La ragazzina del Ghetto

Lo scialle andaluso, di Elsa Morante, raccoglie dodici racconti, scritti tra il 1935 e il 1963, alcuni già pubblicati prima dell’uscita del volume per i tipi di Einaudi, altri inediti, distesi dunque su un lungo periodo dell’esperienza umana e intellettuale dell’autrice. Sono storie che hanno in comune una fitta presenza di bambini, spesso protagonisti, magari anche voci narranti, e di adulti che conservano tratti fanciulleschi molto accentuati, ma alla cui età, o personalità, non corrisponde un’interpretazione del mondo immatura, o infantile nel senso che comunemente diamo al termine. Al contrario, questi personaggi hanno uno sguardo, insieme realistico e fantasioso sugli esseri e sugli eventi, che può arrivare fino alla visionarietà profetica, a volte a linguaggio antico, solenne e terribile.

È in particolare il caso, nel primo racconto, L’uomo dei lumi, il più antico della raccolta, ma pubblicato per la prima volta solo in essa. L’Io narrante, femminile, il cui nome resta ignoto, ci racconta situazioni e fatti di pressoché cinquant’anni prima, quando ella era una ragazzina di circa sei anni, ma la Narratrice ancora non sa se era poi proprio lei stessa l’Io di cui si ricorda, malgrado ormai, dopo più di cinquant’anni, dovrebbe ormai saperlo. E cosa? La misera, sudicia strada del Ghetto in cui abitava, con la madre, triste e violenta, col padre gobbo, con la sorella bella, grande, bella e distante, con la nonna sorda e avara, e in fondo alla strada il Ghetto con le vetrate colorate e le sue luci rosseggianti nella notte, e ricorda la sua paura del buio. Ma al centro del ricordo sono due antichi peccati: il primo, quello del custode del Tempio, Jusvin, bello e solenne come un angelo o un profeta, che aveva rubato l’olio alle lampade dei morti, lasciandoli in un buio che li rendeva inquieti, e che era stato punito dal Signore con la malattia il cui nome spaventoso, col rimando “alla feroce fauna marina e ai tropici africani”, lo aveva colpito sulla lingua, consumandolo rapidamente e facendolo morire tra urla senza parole. E subito la Narratrice aveva sentito la gente dire e lei stessa aveva compreso, che i sei figli di Jusvin, per sfamare i quali egli aveva peccato, erano definitivamente segnati dalla colpa paterna, privi anch’essi di giustificazione, bellissimi e laceri, esposti alla Vendetta.

Il secondo peccato era stato commesso dall’Io narrante stesso, poco dopo quello del custode del Tempio. Un giorno, suo padre le aveva dato una moneta perché la giuocasse al lotto. Distratta dalla vita intorno a lei, la piccola aveva perso il biglietto e l’aveva colta lo sgomento per la sua distrazione colpevole. Singhiozzando, aveva vagato in cerca del biglietto, frugando nella polvere delle strade misere e squallide, finché, giunta presso il Tempio, s’era addossata ai suoi muri mentre la notte scendeva. Piangeva la piccola, non poteva tornare a casa: il padre l’avrebbe picchiata, la madre, come sempre quando lei disubbidiva, l’avrebbe maledetta con solenni parole in ebraico, col viso sciupato rivolto verso il Tempio. E la Narratrice, ora anziana, con terrore rinnovato, ricorda ancora: di aver pensato di uscire dal Ghetto e andar via da tutto e morire, perché aveva peccato, come Jusvin aveva peccato, come Jusvin, che ora era in presenza del Signore e che non poteva parlare, non poteva giustificarsi, chiedere perdono. E stava muto davanti a Lui, il senza-forma, anch’egli muto, il cui silenzio diceva a Jusvin -Tu, ladro-. Ed ecco – il ricordo continua – i morti erano usciti dalle mura del Tempio, pallidi, muti, laceri, trascinando i piedi pesanti, alcuni ella aveva riconosciuto. Tutti tendevano le labbra come a chiedere acqua, brancolanti a cercare la luce, tolta loro dal guardiano infedele.  Risaliti sulla terra per ritrovarla, avevano scoperto che solo i vivi avrebbero potuto dargliela o togliergliela, questa la volontà del Dio silenzioso, che castiga i vivi e chiude i morti nella terra.

