Ida Baccini e le memorie di un pulcino

Ida Baccini nasce a Firenze il 16 maggio 1850 a pochi mesi da Emma Perodi, che era nata a Cerreto Guidi il 31 gennaio 1850. Entrambe quindi toscane in quella regione che è sempre stata patria indiscussa di grandi scrittori e artisti.

Educata come usava allora in una scuola privata gestita da due anziane signorine (l’obbligatorietà della scuola primaria diventò legge solo nel 1877 con la Legge Coppino), conseguì nel 1871 quella che allora si chiamava la “patente” di maestra e insegnò per circa otto anni in varie scuole elementari conoscendo in quel periodo il Professor Pietro Dazzi che, nel 1871, aveva fondato le scuole professionali.

Lasciò però presto l’insegnamento non riconoscendo la validità dei metodi pedagogici allora in vigore, sognando una scuola diversa.

L’esperienza fatta le fu comunque molto utile per il contatto avuto con quel mondo dei piccoli che tenne sempre presente nelle sue successive esperienze di scrittrice e collaboratrice di vari giornali e riviste.

Nel 1875 uscì il suo primo libro “Le memorie di un pulcino” per suggerimento del Professor Dazzi, pubblicato inizialmente con le sole iniziali per lasciare ai lettori il dubbio che l’autore fosse un uomo. I tempi non erano ancora maturi perché avesse successo un libro scritto da una donna!

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Collaborò successivamente con varie testate giornalistiche quali La Vedetta, su cui scriveva sotto lo pseudonimo di Cenerentola, e il Fanfulla della Domenica a cui collaboravano le più prestigiose firme dell’epoca da Carducci a Serao, a Perodi che Ida cominciò a frequentare nella libreria fiorentina dei fratelli Paggi, luogo di ritrovo dell’intellighenzia nazionale.

Nel 1884 diventò Direttrice della rivista Cordelia, fondata nel 1881 da Angelo De Gubernatis e che portava il nome della figlia del fondatore. Nata come rivista per fanciulle, Baccini ne fece un vero successo promuovendo i valori dell’educazione e della famiglia tanto da essere premiata con la medaglia d’oro del Ministero della Pubblica Istruzione nel 1890 per l’opera di moralizzazione del costume femminile tra le fanciulle di fine Ottocento.

Diresse anche varie riviste per l’infanzia: Il Giornale per i bambini e il Giornale dei Fanciulli.

Pubblicò anche testi scolastici come il fortunato “Lezioni e racconti per i bambini” del 1882 con la prefazione del Professor Dazzi, da sempre suo sostenitore, che osservava come “ I buoni libri non hanno bisogno di raccomandazioni come il buon vino non ha bisogno di frasca”.

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Sulla scia del successo delle Memorie di un pulcino uscì anche il seguito “Le memorie di un pulcino. Come andò a finire” mentre ci furono una serie di scrittrici ispirate dal suo testo: Maria Bertolini, che scrisse “Il mio pulcino”, Caterina Lorenzoni, che pubblicò “Il pulcino verde”, e Milla Vignini Palaschi, con “Ciò Ciò”. Quanto all’invenzione dell’animale come protagonista era già stata sperimentata in Francia dalla Contessa de Segur, scrittrice russa naturalizzata francese, con le sue Memoires d’un Ane nel 1860 e da Zenaide Fleuriot con la sua gallinella. Guarda caso sempre scrittrici donne.

Altri celebri romanzi furono “Una famiglia di Gatti”, in risposta al romanzo della Contessa Lara “Una famiglia di Topi, “Una famiglia di saltimbanchi” e “Il Romanzo di una Maestra” nel 1901. Dieci anni prima Edmondo de Amicis aveva pubblicato “Il romanzo di un maestro”.

FOTO 3. Intitolazione fiorentina. Foto di Laura Ciuccetti

Il 28 febbraio 1911 moriva a Firenze, stroncata da un enfisema polmonare.

La sua fu una particolare letteratura per l’infanzia che iniziò a puntare sull’intimismo e la tenerezza coniugate al fantastico. Il dialogo con i giovani lettori è mantenuto sempre in modo diretto e pervaso di tenerezza materna.

 




Griselda

È ben noto che Boccaccio è inscritto con eguale forza, spazio e fortuna sia nel filone della letteratura filogina che in quello dell’opposta letteratura misogina, dacché filo- e miso- ginia in Boccaccio non sono dati biografici, esistenziali, ma culturali, funzionali a due distinte materie di elaborazione letteraria: quello filogino incentrato sul rapporto tra amore e poesia, quello misogino sulla ricerca della ragione e su un ideale del sapiente libero da legami costrittivi.

Nel Decameron, non solo le dedicatarie sono appunto le donne, il pubblico che Boccaccio sceglie prima e più d’ogni altro, che non è poi una novità assoluta da Dante in poi, ma i narratori stessi delle novelle sono in maggioranza donne, non solo dunque solo passive fruitrici delle novelle, ma eloquenti narratrici. E le donne che nelle cento novelle vengono raccontate sono a volte gentili, acute, intelligenti, sagge, altre volte traditrici, false e rabbiose, ma il quadro del mondo femminile che emerge, di rado è dettato da misoginia, piuttosto ha la varietà e il movimento della vita stessa.

Molti studiosi, nella seconda metà del Novecento, si sono soffermati sulla novella di Griselda, poiché dalla comprensione di essa dipende, tutto sommato, il significato ultimo del Decameron. È lo stesso autore, infatti, a porre l’accento sull’esistenza di un percorso interno della brigata: da un «orrido cominciamento» a un «bellissimo piano e dilettevole» e così Griselda è stata interpretata in chiave allegorica, come immagine di Maria. L’interpretazione religiosa è giunta, persino, a vedere nei tormenti della giovane un’allegoria di Cristo, un’interpretazione storico-sociologica l’ha centrata sulla lotta sociale e intellettuale tra un nobile e una plebea e c’è stato chi ha sostenuto che Griselda è profondamente cosciente della propria dignità e dei propri diritti. Ma quella di Griselda può anche essere una “novella intellettuale”, in quanto la “virtù” della donna consiste nel contrastare la “fortuna” che le si abbatte contro, assumendo un’estrema estraneità e distanza dal mondo, tipica del nuovo intellettuale che Boccaccio vuole rappresentare. Un enigma, si è detto, che lo stesso Petrarca aveva risolto con una propria traduzione, De insigni obedientia et fide uxoria, optando per una Griselda simbolo della pazienza muliebre, ma soprattutto esempio di fermezza del buon cristiano, <<sottoposto da Dio a dure prove>>.

Credo che solo in qualche caso l’interpretazione abbia sfiorato il punto senza però centrarlo pienamente o almeno senza mai collocarsi in una visione unitaria dell’intera opera.

Secondo Tzvetan Todorov, l’unità semantica delle novelle sta nel tema di una trasgressione, che, invece di essere punita secondo l’attesa che dettano i modelli del passato, dà luogo a una vittoria grazie all’audace iniziativa personale. In questo senso, egli ritiene che Boccaccio sia un difensore della libera iniziativa e del capitalismo nascente.

A me pare che in Griselda tale schema riceva la più decisa conferma, che dà luogo al più imprevedibile dei successi.

