Nel 1977, Gina Lagorio (1922-2005) pubblica La spiaggia del lupo, un romanzo di formazione, col quale in quello stesso anno vince il Premio Campiello.
Tra Oneglia, nella Liguria della sua infanzia, e Milano, la città cui approdò dopo la morte del primo marito, Lagorio ambienta la storia di Angela, che incontriamo bambina, quando, con la mamma e il nonno, vive in una piccola casa sulla spiaggia, sovrastata da un grande scoglio, che a lei pare avere la forma di un lupo, ma un lupo benevolo e protettivo, che nella notte difende la sua casa dalle insidie del mare tempestoso. Anni prima, il padre di Angela, di una ricca famiglia che lo aveva rinnegato per aver voluto egli seguire la carriera di pittore, si era ammalato di tubercolosi in conseguenza delle difficili condizioni che aveva dovuto affrontare, ed era morto quando Angela aveva pochi mesi. I nonni paterni, che non avevano mai voluto conoscere la nipotina, l’avevano esclusa dal testamento. Per un sentimento di giustizia offesa, e nel tentativo di assicurare alla figlia un avvenire più sicuro di quello che la sua povertà le prospetta, la madre di Angela ha intrapreso una causa per l’eredità, ma tutto sommato con scarsa determinazione, e assistita gratuitamente da un anziano, buffo e distratto avvocato, ben più impegnato, però, a scrivere una vastissima e dotta Antropologia dello sbadiglio, che a curare le cause affidategli. Tuttavia, nella modesta casetta sulla spiaggia, nulla manca di quanto i suoi abitanti desiderano: i libri, innanzitutto, che Angela legge avidamente, alimentando la sua fervida fantasia, il suo cuore puro e la sua lieta, ricercata solitudine, (ella non comprende i discorsi e la visione del mondo delle sue coetanee, disinteressate all’interiorità); i dischi, soprattutto di musica classica, che la madre ascolta nelle ore libere dal lavoro e che la riportano al tempo e all’atmosfera del suo breve tempo con marito; anche il semplice cibo che prepara il nonno, pescatore e giardiniere.
L’incipit del libro dichiara il mistero di Angela, un mistero che l’accompagna sempre “La bella Angela, non era bella. Ma tutti dicevano ch’era bella, quando parlavano di lei. Non era un giudizio, era un’abitudine, dei ragazzi prima degli uomini poi […]”. Gli uomini, dunque, la guardano con desiderio fin da quando è solo una bambina. Eppure, quanto c’è a volte di torbido in quel loro desiderio viene sciolto o frenato dall’inconsapevolezza di lei, dalla sua innata e definitiva innocenza, dalla naturalezza con cui vive tra gli altri, immersa in un mondo tutto suo, quasi incomunicabile ad alcuno, se non, in parte e quand’è bambina, al nonno, cui da piccola racconta le sue storie fantasiose, prima di scivolare fiduciosa nel sonno, appoggiata al suo petto. Ma il mondo di Angela non è fatto solo dalla veglia, ma pure dai suoi sogni, da quelli infantili, con sontuosi palazzi marini, abitati da esseri di favola, a quelli di ripetizione, ossessivi, sulla ricerca di una casa a lei adatta, nei primi, faticosi mesi dopo che si sarà trasferita a Milano.
Prima di ciò, però il romanzo narra l’improvviso fiorire di Angela, dopo un breve periodo disarmonico e difficile della prima adolescenza. Adesso la giovane ha diciotto anni, non è bella, le ripete la madre, ma il suo corpo è forte e pieno di vita, con la pelle dorata di pesca intatta, generoso e sano, un corpo dalle sporgenti scapole alari, che quando Angela corre sulla spiaggia e poi si slancia fra le onde, nuotando fra pesci e gabbiani, che volano a pelo d’acqua, la fa sembrare una creatura non terrestre, fra uccello e pesce.
Un giorno, risalendo sulla spiaggia dal bagno non trova il suo gattino, Mimì, ad aspettarla come al solito, preoccupata, lo cerca e quando, dopo poco lo trova, le appare ferito e spaventato. Un ragazzo le si avvicina. Mimì e il suo cagnolino, un minuscolo carlino, hanno ingaggiato una lotta, uscendone malconci entrambi. Angela, nella sua casa medica le due bestiole e subito nascono simpatia e confidenza affettuosa col giovane, Vladimiro, detto Vladi, che è lì in vacanza. Da quel momento i due non si separano per l’intera estate. Angela non vede più altri che lui. Fanno l’amore con naturalezza, con tenero, totale abbandono, e poi parlano di tutto. Una sera di fine estate Vladi le appare pensieroso e triste e le dice che l’indomani si vedranno più tardi. Ma, il giorno dopo, dopo una lunga attesa, un ragazzino porta una lettera ad Angela, che nel leggerla sviene. Vladi è tornato a Milano, è sposato, e per un giuoco del caso, con la figlia di un fratello del padre di Angela. Vladi intende sistemare la situazione, e la attende Milano, dove saranno di nuovo insieme. Dopo il primo urto, la giovane decide di raggiungerlo, mentre scopre di lì a poco di essere incinta, e informa il nonno e la madre. Terrà il bambino, raggiungerà Vladi e, come desiderava da tempo, si iscriverà all’accademia di Brera. Di fronte alla sua fermezza, la madre e il nonno comprendono di non poter opporsi.
