noti al pubblico il talento e la maestria di Daishu Ma si intitola, appunto, La foglia. 

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Un libro con il quale ha vinto il premio Cheltenham Illustration Award, pubblicato per la prima volta in Cina nel 2014 e successivamente in moltissimi altri Paesi. Si tratta di un silent book, un libro senza parole, che ha l’urbanizzazione e il suo impatto sulla natura e sulla vita come tema centrale. Racconta di un ragazzo che, in una grigia città metropolitana (in cui anche gli abitanti sembrano spegnersi insieme ad essa e la natura sembra scomparire senza lasciare tracce) trova una foglia che splende, bellissima, in mezzo a un mucchio di foglie secche. Inizierà così un’avventura per scoprire che cosa accade alla natura, dove vanno a finire tutte quelle foglie. Cento pagine di narrazione, con un linguaggio che non necessita di parole, ma che si avvale piuttosto della potenza evocativa e comunicativa di immagini quasi monocromatiche, in toni di grigio, dove l’eccezione della foglia, colorata di giallo (accanto ad alcuni dettagli della città in blu), risulta ancora più splendente e si fa carico non solo di rappresentare la forza della natura, ma anche di un messaggio di vita e di grande speranza, nel grigio che sembra avvolgerci sempre di più.

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Il suo nuovo lavoro, Building with light, dovrebbe essere pubblicato nel 2019, e ha sempre la natura come tematica centrale. 

Stavolta però, la protagonista è la fotosintesi, secondo l’artista il più importante processo chimico della Terra. Sì, perché è grazie ad essa che, a detta della stessa Daishu Ma, il nostro pianeta si distingue da Marte, rendendolo il posto che conosciamo, «il mondo che felicemente chiamiamo casa». Ed è così che la fotosintesi viene presentata, nella sua stupefacente importanza, con immagini e colori sgargianti e attraverso la sua stessa storia, a partire dalle origini del mondo, fino a oggi, a noi. Non resta che aspettare l’uscita di questa nuova opera, per mostrarci la bellezza che la natura ci regala ogni giorno, anche se a volte sembriamo proprio dimenticarcene.

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I fiori di Giulia

Giulia Conoscenti, classe 91, illustratrice e animatrice, è nata e ha studiato disegno industriale a Palermo; a 21 anni lascia la Sicilia per frequentare Illustrazione presso l’ISIA di Urbino, dove si laurea nel 2017. Nello stesso anno vince il Premio Ronzinante, un contest annuale di illustrazione che incoraggia giovani illustratori e illustratrici a misurarsi con il tema della disabilità: Giulia realizza due tavole collegando l’autismo ai viaggi straordinari di Verne. Le sue illustrazioni, sempre ricche e particolareggiate, si collocano in un luogo sospeso tra il sogno e l’immaginazione, dove le figure si mescolano al paesaggio e il limite tra esterno e interno non è mai netto, ma lascia sempre una sensazione di incertezza e mistero che destabilizza chiunque l’osservi. Sono opere sono fortemente materiche, frutto di una sperimentazione continua e di una mescolanza di tecniche, dalle chine ai pennarelli, passando per gli acrilici. Il suo tratto è gestuale e la ricchezza di particolari rende le tavole fortemente narrative; non a caso uno dei mezzi narrativi che predilige è l’animazione.

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Per la sua tesi specialistica Giulia si è infatti misurata con un corto animato di cinque minuti dal titolo Fiori di tarassaco, realizzato con la tecnica del rotoscopio, con un totale di 4000 frames. Il corto non presenta parole, la struttura narrativa ruota intorno alla protagonista che sta affrontando un viaggio: seguono immagini che appaiono come sogni o visioni; abbiamo l’impressione di entrare nella sua testa e di frugare nei suoi pensieri. Quello che stiamo guardando è un’allucinazione, o forse è un sogno dove si mescolano pensieri, sensazioni, paure, momenti di insicurezza e vuoto, di affetto e di amore, tutti raccontati con una forte delicatezza. Giulia ragiona per metafore visive: la guerra, le migrazioni, i confini e le frontiere, lo specchio e la formazione dell’identità sono alcuni dei temi con cui si è confrontata, attraverso un approfondito studio, al quale ha seguito la traduzione dei concetti in immagini.

