A Boston da Elizabeth

È Elizabeth1in persona ad aprirmi la porta del suo appartamento di Boston.
Non posso far a meno di notare il contrasto che c’è nell’arredamento della casa: una combinazione di mobili moderni e di quadri che, invece, sembrano venuti da un’altra parte del mondo.
“Complimenti, signora Bishop! Bellissima casa! È un arredamento molto particolare, c’è una storia dietro a ciascuno di questi pezzi?”
“Grazie! Ho vissuto in Brasile molti anni, in una casa molto moderna e quando sono tornata ho deciso di portarmi dietro i mobili che amavo di più. Allo stesso tempo però, ho acquistato anche molte opere d’arte indigena, alcune molto belle, che mi sembrava un gran peccato lasciare lì.”
“In qualsiasi antologia si parla dei suoi grandi viaggi in giro per il mondo… Quali sono stati i luoghi che più l’hanno affascinata?”
“So che questo è quello che si scrive di me, ma, giuro, non ho viaggiato poi così tanto! Sicuramente ho visitato molti luoghi quando ero giovane, dall’Europa all’America Latina, ma se penso ai giovani di oggi, alle infinite possibilità che hanno di spostarsi, mi rendo conto di non aver viaggiato poi così tanto.
Però, per quello che ho visto, sono rimasta stregata dall’Italia, tanto che ci voglio assolutamente tornare! E dal Brasile, sicuramente… Anche perché è lì che ho poi deciso di stanziarmi, è lì che mi sono innamorata di Carlota.”
“Lei scrive quando viaggia?”
“A volte sì, dipende… Di solito tengo un diario di viaggio, prendo appunti di sensazioni, spesso anche di interi versi, in modo da non dimenticarli!”
“Perché scrive poesie? Cosa della poesia la attira più degli altri generi letterari?”
“Ho cominciato a scrivere poesie che avevo solo 8 anni. Ero una bambina molto isolata e credo che fosse il mio modo per rendere familiare quello che avevo intorno.
La poesia è sempre stata il modo più naturale per me di esprimere ciò che sentivo. Non ho mai avuto intenzione di diventare una poeta, perché ritengo sia decisamente più importante continuare a scrivere poesie piuttosto che pensare a sé stessi come poeti che scrivono per lavoro. Chi si etichetta in questo modo cosa fa quando l’ispirazione non c’è? Cosa fa durante i tanti periodi di vuoto? La poesia dovrebbe essere, a mio giudizio il più inconscia possibile…”
“Sono assolutamente d’accordo con lei. Quanto ci mettono di solito i suoi versi a passare dalla sua mente alla carta?”
“Alcuni 10 minuti, altri 40 anni. Una qualità che manca a molti poeti è la pazienza. Io invece so aspettare, a volte mi rendo conto di metterci troppo, ma per creare qualcosa di bello, qualcosa di buono, non possiamo permetterci di avere fretta.”
“Cos’è che la ispira?”
“Non è facile individuare una fonte d’ispirazione. Non si può mai sapere quando, dove e perché una determinata cosa possa spingerci a scrivere una poesia. A volte, nei versi che scrivo rivive un’emozione di trent’anni fa, che ai tempi non mi sembrava nulla di speciale. Ma la mente e gli occhi di un poeta registrano tutto, bisogna solo avere la pazienza di aspettare che ci rivelino le meraviglie di ciò che hanno osservato!”
“Parlavamo prima di viaggi: I suoi versi sono intrisi dell’immaginario geografico. Ad esempio, in ‘Geography III’ mi è sembrato molto presente il tema della ricerca di un luogo da poter chiamare casa, di un senso d’appartenenza. È scrivere poesie il suo modo di cercare ed eventualmente trovare quella casa?”
“Non è un caso che molte di quelle poesie le ho composte quando ho deciso di lasciare il Brasile, dove avevo vissuto per vent’anni. Eppure, ho sempre avuto questa sensazione strana di sentirmi di avere una casa, ma di non saperla effettivamente identificare con nessun luogo specifico.
Ecco, io credo che questo sia il tipico senso di appartenenza dei poeti: la sua casa, se la porta dentro.”

1ELIZABETH BISHOP nata a Worcester nel 1911, è ritenuta una delle più importanti poetesse statunitensi del ventesimo secolo. Vinse illustri premi letterari, tra cui il National Book Award nel 1970, e il Premio Pulitzer per la poesia nel 1956. Morì a Boston il 6 ottobre del 1979 a causa di un aneurisma cerebrale. Sulla sua lapide sono incisi i due versi che chiudono la sua poesia “The Bight”, che tradotti recitano “tutta l’attività disordinata continua, terribile, ma allegra”.




Lina Schwarz. Ancora… e poi basta

Nel panorama delle scrittrici per ragazze e ragazzi vissute a cavallo tra l’800 e il 900 merita un posto d’onore Lina Schwarz, l’indimenticabile Zia Lina, come lei stessa volle venisse scritto sulla sua tomba. 

Nata a Verona il 20 marzo del 1876 si trasferì a Milano all’età di dieci anni. Di costituzione fragile interruppe gli studi iniziati alla scuola pubblica per continuarli privatamente. Si dedicò alla letteratura ma anche a opere di impegno sociale. Infatti si iscrisse all’Unione Femminile e collaborò all’Associazione La Fraterna seguendo le bambine nelle letture e nelle attività ricreative.  Promosse anche l’Associazione Scuola e Famiglia, per aiutare le famiglie bisognose. 

Cominciò nel 1904 a pubblicare una raccolta di filastrocche e poesie intitolata “Il libro dei bimbi” edito da Bemporad, che ebbe grande successo e numerosissime ristampe curate da vari artisti.  In seguito iniziò a collaborare al Giornalino della Domenica di Vamba e al Corriere dei Piccoli.

Ma fu anche un’ottima traduttrice, traducendo dal tedesco le opere dell’antroposofo e pedagogista austriaco Rudolf Steiner e facendole così conoscere in Italia.

Conobbe anche la contessa Augusta Ramponi, in arte Gugù, cui la legava  il comune impegno nel sociale e nell’insegnamento ai meno abbienti e che illustrò la sua raccolta di poesie “Ancora”.

Le sue poesie, riportate spesso anonime in antologie scolastiche e in altri libri di divulgazione, colpiscono per la loro freschezza e originalità. Un esempio per tutti la famosissima “Stella stellina” che tutti conoscono anche se non tutti ne conoscono l’autrice.

Stella stellina

la notte s’avvicina

la lampada traballa,

la mucca è nella stalla

la mucca ed il vitello,

la pecora e l’agnello,

la chioccia ed il pulcino

 e ognuno ha il suo bambino

e ognuno ha la sua mamma 

e tutti fan la nanna.

In quegli anni spesso le poesie per l’infanzia erano leziose e a volte lacrimose con una sfumatura buonista che aveva, nell’intento degli autori, precisi scopi educativi. Le poesie di zia Lina invece sono divertenti, simpaticamente un po’ complici del bambino e delle sue birichinate. Ricordano per certi versi le poesie di Gianni Rodari e non sono esenti da un pizzico di surrealismo sulla falsariga dei nonsense dei poeti inglesi, primo fra tutti Edward Lear. 