Così era il suo Dio, dice la Vecchia. E quella ragazzina forse era lei, o forse sua madre o forse sua nonna, poiché ella è nata e morta molte volte, e ogni nuovo inizio è un processo incerto. Eppure il passato non è finito: laggiù, nell’ombra, la ragazzina che, forse, lei è stata, ancora trema nella paura e nel dubbio, in un mondo e davanti a un Dio incomprensibili.

Ma, sua o di un’altra, la comprensione, o meglio, la rivelazione sul mondo ricevuta nella prima età è stata definitiva, non per una fissazione sull’infantile, bensì per la ‘visione’ che le è stata data del destino umano, tremendo in vita e in morte.




La madre di Alice

Col romanzo del 2016, Era mia madre, Iaia Caputo, nata a Napoli nel 1960, trapiantata a Milano, continua la narrazione e la riflessione sul mondo femminile e, sia pure qui lateralmente, su quello maschile e sui rapporti fra i due sessi, già intraprese con alcuni fra i suoi scritti precedenti, d’invenzione o d’indagine, come Di cosa parlano le donne quando parlano d’amore (2001), Dimmi ancora una parola (2006), Il silenzio degli uomini (2012). Ma l’operazione dell’ultimo romanzo è più articolata, pur concentrandosi particolarmente sui rapporti tra madri e figlie, non solo su quello della madre che Alice, l’io narrante, ballerina precaria di trentacinque anni, racconta, ricorda, scopre, ma anche su quello tra la nonna materna, Sinforosa, e la figlia, unica tra le figure del romanzo di cui non viene mai detto il nome, qualificata com’è dai suoi ruoli, quello di madre, innanzitutto, già presente nel titolo, ma anche quello di moglie, di intellettuale femminista, appassionata docente universitaria, amante, amica generosa e, si è detto, di figlia di Sinforosa: donna intelligente, sensibile, perspicace, saggia, che, poco scolarizzata, in più occasioni, mostra di aver provato qualche timore verso quella figlia tanto colta, connotata da tratti di severità nel carattere di intellettuale.

L’azione comincia a Parigi, dove Alice al momento vive. Ella accompagna la madre verso il treno che deve riportarla in Italia, a Napoli. La madre sorride nel guardare qualcosa che ha attratto la sua attenzione e cammina con la testa voltata verso quel qualcosa, quando cade e appare subito priva di conoscenza. In ospedale, Alice, che ha creduto a uno svenimento determinato dalla caduta, apprende con sgomento la diagnosi: una devastante emorragia cerebrale, dovuta a un aneurisma. Dopo poco più di due mesi, in seguito a un ulteriore peggioramento, accertata l’impossibilità di una ripresa, i medici consentono il trasferimento a Napoli in una struttura per lungodegenti. Nei sei mesi successivi, fino alla morte della madre, Alice vivrà nella casa dei genitori, dalla quale si era allontanata molto presto, e passerà da una scoperta all’altra, non solo su fatti, eventi, circostanze prima ignorati, ma su pensieri e sentimenti della madre. In questo percorso, che segna in realtà il passaggio da una adolescenza mai valicata all’entrata consapevole nell’età adulta, è determinante un fascio di lettere che la madre aveva scritto perché Alice le leggesse dopo la sua morte, ma che le vengono consegnate dal padre appena giunti a Napoli. Arturo è il padre che ella ha smesso di amare molti anni prima, in seguito alla delusione cocente del suo coinvolgimento in Tangentopoli, attraverso un importante ruolo politico da lui ricoperto, e per la vergogna della sua carcerazione, dopo la quale Alice aveva lasciato la famiglia per seguire una carriera estremamente precaria di ballerina.   

 Questo romanzo, in cui la madre viene rivelata attraverso le lettere, ma pure dalle parole di Sinforosa, da Arturo, nelle difficili conversazioni con la figlia, persino da un giovane e affascinante amante del quale in precedenza Alice nulla aveva saputo, è un percorso in cui Alice scopre inoltre se stessa, le motivazioni delle sue scelte, del suo distacco dai libri, così importanti per la madre, e per esprimersi rifugiarsi nel gesto, faticoso e non accompagnato da parole, della danza. Alice depone lentamente non solo il rancore per la strenua difesa che la madre aveva sempre fatto del padre circa lo scandalo che l’aveva coinvolto, ma pure il rancore per una presenza avvertita come ostacolo le che precludeva l’esclusività dell’amore materno. 