Lo stesso fiore di tarassaco è un’allegoria della migrazione; così come i semi del fiore si lasciano trasportare dal vento per raggiungere nuovi campi dove germogliare, i migranti lasciano la loro terra per cercare una nuova casa che li possa accogliere.

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Ho intervistato Giulia Conoscenti per scoprire qualcosa di più su di lei e sul suo lavoro.

La protagonista del tuo corto d’animazione Fiori di tarassaco è una ragazza con pochi tratti distintivi, difficile da associare a una determinata cultura: quanto c’è di te in lei?

Inconsciamente parecchio! Sono palermitana e ho sempre vissuto circondata dal mare e dal sole, dal calore di persone che come dice Pirandello sono “nate isola nell’isola”. Ho un forte attaccamento alla mia terra, alla sua cultura, ai suoi colori, così tanto che li sento nelle ossa, nel carattere! 

Mi sono resa conto di tutto questo quando mi sono trasferita a Urbino per studiare illustrazione all’ISIA. Un luogo totalmente altro, sconosciuto, con cui non sono mai entrata in sintonia. Un posto che era tutto tranne “isola”, tutto tranne me. So che può sembrare assurdo ma quello che ho provato era smarrimento, insicurezza, perdita. Così ho iniziato a riflettere su tutte quelle persone che emigrano, abbandonando la propria terra, casa e famiglia, costrette e non per scelta, e che diversamente da me hanno grandi difficoltà a ritornare indietro.

All’improvviso il/la migrante si ritrova completamente solo/a in un Paese straniero e comprende che può salvarsi solo con immensi sacrifici per stabilire gradualmente nuove relazioni, imparare altri codici di socialità, reinventare se stesso/a, perché di questo si tratta, di ritrovarsi e ricostruirsi.

Ho deciso di trattare il tema della migrazione e della perdita di identità, perché in parte è un problema che capisco: oggi più di prima i giovani sono migranti, molti di loro non hanno una sede fissa e vivono in un luogo che sentono estraneo.

In Fiori di tarassaco parli di lunghi viaggi, paura, ricerca di identità, lasciare le proprie radici per cercarne di nuove. Quanto è importante per un/una giovane artista mettersi in discussione?

Credo che confrontarsi con se stessi sia, a livello umano, fondamentale per crescere e per un’illustratrice indispensabile per progredire artisticamente. Non so se questo concetto sia per forza legato ad abbandonare la propria casa o mutare la propria identità, in favore della ricerca di qualcos’altro; penso dipenda dalla storia personale di ognuna di noi, dal nostro vissuto. Io ho un forte legame con la mia terra ed è per me importantissimo tornare, ogni volta che posso, per viverla e sentirla.

Qual è una storia che ti piacerebbe raccontare?

Una storia che proprio non vedo l’ora di illustrare ce l’ho! Aspetto solo il momento giusto. Da piccola mi hanno raccontato della colonia di Roanoke e del mistero dei coloni perduti, un centinaio di persone, tra cui anche donne e bambini, che alla fine del 1500 sono scomparse praticamente nel nulla. Non sono mai state trovate loro tracce, è come se fossero evaporate! Ci penso spesso, devo farci un libro, anche solo per togliermela dalla testa.

Poi in realtà, avrei voglia di raccontare mille cose: vicende sulla mia città, su persone che ho conosciuto per caso, su quella casa tutta storta che magari sarà abitata dall’uomo più dritto del mondo. Veramente mi basta anche poco: un dettaglio, incrociare gli occhi liquidi di un essere sconosciuto, un cane legato fuori dal supermercato, insomma qualcosa che mi colpisca e mi faccia immaginare una storia fantastica come quando ero piccola!

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Immagini dal sito: http://giuliaconoscenti.tumblr.com




Le immagini silenziose di Iela Mari

I libri di Iela Mari (1931-2014) possono ormai essere considerati dei classici della letteratura per l’infanzia. L’impatto che queste meraviglie hanno avuto quando sono “apparse” per la prima volta, negli anni Sessanta, è stato però piuttosto rivoluzionario. Inizialmente, infatti, il lavoro di Iela Mari non ha incontrato il favore della critica, che non lo comprendeva e non ne riconosceva l’importanza. È stato pubblicato (e lanciato anche all’estero, dove è stato apprezzato molto di più) dalla Emme Edizioni, allora diretta dalla sua fondatrice, Rosellina Archinto. Una casa editrice decisamente innovativa, che già da allora promuoveva l’albo illustrato come lo conosciamo oggi (in cui l’immagine ricopre un ruolo fondamentale, non più secondario) e il silent book (il libro senza parole), due prodotti editoriali ancora poco noti e diffusi al pubblico e di cui Iela è stata maestra.