Ad esempio:

Il rinoceronte

che passa sul ponte

che salta, che balla

che gioca alla palla,

che sta sull’attenti,

che fa i complimenti

che dice buon giorno

girandosi intorno

e gira e rigira

la testa gli gira

che non ne può più…

e pum casca giù.

L’intento educativo è presente sia pur in modo lieve, la vicinanza a bambini e bambine ai loro problemi piccoli e grandi è costante. Così si possono affrontare anche concetti importanti quali la necessità di porsi dei limiti, l’atteggiamento dei bambini di fronte ai grandi, addirittura l’accettazione della morte come facente parte della natura. 

Riconoscendo gli aspetti educativi della musica scrisse anche “Canzoncine per i bimbi con accompagnamento di pianoforte”, poesie musicate da Elisabetta Oddone  “Cantiamo: 32 canzoncine per bambini con accompagnamento di pianoforte”, poesie musicate da Virginia Mariani Campolieti.

La scrittrice visse a Milano fino al 1943 quando, a causa della guerra, e per sfuggire alle persecuzioni contro gli ebrei, andò ad Arcisate in provincia di Varese. Non sentendosi sicura neanche lì, riparò a Brissago, in Svizzera, fino alla fine della guerra.

Tornata ad Arcisate dove i nipoti si erano stabiliti nella fattoria La Monda, vi rimase fino alla morte avvenuta il 24 novembre 1947.

A Lina Schwarz venne intitolata la scuola elementare di Arcisate con la seguente motivazione:

“ Affinché gli alunni di oggi e di domani ne conservino il ricordo e la sua poesia limpida e fresca parli sempre al loro cuore un linguaggio di pace, di amore e di fratellanza”.




Buchi, cittadina di seconda classe

“Buonasera signora Emecheta1, mi segua! Ho preso un tavolino dentro, che il tempo oggi non promette bene.”
“Perfetto, andiamo che ho sentito una goccia! Ah, ti prego, chiamami Buchi!”
Dietro gli occhiali appannati dal fumo del tè, Buchi nasconde due grandi occhi neri, che, si capisce subito, hanno visto tante cose e vengono da una terra lontana.
“Da quanto vive a Londra?”
“Uh, ormai è una vita! Ho lasciato la Nigeria nel ’60, fatti il conto…”
“Come mai ha lasciato l’Africa?”
“Ho seguito mio marito e poi, sai… L’Europa era per me la terra promessa: gli anni che ho passato in Africa non sono stati affatto facili e non avevo molte prospettive.”
“Dov’è che ha trascorso l’infanzia, precisamente?”
“Sono nata a Yaba, vicino Lagos, in Nigeria e lì ho vissuto i primi 16 anni della mia vita. La mia famiglia era molto povera e i miei hanno dovuto scegliere chi far studiare tra me e mio fratello. Inutile dirti chi hanno scelto… Ma fin da piccola io avevo le idee molto chiare, non ero un caratterino facile! Ci ho messo un po’, ma alla fine li ho convinti di quanto fosse importante anche la mia educazione e mi hanno mandato in una scuola di missionari. Poi, ho vinto una borsa di studio per la Methodist Girls’ School, dove sono rimasta finchè non ho sposato Sylvester.”
“Com’è stato il vostro matrimonio?”
“Quando siamo arrivati nel Regno Unito ho cominciato a rendermi conto di quanto mio marito non fosse neanche lontanamente la persona con cui volevo condividere il resto della mia vita. Era un violento, possessivo e autoritario, ed io ero profondamente infelice. Ho sopportato per anni e anni le sue manie, la sua violenza, trovando forza nell’amore dei miei figli e nella scrittura. Eppure, mio marito riteneva piuttosto disdicevole che una donna, o meglio, che la sua donna, inseguisse il proprio sogno e così, un bel giorno, ha dato fuoco al manoscritto del mio primo romanzo.”
“È un gesto molto violento, come l’ha fatta sentire? Come ha reagito?”
“In queste situazioni si dice ‘mi ha fatto perdere il senno’, ma non è così: me l’ha fatto ritrovare! Ho capito che era solo l’ennesimo tentativo di calpestare la mia dignità e privarmi della mia libertà e, soprattutto, mi sono resa conto che la mia vita era troppo preziosa per essere sprecata accanto a un uomo che mi considerava solo in quanto moglie e madre.”
“Mi dica se sbaglio, Buchi, ma a me sembra quasi di sentirla raccontare la trama di ‘Cittadina di seconda classe’…”
“È ovvio che Adah non è un personaggio frutto unicamente della mia fantasia: la sua storia è in gran parte la mia storia. Ho tentato di raccontare, attraverso la sua figura, l’enorme fatica che ho fatto per tutta la vita per tentare di conciliare le varie facce della mia medaglia: la donna libera, la donna madre e la donna scrittrice, lavoratrice.
Alla fine, Adah, cioè Buchi, ce la fa: riesce ad integrarsi e ad emanciparsi grazie al lavoro da bibliotecaria, divorzia e cresce i suoi figli da sola. È scrivere che la rende libera.”
“Mi sembra che nei suoi romanzi ci sia un forte protagonismo femminile. Quali sono i temi di cui si è occupata maggiormente?”
“Ho parlato tanto di maternità, di emancipazione ed oppressione, ma anche della mia Africa, che porto sempre nel cuore. Credo, in generale, di aver affrontato tutti i problemi e i pregiudizi che si trovano ad affrontare le donne che vivono nella società di oggi. In particolare, sento di aver dato voce alle donne nere, a cui spero di aver lasciato un messaggio per me molto importante: dobbiamo unirci e riesaminare, ridefinire, il modo in cui la storia ci ha rappresentato: è l’unica via per uscire dal ruolo a cui siamo state relegate. Anche quando le circostanze non depongono a nostro favore, bisogna avere il coraggio di inseguire i propri sogni, perché a volte, e io ne sono la prova vivente, la testardaggine paga!”

 

1BUCHI EMECHETA: nata a Yaba, un piccolo villaggio vicino a Lagos, nel 1944, è stata una scrittrice nigeriana.
Si trasferì a Londra a soli 17 anni, per seguire il marito e nel 1970, dopo aver divorziato, si laureò in Sociologia.
Molte sue opere, come “In The Ditch” e “Cittadina di seconda classe”, sono ricche di spunti autobiografici e trattano della condizione della donna nella società nigeriana e delle difficoltà che ogni donna è costretta ad affrontare nel mondo di oggi.
Tra i romanzi che ha scritto, hanno avuto molto successo anche “The Bride Price” e “The Joys of Motherhood”.
È morta a Londra nel 2017.