È questo, dunque, un romanzo di formazione. Nei mesi dolorosi di un distacco annunciato, Alice non solo ripercorre la sua vita, ma letteralmente la rifonda, getta cioè le basi per un amore nuovo, stabile, cui aveva in precedenza rinunciato per sfiducia nelle sue possibilità di essere amata e di amare. Il mondo materno, fatto di intellettualità, ma anche di cura della casa, della cucina, dei fiori, del marito, dei propri studenti, della figlia, quella cura per qualcosa da nutrire e far crescere, quel mondo che Alice non aveva prima compreso, che in parte aveva detestato, in parte aveva dato per scontato e definitivo, eterno, quella cura, la persona che quella cura offriva, stanno per andar via per sempre. Il vuoto che minaccia Alice le dà una vertigine che dura tutto il tempo della lunga, silenziosa agonia materna, ma nell’attesa Alice impara. Impara il nuovo corpo, sfiorito e senza forza alcuna, di sua madre, impara a prendersene cura, impara che la nonna Sinforosa, con cui ha condiviso da bambina lo svago e il sogno della danza, attraverso la visione comune di un’ingenua serie televisiva degli anni Ottanta, la nonna di poche scuole e nel cui linguaggio ha forte presenza il dialetto napoletano, è in realtà animata e sostenuta da una visione antica e sapiente del mondo, in cui l’amore per un uomo, da passione fugace e instabile della giovinezza, diviene bene profondo e paziente, come l’amore per la vita, della cui finitezza Sinforosa è ben consapevole, ma che crede vada vissuta andando avanti e avanti, un passo dopo l’altro, come se non dovesse mai finire. Se la conquista di Alice durante l’agonia della madre è soprattutto rilettura del passato e degli affetti, del senso e della costruzione del destino, è solo dopo la morte della madre che più decisa è la svolta nei fatti. Alice sente che il gelo del suo cuore verso il padre è ormai sciolto, che lo ama nuovamente, o è di nuovo consapevole di amarlo, smette di chiamarlo Arturo e di nuovo lo chiama papà, può accettare il nuovo lutto, quello dato dalla morte, annunciata per accenni, della nonna Sinforosa e dopo tre anni, è lei adesso che, come aveva fatto sua madre per tutta la vita, scrive. Ed è a sua madre che scrive e di sua madre, e adesso ha un figlio, lei che prima si era negata al desiderio della maternità. 

La pagina del libro che Alice sta scrivendo, e che troviamo quasi in fine del romanzo, è la stessa che aveva misteriosamente aperto il libro: la storia degli ultimi momenti di sua madre, prima di cadere priva di sensi nella stazione, narrati dalla madre stessa. Ora apprendiamo che è Alice a darle le parole per dire l’improvvisa consapevolezza, un istante “prima che si spegnesse la luce”, che l’immagine che ha in quel momento negli occhi, che l’allieta e la fa sorridere, sarà per lei l’ultima.   

                       

        




Vanda

L’importanza dei personaggi letterari non è definita dallo spazio che occupano nell’opera in cui compaiono, e ciò è immediatamente evidente, per esempio, riguardo all’azione di un romanzo in cui l’assassino appaia improvviso e inatteso sul finale, agisca e si dilegui immediatamente e per sempre. Spesso più sottile da cogliere per il lettore, e a volte, credo, persino per l’autore, è il peso simbolico, ma pure biografico, psicologico, delle creature che, di invenzione o realmente esistite, vivono tuttavia, per un breve tratto o anche solo per accenni, nelle narrazioni. È questo, mi sembra, il caso di un personaggio che viene intensamente, ma brevemente narrato, senza neppure citarne il nome, nella grande opera di esordio di Primo Levi, Se questo è un uomo, ma che, attraverso le notizie e le testimonianze sulla vita dell’autore, attraverso sparsi lacerti e tracce nelle sue opere successive, per accenni nelle interviste dei giorni che precedettero immediatamente la sua tragica morte, e per altre testimonianze, sappiamo essere Vanda Maestro, donna fondamentale nella vita di Primo Levi.