Griselda, che non ha lo statuto sociale per diventare moglie del gran signore, viene da questi messa alla prova oltre ogni limite umano, provata nell’amore materno, nella dignità, nel ruolo di sposa. La risposta attesa dovrebbe essere quella della ribellione, della rottura del patto e quindi, senza appello, della sconfitta, la risposta dovrebbe provare che non ha la forza di spezzare lo statuto della diseguaglianza sociale dal marito. Ma Griselda rovescia ogni attesa e dunque vince. Tutto suo è il marito, i figli sono vivi e salvi, discendenza eletta sua e di Gualtieri, “savio” marito la cui fede nella donna viene sempre confermata, fino al tripudio finale, che non è trionfo dell’obbedienza, bensì rovesciamento del canone. La mite e umile pastora è signora lodata e incontrastata del suo piccolo regno. La sua ascesa sociale, facile da intraprendere, frutto inizialmente di una scelta apparentemente capricciosa del signore, e difficilissima da mantenere, attraverso circa quindici anni di torture, è ormai definitiva.  Vorrei che pensassimo a lei non come a una donna obbediente sino alla follia, ma come a una piccolissima ‘borghese’, che prende e tiene con successo definitivo un potere sociale che i modelli antichi, ch’ella contribuisce a dissolvere, avevano per secoli negato a quelle come lei.

 

In copertina. Francesco di Stefano, detto il Pesellino (1422-1457). Storia di Giselda (particolare)

 

 




Attualità di “Violetta la timida” (parte prima)

Introduzione

Un romanzo secondo la definizione di Italo Calvino,[1]  si può considerare classico quando ha ancora tanto da dire ai suoi lettori. Questo vale sia nel caso di romanzi per adulti che nel caso di romanzi per ragazzi.

Rileggendo il romanzo di Giana Anguissola, “Violetta la timida” scritto nel 1963 e che vinse il Bancarellino nel 1964, ci si può rendere conto dell’assoluta validità di questa definizione.

Il romanzo è ambientato nella Milano degli inizi degli anni  Sessanta , e parla delle avventure di una ragazzina di tredici anni, Violetta Mansueti, di una famiglia di media borghesia composta da un padre, una madre ed un fratello più grande, che frequenta una seconda media ( rigorosamente tutta femminile) e che si trova ad affrontare ogni giorno il problema della sua congenita timidezza ( o come lei dice “coniglite”) per nulla aiutata dalle compagne che la prendono costantemente in giro chiamandola “Mammola Mansueta”.

 

Piani di lettura

Un primo piano di lettura, il più immediato, diverte ed intrattiene il lettore con la briosa [2] ironia della scrittrice che descrive le disavventure della giovinetta e la sua iniziale incapacità a reagire.

Ma un piano di lettura più approfondito fa riflettere su come certi atteggiamenti e certe tendenze siano sempre esistite e sempre esisteranno. Nei primi anni Sessanta, quando erano ancora molto lontane le contestazioni studentesche ed il gap intergenerazionale, non si parlava, ovviamente , di “bullismo”[3] ma la tendenza a prendere in giro i più deboli, i timidi, quelli che per il loro aspetto fisico si prestavano ad essere oggetto di burle e scherzi ( vedi il grasso Terenzio amico di Violetta) era comunque presente.  E la sofferenza esistenziale di chi doveva subire quelle prese in giro e quelle vessazioni era la stessa.

La particolarità di questo romanzo e che, se da un lato si parla del problema, dall’altro si offre una soluzione, il che permise alle tante “ Violette” che lo lessero di affrontare e, spesso, risolvere la loro timidezza e di darne testimonianza con immutata gratitudine all’Autrice che le aiutò così validamente  a superare la loro mancanza di autostima.[4]

Influenza della pedagogia steineriana

Non si può escludere che l’Autrice, che nonostante il suo carattere brillante e determinato, era per sua stessa ammissione  molto timida,[5]  si sia rifatta, per  aiutare la protagonista  ad affrontare tutte le sue  difficoltà, alla pedagogia di Rudolf  Steiner, noto in Italia tramite le traduzioni della scrittrice Lina Scwartz[6], che era una grande amica di Rinaldo Kufferle[7], marito di Giana Anguisola

Rudolf Steiner (Murakiraly, 25/1/1861 – Dornach, 30/3/1925) è stato un filosofo e pedagogista austriaco. Fu il fondatore dell’ Antroposofia, intesa come percorso spirituale e filosofico,  una “ via della conoscenza che vorrebbe condurre lo spirituale che è nell’uomo allo spirituale che è nell’universo” ( STEINER Rudolf , Anthropological Leading Thoughts, London, Rudolf Steiner Press, 1924). Fu anche il fondatore della Pedagogia Wardolf ( la prima scuola ad essa ispirata nacque a Stoccarda nel 1919 su richiesta di Emil Milt, direttore della fabbrica di sigarette Wardolf Astoria, per i figli degli operai.)

Lo scopo di questa pedagogia è quello di educare in modo armonico e di sviluppare le facoltà cognitive-intellettuali (pensiero), quelle creativo-artistiche ( sentimento) e quelle pratico- artigianali (volontà) dell’allievo. Gli insegnanti hanno l’obiettivo di adattare continuamente le modalità di insegnamento ad una più profonda comprensione dell’individualità dell’allievo di cui  intendono sviluppare sentimenti, volontà ed intelligenza.

Nel romanzo i principi pedagogici steineriani sono  seguiti  dalla mentore di Violetta, la Signora A, sotto il cui pseudonimo si nasconde la stessa Autrice. Scegliendo Violetta come giovane collaboratrice del Corriere dei Piccoli per scrivere una pagina su quello che interessa le ragazzine, la Signora A le offre di poter realizzare il suo sogno che è quello di diventare giornalista. Inoltre le propone una Pagella della Timidezza, dove le darà  di volta in volta il  voto in base al suo comportamento in varie situazioni.  Questo le permetterà di esercitare la sua volontà sempre più atrofizzata e di controllare la timidezza a cui per troppo tempo ha lasciato campo libero.

Così, un passo alla volta, Violetta affronta situazioni che prima l’avrebbero vista paurosa e ritrosa: dal fronteggiare l’eterna antagonista, la compagna di classe Calligaris, ad ottenere dal ricco zio della sua giovane supplente di matematica la promessa di  finanziare gli studi post laurea della nipote che vuol fare la ricercatrice. Dal riuscire ad ottenere il permesso per una festicciola in casa tra amiche al costituire addirittura un Club dei Timidi per i ragazzi e le ragazze della scuola che, per vari motivi, soffrivano del suo stesso problema.

 

[1] Italo Calvino (Santiago del Las Vegas de La Habana, Cuba, 15/10/1923 – Siena, 19/9/1985) è stato un grande scrittore e giornalista italiano. Questa definizione di romanzo classico si trova nel suo volume Perché leggere i classici, Oscar Mondadori, Milano, 1995.

[2][2] Il termine  <<briosa>> riferita alla scrittrice si trova nel volume di Sabrina Fava  <<Dal Corriere dei Piccoli >> Giana Anguissola scrittrice per ragazzi, Vita e Pensiero, Milano, 2009.

