La natura nell’opera di Daishu Ma

Daishu Ma è nata in Cina ed è cresciuta in Inghilterra, dove ha studiato al prestigioso Central Saint Martins College of Art and Design, a Londra. Attualmente vive e lavora a Barcellona. Illustratrice e spesse volte autrice dei suoi lavori, ha partecipato anche a molte diverse iniziative, ad esempio realizzando le immagini per l’edizione cinese di Sette brevi lezioni di fisica dello scienziato italiano Carlo Rovelli e di alcuni classici della letteratura per l’infanzia.

Le matite, le chine e l’incisione sono gli strumenti che solitamente predilige, per dare vita a un’opera delicata e dolce, profondamente evocativa.

Il punto di partenza delle sue illustrazioni è spesso l’amore e l’interesse che la natura e la scienza suscitano in lei, temi ricorrenti nel suo lavoro e che sembrano starle più a cuore.

Non a caso, il libro che probabilmente ha mostrato e reso noti al pubblico il talento e la maestria di Daishu Ma si intitola, appunto, La foglia. 

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Un libro con il quale ha vinto il premio Cheltenham Illustration Award, pubblicato per la prima volta in Cina nel 2014 e successivamente in moltissimi altri Paesi. Si tratta di un silent book, un libro senza parole, che ha l’urbanizzazione e il suo impatto sulla natura e sulla vita come tema centrale. Racconta di un ragazzo che, in una grigia città metropolitana (in cui anche gli abitanti sembrano spegnersi insieme ad essa e la natura sembra scomparire senza lasciare tracce) trova una foglia che splende, bellissima, in mezzo a un mucchio di foglie secche. Inizierà così un’avventura per scoprire che cosa accade alla natura, dove vanno a finire tutte quelle foglie. Cento pagine di narrazione, con un linguaggio che non necessita di parole, ma che si avvale piuttosto della potenza evocativa e comunicativa di immagini quasi monocromatiche, in toni di grigio, dove l’eccezione della foglia, colorata di giallo (accanto ad alcuni dettagli della città in blu), risulta ancora più splendente e si fa carico non solo di rappresentare la forza della natura, ma anche di un messaggio di vita e di grande speranza, nel grigio che sembra avvolgerci sempre di più.

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Il suo nuovo lavoro, Building with light, dovrebbe essere pubblicato nel 2019, e ha sempre la natura come tematica centrale. 

Stavolta però, la protagonista è la fotosintesi, secondo l’artista il più importante processo chimico della Terra. Sì, perché è grazie ad essa che, a detta della stessa Daishu Ma, il nostro pianeta si distingue da Marte, rendendolo il posto che conosciamo, «il mondo che felicemente chiamiamo casa». Ed è così che la fotosintesi viene presentata, nella sua stupefacente importanza, con immagini e colori sgargianti e attraverso la sua stessa storia, a partire dalle origini del mondo, fino a oggi, a noi. Non resta che aspettare l’uscita di questa nuova opera, per mostrarci la bellezza che la natura ci regala ogni giorno, anche se a volte sembriamo proprio dimenticarcene.

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I fiori di Giulia

Giulia Conoscenti, classe 91, illustratrice e animatrice, è nata e ha studiato disegno industriale a Palermo; a 21 anni lascia la Sicilia per frequentare Illustrazione presso l’ISIA di Urbino, dove si laurea nel 2017. Nello stesso anno vince il Premio Ronzinante, un contest annuale di illustrazione che incoraggia giovani illustratori e illustratrici a misurarsi con il tema della disabilità: Giulia realizza due tavole collegando l’autismo ai viaggi straordinari di Verne. Le sue illustrazioni, sempre ricche e particolareggiate, si collocano in un luogo sospeso tra il sogno e l’immaginazione, dove le figure si mescolano al paesaggio e il limite tra esterno e interno non è mai netto, ma lascia sempre una sensazione di incertezza e mistero che destabilizza chiunque l’osservi. Sono opere sono fortemente materiche, frutto di una sperimentazione continua e di una mescolanza di tecniche, dalle chine ai pennarelli, passando per gli acrilici. Il suo tratto è gestuale e la ricchezza di particolari rende le tavole fortemente narrative; non a caso uno dei mezzi narrativi che predilige è l’animazione.

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Per la sua tesi specialistica Giulia si è infatti misurata con un corto animato di cinque minuti dal titolo Fiori di tarassaco, realizzato con la tecnica del rotoscopio, con un totale di 4000 frames. Il corto non presenta parole, la struttura narrativa ruota intorno alla protagonista che sta affrontando un viaggio: seguono immagini che appaiono come sogni o visioni; abbiamo l’impressione di entrare nella sua testa e di frugare nei suoi pensieri. Quello che stiamo guardando è un’allucinazione, o forse è un sogno dove si mescolano pensieri, sensazioni, paure, momenti di insicurezza e vuoto, di affetto e di amore, tutti raccontati con una forte delicatezza. Giulia ragiona per metafore visive: la guerra, le migrazioni, i confini e le frontiere, lo specchio e la formazione dell’identità sono alcuni dei temi con cui si è confrontata, attraverso un approfondito studio, al quale ha seguito la traduzione dei concetti in immagini.