Vanda Maestro, di famiglia ebraica, nacque nel 1919 a Torino, dove suo padre, Cesare, di Trieste, si era trasferito e dove, con la moglie Clelia Colombo, gestiva un negozio. Conseguita la maturità classica a Torino, Vanda si laureò in chimica a Genova nel 1942. A Torino, nella Biblioteca della scuola ebraica, presso il Tempio in via Sant’Anselmo, già da qualche anno aveva stretto amicizia con alcuni coetanei con cui condivideva l’intellettualità, l’antifascismo e l’amore per la montagna, fra questi vi erano Primo Levi, Luciana Nissim, Franco Momigliano, Ada della Torre, Emanuele Artom, Eugenio Gentili Tedeschi, Bianca Guidetti Serra e altri ancora che non furono risparmiati dalle leggi razziali. A partire dal 1942, mentre gli eventi precipitavano, una parte del gruppo si trasferì a Milano, ma continuò a incontrarsi in casa di Ada della Torre. Dopo l’8 settembre, Vanda, Luciana Nissim, Primo Levi con pochi altri amici costituirono una minuscola banda partigiana presso Amay. Arrestati il 13 dicembre 1943, dopo due mesi di carcere ad Aosta, furono portati a Fossoli, dove riuscirono a restare insieme e si riunì a loro anche Franco Sacerdoti, ebreo napoletano, che aveva lavorato a Torino entrando nel gruppo degli amici della Biblioteca, anch’egli salito in montagna, ma con un altro gruppo, e poi catturato. Franco sarebbe stato fucilato durante una “marcia della morte”. Dopo un mese a Fossoli, ancora insieme i quattro amici vengono deportati ad Auschwitz-Birkenau. Dopo atroci vicende, Primo e Luciana sarebbero tornati a casa, Franco sarebbe stato fucilato durante una “marcia della morte”, Vanda inviata alle camere a gas nell’autunno del ‘44. 

Poche le parole a lei dedicate in Se questo è un uomo. I prigionieri sono ammassati nei vagoni che li portano verso una destinazione ignota, fra questi Primo e i suoi amici, che non sanno illudersi sula tragicità di quanto sta per succedere. ”Accanto a me, serrata come me fra corpo e corpo, era stato per tutto il viaggio una donna. Ci conoscevamo da molti anni, e la sventura ci aveva colti insieme, ma poco sapevamo l’uno dell’altra. Ci dicemmo allora, nell’ora della decisione, cose che non si dicono tra i vivi. Ci salutammo, e fu breve; ciascuno salutò nell’altro la vita. Non avevamo più paura.” 

I due corpi serrati, in una intimità tremenda eppure ancora dolce e confortante, poi l’ora estrema della decisione. Cosa resta da decidere a coloro che erano già destituiti di scelta?, a loro indotti a dirsi cose che i vivi non si dicono? Decidere, forse, se restare umani, decidere se piegarsi o continuare una ostinata, disperata resistenza, ancora più disarmata, ancora più invisibile. Mentre salutano uno nell’altro la vita, cioè il desiderio, l’amore e il futuro, privi di paura, come chi non spera più, loro, le vittime innocenti, sono più vive e vitali dei carnefici. Eppure, Levi lo sa, qualcosa muore allora per sempre in loro. Muore la giovinezza, muore l’illusione antica sull’uomo. Dopo la shoah, per molti muoiono l’arte e la filosofia, muore Dio. Tuttavia, Levi continuerà a vivere e a testimoniare, continuerà a credere che l’uomo può educarsi a fare il bene, e Vanda tornerà ancora nei suoi scritti. Nel 1953, nell’articolo “Testimonianza di un compagno di prigionia”, ritrovato e attribuitogli con certezza da Giovanni Falaschi dal 2001, Levi scrive: “Chi da Birkenau è tornato, ci ha raccontato di Vanda, fin dai primi giorni prostrata dalla fatica, dagli stenti, e da quella sua terribile chiaroveggenza che le imponeva di rifiutare i penosi inganni a cui così volentieri si cede davanti al danno supremo. Ci ha descritto la sua povera testa spogliata dei capelli, le sue membra presto disfatte dalla malattia e dalla fame, tutte le tappe del nefando processo di schiacciamento, di spegnimento, che in Lager preludeva alla morte corporale. E tutto, o quasi tutto, sappiamo della sua fine: il suo nome pronunciato fra quelli delle condannate, la sua discesa dalla cuccetta dell’infermeria, il suo avviarsi (in piena lucidità!) verso la camera a gas ed il forno di cremazione”; e ne La tregua riporta la testimonianza di Olga, una compagna di prigionia di Vanda “Vanda era andata in gas, in piena coscienza, nel mese di ottobre: lei stessa, Olga, le aveva procurato due pastiglie di sonnifero, ma non erano bastate”. Ne Il sistema periodico, del 1975, fa il suo nome narrando la storia del piccolo, ingenuo gruppo partigiano in cui erano insieme: […] i partigiani più disarmati del Piemonte, e probabilmente anche i più sprovveduti”. 