[3] IL termine <<bullismo>> ed i primi libri sull’argomento compaiono a partire dagli anni settanta. Tra i primi quello dell’autore norvegese Dan Olweus  Bullismo a scuola. Ragazzi oppressi, ragazzi che opprimono, Giunti, Firenze, 1996

[4] Una per tutte la scrittrice Tiziana Colosimo, vincitrice del Primo Premio, III Ed. del Concorso Letterario Nazionale Giana Anguissola, Travo, 2012 che lo scrive in Giana Anguissola: tra le sue pagine profumo di modernità, AA.VV Giana Anguissola alla riscoperta di una grande scrittrice per ragazzi   Atti del Convegno, Roma 10 marzo 2014, Mursia, Milano, 2015.

[5] In alcuni ricordi inediti dell’Autrice si legge: “ …il mio temperamento timidissimo […]Come tutti i timidi che si sforzano di superarsi finivo poi per sembrare sfrontata, spiritosa […]la “tanto vivace”, di ritorno da Milano, riposava mezza giornata al buio, con una fascia di acqua e aceto intorno alla testa, per lo sforzo d’apparire disinvolta davanti a quegli uomini importanti che in realtà le mettevano una soggezione maledetta”. Gianfranca Mursia Re, Presentazione, in Storie di ragazze, Mursia, Milano, 1973.

[6] Lina Schwarz ( Verona, 20/3/1876 – Arcisate, 24/11/1947) è stata una scrittrice e traduttrice italiana.

[7] Rinaldo Kufferle (S. Pietroburgo, 1° novembre 1903  – Milano, 20 febbraio 1955) fu giornalista, poeta e soprattutto traduttore di grandi Autori russi come Dostoievski e  di libretti d’opera . Negli anni trenta si avvicina agli ambienti dell’antroposofia milanese e nel 1946 fonda la rivista «Antroposofia. Rivista mensile di scienza dello spirito».




Micòl Finzi-Contini

Il giardino dei Finzi-Contini narra l’amore della voce narrante anonima per Micòl, ma anche l’intreccio delle amicizie, la vita divisa tra studi, abitudini e riti familiari di alcuni ragazzi di Ferrara, quasi tutti ebrei, che vengono sorpresi e attraversati dalle leggi razziali dell’Italia fascista, che trovano riparo e paradossalmente libertà dall’esclusione nell’orto concluso di due di loro, Micol e il fratello Alberto, ricchissimi e vissuti sempre in un isolamento aristocratico che li tiene per contrasto al centro dell’attenzione nella piccola, tranquilla, solida città. Nel meraviglioso giardino della grande casa, e nel suo campo da tennis, i ragazzi, giocano, parlano, alcuni progettano, malgrado tutto, il futuro. Gli adulti appaiono gentili ed affettuosi, ma in qualche modo distanti e meno consapevoli della catastrofe che sta per abbattersi su un mondo del quale quasi mai mostrano di avvertire la straordinaria precarietà.

Micòl, al contrario, appare più conscia di ogni altro personaggio del futuro incerto e angoscioso. Ella nega il progetto e, negando il progetto, nega l’amore, non solo all’io narrante, che le sembra troppo simile a sé, troppo indifeso per la lotta cruenta che la relazione amorosa le pare richiedere, ma forse anche a sé stessa, che pure forse lo ama e al quale forse preferisce incontri senza progetto col solido Malnate, il giovane comunista, non ebreo, che, lui sì, crede nel futuro, ma che, atroce disinganno, non tornerà più dalla spedizione italiana in Russia.

Micòl sfuggente e misteriosa, Micòl seduttiva e improvvisamente fredda, Micòl saggia e infantile, che sistematicamente spiazza il narratore o ne frustra le attese.

Il romanzo, che muove dal ricordo della tomba monumentale dei Finzi-Contini, arriva improvviso al galoppante epilogo, dove gli anni dalla fine del 1939 al 1943 sono narrati in due pagine, che tuttavia aggiungono quello che dall’Esordio era stato già annunciato, ma non circostanziato, la morte di tutti i Finzi-Contini: di Alberto per tumore, e poi la morte in campo di sterminio di Micol, del padre, il colto e mite professor Ermanno, della madre, la fragile signora Olga, atterrita dai microbi, della vecchissima nonna paralitica, Regina.

Ma a suggello di tutte le vicende, l’io narrante pone le disperate parole di Micòl che dicono la sua indifferenza, anzi la sua repulsione per il futuro: ”Micòl ripeteva di continuo anche a Malnate che a lei, del suo futuro democratico e sociale non gliene importava nulla, che il futuro, in sé, lei lo abborriva, ad esso preferendo di gran lunga “le vierge, le vivace et le bel aujourdhui“, e il passato, ancora di più, “il caro, il dolce, il pio passato.”, verace profetessa dell’orrore che stava per travolgere lei e i suoi più cari insieme ad un intero mondo.




Sul limite

Nella Divina commedia Ulisse, secondo Piero Boitani, “non è una statua, ma una fiamma: è la lingua di fuoco che dice di un greco condannato a morte dal Dio di un’altra cultura” (Piero Boitani, Parole alate, Milano, Mondadori, 2004, p. 241).

Nel finale della trasposizione cinematografica di Frankenstein di Mary Shelley realizzata da Kenneth Branagh nel 1994, in uno scenario ghiacciato, ai limiti del mondo, lo scienziato, che ha osato sfidare le leggi della natura e di dio, giace morto sulla banchina che, improvvisamente comincia a spaccarsi, proprio durante la cerimonia funebre, inducendo il capitano Richard Walton e il suo equipaggio a mettersi in fuga per raggiungere la nave. Sarà l’essere da lui creato a sottrarsi alla salvezza – ma è possibile per il “mostro” la salvezza? una vita tra gli esseri umani? – e a nuotare fino a raggiungere il banco di ghiaccio su cui è coricato il corpo del suo creatore, brandendo una fiaccola con la quale gli dà fuoco e perendo insieme a lui nel rogo. Anziché Ulisse e Diomede, creatore e creatura, uniti nella stessa fiamma, che arde in un paesaggio livido come il Cocito dantesco, cupo e senza speranza. Il capitano Walton, che attraverso mille perigli voleva insieme ai suoi uomini raggiungere il Polo Nord, invece di proseguire verso la meta come Ulisse, interrompe il folle volo e decide di volgere la prua verso casa.

Il romanzo epistolare di Mary Shelley si chiude invece sul “mostro” che, raggiunto Frankenstein, ormai morto, sulla nave di Walton, si allontana poi dall’imbarcazione camminando sulla banchisa per darsi fuoco, affinché dai suoi resti carbonizzati non sia possibile comprendere come dare vita a un altro essere come lui.