Lo stesso fiore di tarassaco è un’allegoria della migrazione; così come i semi del fiore si lasciano trasportare dal vento per raggiungere nuovi campi dove germogliare, i migranti lasciano la loro terra per cercare una nuova casa che li possa accogliere.

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Ho intervistato Giulia Conoscenti per scoprire qualcosa di più su di lei e sul suo lavoro.

La protagonista del tuo corto d’animazione Fiori di tarassaco è una ragazza con pochi tratti distintivi, difficile da associare a una determinata cultura: quanto c’è di te in lei?

Inconsciamente parecchio! Sono palermitana e ho sempre vissuto circondata dal mare e dal sole, dal calore di persone che come dice Pirandello sono “nate isola nell’isola”. Ho un forte attaccamento alla mia terra, alla sua cultura, ai suoi colori, così tanto che li sento nelle ossa, nel carattere! 

Mi sono resa conto di tutto questo quando mi sono trasferita a Urbino per studiare illustrazione all’ISIA. Un luogo totalmente altro, sconosciuto, con cui non sono mai entrata in sintonia. Un posto che era tutto tranne “isola”, tutto tranne me. So che può sembrare assurdo ma quello che ho provato era smarrimento, insicurezza, perdita. Così ho iniziato a riflettere su tutte quelle persone che emigrano, abbandonando la propria terra, casa e famiglia, costrette e non per scelta, e che diversamente da me hanno grandi difficoltà a ritornare indietro.

All’improvviso il/la migrante si ritrova completamente solo/a in un Paese straniero e comprende che può salvarsi solo con immensi sacrifici per stabilire gradualmente nuove relazioni, imparare altri codici di socialità, reinventare se stesso/a, perché di questo si tratta, di ritrovarsi e ricostruirsi.

Ho deciso di trattare il tema della migrazione e della perdita di identità, perché in parte è un problema che capisco: oggi più di prima i giovani sono migranti, molti di loro non hanno una sede fissa e vivono in un luogo che sentono estraneo.

In Fiori di tarassaco parli di lunghi viaggi, paura, ricerca di identità, lasciare le proprie radici per cercarne di nuove. Quanto è importante per un/una giovane artista mettersi in discussione?

Credo che confrontarsi con se stessi sia, a livello umano, fondamentale per crescere e per un’illustratrice indispensabile per progredire artisticamente. Non so se questo concetto sia per forza legato ad abbandonare la propria casa o mutare la propria identità, in favore della ricerca di qualcos’altro; penso dipenda dalla storia personale di ognuna di noi, dal nostro vissuto. Io ho un forte legame con la mia terra ed è per me importantissimo tornare, ogni volta che posso, per viverla e sentirla.

Qual è una storia che ti piacerebbe raccontare?

Una storia che proprio non vedo l’ora di illustrare ce l’ho! Aspetto solo il momento giusto. Da piccola mi hanno raccontato della colonia di Roanoke e del mistero dei coloni perduti, un centinaio di persone, tra cui anche donne e bambini, che alla fine del 1500 sono scomparse praticamente nel nulla. Non sono mai state trovate loro tracce, è come se fossero evaporate! Ci penso spesso, devo farci un libro, anche solo per togliermela dalla testa.

Poi in realtà, avrei voglia di raccontare mille cose: vicende sulla mia città, su persone che ho conosciuto per caso, su quella casa tutta storta che magari sarà abitata dall’uomo più dritto del mondo. Veramente mi basta anche poco: un dettaglio, incrociare gli occhi liquidi di un essere sconosciuto, un cane legato fuori dal supermercato, insomma qualcosa che mi colpisca e mi faccia immaginare una storia fantastica come quando ero piccola!

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Immagini dal sito: http://giuliaconoscenti.tumblr.com




Muri che urlano la storia

Quando nel 2015 con le colleghe dell’Osservatorio di Genere abbiamo iniziato a ragionare sul contest #leviedelledonnemarchigiane nessuna di noi poteva immaginare cosa si stava per mettere in moto. Tam tam, passaparola, vere e proprie cordate per votare questa donna o quell’altra e tra i nomi che via via si andavano aggregando, accompagnati dall’ormai indispensabile hashtag, spuntavano con sempre maggiore insistenza le partigiane, staffette o comandanti di brigata: donne antifasciste, protagoniste della Resistenza e della guerra di Liberazione che anche nelle Marche lottarono con coraggio e passione contro il nazi-fascismo. Lavorando al libro che da quel contest è nato (#leviedelledonnemarchigiane: non solo toponomastica, ODG Edizioni, 2017), abbiamo scoperto le vite che si celavano dietro quei nomi: abbiamo sentito il peso di battaglie portate avanti a testa alta, con la consapevolezza di essere dalla parte giusta, senza se e senza ma, nonostante tutto. Abbiamo percepito, a volte quasi condividendolo, il dolore di scelte difficili, di delusioni e di sconfitte davanti alle quali queste donne, che avevano percorso quasi incoscienti – l’incoscienza della gioventù e degli ideali – i sentieri impervi dei nostri Appennini nascondendo armi, ordini e messaggi in codice, seppero opporsi e resistere con la stessa forza con cui si erano opposte alle milizie in camicia nera.