E certo ancora pensando a Vanda, aveva scritto il 9 gennaio 1946 la poesia 25 febbraio 1944, data della sua entrata a Monowitz) pubblicata poi nella raccolta Ad ora incerta, uscita nel 1984:

Vorrei credere qualcosa oltre,

Oltre la morte che ti ha disfatta.

Vorrei poter dire la forza

Con cui desiderammo allora,

Noi già sommersi,

Di potere ancora una volta insieme

Camminare liberi sotto il sole.

Tornerà ancora Vanda, come un dolore, come un tormentoso rimorso degli ultimi giorni, dolore e rimorso confidati, tra molte reticenze a Giovanni Tesio (si veda per questo l’articolo di G.Falaschi, su “Doppiozero” dell’8 aprile 2016).  

Potremmo chiederci se si può parlare di Vanda come “personaggio letterario”. La materia è storia, atroce e vera. Ma, dal canto suo la letteratura non è finzione, bensì universalizzazione e resa esemplare della vita.     

Anche Luciana Nissim ci racconterà della prigionia di Vanda ad Auschwitz, vissuta con lei in larga parte, ma non fino in fondo, prima in una testimonianza del 1946 e poi più diffusamente nel suo tardo libro di memorie Ricordi della casa dei morti e altri scritti, del 2008, in cui si spingerà a parlare anche dei sentimenti di Primo per Vanda, ma è una storia diversa che sarà utile, doloroso e necessario, raccontare in un’altra occasione.




La partigiana Agnese

Scrittrice precocissima, Renata Viganò, classe 1900, aveva partecipato alla Resistenza da staffetta partigiana e infermiera, ma pure come collaboratrice della stampa clandestina, insieme al marito Antonio Melluschi, anch’egli giornalista e scrittore. Per Viganò, il successo, non duraturo (oggi è poco letta e di lei di rado ci si ricorda) ma significativo, giunse col primo e più riuscito tra i suoi scritti sulle vicende resistenziali, il romanzo che nel titolo, a un tempo, indica la protagonista e ci fa dolorosamente certi della sua sorte, L’Agnese va a morire. Pubblicato nel 1949, conquistò il secondo posto al Premio Viareggio di quell’anno e fu riconosciuto come un frutto maturo del Neorealismo, e vibrante, luminosa testimonianza della lotta partigiana, degli ideali che l’avevano ispirata, della generosità e dell’abnegazione al bene comune delle donne e degli uomini che insieme l’avevano sostenuta, spesso fino a sacrificare la vita stessa per la libertà e la pace che avevano così donato agli altri senza poterne essi stessi godere. Nel 1976, Giuliano Montaldo dal romanzo trasse un film col titolo omonimo (foto di copertina).