Gli anni in cui Angela arriva a Milano sono quelli di poco successivi al Sessantotto, ma come già a Oneglia, nelle manifestazioni che frequentava col nonno, vecchio socialista, deluso e amareggiato dagli scandali della politica e da un nuovo linguaggio ch’egli non comprendeva più e di cui diffidava, anche nella grande città, nel pieno dello sviluppo, non sono il fermento e la speranza del nuovo a mostrarsi, piuttosto il fallimento, la violenza, l’odio e l’incomunicabilità insanabili tra il mondo operaio e la proprietà. Vladi, che dirige un’azienda di proprietà del suocero e che ha voluto tentare un’esperienza di cogestione della fabbrica, è fatto oggetto di un attentato in cui viene ferito gravemente e in cui perde la vita un funzionario della fabbrica che lo appoggia. Nulla si saprà del bombarolo, che, viene detto, è in realtà approvato dagli operai che non si fidano dell’esperimento, e dai padroni, che temono l’aggressione al principio di proprietà capitalista. Appare qui la singolare lucidità di Lagorio che, per bocca di un personaggio comprimario, indica la fine delle ideologie e la sconfitta di quella più generosa del Novecento, mentre quel che resta è solo la vittoria della società del consumo selvaggio e insaziabile. Sono pochi a quell’altezza di tempo ad aver compreso questo esito amaro: Lyotard, Calvino, qualche anno prima Pasolini.
La città appare estranea e aggressiva ad Angela, col rumore costante degli aerei, delle sirene delle fabbriche e col suo traffico convulso. Solo Brera, che mantiene ancora, in quei primi anni Settanta in cui è ambientata la vicenda, una dimensione pre-industriale, con poche botteghe artigiane sopravvissute ai nuovi negozi dalle chiassose insegne al neon, con qualche piccola strada chiusa al traffico, una dimensione che le dà conforto, così come la conforta lavorare, attenta e accanita, ai suoi disegni in Accademia, mentre le sembra di sentire dentro sé respirare insieme il bambino che attende e il giovane pittore del quale non ha ricordi, suo padre, di cui sa in fondo molto poco, se non quella passione, che lo aveva fatto crudelmente disconoscere dalla propria famiglia. Ella, inoltre, ripiegata su una dimensione di attenzione più all’intimo che al politico, si tiene istintivamente lontana tanto dalla militanza, quanto dai numerosi giri di giovani post sessantottini, più attratti dalle droghe che dalla politica. Intanto, malgrado l’amore tra Angela e Vladi duri, il legame si allenta fino a spezzarsi. È proprio Angela che comprende di non amarlo più, per la delusione che le provocano il vittimismo e la pavidità di lui, incerto a lasciare la moglie, che pure non ama, Così, quando egli, che sente di stare per perderla, le propone di lasciare tutto per recarsi loro due e il bambino lontano, “nel terzo o quarto mondo” Angela rifiuta, consapevole che quella di lui non è un’assunzione di responsabilità, ma una fuga. Nel suo percorso, però, per la prima volta, la giovane donna ha scoperto la dimensione dell’amicizia con i propri coetanei, lei, che fino allora come amici aveva avuto a lungo solo il nonno e una vecchia saggia, anche lei incompresa ai più nella sua profondità, creduta da tutti solo l’originale, misantropa e tirannica “regina” della riserva naturale di Oneglia. Con i nuovi amici, Angela scopre il reciproco sostegno e la possibilità di godere insieme di semplici piaceri, condividere una cena, un discorso, qualche volta la casa, in una notte in cui si è fatto tardi e sembra sconsigliabile avventurarsi da soli nella città, l’essere ‘compagni’ in una dimensione esistenziale e solo latamente politica. Tornata a Oneglia per un periodo, ha una breve, intensa relazione col suo maestro di pittura, un uomo anziano e amaro, col quale però conosce un’intensità sessuale, possibilità della carne che non aveva immaginato nel tenero amore con Vladi. Anche da questo amante però si stacca, sente di non averlo amato e di non voler legarsi, la vita, altre possibilità, lontane da lì, chiamano. Lo lascia triste, per la perdita di quell’ultimo fuoco, forse mai sperimentato tanto intenso, pure nella sua esperienza di molteplici relazioni, ma l’uomo maturo l’aiuta, con una generosità estrema, ch’ella comprende, a non provare sensi di colpa, perché nei richiami della vita sta il diritto di scegliere d’essere liberi.
Seguendo il destino solitario matrilineare, determinatosi per la madre in seguito alla morte del padre, per Angela a causa di consapevole dignità e libertà, ella chiede una volta per tutte alla madre di interrompere la causa per la propria eredità. Tornerà a Milano con suo figlio Carlo, a vivere, a studiare. Il nonno e Rachele sono morti, il gatto Mimì, dopo la sua prima partenza, offeso nel suo amore esclusivo, è tornato randagio. La madre di Angela è ancora abbastanza forte da poter recarsi, almeno qualche volta, presso di lei. Nel treno che da Oneglia li porta tutti e tre a Milano, sente che la adesso la città è sua, come sua e tutta aperta è la vita che le sta davanti.