A Napoli da Matilde

“Guarda che bello… Per carità, Roma è Roma, ma un lungomare così dove altro puoi trovarlo?”
“Ha ragione signora Serao1, Napoli ti entra nel cuore… Lei quando è venuta qui?”
“Ho seguito la mia famiglia nel 1861, avevo solo cinque anni. Ci siamo trasferiti perché mio padre è stato assunto alla redazione de Il Pungolo.”
“È grazie a lui che ha cominciato a scrivere?”
“Sicuramente mio padre mi ha fatto avvicinare al mondo del giornalismo e mi ha abituato sin da piccola all’ambiente della redazione, ma in realtà ho imparato a leggere e a scrivere molto tardi!”
“Quindi il suo esordio a quando risale?”
“All’inizio scrivevo brevi articoli per il Giornale di Napoli, poi ho pubblicato qualche novella sotto lo pseudonimo di “Tuffolina”. Però, al di là di questi primi esperimenti, la mia prima pubblicazione vera e propria è stata la novella “Opale”, che uscì nel 1878 sul Corriere del Mattino.”
“Da lì in poi ha scritto romanzi che hanno avuto un successo strepitoso! Penso a “Fantasia”, o a “Il ventre di Napoli”…”
“Sì, ma ti fermo subito: scrivere mi ha sempre appassionato tantissimo, soprattutto perché mi ha consentito di far trapelare dei lati della mia personalità che in un articolo non potevo mettere in luce, ma è al giornalismo che ho dedicato tutta la mia vita. Possiamo discutere a lungo di tecniche letterarie, di personaggi, ma sul giornalismo ho cose molto più interessanti da raccontare, perché ho passato la mia vita a sgomitare per conquistare il posto che meritavo e, nel mentre, ho visto tante cose, cara mia!”
“Io la seguo, signora Serao! Le va di raccontarmi la sua esperienza a Roma, allora?”
“Ecco, di Roma, per esempio, ho davvero tante cose da dire! Ho iniziato a collaborare con il giornale Capitan Fracassa, dove ho avuto la libertà di spaziare dalla critica letteraria alla cronaca mondana. Inoltre, sono entrata nei salotti romani, ho conosciuto personalità del calibro di Carducci e D’Annunzio, ma mi vedi? Ti sembro una tipa da salotto io? Non lo sono e tantomeno lo ero; il fatto che non c’entrassi proprio niente con quelle damine eleganti, intente a parlare del nulla, non mi ha di certo favorito.”
“Però mi risulta che a Roma abbia conosciuto l’amore, quindi su qualcuno sicuramente ha fatto colpo!”
“Ah, Edoardo… Amava di me proprio quella spontaneità che in quei salotti risultava fuori luogo. Insieme abbiamo fondato Il Corriere di Roma, nell’85. È durato solo due anni, ma subito dopo aver smesso di pubblicare, Matteo Schilizzi ci propose di tornare a Napoli e di fondere la nostra testata alla sua, Il Corriere del Mattino, e così nacque Il Corriere di Napoli.”
“E poi? Come siete arrivati alla fondazione de Il Mattino?”
“Io ed Edoardo abbiamo deciso di cedere la nostra parte di proprietà sul Corriere e con il ricavato abbiamo fondato il nuovo giornale. Era il 1892, che dopo molto poco si rivelò uno degli anni peggiori della mia vita.”
“Come mai dice così?”
“È l’anno in cui il mio matrimonio si spaccò definitivamente, tanto che io me ne andai di casa per un paio d’anni e al mio ritorno… Insomma, della storia di Gabrielle2non ho voglia di parlare, ma lo scandalo uscì su tutti i giornali e fu molto difficile a quel punto tenere separate la mia carriera e la mia vita privata.
Ho fatto ciò che potevo e ho cresciuto Paolina come se fosse mia figlia, con tutto l’amore che meritava. D’altronde, lei non c’entrava proprio niente, povera creatura…”
Ha ragione: dello scandalo so già tutto e più la guardo, più mi chiedo come abbia fatto a rialzarsi dopo una simile tragedia. Eppure, con la sua risata fragorosa, Matilde ce l’ha fatta e, in risposta a chi voleva scagliarla nel dimenticatoio, ha ricominciato da zero con un nuovo compagno e, soprattutto, con un nuovo giornale.

 

1MATILDE SERAO: nata a Patrasso nel 1856 è stata una scrittrice e giornalista. È stata la prima donna italiana ad aver fondato e diretto un quotidiano, Il Corriere di Roma, e, a partire dal 1903, Il Giorno.
Ha scritto romanzi indimenticabili come “Fantasia”, “Il ventre di Napoli” e “Addio, amore!”.
Morì nella sua amata Napoli nel 1927, colpita da un infarto mentre scriveva nel suo studio.

2GABRIELLE BESSARD: cantante di teatro, ebbe una relazione con Edoardo Scarfoglio, marito di Matilde Serao, da cui nacque una bambina. Quando Scarfoglio decise di restare con la moglie, Bessard si suicidò sull’uscio della casa della coppia, affidandogli la bambina neonata. La scrittrice accolse la bambina come fosse sua figlia. Nonostante fosse stata richiesta la massima riservatezza, lo scandalo uscì sul Corriere di Napoli, in aperta polemica con la coppia Scarfoglio-Serao.




Ad Atlanta con Margaret

Atlanta, con i suoi grattacieli e i suoi mille colori, non è lo sfondo che immaginavo per il mio incontro con Margaret Mitchell e il suo viso di porcellana. Eppure, è qui che Margaret1è nata e ha passato gran parte della sua vita.

“Tu ora la vedi così, ma un tempo di questi grattacieli non ce n’era neanche uno!”

“Com’è stata la sua infanzia ad Atlanta?”

“Credo di aver avuto una bellissima infanzia, anche se con mio padre ho sempre avuto un rapporto un po’ burrascoso, sai… Mentalità incompatibili! Con mia madre invece avevo un rapporto meraviglioso, è grazie a lei se sono come sono oggi.”

“Che tipo era sua madre?”

“Era una donna che sapeva coniugare una grande fermezza e una dolcezza indescrivibile. Quando se ne è andata per me è stato un colpo durissimo, ma le sue ultime parole non hanno fatto altro che confermare la sua infinita intelligenza e consapevolezza.”

“Cosa le ha detto prima di andarsene?”

“Purtroppo, non l’ho potuta abbracciare di persona, ma mi ha mandato una lettera in cui si è raccomandata di non tralasciare mai la mia vita per occuparmi di quella degli altri e di non rinunciare mai ai miei sogni per far felice qualcun altro.”

“Mi dispiace non abbia potuto salutarla… Dove si trovava?”

“Avevo iniziato gli studi di medicina allo Smith College, in Massachusetts, ma la morte di mia madre mi ha portato a lasciare il college e tornare a casa.”

“E una volta tornata ad Atlanta?”

“Avevo 20 anni e fino a quel momento avevo scritto per me stessa e pochi intimi, ma dopo qualche mese mi è stato offerto un posto all’Atlanta Journal Sunday Magazine… Che soddisfazione! Ho avuto persino l’occasione di intervistare Rodolfo Valentino! Poi quell’incidente…”

“Quale incidente?”

“Non lo sai? Si legge che abbia lasciato il lavoro per scrivere “Via col vento”, ma non è così: mi sono rotta la caviglia e la convalescenza mi ha costretto a letto per mesi! A quel punto mi sono dovuta licenziare per forza e per passare il tempo ho deciso di provare a dare forma a quella storia che avevo in mente da così tanto tempo.”

“È stato difficile delineare un personaggio poliedrico come Rossella O’Hara?”