Valli di Comacchio, dopo il 25 luglio del 1943. Agnese, donna in età più che matura, fa la lavandaia. È forte e lavora duramente per mantenere se stessa e il marito, Palita, di salute cagionevole, che sta a casa e intreccia vimini da cui ricava ceste. Sono insieme da tanto tempo e si vogliono un bene profondo e sereno, lui sembra più giovane di lei, che lo protegge con un affetto che è anche di madre. Non hanno figli e quando Palita attende Agnese gli fa compagnia una gatta nera, affettuosa e dolce, che fa le fusa tutto il giorno. Un giorno, un soldato italiano che cerca di tornare a casa, dopo la rotta dell’esercito, chiede loro aiuto. Agnese e Palita gli danno da sfamarsi e lo fanno dormire a casa loro per una notte. Ma i tedeschi sono sempre allerta e hanno informatori, fra i quali i vicini di casa di Agnese, marito, moglie e due ragazze che si accompagnano ai fascisti e ai soldati tedeschi in cambio di cibo e di denaro. Avvertita, Agnese riesce a far fuggire il soldato, ma Palita insieme a molti altri uomini viene portato via dai tedeschi. Da subito Agnese non vuole illudersi e si dice che il marito non tornerà. Quando poco dopo arrivano lettere dai rastrellati, Agnese non riceve nulla. Ha sempre disprezzato i fascisti e odia i tedeschi, ma la sua consapevolezza del male di cui essi sono portatori si fa sempre più lucida, più vigile. Appena andato via Palita, i partigiani compagni di Palita vanno a trovarla, le dicono quanto loro fosse prezioso per loro. Da quel momento Agnese entra a far parte del loro gruppo e viene impegnata dal Comandante in operazioni di staffetta. Col suo corpo grosso e pesante, ma forte e resistente, percorre decine e decine di chilometri al giorno in bicicletta, portando ordini, armi, materiali esplosivi per le azioni partigiane. Di giorno Agnese, umile, inconsapevole del proprio coraggio, che i partigiani apprezzano silenziosamente, compie azioni sempre più impegnative, con modestia, quasi timorosa, stupita e imbarazzata da se stessa, dà consigli e propone soluzioni, che vengono sempre accolte. Di notte sogna Palita, che la incoraggia, la rassicura. Palita sta bene, è contento di lei. Le si siede vicino e le parla. Agnese non crede ch’egli viva in una dimensione in cui potranno rivedersi, non pensa che mai si ricongiungeranno, ma trae conforto da quei sogni ed è felice solo quando il sonno giunge con la sua pace e coi sogni. Smette di fare la lavandaia, per se stessa ha a sufficienza da vivere e non vuole lavorare per i tedeschi, lavare i loro panni; quando dal comando la chiamano per offrirle lavoro, si dice ammalata. Dopo alcuni mesi, il giovane figlio di un compaesano, deportato con Palita, riuscito a fuggire, raggiunge la casa di Agnese, racconta il loro trasporto su un treno merci per la Germania insieme a prigionieri ebrei, durante il quale Palita, subito ammalatosi, è morto. La notizia sconvolge Agnese, che comprende di aver segretamente sperato che malgrado tutto il marito si sarebbe salvato. Quando un soldato tedesco uccide la sua gatta, che Palita le aveva affidato mentre lo portavano via, e poi ubriaco si addormenta nella cucina di Agnese, ella, col calcio del mitra di lui, gli fracassa la testa, poi abbandona la sua casa, che vede da lontano bruciare, sente le urla dei tedeschi, grida di donne (saprà poi che i tedeschi hanno ucciso i suoi vicini per ritorsione). Attraversa le paludi e raggiunge i partigiani, che l’accolgono come una madre e lei da madre comincia a prendersene cura, preparando cibo e dando loro come un’idea di famiglia recuperata con la sua presenza forte e silenziosa; prosegue tuttavia e anzi via via incrementa la sua lotta partigiana attiva. Tra sofferenze, pericoli, azioni in cui rischia continuamente la vita e in cui muoiono tanti che ormai le sono carissimi, Agnese continua in realtà un nuovo percorso di appropriazione del mondo iniziato dalla deportazione di Palita. Comprende nuove cose, i pensieri in lei si fanno più facili e fluidi, pensa al futuro che con i suoi compagni sta costruendo, un futuro che forse lei e altri non vedranno, ma che altri ancora resteranno a ricordare, quando la libertà sarà arrivata. E, mentre con la lana che ha filato prepara calze ai “ragazzi”, pensa, ricorda i pranzi domenicali sereni e silenziosi con Palita. Adesso avrebbe da dirgli tante cose, adesso potrebbero parlare di tutte le domande senza risposta che cominciano nei bambini e finiscono nei vecchi. Perché alcuni hanno le cose, la sicurezza della vita, la protezione e altri poco o nulla? Ora capisce. Capisce che i ricchi vogliono tutto e lo tolgono agli altri e capisce che i fascisti li sostengono nella loro prepotenza, Capisce che cosa intendevano tanti uomini e tante donne che non avevano paura e che dicevano che le cose andavano cambiate e che doveva esserci pane per tutti e non solo pane, ma anche il resto, poter divertirsi ed essere contenti. E Agnese lavora le calze e pensa ai ricchi per i quali lavava i panni che la tenevano sull’uscio della porta, al timore di sbagliare, di fare o dire qualcosa che li irritasse, che li spingesse a non darle il lavoro, a toglierle il pane. E pensa ai compagni “gente istruita, che capisce, e vuol bene a tutti, non chiede niente per sé e lavora per gli altri quando ne potrebbe fare a meno, e va verso la morte mentre potrebbe avere molto denaro e vivere in pace fino alla vecchiaia. E appena si arriva, dice: – Hai mangiato? Hai bisogno di qualche cosa? E prima di andar via dice: – Buona notte e buon Natale, mamma Agnese. Questo era il partito e valeva la pena di farsi ammazzare”.