A Macerata non c’è una targa murale che le ricordi espressamente eppure da quando le strade dell’OdG hanno incrociato Rosina, Leda, Radia, Egidia, Joyce, Adele, Derna, Walchiria, Ada e tutte le altre, la targa che campeggia sul Monumento dedicato Alla Resistenza nel maceratese(in copertina) ci appare inevitabilmente più ricca, più piena e più significativa. Questo muro che dal 1969 ha parlato a generazioni di maceratesi – e non – raccontando la storia dei 408 italiani, inglesi, jugoslavi, francesi, polacchi, somali e sudafricani che a Macerata caddero per la libertà. Questo muro ha parlato e continua a farlo di tutto ciò che c’è stato prima di quel fatidico 30 giugno 1944, quando finalmente Macerata venne liberata prima dai partigiani del gruppo Bande Nicolò che apposero la loro bandiera sul Monumento dei caduti – violato e deturpato dal neofascista responsabile della sparatoria del 3 febbraio 2018 che proprio lì si è consegnato ai poliziotti dopo aver ferito 6 persone inermi – e poi dai reparti dei paracadutisti della Nembo e dalle avanguardie del II° Corpo d’armata polacco. Questa è la storia, quella ufficiale declinata tutta al maschile, ma quel muro su cui campeggia la scritta Alla Resistenza nel maceratese   porta con sé e celebra anche la memoria di tutte quelle donne che lottarono e che contribuirono alla liberazione di Macerata e dell’Italia intera. Da quella targa emerge con forza anche la voce delle donne resistenti – il pensiero corre veloce ad esempio a Nunzia Cavarischia la “Stella Rossa” – che scrissero la nostra storia facendo una scelta giusta, la più difficile e dolorosa, ma giusta, non l’unica possibile certo (avrebbero potuto fare come molti, stare a casa aspettando che tutto finisse), ma la più giusta.

In foto. Nunzia Cavarischia, classe 1929. La foto campeggia sulla copertina del suo Ricordi di una staffetta, Capodarco fermano, 2011.

Scelsero di essere partigiane e lo furono nonostante tutto: “quella di Leda è la storia di una donna molto giovane ma capace di scelte determinate”; “Mimma Baldoni di nascosto porta dentro la caserma i vestiti per il travestimento… tutto pur di liberare qualcuno”; “Trascorre sette anni e mezzo tra il carcere femminile delle Mantellate di Roma e in quello di Perugia e poi due anni e mezzo al confino a Ventotene. Liberata nell’agosto del 1943, partecipa alla lotta di Liberazione a Roma”; “è portaordini del comando dei GAP di Pesaro. La sua completa dedizione alla causa resistenziale e le sue “doti non comuni” la fanno diventare un punto di riferimento per le formazioni partigiane”; “Noi eravamo piccoli ma non ci tiravamo mai indietro”; “sovversiva comunista pericolosa”; “fu perseguitata durante il fascismo”; “antifascista operaia e sindacalista”; “decide di entrare da protagonista nella Resistenza”; “Comandante partigiana del Gruppo Settebello, sottogruppo del Distaccamento Panichi del V battaglione della V Brigata Garibaldi Pesaro. Medaglia d’argento al valor militare”.

Buon 25 aprile!

 




Le immagini silenziose di Iela Mari

I libri di Iela Mari (1931-2014) possono ormai essere considerati dei classici della letteratura per l’infanzia. L’impatto che queste meraviglie hanno avuto quando sono “apparse” per la prima volta, negli anni Sessanta, è stato però piuttosto rivoluzionario. Inizialmente, infatti, il lavoro di Iela Mari non ha incontrato il favore della critica, che non lo comprendeva e non ne riconosceva l’importanza. È stato pubblicato (e lanciato anche all’estero, dove è stato apprezzato molto di più) dalla Emme Edizioni, allora diretta dalla sua fondatrice, Rosellina Archinto. Una casa editrice decisamente innovativa, che già da allora promuoveva l’albo illustrato come lo conosciamo oggi (in cui l’immagine ricopre un ruolo fondamentale, non più secondario) e il silent book (il libro senza parole), due prodotti editoriali ancora poco noti e diffusi al pubblico e di cui Iela è stata maestra.

I suoi libri sono solitamente senza parole, la narrazione è trattata attraverso le immagini, che raggiungono, così, grande potenza comunicativa. Laddove invece è presente una componente verbale (come ad esempio in Il tondo e in C’era una volta un riccio di mare, entrambi del 1974), essa diventa funzionale alle immagini, accompagnandole, sostenendole nel ritmo della storia.