Entrambi i finali, quello del libro e quello del film, sono drammatici; entrambe le opere si concludono con un rogo, elemento di catarsi, nel romanzo solamente evocato dalle parole del Demone, come Frankenstein era solito definire l’essere che aveva creato, mentre nel film il fuoco è mostrato a rischiarare la cupa notte artica, sottolineando in questo modo il contrasto tra la luce e le tenebre, il calore del fuoco e il gelo dei ghiacci. È un’immagine di sapore dantesco che richiama in modo immediato e potente uno dei Leitmotiv dell’Inferno, il contrasto tra luce e oscurità, caldo e freddo, l’occhio luminoso del Creatore e il buio cui sono dannati per l’eternità coloro che hanno vissuto nelle tenebre del peccato. Nell’Inferno il Creatore è Dio, in Frankenstein è l’omonimo scienziato, ovvero un uomo, alla fine punito per la sua hybris, come l’Ulisse dantesco. Il titolo integrale del romanzo di Mary Shelley è Frankenstein, o il moderno Prometeo, a richiamare la figura dell’eroe mitologico orribilmente punito dagli dei per avere condiviso con i mortali il dono del fuoco. Prometeo, l’Ulisse dantesco e Frankenstein incarnano in modo diverso il tema del limite umano e del suo superamento, ma sono tutti egualmente e tragicamente sconfitti. Prometeo e l’Ulisse di Dante oltrepassano il limite segnato per i mortali dalle entità divine, mentre Frankenstein addirittura si sostituisce a Dio nell’atto della creazione della vita. In epigrafe a Frankenstein, o il moderno Prometeo Mary Shelley pone la seguente citazione dal Paradiso perduto di John Milton: «Ti ho forse chiesto io, Creatore, di farmi uomo dall’argilla? Ti ho forse chiesto io di trarmi fuori dall’oscurità?». È Adamo che parla a Dio, ma le sue parole non stonerebbero se fossero rivolte dal Demone a Frankenstein, il suo creatore.  La prima edizione del romanzo esce esattamente duecento anni fa, nel 1818, seguita da quella definitiva, in parte rimaneggiata, nel 1831.

Negli stessi anni Giacomo Leopardi fa poesia delle sue riflessioni sull’infelicità.

Il piacere, illimitato e assoluto è agli esseri umani inattingibile, se non nell’immaginazione, poiché il limite è insito nella condizione umana; la continua e sempre frustrata ricerca della felicità, sancita pochi decenni prima addirittura come diritto inalienabile dalla Dichiarazione dei Diritti, si trova tutta in questo impari scontro tra finito e infinito, nell’impossibile superamento del limite. L’antagonista della “letteratura del limite” di cui sono protagonisti Prometeo, l’Ulisse dantesco e anche Frankenstein si incarna negli dei dell’Olimpo oppure nel dio cristiano; in Leopardi invece lo sguardo si sposta e la potente e invincibile nemica è la “natura matrigna”. Combatterla è impossibile e inutile, stolto è confidare nelle “magnifiche sorti e progressive” dell’umanità, saggio è accettare la propria umana insignificanza nel cosmo poiché alle stelle “L’uomo non pur, ma questo/ Globo ove l’uomo è nulla, / Sconosciuto è del tutto”.

Dal tentativo di superamento del limite si passa all’accettazione dolorosa del limite, sia pure in parte lenita dall’immaginazione; dalla dialettica essere umano/divino si passa a quella essere umano/natura, ma il problema del limite resta. Anche oggi; e forse proprio per questo le figure di Prometeo e dell’Ulisse di Dante e l’opera di Mary Shelley e di Giacomo Leopardi, una giovane donna e un giovane uomo di duecento anni fa, ci parlano così da vicino e ancora ci interrogano.

Su noi stessi e le grandi questioni del nostro presente.

 

In copertina. Particolare di Ritratto di Mary Shelley (Richard Rothwell, 1840)

 

 




Ni una mujer menos, ni una muerta más

Ciudad Juárez non è esattamente il posto ideale per farsi una bella vacanza, se sei una donna poi, meno che mai. Questa città messicana nella regione di Chihuahua è tristemente nota per l’altissimo numero di omicidi che da ormai quasi 30 anni la portano in cima alle statistiche sulla criminalità.
Una macchina accosta accanto al marciapiede. Considerata la fama della città non riesco a stare tranquilla, finché non si abbassa il finestrino: “Sali in macchina! Non è sicuro girare da sole!”.
È Susana Chávez1, ci saremmo dovute incontrare direttamente in un bar, poche centinaia di metri più avanti, ma a questo punto un passaggio lo accetto volentieri.
“Grazie, andiamo al bar di cui mi ha parlato al telefono?”
“Ti prego, non darmi del Lei. Siamo praticamente coetanee…”
Sedute davanti a una birra gelata, in una delle poche vie sicure di Ciudad Juárez, parlare con Susana è come rincontrare una vecchia amica, pur non avendola mai vista prima d’ora.
“Quando hai cominciato a scrivere poesie?”
“Ero molto piccola, avevo 11 anni. Ovviamente crescendo ho trascinato con me la mia poesia, è cresciuta anche lei.”
“C’è un filo conduttore in tutta la tua produzione?”
“Sicuramente il protagonismo della natura, del simbolismo naturale. Da grande, ho trovato grande ispirazione anche nel mondo femminile, nelle mille sfaccettature che esistono nell’approccio delle donne alla propria corporeità. Credo che questo senso di vergogna che ci è stato instillato fin da bambine abbia generato una cappa di silenzio, ma è proprio nel silenzio che una voce fa più rumore.”
“Che intendi dire?”
“Intendo dire che si può partire dal proprio silenzio, dalla propria marginalità per ritagliarsi uno spazio di libertà, di autonomia. In poche parole: non è mai troppo tardi!”
“Credi che scrivere possa cambiare il mondo?”
“A questo non so risponderti. Sono convinta che la poesia possa risvegliare le coscienze e magari, aiutare a far alzare la voce. Questo è sempre stato il mio obiettivo primario, sia come attivista sia come poetessa.”
“Cos’è che rende così grave la situazione nel Chihuahua?”
“Dal 1993 in questa regione viene portato avanti un genocidio di genere senza fine, che cresce ogni anno che passa, tanto che siamo arrivati a una media di tre donne uccise ogni due giorni. È difficile individuare i fattori che hanno portato il Messico a questa situazione, sicuramente c’è un problema culturale, c’è la criminalità organizzata e ci sono le maquiladoras…”
“Scusa se ti interrompo, cosa sono le maquiladoras?”
“Qui in Messico sono stabilimenti industriali controllati dagli Stati Uniti dove vengono assemblati prodotti che poi tornano al paese d’origine. I diritti umani nelle maquiladoras praticamente non esistono e ci lavorano moltissime ragazze per pochi dollari al giorno. Le inserisco tra i fattori che hanno fatto impennare il tasso di femminicidi in Messico, perché molte delle vittime sono operaie delle maquiladoras, che vengono rapite, violentate e uccise lungo il percorso che fanno tutti i giorni per andare e tornare dalle periferie e dalle zone rurali di questa regione.”
“C’è una speranza per Ciudad Juárez?”
“Finché il governo non si deciderà ad aprire gli occhi, a interrompere il suo silenzio complice, continueremo a essere decimate e potrà solo andare peggio. Ora come ora provo una sensazione di vuoto, abbandono e impotenza, suppongo come molti altri. Immaginare un miglioramento per quanto mi riguarda è difficile, ma nutro ancora delle speranze perché sono una donna di fede!”

Una Ciudad Juárez diversa Susana non la vedrà mai. Il 6 gennaio del 2011 l’hanno ritrovata morta sul ciglio della strada, abbandonata come un sacco di spazzatura. Aveva 36 anni.
Dopo il ritrovamento, il cadavere è stato trattenuto dalle autorità per cinque giorni e si è fatto di tutto per slegare l’omicidio di Susana dal suo attivismo politico.
“Era ubriaca…Ha incontrato tre ragazzi fuori controllo al bar, la situazione è sfuggita di mano…” hanno detto gli inquirenti, che, tradotto, suona come il solito, vergognoso “se l’è andata a cercare…”.