I suoi libri sono solitamente senza parole, la narrazione è trattata attraverso le immagini, che raggiungono, così, grande potenza comunicativa. Laddove invece è presente una componente verbale (come ad esempio in Il tondo e in C’era una volta un riccio di mare, entrambi del 1974), essa diventa funzionale alle immagini, accompagnandole, sostenendole nel ritmo della storia.

1. IL TONDO

L’immagine ha dunque un ruolo centrale nell’opera di Iela Mari, che è caratterizzata da una grande ricercatezza grafica, oltre che concettuale, dall’unione di diverse esperienze creative, quali illustrazione, progettazione grafica e comunicazione, oltre a un’esperienza diretta con le bambine e i bambini delle scuole dell’infanzia, che l’autrice frequentava proprio per studiare il suo prezioso pubblico. Forme e colori vengono usati in maniera quasi astratta per ricreare atmosfere, situazioni, ambienti popolati da personaggi del regno animale e vegetale e da oggetti della quotidianità.

2. IL PALLONCINO ROSSO

In cosa potrebbe trasformarsi Il palloncino rosso (1967)? Come nasce una farfalla? E una mela? (La mela e la farfalla, 1960)? Quali forme può ricordare Il tondo (1974)? E ancora, come funziona il ciclo delle stagioni, della vita (L’albero, 1975 -in copertina)? E così via, tutti quei grandi misteri spiegati e resi accessibili, attraverso associazioni e metamorfosi, a bambine e bambini di tutto il mondo. La lingua parlata da Iela Mari, infatti, è universale: è quella dei più piccoli.

3. LA MELA E LA FARFALLA

Nel 2010 la Bologna Children’s Book Fair (una delle fiere d’eccellenza nel mondo dell’illustrazione per ragazzi) le ha dedicato una mostra, la sua prima monografica, in cui sono state esposte tavole originali, prove di stampa, disegni per tessuti per gli arredi delle camere dei bambini, menabò.  Il titolo era “Iela Mari. Il mondo attraverso una lente”e credo non ce ne sarebbe potuto essere uno più azzeccato. Quella di Iela è un’opera assolutamente intrigante, che focalizza sull’universo e sull’immaginario infantile con tenerezza. Un’opera che trova nel silenzio delle sue immagini tutta la sua potenza.

4. MANGIA CHE TI MANGIO




Tre domande ad Andrea Antinori

Classe 1992, nato a Recanati ma cresciuto a Bologna, Andrea Antinori ha studiato grafica e comunicazione visiva presso l’ISIAdi Urbino, dove ha continuato il biennio in Illustrazione. Nel 2013 pubblica con Corraini Edizioni, storico editore conosciuto per il suo catalogo che è una contaminazione di arte, design, grafica, editoria e fotografia.

Il primo libro che pubblica con l’editore milanese (2013) è Questo è un alce? al quale segue Un libro sulle balene, nel 2016, che è il suo progetto di tesi triennale.

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L’anno successivo esce L’entrata di Cristo a Bruxelles,sempre con Corraini Edizioni e in quello stesso annovince il Premio Andersen nella categoria Miglior libro 6/9 anni con La zuppa dell’orco,scritto da Vincent Cuvellier ed edito da Biancoenero Edizioni e viene selezionato tra gli illustratori esposti alla Bologna Children’s Book Fair.

Tra le case editrici con cui collabora troviamo anche Lapis edizioni, La nuova frontiera editore, Camelozampa e la spagnola A buon paso.

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Nei suoi libri Andrea realizza testo, illustrazioni e progetto grafico; il suo lavoro non si limita a illustrare, ma progetta, cura il libro in tutte le sue componenti, lo concepisce pezzo per pezzo, e infine lo assembla. Si nota infatti una coerenza costitutiva di tutto l’insieme nei suoi testi, che dialogano con le illustrazioni, senza essere grandi opere di virtuosismo tecnico, ma posseggono una apparente semplicità e una carica comunicativa che li contraddistinguono da tutto ciò che li circonda.