1. IL TONDO

L’immagine ha dunque un ruolo centrale nell’opera di Iela Mari, che è caratterizzata da una grande ricercatezza grafica, oltre che concettuale, dall’unione di diverse esperienze creative, quali illustrazione, progettazione grafica e comunicazione, oltre a un’esperienza diretta con le bambine e i bambini delle scuole dell’infanzia, che l’autrice frequentava proprio per studiare il suo prezioso pubblico. Forme e colori vengono usati in maniera quasi astratta per ricreare atmosfere, situazioni, ambienti popolati da personaggi del regno animale e vegetale e da oggetti della quotidianità.

2. IL PALLONCINO ROSSO

In cosa potrebbe trasformarsi Il palloncino rosso (1967)? Come nasce una farfalla? E una mela? (La mela e la farfalla, 1960)? Quali forme può ricordare Il tondo (1974)? E ancora, come funziona il ciclo delle stagioni, della vita (L’albero, 1975 -in copertina)? E così via, tutti quei grandi misteri spiegati e resi accessibili, attraverso associazioni e metamorfosi, a bambine e bambini di tutto il mondo. La lingua parlata da Iela Mari, infatti, è universale: è quella dei più piccoli.

3. LA MELA E LA FARFALLA

Nel 2010 la Bologna Children’s Book Fair (una delle fiere d’eccellenza nel mondo dell’illustrazione per ragazzi) le ha dedicato una mostra, la sua prima monografica, in cui sono state esposte tavole originali, prove di stampa, disegni per tessuti per gli arredi delle camere dei bambini, menabò.  Il titolo era “Iela Mari. Il mondo attraverso una lente”e credo non ce ne sarebbe potuto essere uno più azzeccato. Quella di Iela è un’opera assolutamente intrigante, che focalizza sull’universo e sull’immaginario infantile con tenerezza. Un’opera che trova nel silenzio delle sue immagini tutta la sua potenza.

4. MANGIA CHE TI MANGIO




Tre domande ad Andrea Antinori

Classe 1992, nato a Recanati ma cresciuto a Bologna, Andrea Antinori ha studiato grafica e comunicazione visiva presso l’ISIAdi Urbino, dove ha continuato il biennio in Illustrazione. Nel 2013 pubblica con Corraini Edizioni, storico editore conosciuto per il suo catalogo che è una contaminazione di arte, design, grafica, editoria e fotografia.

Il primo libro che pubblica con l’editore milanese (2013) è Questo è un alce? al quale segue Un libro sulle balene, nel 2016, che è il suo progetto di tesi triennale.

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L’anno successivo esce L’entrata di Cristo a Bruxelles,sempre con Corraini Edizioni e in quello stesso annovince il Premio Andersen nella categoria Miglior libro 6/9 anni con La zuppa dell’orco,scritto da Vincent Cuvellier ed edito da Biancoenero Edizioni e viene selezionato tra gli illustratori esposti alla Bologna Children’s Book Fair.

Tra le case editrici con cui collabora troviamo anche Lapis edizioni, La nuova frontiera editore, Camelozampa e la spagnola A buon paso.

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Nei suoi libri Andrea realizza testo, illustrazioni e progetto grafico; il suo lavoro non si limita a illustrare, ma progetta, cura il libro in tutte le sue componenti, lo concepisce pezzo per pezzo, e infine lo assembla. Si nota infatti una coerenza costitutiva di tutto l’insieme nei suoi testi, che dialogano con le illustrazioni, senza essere grandi opere di virtuosismo tecnico, ma posseggono una apparente semplicità e una carica comunicativa che li contraddistinguono da tutto ciò che li circonda.

Andrea predilige tecniche tradizionali, è sempre ben visibile il segno, caratterizzato da un tratto spontaneo e istintivo.Il colore, quando è presente, è costituito da toni accesi e carichi, sempre in equilibrio con i grigi.

Intervisto Andrea Antinori per conoscere aspetti meno apparenti del suo lavoro.

La prima domanda è sulle idee: da cosa nasce un libro?

Dalla propria vita e dalle proprie esperienze. Detta così qualcuno potrebbe pensare che ho passato la mia vita circondato da alci, nuotando con le balene e visitando il Paul Getty museum di Malibu. Non ho fatto nulla di tutto ciò, (anzi, le balene le ho viste, ma solo dopo il libro), parlando di esperienze personali mi riferisco agli spunti che trovo in esse, o alle metafore che ne ricavo. Ad esempio il libro Questo è un alce? nasce da un momento cruciale del mio rapporto con il disegno. Prima di allora cercavo di disegnare “molto meglio“ di adesso, mi concentravo sull’esattezza e la perfezione dei soggetti che rappresentavo, ma mi richiedeva molto tempo. A un certo punto mi sono stancato, ho avuto paura che continuando così non avrei avuto voglia di fare questo lavoro, e soprattutto volevo concentrarmi sulle idee, sulle storie, e fare quindi più disegni in meno tempo. Anche sentirmi più libero in verità. E tutto ciò è quello che ho raccontato in questo libretto di trentadue pagine. L’alce diventa un pretesto, che una volta sulla carta fatto bene o male che sia, che assomigli a un alce, o che sia un alce astratto, è pur sempre un alce, e questo è l’importante.