 

1SUSANA CHAVEZ: nata a Ciudad Juárez nel 1974 è stata una giornalista, poetessa e attivista per i diritti umani messicana. Iniziò a scrivere poesie da bambina, partecipando a molti dei festival letterari e forum culturali Messicani, offrendo anche letture delle sue poesie durante le manifestazioni per le donne scomparse e assassinate. Laureata in psicologia alla Universidad Autónoma de Ciudad Juárez, al momento della morte stava lavorando ad un libro di poemi e scriveva inoltre sul suo blog Primera Tormenta.
È conosciuta come l’autrice dello slogan “ni una mujer menos, ni una muerta más” (“non una donna di meno, non una morta in più”, usato dagli attivisti per manifestare contro il massacro delle donne di Juárez.
Fu uccisa nella sua città natale il 6 gennaio 2011.




Emma Perodi: la Signora delle Fate

Iniziamo questa lunga carrellata di scrittrici italiane per ragazze e ragazzi da un’autrice della fine Ottocento/inizi Novecento cui è stato attribuito, per la sua prolifica produzione fantastica, l’appellativo di Signora delle Fate. 

Si tratta di Emma Perodi, nata a Cerreto Guidi (FI) il 31 gennaio del 1850. La famiglia, padre ingegnere, madre di nobili origini, aveva notevoli risorse economiche che permisero a Emma di studiare e viaggiare in Italia e all’estero imparando le lingue. Ciò si rivelò fondamentale per la sua attività di traduttrice dal tedesco (tradusse tra l’altro le Affinità elettive di Goethe), dall’inglese e dal francese.

Le origini toscane hanno notevolmente influenzato le sue storie, in particolare quelle che sono considerate il suo capolavoro: le “Novelle della Nonna” pubblicate prima in settanta dispense e poi raccolte in cinque volumi tra il 1882 e il 1883 con il sottotitolo di Fiabe fantastiche, nella Biblioteca fantastica dell’editore romano Eduardo Perino.

Si tratta di quarantacinque novelle che rielaborano, rivisitandole, fiabe e leggende della tradizione toscana soprattutto casentina. Sono, infatti, tutte ambientate (tranne una) nel Casentino di epoca medioevale (XII – XIII secolo) e vengono narrate, nell’arco di un anno, la domenica sera intorno al fuoco, dalla matriarca Regina Marcucci, la nonna del titolo.

In un doppio registro narrativo lettori e lettrici seguono da un lato le vicende della famiglia Marcucci, mezzadri del podere di Farneta, un piccolo borgo sulla via di Camaldoli, e dall’altro si appassionano alle varie novelle goticheggianti, dove la fanno da padroni fate e streghe, maghi e fattucchiere, re e principesse, angeli e demoni, scheletri e mostri, gatti neri e barbagianni. Si tratta di un magnifico affresco medioevale che cattura l’attenzione dei lettori piccoli e grandi che ne restano affascinati. In uno stile quasi horror che non sarebbe dispiaciuto al re dei romanzi horror Stephen King, l’autrice recupera fiabe e leggende contadine sulla scia di quanto avevano fatto i fratelli Grimm in Germania o Perrault in Francia. 

Il Casentino, regione montuosa dell’alta valle dell’Arno, dalle sorgenti del fiume alla piana d’Arezzo, è il luogo dove si svolgono le vicende di questa specie di Decameron rustico, dove i piani narrativi della cornice e dei racconti si compenetrano.

Da un lato l’Adesso rappresentato dal podere dei Marcucci, tipo ideale della famiglia contadina della Toscana di fine ottocento e dall’altro l’Altrove di un Casentino medioevale in cui Cristo e la Vergine scendono in terra a combattere il Diavolo, l’eterno nemico; dove schiere di santi aiutano i devoti fedeli e dove spettri, scheletri e fantasmi sono presenti in un passaggio continuo tra il mondo dei vivi e quello dei morti, in un crescendo di terrore in cui tuttavia la paura non è mai fine a se stessa e la morale finale è sempre presente.

La carriera di scrittrice di Emma Perodi nasce qualche anno prima delle Novelle, “facendosi le ossa” come giornalista.  Le prime prove giornalistiche furono di collaborazione alla Gazzetta d’Italia nella cui Biblioteca comparve nel 1877 il suo primo romanzo: “Il Cavalier Puccini”. Dal luglio al novembre 1880 curò sulle pagine di “Cornelia” – rivista letteraria, educativa, dedicata principalmente agli interessi morali e materiali delle donne italiane – la rubrica “Le idee di Elena”. La rivista, pubblicata con cadenza quindicinale, era diretta da Aurelia Folliero de Luna Cimino, fervente patriota e sostenitrice dell’emancipazione delle donne italiane.

Trasferitasi a Roma, Emma Perodi collaborò con il “Fanfulla della domenica” e poi nel 1881 divenne collaboratrice, e successivamente direttrice, del “Giornale per i bambini”, fondato e inizialmente diretto da Ferdinando Martini. Un’altra esperienza giornalistica la ebbe come collaboratrice dal 1896 al settimanale illustrato “Il tesoro dei bambini” e al “Messaggero della Gioventù”, dal 1899 al 1902. 

Ebbe anche una vasta produzione di romanzi per adulti da “Sull’Appennino” a “Il Principe della Marsigliana”, da “Romanzo romano”, a “La tragedia di un cuore”.

Ma la massima popolarità la scrittrice la raggiunse con le fiabe, dalle “Novelle a mano libera” alle “Fiabe fantastiche”, dalle “Fiabe elettriche” alle “Fate d’oro”. Seguirono tutta una serie di libri di fate (Le fate belle, le Fate e i bimbi, Le Fate dei fiori) e vari altri libri per l’infanzia di cui ricordiamo solo alcuni titoli: “Cuoricino ben fatto”, “Nel canto del fuoco”, “I bambini di diverse nazioni a casa loro” in cui l’autrice, in un contesto di multiculturalità, sottolinea i caratteri universali dei racconti per le giovanissime generazioni pur nelle diversità dei singoli Paesi. 

Nell’ultima parte della sua produzione letteraria emergono l’interesse per la storia e la realtà della Sicilia. Escono così le ampie raccolte “Al tempo dei tempi: Fiabe e leggende del mare, dei monti e delle città di Sicilia”, omaggio all’isola e alla città di Palermo dove si trasferì negli ultimi vent’anni della sua vita morendovi di polmonite il 5 marzo 1918, esattamente cento anni fa. 




Emilia, la mamma di Alessandro

Tra pochi giorni sarà proclamato il libro vincitore del Premio Strega 2018. Nella cinquina dei finalisti appare il nuovo romanzo di Lia Levi, Questa sera è già domani, in cui è narrata la storia di una famiglia ebraica a Genova, durante gli anni del fascismo e poi delle leggi razziste. La storia di due sorelle, Emilia e Wanda, dei loro mariti, Marc e Osvaldo, del vecchio padre delle sorelle, Luigi, e del protagonista, Alessandro, il figlio di Marc e di Emilia.

Marc Rimon, belga di nascita, trapiantato in Olanda, di passaporto inglese, di madrelingua francese, intagliatore di diamanti, trasferitosi a Genova, racchiude in sé alcuni caratteri tipici dell’ebreo d’Europa, poliglotta e capace di racchiudere dentro di sé lingua, culture, modi di vivere diversi, elementi ai quali senza ch’egli, non religioso, non osservante, mostri di averne consapevolezza, dà unità l’identità ebraica, che, malgrado il suo distacco dalla tradizione, vive tuttavia in qualche modo dentro di lui.