Andrea predilige tecniche tradizionali, è sempre ben visibile il segno, caratterizzato da un tratto spontaneo e istintivo.Il colore, quando è presente, è costituito da toni accesi e carichi, sempre in equilibrio con i grigi.

Intervisto Andrea Antinori per conoscere aspetti meno apparenti del suo lavoro.

La prima domanda è sulle idee: da cosa nasce un libro?

Dalla propria vita e dalle proprie esperienze. Detta così qualcuno potrebbe pensare che ho passato la mia vita circondato da alci, nuotando con le balene e visitando il Paul Getty museum di Malibu. Non ho fatto nulla di tutto ciò, (anzi, le balene le ho viste, ma solo dopo il libro), parlando di esperienze personali mi riferisco agli spunti che trovo in esse, o alle metafore che ne ricavo. Ad esempio il libro Questo è un alce? nasce da un momento cruciale del mio rapporto con il disegno. Prima di allora cercavo di disegnare “molto meglio“ di adesso, mi concentravo sull’esattezza e la perfezione dei soggetti che rappresentavo, ma mi richiedeva molto tempo. A un certo punto mi sono stancato, ho avuto paura che continuando così non avrei avuto voglia di fare questo lavoro, e soprattutto volevo concentrarmi sulle idee, sulle storie, e fare quindi più disegni in meno tempo. Anche sentirmi più libero in verità. E tutto ciò è quello che ho raccontato in questo libretto di trentadue pagine. L’alce diventa un pretesto, che una volta sulla carta fatto bene o male che sia, che assomigli a un alce, o che sia un alce astratto, è pur sempre un alce, e questo è l’importante.

Per le balene invece ho prodotto un libro che avesse come lettore modello me stesso da bambino; un libro che ricordasse le enciclopedie di animali che leggevo continuamente allora.Insomma, ogni mio libro parla almeno un pochino di me, ma di nascosto.

Un elemento che è una costante nei tuoi lavori è l’ironia, sempre presente nei testi come nelle illustrazioni. Si potrebbe dire che nei tuoi libri l’ironia è un mezzo narrativo?

Assolutamente. L’ironia è uno strumento molto forte per le storie, ma anche per la divulgazione. Ti permette di parlare di cose molto serie, ma prendendole con un altro spirito, rendendo questi temi più coinvolgenti e appassionanti magari.L’ironia inoltre è molto importante anche per me stesso. Quando creo una storia mi diverto molto e rido da solo quando mi vengono in mente le cose più ridicole e insensate, un po’ forse perché a volte non me le aspetto neanche io.

I tuoi libri hanno spesso una componente didattica al loro interno: nel libro sull’alce c’è un invito esplicito a far interagire il lettore, mentre nel libro sulle balene ci sono molte informazioni riguardo il mondo dei cetacei. Anche ne L’entrata di Cristo a Bruxellesc’è una qualche stramba lezione di storia dell’arte.

Come è stata la tua esperienza nei laboratori che hai tenuto con i giovani lettori?

In realtà il mio obiettivo in questi casi è quello di far passare un messaggio, o delle informazioni, senza però avere l’obiettivo di insegnare nulla. Magari è proprio dal momento che ti poni come insegnante che quel che trasmetti rischia di diventare noioso. Vorrei che bambini e bambine leggessero i miei libri con il piacere di farlo, e non come se fosse un compito.Allo stesso modo mi pongo quando svolgo i laboratori: vanno già a scuola, non voglio fare altre ore di lezione, li sfido piuttosto a porsi in un altro modo sulle idee, o sul disegno, mettendomi al loro stesso livello. Fin troppo spesso mi chiedono se quello che fanno è giusto o sbagliato, se va bene, o magari mi dicono che non sanno disegnare qualcosa. Io cerco sempre di spronarli a non pensare a cosa è giusto o sbagliato, di non scartare un’idea solo perché è strana o ridicola, ma propongo di fare quel che viene, per scoprire cosa salta fuori.

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immagini, http://andreantinori.com