Per le balene invece ho prodotto un libro che avesse come lettore modello me stesso da bambino; un libro che ricordasse le enciclopedie di animali che leggevo continuamente allora.Insomma, ogni mio libro parla almeno un pochino di me, ma di nascosto.

Un elemento che è una costante nei tuoi lavori è l’ironia, sempre presente nei testi come nelle illustrazioni. Si potrebbe dire che nei tuoi libri l’ironia è un mezzo narrativo?

Assolutamente. L’ironia è uno strumento molto forte per le storie, ma anche per la divulgazione. Ti permette di parlare di cose molto serie, ma prendendole con un altro spirito, rendendo questi temi più coinvolgenti e appassionanti magari.L’ironia inoltre è molto importante anche per me stesso. Quando creo una storia mi diverto molto e rido da solo quando mi vengono in mente le cose più ridicole e insensate, un po’ forse perché a volte non me le aspetto neanche io.

I tuoi libri hanno spesso una componente didattica al loro interno: nel libro sull’alce c’è un invito esplicito a far interagire il lettore, mentre nel libro sulle balene ci sono molte informazioni riguardo il mondo dei cetacei. Anche ne L’entrata di Cristo a Bruxellesc’è una qualche stramba lezione di storia dell’arte.

Come è stata la tua esperienza nei laboratori che hai tenuto con i giovani lettori?

In realtà il mio obiettivo in questi casi è quello di far passare un messaggio, o delle informazioni, senza però avere l’obiettivo di insegnare nulla. Magari è proprio dal momento che ti poni come insegnante che quel che trasmetti rischia di diventare noioso. Vorrei che bambini e bambine leggessero i miei libri con il piacere di farlo, e non come se fosse un compito.Allo stesso modo mi pongo quando svolgo i laboratori: vanno già a scuola, non voglio fare altre ore di lezione, li sfido piuttosto a porsi in un altro modo sulle idee, o sul disegno, mettendomi al loro stesso livello. Fin troppo spesso mi chiedono se quello che fanno è giusto o sbagliato, se va bene, o magari mi dicono che non sanno disegnare qualcosa. Io cerco sempre di spronarli a non pensare a cosa è giusto o sbagliato, di non scartare un’idea solo perché è strana o ridicola, ma propongo di fare quel che viene, per scoprire cosa salta fuori.

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immagini, http://andreantinori.com




Emmanuelle Houdart

Equilibrio. Questo è il termine che meglio descrive l’opera di Emmanuelle Houdart, straordinaria pittrice, disegnatrice di tessuti e costumi, autrice e illustratrice di libri, in Italia pubblicati da Logos Edizioni.

Equilibrio tra un segno nitido ed essenziale e una profusione di dettagli, disegnati con estrema meticolosità, colori forti e pattern, che rendono il suo stile assolutamente inconfondibile, originale e unico nel suo genere.

Soggetto principale del suo lavoro sono sempre le figure, declinate in ogni possibile variazione, che fuoriescono dalle pagine immerse in atmosfere oniriche e ricche di elementi e simboli, tratti dall’immaginario comune, dalla memoria collettiva, dalla contemporaneità. I temi trattati, infatti, sono diversi ma sempre ripresi dall’esperienza umana: amore, amicizia, rabbia, rapporti, paure, che ci accomunano in quanto Donne e Uomini.

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Mia Madre (scritto da Stéphane Servant nel 2016) presenta una figura quasi mitica, rivestita di simboli che vanno oltre la figura materna soggetta agli stereotipi tradizionali: da uccello libero di volare, si ritrova in gabbia, per diventare una lupa, una volpe, un giardino in cui crescono l’amore ma anche le piante selvatiche. Una Madre che dona tutto il suo affetto e allo stesso tempo è piena di emozioni, passioni, debolezze. Una Madre raccontata attraverso gli occhi di sua figlia, che inizialmente fatica a capire ogni sua sfaccettatura ma che presto riconoscerà in lei, ancor prima di una genitrice, una Donna, con tutte le sue ambivalenze. Un libro pieno di tenerezza e allo stesso tempo estremamente lucido, come molti degli altri libri dell’autrice.

Una lunga storia d’amore, scritto da Laetitia Bourget, nel 2016 (immagine di copertina), va oltre il famoso lieto fine del “vissero felici e contenti”, mostrando ironicamente le problematiche della coppia, nell’avventura del rapporto a due, attraverso gli stereotipi di come si dovrebbe essere e di come dovrebbero andare le cose.

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Un tema ripreso in Genitori felici (anche questo scritto da Laetitia Bourget), declinato su tutti gli aspetti, belli e brutti, che riguardano maternità e paternità, tra gioie, paure, scoperte e notti insonni.