Emilia non ama quel marito dall’humoursottile, educato e gentile. Il loro è stato un matrimonio combinato, ma non è questo, un’usanza diffusa, che procura disagio a Emilia, piuttosto è il fatto ch’egli sia uno straniero, cosa che le comunica un fastidioso sentimento di differenza, così come pure non aver parenti di lui da poter presentare, malgrado apprezzi di tenere lontane persone che potrebbero darle fastidi, come la suocera, che vive in Olanda. Nei primi anni del matrimonio, Emilia, più per noia che per reale ostilità, cerca il conflitto col marito, ma la calma incrollabile di lui, se da una parte le fa credere di aver a che fare con un debole, le infligge frustrazione, l’impressione di urtare contro un muro che non può essere attraversato.

La noia e la separatezza fra moglie e marito subiscono però un’improvvisa scossa quando il piccolo Alessandro, a soli quattro anni, rivela doti eccezionali, legge e scrive correntemente sia in italiano che in francese e quando viene iscritto a scuola, ben presto le maestre convocano i genitori, perché il bambino è straordinariamente avanti rispetto ai suoi coetanei, così, su loro impulso, viene iscritto a due classi successive. Il mondo pare cambiare per Emilia, che si dice come la sua vita è stata fino ad allora piena di buchi neri ed ora qualcuno, forse Dio, vuole ripagarla con quel figlio genio, nel quale si compiace per alcuni anni, divenendo meno rancorosa verso il marito e da allora quasi “correndo per mano a lui” insieme a quel figlio eccezionale.

Il tempo mostra, però, come Alessandro non è un genio, è stato solo molto precoce, così, a partire dai primi anni del ginnasio, comincia a incontrare alcune difficoltà, al punto che per alcune materie deve seguire lezioni private. La madre reagisce negativamente alla delusione e da allora riserva al figlio un rancore, un’ostilità, un certo disprezzo, che seppure, espressi in rare occasioni, il ragazzino sensibile avverte senza dubbi e via via che cresce sente aumentare il suo distacco affettivo dalla madre, che giudica cattiva. Riconosce invece l’amore del padre, che lo guarda attento e con silenziosa comprensione; l’amore del nonno, che, vedovo di una moglie colta, tenta sui ricordi delle parole di lei, di comunicare al nipote elementi dell’ ebraismo, dal quale tuttavia la famiglia si sente lontana; l’amore degli zii che, privi di figli propri, riversano sul nipote un affetto parentale. E nella dolce zia Wanda, Alessandro finisce per vedere la madre che avrebbe voluto, la madre buona.

Gli anni che trascorrono precipitano però la famiglia nel buco nero delle leggi antiebraiche, con i disagi, le umiliazioni, le fratture, l’esclusione che esse comportano. Marc ha passaporto inglese e comincia a valutare la possibilità che si trasferiscano in Inghilterra: quel che avviene in Germania, in Cecoslovacchia, in Austria non gli pare offrire adito a dubbi, anche se molti continuano a resistere all’evidenza. Dopo qualche tempo tutti i parenti, decine di cugini, zii, nipoti, e poi nonni, cognati, si riuniscono insieme per alcuni giorni in una grande villa del fratello di Osvaldo. Vengono prese decisioni diverse. Alcuni intendono partire per i luoghi più lontani, Singapore, Cuba, l’America latina, e si stabilisce di creare un fondo di aiuto per chi, volendo andar via, non ne abbia le possibilità economiche, ma altri decidono di restare, credono di poter superare la tempesta. Fra loro è Emilia, che non vuole lasciare l’Italia per l’Inghilterra, né per altri luoghi, non vuole separarsi dal padre, dalla sorella, da ciò che conosce. E Alessandro pensa di nuovo che la madre non l’ama, che non vuole salvarlo e glielo grida, non ottenendone che brevi frasi di disprezzo, che sembrano però al lettore piuttosto una difesa contro quello che appare troppo orrendo per essere guardato, ma Alessandro è troppo giovane e troppo spaventato per comprenderlo e si approfondisce in lui l’ostilità verso la madre.

Saranno gli eventi a trasformare ancora una volta i sentimenti, insieme alla vita. Scoppia la guerra e la famiglia sente il pericolo sempre più vicino: Mussolini potrebbe decidere di seguire l’alleato tedesco nell’avventura che appare all’inizio così facile, coronata da successi rapidissimi e schiaccianti. Ma ancora Emilia resiste a partire, e il marito non sa contrastarla, anche in lui trova spazio la tentazione di abituarsi al sempre peggio, a scendere insensibilmente quelli che uno dei personaggi, non a caso una ragazzina, chiama “i molti gradini dell’inferno”. I giovani appaiono infatti, più volte nel romanzo, dotati di maggiore consapevolezza del pericolo, forse per la loro maggiore vitalità, per la forza animale che li spinge con violenza a voler vivere, a volersi salvare. Presto l’Italia entra in guerra e per Marc, col suo passaporto inglese, è il confino, una condanna che, in un oscuro paesino marchigiano, si rivela una parziale oasi di tranquillità, ma ambigua e incerta. Alessandro che, come la madre, è italiano, non è tenuto a restare al confino, e dopo qualche tempo viene mandato dai genitori presso gli zii, perché possa continuare gli studi alla scuola ebraica, dopo l’allontanamento dal ginnasio pubblico.

E arrivano i giorni del settembre 1943. Dopo un’illusione brevissima di pace vicina, la situazione per gli ebrei precipita, arrivano, ora dopo ora, notizie terribili. Emilia continua a opporre resistenze a una fuga ormai difficilissima: in Italia c’è il papa, i tedeschi non oseranno spingersi oltre.  Stavolta, però, sono le sue parole a cadere nel vuoto, bisogna andar via. Il nonno, ormai morente, viene trasferito sotto falso nome nell’ospedale, dove come ebreo non potrebbe essere ammesso, Wanda e Osvaldo, con un breve discorso, consumano il loro distacco dai parenti: ognuno dovrà tentare di salvarsi per sé. È questo un annuncio inatteso, che delude e rattrista Marc ed Emilia, che però rapidamente si procurano documenti falsi, in cui hanno un cognome non ebraico, Ferrari, e prendono accordi con certi contrabbandieri, che attraverso le montagne, cercheranno di farli passare in Svizzera. Al momento della partenza, Alessandro, malgrado i genitori si raccomandino affinché non trattenga nulla che possa identificarli come ebrei, ha un moto violento di ribellione: porterà con sé a qualunque costo la stella di Davide d’oro e smalto regalo della nonna, che ha serbato fin da piccolissimo. Qualcosa avviene in Emilia, che osserva Alessandro come vedendolo improvvisamente in un modo nuovo. Con gesti dai quali emerge una strana umiltà verso quel figlio, che ha sempre curato, ma che per molto tempo aveva smesso di rispettare, scuce la manica della giacca di lui, vi inserisce il ciondolo amato, poi la ricuce con punti attenti, piccolissimi.

Il passaggio sulle montagne avviene in modo drammatico e, durante una sosta piena di affanni in una vecchia baita, i tre fuggiaschi incontrano una donna ebrea, che il marito e i figli hanno lasciato indietro, perché per una caduta si è spezzata una gamba. La cosa sconvolge Alessandro, che non sa trattenersi dall’esprimere alla donna un giudizio di rimprovero per quelli che l’hanno abbandonata. Ma la donna li difende: è stata lei a obbligarli, minacciando di spezzarsi da sola l’altra gamba se non avessero proseguito. Alessandro si chiede se sua madre avrebbe fatto un tale sacrificio per lui, e immediatamente, senza comprendere ancora cosa significa quella risposta si dice, che sì, anche sua madre avrebbe fatto lo stesso per lui.