La lotta partigiana continua, mentre gli Alleati si muovono con troppa lentezza; più volte nel romanzo viene sottolineata anche l’irragionevolezza, l’inutilità di certe azioni. Agnese ha avuto una radio dai compagni e ascolta le notizie sui diversi fronti, il grande avanzamento a est del fronte, le incertezze a ovest. Ma poi arriva la svolta. Anche a ovest si procede più veloci, forse non ci sarà un altro inverno di guerra. E i tedeschi si fanno più feroci. La paura e la morte che li incalzano li rendono più violenti e spietati, un’azione terribile stermina quasi tutto il gruppo partigiano di Agnese. Lei e pochi altri sono rimasti, ma altri compagni arrivano, di partigiani più ne muoiono e più ne arrivano, dice Agnese. Le azioni dei tedeschi e dei fascisti si fanno più spietate e quando viene rubato un camion tedesco tutti quelli che si trovano sulla strada vicina al furto vengono sequestrati per alcune ore in un grande stanzone. Agnese è fra loro. C’è chi piange, una donna dice che la colpa è di chi provoca i tedeschi, che altrimenti non sarebbero cattivi. Agnese le ricorda aspramente i morti che hanno fatto in paese, le case distrutte, ma ancora la donna inveisce contro i “ribelli”, è a causa loro che i tedeschi reagiscono contro la popolazione. Agnese ripensa ai compagni perduti, li rivede, “compagni, partigiani, combattenti non ‘ribelli’” e interviene e grossa, alta, severa, incombe sulla donna. Un uomo le si avvicina, la riconosce, le fa un cenno d’intesa, le fa segno di lasciar stare la miserabile. Agnese si scosta, si allontana fra due file d’occhi che la guardano fisso. Poi si volta, dice che il momento della paga è vicino. Ai tedeschi non resta più nulla. Anzi, gli resta la paura. Passa ancora tempo. Poi la porta dello stanzone si spalanca, la gente viene fatta uscire, tutti corrono, si affollano, Agnese va verso l’uscita, pensa che anche stavolta non si muore, esce e un volto le si fa incontro, deformato da un urlo: è il soldato che credeva di aver ucciso in casa sua. Anche il maresciallo la riconosce, le dà due ceffoni furibondi. Poi le spara quattro colpi, negli occhi, sulla bocca, nella fronte. Tutti fuggono urlando. Il maresciallo sorride. “L’Agnese restò sola, stranamente piccola, un mucchio di stracci neri sulla neve.” Quasi lo stesso Viganò scrive della gatta nera di Palita, quando il soldato tedesco l’ammazza col mitra: “Sembrò uno straccio nero buttato via”. Ma ci accompagna, dopo la lettura, il senso dell’umile grandezza di Agnese, la lavandaia che si fa partigiana, che non ha mai paura per sé, ma teme e lotta per quelli che ama e per quelli che difende, un intero popolo, che donne e uomini come lei, sconosciuti ai più, hanno liberato.

Foto. Ferrara, foto di Maria Pia Ercolini

È questo un romanzo importante, fra i primi a uscire sulla lotta resistenziale, tra i pochi a narrare la Resistenza dagli occhi di una donna.

Su questa linea Viganò, occorre ricordarlo, scrive anche Donne della Resistenza, che esce nel 1955, la storia di ventotto partigiane, cadute nella lotta antifascista.

 

 

 




Sibilla

È questa la vicenda di una scrittrice che è insieme personaggio di un dramma amoroso, narrato nelle lettere degli stessi protagonisti: Sibilla Aleramo e Dino Campana.