Il guardaroba (2013) scarnifica invece il corpo femminile, mostrandone l’interiorità anatomica ed emotiva. La femminilità viene qui presentata in ogni sua forma come, appunto, in un curioso guardaroba, attraverso illustrazioni crude, schiette, che sezionano il corpo, primo e principale vestito di ognuna di noi.

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Amiche per la vita (ancora una volta dell’autrice Laetitia Bourget, nel 2013) racconta una splendida amicizia al femminile, che vede il superamento della diversità per arrivare alla profondità che si può creare da un’unione: due Donne protagoniste, diversissime, si incontrano, si conoscono e diventano inseparabili.

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Quella di Emmanuelle Houdart è un’opera che parla alle giovanissime generazioni di grandi temi che riguardano tutte e tutti, con un occhio di riguardo all’esperienza femminile.

E lo fa con metafore e suggestioni, con fantasia ed esuberanza, con dolcezza, con meraviglia, e con quell’immaginazione assolutamente affascinante e quella delicatezza cui ormai l’artista ci ha abituato.




L’immagine della città attraverso le illustrazioni di Viola Gesmundo

Architetta di formazione e illustratrice di professione, Viola Gesmundo nasce a Foggia ma lavora tra Rotterdam e Torino.

Nel suo lavoro è centrale il tema dell’interazione e della rigenerazione urbana; i suoi personaggi sono portatori di un dono di positività e sembrano sempre invitarci a divertirci e a non prendere la vita troppo sul serio.

Nel 2016 realizza un murale per la riqualificazione di un ex dazio ottocentesco a Torino (in copertina) e ottiene una residenza d’artista con la Foundation B.a.d. a Rotterdam, conclusasi con una grande opera site-specific.

Nel 2017 le sue opere sono state esposte in varie mostre, presso il MAO di Torino, lo Studio De Bakkerij a Rotterdam e il Museo Civico di Foggia con la personale DIORAMI 365+1.

Nel 2017 pubblica il suo primo albo illustrato Una strada per Ritache parla di una bambina, Rita, che riceve dalla sua maestra un compito speciale: scoprire che cosa non va nella sua città. Non a caso, Viola illustra una storia che parla di sviluppo sociale nella quale ci propone di guardare con occhi diversi la città.

FOTO 1. Una strada per Rita. Illustrazione

Il libro è realizzato in collaborazione con l’Associazione Toponomastica femminile e pubblicato con Matilda Editrice. Nel 2018 pubblica il suo secondo albo illustrato, Se dico no è no, edito con la stessa casa editrice.

FOTO 2 Una strada per Rita. Copertina.

Le forme che Viola disegna sono delimitate da spesse linee nere dentro le quali esplodono i colori; insieme a essi domina un ampio uso di texture, che riempiono gli spazi e suggeriscono dinamicità e movimento.

Nelle sue illustrazioni utilizza una palette di colori determinata, dove trionfano il rosso, il blu, il giallo. I suoi personaggi sono giocosi e sempre in movimento, pronti a invadere qualsiasi superficie dove è possibile dipingere. Le figure sono sempre bidimensionali e prive di sfumature. Questa essenzialità nel disegno rende le figure adatte a essere trasportate su superfici ampie: le facciate di case e le mura della città diventano una grande tela da riempire.

FOTO 3 Sconfinamenti.Illustrazione

Ho parlato con Viola Gesmundo per indagare questo rapporto tra illustrazione, architettura e street art.

– Hai studiato architettura ma hai scelto di lavorare come illustratrice freelance, e a quanto pare dipingere sui muri non ti dispiace affatto. Che significato ha nel tuo lavoro l’architettura?

– L’architettura, così come l’illustrazione, ha l’abilità di saper interpretare i desideri degli altri, del pubblico, e più in generalerendere le persone felici facendo sì che gli spazi con cui interagiscono nel loro quotidiano siano più piacevoli. Per questo un’opera di street art può essere considerata rigenerazione urbana. La rigenerazione urbana può essere infatti attuata attraverso grandi e piccoli gesti. Grandi gesti come la riqualificazione di una città, di un edificio o di uno spazio pubblico; e piccoli gesti quali la semplicità di un’illustrazione murale che ridia nuova vita con un “segno” più fruibile nell’immediato.

– Dipingere su un muro, rispetto alla carta, significa creare una rottura con il circostante. Il muro non può essere nascosto, ed è costantemente sotto gli occhi dei passanti. Si potrebbe forse dire che il muro è un mezzo di comunicazione. Cosa significa per te utilizzare un muro rispetto a un foglio di carta?

– Quando disegno su un muro, soprattutto se pubblico, sento un grande senso di responsabilità nei confronti del prossimo, in quanto ho la possibilità di rendere la giornata di un passante più allegra e colorata anche solo per un momento.

Il murale è arte pubblica, in comunicazione diretta con i passanti, che la interpretano continuamente e in modi sempre diversi, facendo prendere al disegno spesso pieghe sorprendenti.