Dopo altri incidenti, la famiglia arriva al confine svizzero. Purtroppo, i loro documenti falsi, ma perfetti, fanno sospettare ai frontalieri che essi mentano e non siano ebrei. Spiegano che troppi chiedono asilo e non si possono accogliere persone che rischino meno degli ebrei e dei perseguitati politici, come chi scappa ‘solo’ dalla guerra e dalla fame. Inutili gli interrogatori ai quali i tre sono sottoposti separatamente: ognuno di loro dice le stesse cose, senza contraddizioni, ma può essere una falsa versione concordata. Non sono creduti, devono andar via, saranno riportati in Italia. Alessandro si ribella nuovamente, stavolta con violenza centuplicata, come centuplicato sente il pericolo: si aggrappa al piede della scrivania dell’ufficio in cui si trovano, non si riesce a staccarlo. L’ufficiale comandante è colpito, lo calma. Accetta di dar loro un’altra possibilità, tuttavia hanno bisogno di una prova. Marc chiede che controllino la sua cittadinanza inglese, ma l’ufficiale, dice che non c’è tempo, ci vuole una prova irrefutabile subito, e inutile era già stato l’accenno di Marc alla circoncisione, tanti non ebrei sono circoncisi. Alessandro, ch’era rimasto seduto a terra, si alza con occhi fiammeggianti, toglie la giacca chiede delle forbici, i soldati temono che voglia minacciare di uccidersi, ma è Emilia a capire, a ricordare subito. Prende la giacca, con calma chiede un paio di forbici, le ottiene e di nuovo scuce la manica, estrae la stella di Davide, che il figlio afferra e, sollevandola alta, la mostra, luminosa, splendente nella luce. Sono salvi. I frontalieri li portano in auto in un piccolo paese vicino, al centro di smistamento. Nell’ufficio in cui entrano, intravedono figure sparse, nella penombra, sedute. Un piccolo gruppo più compatto è in piedi, in un angolo. Discutono.? No… pregano. “Il Lehà Dodi li raggiunge improvviso: “Vieni mio amato, incontro alla sposa, accogliamo lo Shabbàt” da secoli c’è qualcuno che continua a cantarlo. Adesso è già sabato. Sono in pochi, non hanno raggiunto di sicuro il minian. Alessandro si è mosso, la madre lo segue”.

La violenza che voleva cancellarli ha fatto sì che Alessandro ed Emilia ritrovassero la propria identità, l’identità di figlio, l’identità di madre, l’identità ebraica. Una nuova vita li attende, piena di consapevolezza e di amore.




Lina Schwarz. Ancora… e poi basta

Nel panorama delle scrittrici per ragazze e ragazzi vissute a cavallo tra l’800 e il 900 merita un posto d’onore Lina Schwarz, l’indimenticabile Zia Lina, come lei stessa volle venisse scritto sulla sua tomba. 

Nata a Verona il 20 marzo del 1876 si trasferì a Milano all’età di dieci anni. Di costituzione fragile interruppe gli studi iniziati alla scuola pubblica per continuarli privatamente. Si dedicò alla letteratura ma anche a opere di impegno sociale. Infatti si iscrisse all’Unione Femminile e collaborò all’Associazione La Fraterna seguendo le bambine nelle letture e nelle attività ricreative.  Promosse anche l’Associazione Scuola e Famiglia, per aiutare le famiglie bisognose. 

Cominciò nel 1904 a pubblicare una raccolta di filastrocche e poesie intitolata “Il libro dei bimbi” edito da Bemporad, che ebbe grande successo e numerosissime ristampe curate da vari artisti.  In seguito iniziò a collaborare al Giornalino della Domenica di Vamba e al Corriere dei Piccoli.

Ma fu anche un’ottima traduttrice, traducendo dal tedesco le opere dell’antroposofo e pedagogista austriaco Rudolf Steiner e facendole così conoscere in Italia.

Conobbe anche la contessa Augusta Ramponi, in arte Gugù, cui la legava  il comune impegno nel sociale e nell’insegnamento ai meno abbienti e che illustrò la sua raccolta di poesie “Ancora”.

Le sue poesie, riportate spesso anonime in antologie scolastiche e in altri libri di divulgazione, colpiscono per la loro freschezza e originalità. Un esempio per tutti la famosissima “Stella stellina” che tutti conoscono anche se non tutti ne conoscono l’autrice.

Stella stellina

la notte s’avvicina

la lampada traballa,

la mucca è nella stalla

la mucca ed il vitello,

la pecora e l’agnello,

la chioccia ed il pulcino

 e ognuno ha il suo bambino

e ognuno ha la sua mamma 

e tutti fan la nanna.

In quegli anni spesso le poesie per l’infanzia erano leziose e a volte lacrimose con una sfumatura buonista che aveva, nell’intento degli autori, precisi scopi educativi. Le poesie di zia Lina invece sono divertenti, simpaticamente un po’ complici del bambino e delle sue birichinate. Ricordano per certi versi le poesie di Gianni Rodari e non sono esenti da un pizzico di surrealismo sulla falsariga dei nonsense dei poeti inglesi, primo fra tutti Edward Lear. 

Ad esempio:

Il rinoceronte

che passa sul ponte

che salta, che balla

che gioca alla palla,

che sta sull’attenti,

che fa i complimenti

che dice buon giorno

girandosi intorno

e gira e rigira

la testa gli gira

che non ne può più…

e pum casca giù.

L’intento educativo è presente sia pur in modo lieve, la vicinanza a bambini e bambine ai loro problemi piccoli e grandi è costante. Così si possono affrontare anche concetti importanti quali la necessità di porsi dei limiti, l’atteggiamento dei bambini di fronte ai grandi, addirittura l’accettazione della morte come facente parte della natura. 

Riconoscendo gli aspetti educativi della musica scrisse anche “Canzoncine per i bimbi con accompagnamento di pianoforte”, poesie musicate da Elisabetta Oddone  “Cantiamo: 32 canzoncine per bambini con accompagnamento di pianoforte”, poesie musicate da Virginia Mariani Campolieti.

La scrittrice visse a Milano fino al 1943 quando, a causa della guerra, e per sfuggire alle persecuzioni contro gli ebrei, andò ad Arcisate in provincia di Varese. Non sentendosi sicura neanche lì, riparò a Brissago, in Svizzera, fino alla fine della guerra.

Tornata ad Arcisate dove i nipoti si erano stabiliti nella fattoria La Monda, vi rimase fino alla morte avvenuta il 24 novembre 1947.

A Lina Schwarz venne intitolata la scuola elementare di Arcisate con la seguente motivazione:

“ Affinché gli alunni di oggi e di domani ne conservino il ricordo e la sua poesia limpida e fresca parli sempre al loro cuore un linguaggio di pace, di amore e di fratellanza”.