“Molto e ti dirò perché: lei non c’entra assolutamente nulla con la classica eroina del filone romantico. Rossella non è un personaggio che piace o non piace, in quanto allo stesso tempo la si ama e la si odia e non si può fare altrimenti. Non fa altro che commettere errori in amore, non riusciamo a condividerne le scelte, ma questo la rende decisamente più umana e fa sì che in fondo, ci faccia simpatia. Seppur dall’alto dei suoi privilegi, Rossella è una ribelle per i tempi in cui vive. La Guerra di Secessione la costringe a rimboccarsi le mani e, in parte, a lasciarsi alle spalle la frivolezza della vita che conduceva. È in quel momento che l’apparente perfezione si frantuma e il suo comportamento fa parlare le malelingue della città.”
“Via col vento ha avuto un successo strepitoso, superando il milione di copie vendute nelle prime settimane dopo la pubblicazione. Come mai ha deciso di non pubblicare altri romanzi?”

“Attorno a “Via col vento” si è scatenato un polverone che non mi aspettavo di certo… Mi ha fatto vincere il Pulitzer del 1936 e addirittura mi ha fatto portare a casa una candidatura al Nobel per la letteratura! ll successo editoriale è stato accresciuto, non c’è neanche bisogno di specificarlo, dal film di Victor Fleming, che ha fatto esplodere i botteghini di tutto il mondo.
Tutto ciò mi ha riempito di gioia e orgoglio, ma credo che se avessi continuato a scrivere avrei deluso le aspettative dei miei lettori e delle mie lettrici, in quanto dubito che sarei mai riuscita a pubblicare qualcosa che reggesse il confronto con “Via col vento”.
Poi, in realtà, ho continuato a scrivere romanzi, ma non ho intenzione di pubblicarli… Ai miei familiari ho dato disposizioni di bruciare tutto, quando non ci sarò più. Chissà se rispetteranno la mia volontà o se ci saranno belle sorprese!”

1MARGARET MITCHELL: nata nel 1900 ad Atlanta, è stata una scrittrice e giornalista statunitense. Iniziò gli studi in medicina, ma lasciò il college dopo la morte della madre, nel 1919.Tornata ad Atlanta venne assunta all’Atlanta Journal Sunday Magazine come giornalista, anche se a causa di una brutta frattura fu costretta a lasciare il lavoro.
Fu proprio durante la convalescenza, infatti, che scrisse “Gone with the wind” (“Via col vento”), che fu pubblicato nel 1936 e che vinse il premio Pulitzer nel 1937.
Il romanzo ebbe un successo straordinario, ma dopo soli dodici anni Margaret morì, investita da un taxi.




La Nuoro di Grazia

Ai piedi del monte Ortobene, nella Sardegna continentale, si estende Nuoro, città natale di Grazia Deledda1.

Mi aspetta davanti alla scuola elementare del centro, con i capelli bianchi raccolti e quei tratti così marcati da conferirle un’apparente, perenne severità.

“Buongiorno signora Deledda!”

“Buongiorno a te! Prima volta a Nuoro?”

“Sì, sono stata più volte in Sardegna ma Nuoro mi mancava…”

“Dai, allora ti faccio fare un giro in città! Partiamo da qui: questa è stata la mia scuola elementare, nonché l’unica che io abbia mai frequentato.”

“Come mai si è fermata negli studi?”

“Non mi sono fermata, ho solo proseguito per conto mio! L’istruzione superiore qui a Nuoro, e non solo, era ancora preclusa alle ragazze, quindi, finita la quarta elementare, i miei genitori mi hanno fatto prendere lezioni private di italiano, latino e francese. Dopo di che ho continuato a studiare totalmente da autodidatta.”

“Non aver frequentato il liceo le ha mai creato problemi durante la sua lunga carriera?”

“Assolutamente sì, la nomea di “illetterata” ha gravato sulle mie spalle come un macigno! Pensa che, agli esordi, ho fatto molta fatica ad essere presa in considerazione, perché molti editori si rifiutavano anche solo di leggere ciò che scrivevo.”

“Poi però i suoi romanzi hanno ricevuto gli apprezzamenti di personaggi del calibro di Verga e Capuana, no?”

“Sì, ma non credere… Il marchio di non istruita me lo sono portato sempre appresso, anche quando ho vinto il Nobel del ‘26 c’è stato chi gridava all’ingiustizia, proprio a causa dei miei studi!

La vedi quella chiesa che sbuca lì in cima? È il mio posto preferito di tutta Nuoro, è la Chiesa della Madonna della Solitudine.”

Lo vedo nei suoi occhi quanto è innamorata di quest’isola.

“Cosa c’è della Sardegna in ciò che ha scritto?”

“C’è tanto, tantissimo: direi che è la protagonista indiscussa dei miei romanzi. C’è la sua meravigliosa natura, i suoi paesaggi ancestrali, ma c’è anche la società fortemente patriarcale che a me è sempre stata così stretta. Anche il sardo è un elemento importante, perché credo che, anche se stemperato dall’italiano letterario, abbia contribuito molto a rendere veri e realistici i miei personaggi.”

“E la Sardegna come ha reagito al successo raggiunto con ‘Elias Portolu’ prima e ‘Canne al vento’ poi?”

“Da una parte credo ci sia stato il classico orgoglio regionale, dall’altra, ti dirò, ho suscitato un’antipatia generale, dovuta al fatto di aver restituito un’immagine poliedrica della Sardegna, mettendone in luce il bene e il male. Io credo di averla descritta con autenticità, c’è chi crede io l’abbia invece dipinta più arretrata di quanto non fosse.”

“Secondo lei, c’è qualcosa che lega i personaggi dei suoi romanzi, a prescindere dalle vicende?”

“Sì, se ci fai caso, i protagonisti sono in questo stato di smarrimento, consapevoli della fatalità della vita umana, ma incapaci di arrendersi ad essa. L’uomo è così: si dimena tra angosce e pulsioni e, nel frattempo, incassa i colpi della sorte, proprio come una canna al vento.”

 

 

1GRAZIA DELEDDA: nata a Nuoro nel 1871, è stata una scrittrice italiana, vincitrice del Premio Nobel per la letteratura del 1926.

L’esordio letterario avvenne a soli 17 anni, quando inviò alla rivista romana “Ultima moda” il primo scritto “Sangue sardo”, chiedendone la pubblicazione.

Il suo primo romanzo di successo fu “Elias Portolu”, ma fu consacrata al grande pubblico da “Canne al vento”, del 1913.

L’ultimo romanzo “La chiesa della solitudine” venne scritto nel 1936. La protagonista è, come l’autrice, ammalata di tumore.

Di lì a poco, il 15 agosto dello stesso anno, Grazia Deledda si spense.Lasciò un’opera incompiuta, che verrà pubblicata l’anno successivo a cura di Antonio Baldini con il titolo “Cosima, quasi Grazia”.




Lisa Giua, narrata da Anna Foa

La famiglia F., uscito pochi mesi fa, alla fine del 2017, è un esperimento di ricostruzione storica e narrazione che intreccia la storia di più famiglie, Foa, ma Giua, Della Torre, Luzzati, Agnini e altre ancora, unite fra loro da legami matrimoniali e di sangue, ma pure, e con altrettanta forza, da lotte politiche che si rivelano subito e definitivamente solidali e necessarie ai legami fra le persone, proprio come la carne e il sangue. Donne e uomini uniti, separati, riuniti e separati ancora dallo slancio ideale, da prigioni, da esili, da morti spesso eroiche o tragiche, annunciate o, più sottilmente, prefigurate. Tutte le famiglie coinvolte in questi legami e in questo racconto, che è storico, ma insieme intimo, sono riunite nel titolo, dalla nota studiosa Anna Foa, come famiglia F., con un tratto di nascondimento discreto, ma anche allusivo, probabilmente come a dire che è questa la storia di una famiglia italiana come altre ce ne sono state nel periodo dall’Unità d’Italia alla faticosa fine dei comunismi, o almeno alla fine delle speranze di milioni di uomini e donne su ciò che il comunismo avrebbe potuto realizzare. Ma certo è pure un gruppo familiare che ha avuto un’esperienza intensissima e viva, di primo piano, nella lotta politica italiana e internazionale per più di cento anni.