Mi è capitato di aggiungere un soggetto in un murale in corso per il commento di un bambino o per una nonna che mi “riprendesse” per la mancanza di colore. L’arte murale diventa così arte partecipata oltre che condivisa. La carta è ugualmente un efficace mezzo di comunicazione con la differenza che spesso è rivolto a un pubblico più specifico, come la letteratura per l’infanzia in cui mi sono imbattuta ultimamente.

– La street art pare che sia una prerogativa maggiormente maschile, o forse mi sto sbagliando?

– È stata una prerogativa maschile nel modo in cui la società ha spesso considerato il “ruolo” femminile lontano da certi ambienti più “difficili” come può essere quello dell’arte urbana, che implica lo sporcarsi le mani o arrampicarsi su supporti traballanti.

Tuttavia sempre più ragazze oggi condividono le loro idee e la loro arte sui muri della città.




Il mondo blu di Gosia Herba

Corpi deformati, caricaturali sono il tratto distintivo di Gosia Herba, illustratrice polacca, debitrice di Picasso per l’uso delle forme e per l’amore incondizionato per ogni tonalità del blu.

Gosia da quasi 10 anni realizza copertine di libri e collabora con riviste periodiche, ma è anche illustratrice graphic novel e libri per bambini e bambine.

I soggetti che predilige sono le figure umane: le forme sono geometrizzate e le proporzioni non sono mai esatte ma sempre eccessive, andando a determinare una raffigurazione caricaturale, elemento ironico che permette ai suoi lavori di strappare sempre un sorriso a chi li osserva.

Nel 2014 Gosia Herba fa il suo debutto nel mondo del fumetto con Fertility, scritto da Mikołaj Pa. Si tratta di una graphic novel cupa, dai toni scuri, diversa dai soliti lavori di Gosia, che prediligono un uso del colore e di toni chiari. Non a caso, la maggior parte delle sue pubblicazioni riguardano il mondo dell’infanzia.

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Nel 2017 illustra la raccolta di poesie Poems for children per la casa editrice polacca Wydawnictwo Wolno; il libro è una selezione di poesie per bambini e bambine del poeta e scrittore di prosa Jerzy Ficowski. Le illustrazioni accompagnano i testi e descrivono con delicatezza il magico mondo infantile narrato nel testo. Nel 2017 il libro ha ricevuto una menzione d’onore dalla sezione polacca della The International Board on Books for Young People (IBBY), un’associazione che si occupa di promozione e diffusione di libri per l’infanzia.

Nel 2017 esce Raz, dwa, trzy, zaśnij ty!, una raccolta di poesie della scrittrice polacca Dorota Kassjanowicz che parla di sogni; le illustrazioni di Gosia ritraggono buffi animali antropomorfizzati.

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Ad aprile 2018 uscirà in Italia l’albo illustrato “L’elefante sulla luna”, edito da Matilda Editrice.

La storia, scritta da Mikolaj Pa, narra di un’astronoma che fa una scoperta strabiliante: osserva un elefante sulla luna! La Società Lunare non solo non le crede, ma si burla di lei e della sua ‘scoperta’. All’astronoma non rimane che una cosa da fare: costruire un razzo spaziale e partire per la volta della luna.

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La scienziata viene raffigurata come un personaggio buffo, con grandi occhiali rossi e i capelli blu, che parte coraggiosa per la luna ma non senza i suoi libri, una teiera e la sua tazza preferita. Lei crede fortemente nel suo lavoro, facendo dialogare il suo lato sognante e sarcastico con quello serio e scientifico.

L’effetto ironico è ciò che rende il libro divertente e per nulla scontato: l’ironia scaturisce dal contrasto scientifico/impossibile che pervade tutta la storia; un esempio di utilizzo di questo espediente si trova nelle tavole che raffigurano la vegetazione della luna, dove le piante sono raffigurate scientificamente, con ingrandimenti e rimandi testuali. Non possono che far pensare alla Botanica Parallela di Leo Lionni, un trattato di scienza inesistente dove l’autore illustra e descrive meticolosamente piante esistenti soltanto nell’immaginazione. L’avventura dell’astronoma non avrà solamente un fine scientifico, ma anche umano, grazie all’incontro con un singolare personaggio, un elefante magazziniere, che abita la luna e che ha una collezione molto particolare.

Le illustrazioni dell’albo non sono mai didascaliche ma invitano il lettore a un gioco di osservazione e ricerca, e a uscire dagli schemi convenzionali, perché si sa, per fare una grande scoperta ci vuole sempre un pizzico di follia, anche se questo significa andare alla ricerca del “dark side of the moon”.

Illustrazioni tratte dal sito dal sito: http://www.gosiaherba.pl/portfolio




Point Eyes a Centocelle

La Libertà

È il potere del ribelle

Il sogno del prigioniero

Il brivido sulla pelle

La spada del guerriero

 

La meta del pirata

La strada del viandante

La penna del poeta

La terra del migrante

 

Le ali di farfalle

La danza di una donna

Il volo in una valle

La notte che ti inganna

 

Il colore del pittore

La voce del cantante

La nota al suonatore

La cosa più importante.