Vanda

L’importanza dei personaggi letterari non è definita dallo spazio che occupano nell’opera in cui compaiono, e ciò è immediatamente evidente, per esempio, riguardo all’azione di un romanzo in cui l’assassino appaia improvviso e inatteso sul finale, agisca e si dilegui immediatamente e per sempre. Spesso più sottile da cogliere per il lettore, e a volte, credo, persino per l’autore, è il peso simbolico, ma pure biografico, psicologico, delle creature che, di invenzione o realmente esistite, vivono tuttavia, per un breve tratto o anche solo per accenni, nelle narrazioni. È questo, mi sembra, il caso di un personaggio che viene intensamente, ma brevemente narrato, senza neppure citarne il nome, nella grande opera di esordio di Primo Levi, Se questo è un uomo, ma che, attraverso le notizie e le testimonianze sulla vita dell’autore, attraverso sparsi lacerti e tracce nelle sue opere successive, per accenni nelle interviste dei giorni che precedettero immediatamente la sua tragica morte, e per altre testimonianze, sappiamo essere Vanda Maestro, donna fondamentale nella vita di Primo Levi.

Vanda Maestro, di famiglia ebraica, nacque nel 1919 a Torino, dove suo padre, Cesare, di Trieste, si era trasferito e dove, con la moglie Clelia Colombo, gestiva un negozio. Conseguita la maturità classica a Torino, Vanda si laureò in chimica a Genova nel 1942. A Torino, nella Biblioteca della scuola ebraica, presso il Tempio in via Sant’Anselmo, già da qualche anno aveva stretto amicizia con alcuni coetanei con cui condivideva l’intellettualità, l’antifascismo e l’amore per la montagna, fra questi vi erano Primo Levi, Luciana Nissim, Franco Momigliano, Ada della Torre, Emanuele Artom, Eugenio Gentili Tedeschi, Bianca Guidetti Serra e altri ancora che non furono risparmiati dalle leggi razziali. A partire dal 1942, mentre gli eventi precipitavano, una parte del gruppo si trasferì a Milano, ma continuò a incontrarsi in casa di Ada della Torre. Dopo l’8 settembre, Vanda, Luciana Nissim, Primo Levi con pochi altri amici costituirono una minuscola banda partigiana presso Amay. Arrestati il 13 dicembre 1943, dopo due mesi di carcere ad Aosta, furono portati a Fossoli, dove riuscirono a restare insieme e si riunì a loro anche Franco Sacerdoti, ebreo napoletano, che aveva lavorato a Torino entrando nel gruppo degli amici della Biblioteca, anch’egli salito in montagna, ma con un altro gruppo, e poi catturato. Franco sarebbe stato fucilato durante una “marcia della morte”. Dopo un mese a Fossoli, ancora insieme i quattro amici vengono deportati ad Auschwitz-Birkenau. Dopo atroci vicende, Primo e Luciana sarebbero tornati a casa, Franco sarebbe stato fucilato durante una “marcia della morte”, Vanda inviata alle camere a gas nell’autunno del ‘44. 

Poche le parole a lei dedicate in Se questo è un uomo. I prigionieri sono ammassati nei vagoni che li portano verso una destinazione ignota, fra questi Primo e i suoi amici, che non sanno illudersi sula tragicità di quanto sta per succedere. ”Accanto a me, serrata come me fra corpo e corpo, era stato per tutto il viaggio una donna. Ci conoscevamo da molti anni, e la sventura ci aveva colti insieme, ma poco sapevamo l’uno dell’altra. Ci dicemmo allora, nell’ora della decisione, cose che non si dicono tra i vivi. Ci salutammo, e fu breve; ciascuno salutò nell’altro la vita. Non avevamo più paura.” 

I due corpi serrati, in una intimità tremenda eppure ancora dolce e confortante, poi l’ora estrema della decisione. Cosa resta da decidere a coloro che erano già destituiti di scelta?, a loro indotti a dirsi cose che i vivi non si dicono? Decidere, forse, se restare umani, decidere se piegarsi o continuare una ostinata, disperata resistenza, ancora più disarmata, ancora più invisibile. Mentre salutano uno nell’altro la vita, cioè il desiderio, l’amore e il futuro, privi di paura, come chi non spera più, loro, le vittime innocenti, sono più vive e vitali dei carnefici. Eppure, Levi lo sa, qualcosa muore allora per sempre in loro. Muore la giovinezza, muore l’illusione antica sull’uomo. Dopo la shoah, per molti muoiono l’arte e la filosofia, muore Dio. Tuttavia, Levi continuerà a vivere e a testimoniare, continuerà a credere che l’uomo può educarsi a fare il bene, e Vanda tornerà ancora nei suoi scritti. Nel 1953, nell’articolo “Testimonianza di un compagno di prigionia”, ritrovato e attribuitogli con certezza da Giovanni Falaschi dal 2001, Levi scrive: “Chi da Birkenau è tornato, ci ha raccontato di Vanda, fin dai primi giorni prostrata dalla fatica, dagli stenti, e da quella sua terribile chiaroveggenza che le imponeva di rifiutare i penosi inganni a cui così volentieri si cede davanti al danno supremo. Ci ha descritto la sua povera testa spogliata dei capelli, le sue membra presto disfatte dalla malattia e dalla fame, tutte le tappe del nefando processo di schiacciamento, di spegnimento, che in Lager preludeva alla morte corporale. E tutto, o quasi tutto, sappiamo della sua fine: il suo nome pronunciato fra quelli delle condannate, la sua discesa dalla cuccetta dell’infermeria, il suo avviarsi (in piena lucidità!) verso la camera a gas ed il forno di cremazione”; e ne La tregua riporta la testimonianza di Olga, una compagna di prigionia di Vanda “Vanda era andata in gas, in piena coscienza, nel mese di ottobre: lei stessa, Olga, le aveva procurato due pastiglie di sonnifero, ma non erano bastate”. Ne Il sistema periodico, del 1975, fa il suo nome narrando la storia del piccolo, ingenuo gruppo partigiano in cui erano insieme: […] i partigiani più disarmati del Piemonte, e probabilmente anche i più sprovveduti”. 

E certo ancora pensando a Vanda, aveva scritto il 9 gennaio 1946 la poesia 25 febbraio 1944, data della sua entrata a Monowitz) pubblicata poi nella raccolta Ad ora incerta, uscita nel 1984:

Vorrei credere qualcosa oltre,

Oltre la morte che ti ha disfatta.

Vorrei poter dire la forza

Con cui desiderammo allora,

Noi già sommersi,

Di potere ancora una volta insieme

Camminare liberi sotto il sole.

Tornerà ancora Vanda, come un dolore, come un tormentoso rimorso degli ultimi giorni, dolore e rimorso confidati, tra molte reticenze a Giovanni Tesio (si veda per questo l’articolo di G.Falaschi, su “Doppiozero” dell’8 aprile 2016).  

Potremmo chiederci se si può parlare di Vanda come “personaggio letterario”. La materia è storia, atroce e vera. Ma, dal canto suo la letteratura non è finzione, bensì universalizzazione e resa esemplare della vita.     

Anche Luciana Nissim ci racconterà della prigionia di Vanda ad Auschwitz, vissuta con lei in larga parte, ma non fino in fondo, prima in una testimonianza del 1946 e poi più diffusamente nel suo tardo libro di memorie Ricordi della casa dei morti e altri scritti, del 2008, in cui si spingerà a parlare anche dei sentimenti di Primo per Vanda, ma è una storia diversa che sarà utile, doloroso e necessario, raccontare in un’altra occasione.