Fra i tanti personaggi, uomini e donne, desidero soffermarmi su Lisa Giua, madre di Anna Foa e moglie di Vittorio, il grande sindacalista: Lisa, della quale sembra essere indagato e sottoposto al tentativo di scioglimento il mistero non solo suo, ma di un’intera generazione che credette in una generosa ideologia, continuamente contraddetta nella sua attuazione e tuttavia continuamente inseguita e perseguita. E appaiono anche il ricordo affettuoso ed una commozione sempre trattenuta, ma non celata.

Lisetta Giua, poi detta Lisa, nacque nel 1923 a Torino. Il padre Michele, socialista, fu tra i pochi professori universitari italiani a rinunciare alla cattedra per non giurare fedeltà al fascismo, e nel 1935 fu condannato a quindici anni di carcere per attività eversive del regime (nello stesso processo in cui fu condannato Vittorio Foa), condanna che scontò fino al 1943, quando venne liberato. La madre di Lisetta, Clara Lollini, donna austera, rigorosa, piena di forza, condivise sempre le idee del marito e con lui patì la morte del primo figlio nella guerra di Spagna, poi del secondo, molto cagionevole, per malattia e ne condivise i timori per l’attività partigiana nella quale la figlia cominciò a militare giovanissima. 

La piccola, vivace Lisetta di Lessico famigliare di Natalia Ginzburg, la Lisa intellettuale autorevole nel commosso ricordo di Adriano Sofri, nel 2005, alla morte di lei, viene confermata in toto nel racconto che Anna Foa ci consegna. Precoce nelle letture, precoce nella lotta antifascista, incapace di timori per sé e straordinariamente schiva. Comunista con un’evidente vena anarchica, spregiatrice di ogni titolo, di ogni potere personale, di ogni carica istituzionale. Brava a scuola, dove però si annoiava, ironica verso l’accademia, di cui non volle mai far parte, non volle neppure laurearsi. Indifferente al matrimonio come istituzione, sposò Foa un bel po’ dopo la loro unione e dopo la nascita della prima figlia. Così, non si curò di divorziare, dopo la separazione, alla fine degli anni Settanta. Ben presto suo padre le era apparso un uomo superato dai tempi, come storia vecchia le parve sempre il femminismo. Diceva “mia nonna era femminista”. Dopo la liberazione, imparò il russo, viaggiò moltissimo nell’Est Europa, collaborò con Togliatti, tradusse, scrisse per “Rinascita”. Dai fatti d’Ungheria, però, cominciò il suo lungo percorso di ripensamento e critica del comunismo sovietico, fino alla rottura, quasi silente, col PCI, nel 1969, all’ingresso dei carri armati a Praga, ma continuò incessantemente il suo impegno, in varie riviste, e in Lotta Continua dal 1972, aiutando la lotta polacca per la caduta del comunismo sovietico, occupandosi del Vietnam, della rivolta africana contro il colonialismo, aderendo quindi al maoismo, nella cui esperienza iniziale coglieva una vena fantasiosa ed anarchica che le corrispondeva bene e arrivando al punto di indossare per molto tempo la casacca blu dei maoisti cinesi. Anche questa nuova speranza sarebbe caduta. Ma Lisa, infaticabile, passò ad aiutare i profughi bosniaci, con la figlia Bettina approfondì la questione del genocidio dei Tutsi. Dalla fine degli anni Ottanta, si era dedicata allo studio della Shoah, questione che, ammise con Anna, “avevamo trascurato”.

Anche il cancro aggressivo e doloroso, che l’avrebbe uccisa, fu da lei affrontato con serenità e con un distacco dolce e fermo, con l’eleganza anche interiore che pare essere stata la sua cifra essenziale.

Una donna vissuta di idee e per le idee, che aveva subito la detenzione, nel 1944, nella spaventosa Villa Triste di Milano, mentre era incinta, catturata con un’amica, pure incinta, dalla banda Koch. I fascisti chiesero al CNL di trattare la liberazione di alcuni fascisti in cambio di quella delle due donne, offerta che, con la sua sollecitazione ed approvazione, il Comitato rifiutò, e, particolare davvero atroce, ma, oso dire, sublime, Vittorio Foa fu tra coloro che decisero contro la trattativa. Fu il cardinale Schuster a salvare la vita alle due prigioniere, dietro richiesta dei partigiani, segnalando quella prigione irregolare ai nazisti, che la smantellarono, dopo aver fatto portare le donne in ospedale, dove erano piantonate, ma da cui si riuscì a farle fuggire.

Lisa fu pure una moglie che consumò il suo distacco dal marito perché la loro posizione politica si era sempre più divaricata, fra il socialismo anticomunista di lui e la ricerca di un comunismo dal volto umano di lei. E fu una madre che mescolava ironia e tenerezza, come nel rapporto con Anna, da lei considerata con qualche ironia per il suo lavoro nell’Università, ma che anni prima aveva guidato in una delle prime manifestazioni di protesta studentesca, dove era improvvisamente apparsa in aiuto della figlia che era con un’amica francese, perché le due ragazze sfuggissero alle cariche della polizia e agli arresti.

Come della fanciulla fuggevolmente narrata da Primo Levi in Se questo è un uomo, di cui non è detto il nome (ma che sappiamo essere Vanda Maestro), viene da chiederci se siamo dinanzi ad un personaggio completamente storico, che per nessun aspetto tocca il territorio della letteratura. Anche per lei sembra di poter rispondere che la narrazione storica, ove assuma un aspetto di modello esemplare, può sconfinare nella letteratura, se letteratura è narrazione di sogni e desideri umani. Un segnale in questo senso pare trasparire anche da alcune parole con le quali questo breve articolo si congeda da Lisa. Un ricordo di Anna: “[…] Ritorna, attraverso Beethoven, il filo conduttore dell’eroismo che mi ha accompagnata da bambina e da ragazza. Quando Lisa morì, la mattina in cui sapevo che sarebbe stata cremata ascoltai l’Eroica.”

                                                                              




Angela, di Gina Lagorio

Nel 1977, Gina Lagorio (1922-2005) pubblica La spiaggia del lupo, un romanzo di formazione, col quale in quello stesso anno vince il Premio Campiello. 