 

La poesia è stata scritta da Er Pinto, poeta anonimo del Trullo e illustrata da Mattia Yest Pisauro. Insieme formano il duo Point Eyes, nato appena un anno fa, nel mese di giugno.

Il loro obiettivo è quello di unire in unico elaborato artistico tre discipline: la poesia, l’illustrazione e la calligrafia.

Er Pinto ha iniziato il suo percorso di Street Poetry con il collettivo “Poeti der Trullo”, scrivendo dal 2010 le sue poesie sui muri della Capitale.

Yest, alias Mattia Pisauro, conta nella propria produzione l’illustrazione di copertine di

artisti che hanno fatto la storia dell’hip hop a Roma.

Nel novembre del 2017 sono stati invitati a partecipare all’iniziativa “Gau, Gallerie Urbane” proposto dal “Progetto Goldstein” di Roma. L’intenzione è quella di creare una galleria a cielo aperto su ispirazione del modello lisboeta di “GAU, Galeria de Arte Urbana”.

Il primo passo del progetto ha visto il coinvolgimento di una ventina di artisti dediti a dipingere quaranta campane verdi nel quartiere di Centocelle. In questo modo si attua la trasformazione di un elemento urbano da semplice raccoglitore di rifiuti in vetro ad opera d’arte.

La campana dipinta dal duo Point Eyes rappresenta tantissime farfalle colorate volare all’interno di una gabbia che però non ha porte, solo sbarre. Questo sta a simboleggiare come le costrizioni mentali siano una gabbia creata dall’essere umano, da cui si può uscire, acquisendone consapevolezza.

 

 

 




Leo Lionni

«Due cinque e un dieci – una piccola simmetria all’interno dell’infinità di numeri. Due cinque: le mie mani. Dieci: le mie dita. Avrei fatto cose.»

Con queste parole, Leo Lionni apre la sua autobiografia, un viaggio tra i ricordi di una vita lunga e piena, dislocata in luoghi e campi d’azione diversi. Il titolo stesso, Tra i miei mondi, ne è testimonianza: nato in Olanda nel 1910, vivrà in Belgio, Italia, Stati Uniti e di nuovo in Italia, dove morirà nel 1999, senza contare i numerosi viaggi in giro per il mondo, che fossero per studio, lavoro o per la sua rinomata curiosità.

Fin da giovane si avvicina all’arte in ogni sua forma, dalla pittura alla scultura, dal design alla grafica pubblicitaria, fino al libro per l’infanzia. Così sperimenta l’unione di immagini e parole, la potenza comunicativa che il linguaggio visivo può avere attraverso significati suggeriti da quello verbale.

I suoi libri, infatti, propongono storie apparentemente di poco conto, ma che celano temi fondamentali per la crescita, concludendosi con un’importante presa di coscienza da parte dei personaggi e dei piccoli lettori.

FOTO 1

C’è Pezzettino, che cerca qualcosa di cui pensa di essere il pezzo mancante, per poi scoprire di essere sé stesso, fatto di tante parti.

Il topolino Federico (in copertina), che raccoglie i raggi del sole, le parole e i colori dell’estate, provviste speciali per allietare le grigie serate invernali.

Le lettere di un Albero Alfabeto, che si uniscono insieme scoprendo la forza delle parole per dire qualcosa di importante.

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E poi Piccolo blu e piccolo giallo, il suo primo e forse più noto libro. Si parla di un lavoro piuttosto radicale, definito talvolta anti-libro, che ha stravolto il modo di fare letteratura per l’infanzia, sia per la potenza del messaggio (di amicizia, ricchezza della diversità, evoluzione attraverso l’altro) sia per il modo in cui viene trasmesso. L’autore gioca con le posizioni delle due macchioline protagoniste per suggerire la narrazione e gli stati d’animo: immagine e parola diventano l’una indispensabile all’altra, capaci insieme di fornire a chi legge e osserva le tensioni e le suggestioni narrative, affettive, morali che permettono di accogliere in sé la storia e modificare le proprie certezze.

L’opera di Lionni apre a nuovi mondi possibili che parlano a bambine e bambini mai da una prospettiva infantile, ma come un adulta/o che dà l’esempio, per agire e vedere in modo differente. Essa, però, si rivolge anche a lettori e lettrici mature, colpendole come una rivelazione. Il valore della pace, dell’amicizia, della diversità, della solidarietà, del fare del bene, della poesia e della meraviglia sono messaggi di un’intensità etica disarmante, trasmessi con una leggerezza profonda in cui Lionni è maestro. Un lavoro estremamente concettuale, una celebrazione dell’umanità, un inno alla gioia che tornano a essere fondamentali, ancora di più oggi, e arrivano ai “grandi” come un appello: cercare di essere tali, per davvero e sempre, e insieme coltivare e abbracciare quella preziosa diversità, diventando (come una macchia blu che abbraccia una gialla) un po’ verdi.

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