Tra Oneglia, nella Liguria della sua infanzia, e Milano, la città cui approdò dopo la morte del primo marito, Lagorio ambienta la storia di Angela, che incontriamo bambina, quando, con la mamma e il nonno, vive in una piccola casa sulla spiaggia, sovrastata da un grande scoglio, che a lei pare avere la forma di un lupo, ma un lupo benevolo e protettivo, che nella notte difende la sua casa dalle insidie del mare tempestoso. Anni prima, il padre di Angela, di una ricca famiglia che lo aveva rinnegato per aver voluto egli seguire la carriera di pittore, si era ammalato di tubercolosi in conseguenza delle difficili condizioni che aveva dovuto affrontare, ed era morto quando Angela aveva pochi mesi. I nonni paterni, che non avevano mai voluto conoscere la nipotina, l’avevano esclusa dal testamento. Per un sentimento di giustizia offesa, e nel tentativo di assicurare alla figlia un avvenire più sicuro di quello che la sua povertà le prospetta, la madre di Angela ha intrapreso una causa per l’eredità, ma tutto sommato con scarsa determinazione, e assistita gratuitamente da un anziano, buffo e distratto avvocato, ben più impegnato, però, a scrivere una vastissima e dotta Antropologia dello sbadiglio, che a curare le cause affidategli. Tuttavia, nella modesta casetta sulla spiaggia, nulla manca di quanto i suoi abitanti desiderano: i libri, innanzitutto, che Angela legge avidamente, alimentando la sua fervida fantasia, il suo cuore puro e la sua lieta, ricercata solitudine, (ella non comprende i discorsi e la visione del mondo delle sue coetanee, disinteressate all’interiorità); i dischi, soprattutto di musica classica, che la madre ascolta nelle ore libere dal lavoro e che la riportano al tempo e all’atmosfera del suo breve tempo con marito; anche il semplice cibo che prepara il nonno, pescatore e giardiniere.

L’incipit del libro dichiara il mistero di Angela, un mistero che l’accompagna sempre “La bella Angela, non era bella. Ma tutti dicevano ch’era bella, quando parlavano di lei. Non era un giudizio, era un’abitudine, dei ragazzi prima degli uomini poi […]”. Gli uomini, dunque, la guardano con desiderio fin da quando è solo una bambina. Eppure, quanto c’è a volte di torbido in quel loro desiderio viene sciolto o frenato dall’inconsapevolezza di lei, dalla sua innata e definitiva innocenza, dalla naturalezza con cui vive tra gli altri, immersa in un mondo tutto suo, quasi incomunicabile ad alcuno, se non, in parte e quand’è bambina, al nonno, cui da piccola racconta le sue storie fantasiose, prima di scivolare fiduciosa nel sonno, appoggiata al suo petto. Ma il mondo di Angela non è fatto solo dalla veglia, ma pure dai suoi sogni, da quelli infantili, con sontuosi palazzi marini, abitati da esseri di favola, a quelli di ripetizione, ossessivi, sulla ricerca di una casa a lei adatta, nei primi, faticosi mesi dopo che si sarà trasferita a Milano.

Prima di ciò, però il romanzo narra l’improvviso fiorire di Angela, dopo un breve periodo disarmonico e difficile della prima adolescenza. Adesso la giovane ha diciotto anni, non è bella, le ripete la madre, ma il suo corpo è forte e pieno di vita, con la pelle dorata di pesca intatta, generoso e sano, un corpo dalle sporgenti scapole alari, che quando Angela corre sulla spiaggia e poi si slancia fra le onde, nuotando fra pesci e gabbiani, che volano a pelo d’acqua, la fa sembrare una creatura non terrestre, fra uccello e pesce.

Un giorno, risalendo sulla spiaggia dal bagno non trova il suo gattino, Mimì, ad aspettarla come al solito, preoccupata, lo cerca e quando, dopo poco lo trova, le appare ferito e spaventato. Un ragazzo le si avvicina. Mimì e il suo cagnolino, un minuscolo carlino, hanno ingaggiato una lotta, uscendone malconci entrambi. Angela, nella sua casa medica le due bestiole e subito nascono simpatia e confidenza affettuosa col giovane, Vladimiro, detto Vladi, che è lì in vacanza. Da quel momento i due non si separano per l’intera estate. Angela non vede più altri che lui. Fanno l’amore con naturalezza, con tenero, totale abbandono, e poi parlano di tutto. Una sera di fine estate Vladi le appare pensieroso e triste e le dice che l’indomani si vedranno più tardi. Ma, il giorno dopo, dopo una lunga attesa, un ragazzino porta una lettera ad Angela, che nel leggerla sviene. Vladi è tornato a Milano, è sposato, e per un giuoco del caso, con la figlia di un fratello del padre di Angela. Vladi intende sistemare la situazione, e la attende Milano, dove saranno di nuovo insieme. Dopo il primo urto, la giovane decide di raggiungerlo, mentre scopre di lì a poco di essere incinta, e informa il nonno e la madre. Terrà il bambino, raggiungerà Vladi e, come desiderava da tempo, si iscriverà all’accademia di Brera. Di fronte alla sua fermezza, la madre e il nonno comprendono di non poter opporsi. 

Gli anni in cui Angela arriva a Milano sono quelli di poco successivi al Sessantotto, ma come già a Oneglia, nelle manifestazioni che frequentava col nonno, vecchio socialista, deluso e amareggiato dagli scandali della politica e da un nuovo linguaggio ch’egli non comprendeva più e di cui diffidava, anche nella grande città, nel pieno dello sviluppo, non sono il fermento e la speranza del nuovo a mostrarsi, piuttosto il fallimento, la violenza, l’odio e l’incomunicabilità insanabili tra il mondo operaio e la proprietà. Vladi, che dirige un’azienda di proprietà del suocero e che ha voluto tentare un’esperienza di cogestione della fabbrica, è fatto oggetto di un attentato in cui viene ferito gravemente e in cui perde la vita un funzionario della fabbrica che lo appoggia. Nulla si saprà del bombarolo, che, viene detto, è in realtà approvato dagli operai che non si fidano dell’esperimento, e dai padroni, che temono l’aggressione al principio di proprietà capitalista. Appare qui la singolare lucidità di Lagorio che, per bocca di un personaggio comprimario, indica la fine delle ideologie e la sconfitta di quella più generosa del Novecento, mentre quel che resta è solo la vittoria della società del consumo selvaggio e insaziabile. Sono pochi a quell’altezza di tempo ad aver compreso questo esito amaro: Lyotard, Calvino, qualche anno prima Pasolini.   

La città appare estranea e aggressiva ad Angela, col rumore costante degli aerei, delle sirene delle fabbriche e col suo traffico convulso. Solo Brera, che mantiene ancora, in quei primi anni Settanta in cui è ambientata la vicenda, una dimensione pre-industriale, con poche botteghe artigiane sopravvissute ai nuovi negozi dalle chiassose insegne al neon, con qualche piccola strada chiusa al traffico, una dimensione che le dà conforto, così come la conforta lavorare, attenta e accanita, ai suoi disegni in Accademia, mentre le sembra di sentire dentro sé respirare insieme il bambino che attende e il giovane pittore del quale non ha ricordi, suo padre, di cui sa in fondo molto poco, se non quella passione, che lo aveva fatto crudelmente disconoscere dalla propria famiglia. Ella, inoltre, ripiegata su una dimensione di attenzione più all’intimo che al politico, si tiene istintivamente lontana tanto dalla militanza, quanto dai numerosi giri di giovani post sessantottini, più attratti dalle droghe che dalla politica. Intanto, malgrado l’amore tra Angela e Vladi duri, il legame si allenta fino a spezzarsi. È proprio Angela che comprende di non amarlo più, per la delusione che le provocano il vittimismo e la pavidità di lui, incerto a lasciare la moglie, che pure non ama, Così, quando egli, che sente di stare per perderla, le propone di lasciare tutto per recarsi loro due e il bambino lontano, “nel terzo o quarto mondo” Angela rifiuta, consapevole che quella di lui non è un’assunzione di responsabilità, ma una fuga. Nel suo percorso, però, per la prima volta, la giovane donna ha scoperto la dimensione dell’amicizia con i propri coetanei, lei, che fino allora come amici aveva avuto a lungo solo il nonno e una vecchia saggia, anche lei incompresa ai più nella sua profondità, creduta da tutti solo l’originale, misantropa e tirannica “regina” della riserva naturale di Oneglia.  Con i nuovi amici, Angela scopre il reciproco sostegno e la possibilità di godere insieme di semplici piaceri, condividere una cena, un discorso, qualche volta la casa, in una notte in cui si è fatto tardi e sembra sconsigliabile avventurarsi da soli nella città, l’essere ‘compagni’ in una dimensione esistenziale e solo latamente politica. Tornata a Oneglia per un periodo, ha una breve, intensa relazione col suo maestro di pittura, un uomo anziano e amaro, col quale però conosce un’intensità sessuale, possibilità della carne che non aveva immaginato nel tenero amore con Vladi. Anche da questo amante però si stacca, sente di non averlo amato e di non voler legarsi, la vita, altre possibilità, lontane da lì, chiamano. Lo lascia triste, per la perdita di quell’ultimo fuoco, forse mai sperimentato tanto intenso, pure nella sua esperienza di molteplici relazioni, ma l’uomo maturo l’aiuta, con una generosità estrema, ch’ella comprende, a non provare sensi di colpa, perché nei richiami della vita sta il diritto di scegliere d’essere liberi.     

Seguendo il destino solitario matrilineare, determinatosi per la madre in seguito alla morte del padre, per Angela a causa di consapevole dignità e libertà, ella chiede una volta per tutte alla madre di interrompere la causa per la propria eredità. Tornerà a Milano con suo figlio Carlo, a vivere, a studiare. Il nonno e Rachele sono morti, il gatto Mimì, dopo la sua prima partenza, offeso nel suo amore esclusivo, è tornato randagio. La madre di Angela è ancora abbastanza forte da poter recarsi, almeno qualche volta, presso di lei. Nel treno che da Oneglia li porta tutti e tre a Milano, sente che la adesso la città è sua, come sua e tutta aperta è la vita che le sta davanti.                   

 




A Bologna da Renata

Renata Viganò1ha un viso buono, è questa la prima cosa che mi ha colpito di lei. È una di quelle rare persone che riescono a metterti a proprio agio con un solo sorriso. Così è stata anche con me, dal momento in cui mi ha aperto la porta della sua casa a Bologna.
“Spero tu non abbia paura dei gatti!”
“No, si figuri.”
“Bene, da quando sono nata ho sempre avuto gatti in famiglia, ormai non so stare senza!”
“Com’era la sua famiglia?”
“La mia era una classica famiglia della borghesia bolognese, ma sin da piccola mi è stata stretta questa vellutata, stagnante, bigotta simulazione della classe a cui appartenevo. Poi a un certo punto la famiglia è andata in rovina e, di conseguenza, ho passato l’adolescenza in una situazione economica tutt’altro che rosea, tanto da dover abbandonare gli studi. Andai a fare prima l’inserviente, poi l’infermiera negli ospedali e ti dirò che sotto sotto mi piaceva! Certo, è stato un salto brusco, ma il mio sogno è sempre stato studiare medicina e in questo modo ho potuto farlo. In fondo, per me fu abbastanza facile passare alla condizione proletaria, e di questo devo ringraziare anche i miei, che fin da piccola mi abituarono a non considerare il mondo a strati.”
“Qual è la figura della sua famiglia che ha lasciato l’impronta più significativa sul suo modo di essere oggi?”
“Mi hanno sempre detto che assomiglio tanto alla bisnonna Caterina, che aveva guidato una ditta di vetture per matrimoni, battesimi e funerali che era stata la fortuna economica della famiglia. Sapevamo da vecchi discorsi tramandati che era piccola, vivace, aggressiva, che montava a cavallo come un cow boy e che ha passato la sua vita a mandare avanti la ditta. Vedevano questa somiglianza tra me e la bisnonna forse perché fra i nipoti ero la più piccola, vivace e aggressiva, o forse perché cominciai a scrivere poesie. L’estro poetico, dicevano, veniva di lì”.
“Oltre alla passione per la medicina, ovviamente il suo grande amore è la letteratura. Nel suo romanzo “L’Agnese va a morire” racconta le avventure di Agnese, un’eroina poco eroica, nella Resistenza italiana.
Qual è stato il suo rapporto con la lotta partigiana?”
“Mio marito Antonio nel ’43 si è unito alla Resistenza e io l’ho seguito. Ho mollato la mia casa, le mie cose, ho portato nostro figlio Agostino con me e sono diventata partigiana anch’io. Ho partecipato alla Resistenza come staffetta, sotto il nome di Contessa.”
“Cos’avete in comune lei e Agnese?”
“In comune c’è sicuramente la lotta partigiana, soprattutto perché l’abbiamo vissuta entrambe da donne. Devo però specificare che le ragioni che ci hanno spinto a combattere il fascismo sono profondamente diverse: il percorso politico che ho fatto io, insieme a mio marito, con Agnese non ha nulla a che spartire. Lei nel romanzo aderisce attivamente alla causa antifascista solo dopo l’uccisione della sua gatta da parte dei nazisti, una brutalità gratuita su un essere vivente che rappresentava il legame con il marito Palita, già ucciso dai tedeschi. Da quell’istante Agnese si unisce ai partigiani, spinta da una potentissima forza interiore, che, se vuoi, è un qualcosa di ancora più primordiale rispetto alla coscienza politica. Si muove per un istinto naturale, umano, di giustizia…”
Le sue parole vengono interrotte da un miagolio timido ma insistente: un bel gatto bianco è salito sul tavolo e ha cominciato a strusciare il muso sulla mano di Renata.
“Vedi, io parlo di istinto naturale di giustizia… Ma quale giustizia, tu vuoi i bocconcini, ti conosco, furbacchione!”

1RENATA VIGANÒ: Renata Viganò, scrittrice e partigiana, nacque a Bologna il 17 giugno 1900. A soli dodici anni riuscì a far pubblicare la sua prima raccolta di poesie “Ginestra in fiore”, seguita da “Piccola fiamma” nel 1915, ma l’opera che la consacrò fu “Agnese va a morire” (1949), romanzo di impianto neorealistico capolavoro della narrativa ispirata alla Resistenza. Tra le altre opere sulla guerra di Liberazione spiccano “Donne della Resistenza” e “Matrimonio in brigata”. Morì a Bologna il 23 aprile 1976.

 




Itinerario religioso attraverso un dannato

Giusi Sammartino

Freud dice che in Dostoevskij coesistono lo scrittore, il nevrotico e il moralista e il peccatore. Dunque chi pensa che Dostoevskij sia un uomo e soprattutto un artista religioso, intendendo questo termine nella sua accezione più “chiusa” di voce fedele della chiesa ortodossa, ha certamente dimenticato di leggere “tutto” Dostoevskij, in tutti i suoi risvolti e contraddizioni che ne fanno, infine, la sua grandezza.

Dostoevskij è il più anarchico dei credenti, la sua è soprattutto una religione del Cristo la cui apologia è scritta per mano di uno dei suoi più riusciti personaggi “doppi” e dannati” all’interno de I fratelli Karamazov, un autentico piccolo capolavoro nel capolavoro, intitolato da Ivan Fedorovic Karamazov, vero ideatore del crimine contro il padre, La leggenda del Grande Inquisitore. Un Cristo come portatore del “pane celeste” che rischia una nuova condanna a morte per non aver dato al popolo quello che si aspettava: il pane terreno che lo fa vivere biologicamente.

A Dostoevskij interessa una religione basata su un concetto tutto rinascimentale dell’universo. Una religione dell’uomo che direttamente porta a quella del Dio-uomo con tutte le sue implicite possibilità di “tentazioni” nel deserto e delle conseguenziali scelte verso l’uomo-Dio.  “Cristo è contraddizione”, questa è la definizione che più affascina lo scrittore russo perché più consona al suo modo di concepire l’uomo. Infatti, la complessità dell’autore di Delitto e castigo è proprio nel concetto di ambiguità. Per questo scrittore si è parlato di “polifonia” e questa complessità di voci, che poi vengono a comporre i suoi romanzi, non esiste al di fuori di lui, uomo, ma in lui stesso. Facilmente, attraverso i suoi personaggi, si potrebbe arrivare di nuovo a quelle quattro definizioni (che sono poi a loro volta moltiplicabili) date da Freud, il padre della psicanalisi.

È in un periodo immediatamente precedente a Freud che Dostoevskij intuisce la complessità dell’animo dell’uomo e della sua coscienza, che sfoga sempre nell’ambiguità. “L’uomo è troppo complesso, io l’avrei fatto un pochettino più semplice”, dice Dmitrij Fedorovic Karamazov ad Alesa, contestando, con un po’ di ironia, davanti al religiosissimo fratello, la pretesa perfezione della creazione divina.

Nei personaggi dostoevkiani c’è sempre questo tormento causato da una lacerazione. Dal vero e proprio “sosia” dell’omonimo romanzo, egli crea L’uomo del sottosuolo: qui la lacerazione non è concretizzata in uno stacco, ma rimane nell’uomo stesso che si rifugia nel suo “cantuccio, un tema che ricorrerà in uno degli ultimi romanzi, L’Adolescente, che dialoga con il suo “sottosuolo”.

La serie dei “sosia” non si esaurisce presto. Nei grandi romanzi questa figura si fa addirittura “altro” nel senso più concreto che possa avere questo termine. Proprio con Ivan Karamazov ci mostrerà la vera definizione di questo “doppio” dell’uomo. Ivan Fedorovic avrà addirittura due “sosia”: il servo-fratellastro Smerdiakov e il diavolo! Nelle sue allucinazioni, nella notte antecedente il processo, Ivan rinfaccia al Demonio di essere la sua parte peggiore. Definisce così il “sottosuolo” e la parte svolta dal “sosia”. “L’uomo del sottosuolo” tenta di ribellarsi al suo “cantuccio”. Ma c’è una forza centripeta, quella che poi sarà descritta come la “forza dei Karamazov”, che lo respinge di nuovo nella stessa direzione. 

Dostoevskij, innamorato di Raffaello fino a farne un ideale, ama anche Shakespeare e vede in Tiziano la pienezza del messaggio pittorico. Così è chiaro che quella dicotomia, quella sofferta lacerazione presente nei suoi personaggi è soprattutto in lui. Forse, o molto probabilmente, tra le cause gioca un ruolo importante l’epilessia determinata dal parricidio o dalla grazia ricevuta dopo la condanna a morte, quando lo scrittore era già stato legato e incappucciato.  Per dirla con Freud, in proposito si parla di “isteroepilessia” e non di una epilessia vera e propria originata da una ferita nel cervello. André Gide parla dei grandi epilettici e dei grandi “malati” della Storia e osserva che “alla base di ogni grande riforma morale c’è sempre un piccolo mistero fisiologico, un’insoddisfazione della carne, un’inquietudine, un’anomalia”.  Gide ricorda che Maometto era epilettico e che lo erano i profeti d’Israele. Che Socrate aveva un demone e San Paolo la famosa “scheggia nella carne”, Pascal la sua voragine e Nietzsche e Rousseau la loro follia. Per Gide è come se il genio fosse determinato da una profonda sofferenza, dal fatto di aver acconsentito a essa. Un amico, parlando allo scrittore francese dall’America scrive: “ È per questo che l’America non ha ancora un’anima” e – spiega – noi sappiamo che la letteratura tedesca, tutt’altro che priva di anima, conosce le profondità abissali di Faust, o che quella greca ha saputo darci con le sue tragedie, un “terribile inno” alla sofferenza e al dolore. 

Il peccato e la sofferenza necessaria a espiarlo sono anche per Dostoevskij necessari perché l’uomo senta il potere e lo spazio della propria libertà. “Più di ogni altra cosa ti fu cara la loro libertà”, dice il Grande Inquisitore a Cristo additandolo come causa della sofferenza dell’uomo. Questi, secondo lo scrittore russo, si è trovato a scegliere tra il Cristo, Dio-uomo, e la proclamazione di se stesso come uomo-Dio, tema che nell’opera di Dostoevskij si specificherà nella figura di Kirillov ne I Demoni.  Il tema del “superuomo” si preannuncia in tutta la sua forza dirompente, in tutto il suo conflitto, nell’intera opera dostoevskiana e si può ben dire che Dostoevskij ne sia il precursore. Si è parlato di cristianità dei due autori, il russo e il tedesco, proprio in quanto religione del Cristo, perché Cristo entra pienamente sia nell’opera di Dostoevskij che in quella nietzschiana: “Nietzsche – scrive Gide – è geloso di Cristo”. Per questo crea un suo anticristo, per distruggere il Dio-uomo crea un uomo-dio, un altro dannato appassionatamente credente!

Affascina ricordare, riferendoci a una tradizione culturale, a Lucifero, l’angelo ribelle che si prostra a Dio, soprattutto quello delle prime pagine del Faust.

Dostoevskij, che aveva aderito al circolo di Petrasevskij e che per questa sua partecipazione ebbe la famosa condanna, non dimentica la sua esperienza giovanile di aderenza al socialismo utopistico di Fourier. È vero che egli combatte aspramente il socialismo e lo mette sullo stesso piano della Chiesa di Roma perché, come questa, toglie all’uomo la libertà e lo fa umile servo dei suoi bisogni più immediati, ma parla anche di un “socialismo russo” come di un “Cristo russo”. Dopo la terribile esperienza della “casa morta”, cioè della prigione siberiana, Dostoevskij traspone in Cristo la sua “utopia”, perché lo sente completo, con più possibilità di libertà. È questo che interessa, più di ogni altra cosa, Dostoevskij, anche quando parla ripetutamente della Madonna Sistina di Raffaello ne I Demoni, quando dice che “la bellezza salverà il mondo” e che bisogna preferire Shakespeare a un paio di stivali, Raffaello al petrolio. E soprattutto in molte pagine dei suoi Taccuini ci parla sempre dell’uomo e lo pone al centro dell’universo perché possa scegliere “il pane celeste” a quello meramente “terreno”.