Quando i due si incontrano, nel 1916, Sibilla ha quarant’anni ed è già inserita, come figura di rilievo, nell’ambiente intellettuale, tanto milanese che fiorentino e romano; già da un decennio ha pubblicato il suo romanzo Una donna, che testimonia, attraverso temi allora considerati ‘scabrosi’, come la follia e le molestie sessuali, del costituirsi di una coscienza femminista, destinata in lei a consolidarsi negli anni.

Dino Campana, nato nel 1885, fin dall’adolescenza aveva manifestato disagi contro i quali la medicina del tempo, e in un soggetto povero e solitario, del tutto sradicato quale sempre egli fu, non era in grado di fare molto. Vagabondò e visse sempre in povertà, non uscendo mai da questa condizione. La vicenda stessa della pubblicazione dei Canti Orfici si inserisce del tutto in una vita di estreme difficoltà.

La storia fra i due, che si innamorano di un amor de lohn, che l’incontro reale, concordato per via epistolare, conferma e rafforza, si dipana lungo il biennio 1916-1918, anche se la relazione vera e propria sarebbe durata poco più di sei mesi nel corso del 1916 e se dopo il gennaio del 1917 i due si incontreranno una sola volta, nella circostanza tragica del  ricovero coatto di lui.

Le prime settimane del rapporto d’amore recano a entrambi sentimenti nuovi, emozioni mai prima vissute con tanta intensità, malgrado entrambi avessero avuto numerosi incontri, più o meno significativi per la poetessa, non incidenti per Campana. Entrambi trovano accenti appassionati e intimi. Notevole la differenza delle lettere di lei, di tono un po’ dannunziano e recitato all’inizio, ma presto, dopo i primi incontri, intimo e tenero, pieno di abbandono affettuoso, come quando si firma col piccolo, modesto suo vero nome: Rina, o addirittura Rinuccia, che, gli scrive, “non ho usato mai”. Ma presto la follia del poeta si manifesta col suo carico di dolore e di violenza. E se la malattia che lo tormentò è la motivazione sostanziale delle sue ripetute violenze, pure, la manifestazione di esse sulla donna amata, accusata immotivatamente di infedeltà e colpevolizzata per le precedenti relazioni, ha la forma storica del sentimento di proprietà cieco e violento in tanti rapporti uomo/donna che tuttora sono sotto i nostri occhi. Una poesia di straordinaria intensità e bellezza, che reca la data dell’8 settembre 1916, scritta da Sibilla e spedita al suo amato Dino, apre uno scenario sconvolgente delle atrocità cui ella era stata sottoposta.

 

Rose calpestava nel suo delirio

e il corpo bianco che amava.

Ad ogni lividura più mi prostravo,

oh singhiozzo, invano, oh creatura!

Rose calpestava, s’abbatteva il pugno,

e folle lo sputo su la fronte che adorava.

Feroce il suo male più di tutto il mio martirio.

Ma, or che son fuggita, ch’io muoia del suo male!

L’autrice del primo romanzo italiano di sentire femminista, che giovanissima aveva conosciuto violenze fisiche e psicologiche in famiglia e che a fatica si era liberata, reagisce, tuttavia, per qualche tempo in modo che sta pur’esso dentro il canone storico: si sottomette, subisce, spera in un cambiamento, le pare perfino di comprendere che la sofferenza di lui, folle, è più grande della propria, che subisce la violenza, ma non ne viene ingoiata. Ben presto i due s’incontrano ancora. Tuttavia il ripetersi delle violenze convince Sibilla, dopo alcuni mesi, che la situazione è irrecuperabile, che la storia va troncata. Ama ancora, lo dichiara nelle lettere a lui e ad amici, e la sua sincerità, il suo dolore, il suo rimpianto sono evidenti, ma ha ampie risorse, sa difendersi e comprende che la sua unica difesa è interrompere il rapporto.

Il 21 dicembre 2016, scrive a Leonetta Cecchi Pieraccioni, amica sua e di Dino:

“Leonetta, non so se vedrai Campana. Dopo averlo ritrovato, e con lui qualcuna delle nostre ore più belle, stanotte s’è di nuovo abbandonato al suo delirio d’odio e questa volta credo non ci ritroveremo più […] Non avevo mai impegnata così totalmente la mia esistenza: era adorazione, sottomissione, negazione mia totale. Ora non saprò mai più amare. Sibilla”

Spaventata, ma soprattutto ferita, Aleramo, dispera in un cambiamento positivo e non vuole più incontrare Campana, malgrado la successione insistita, appassionata, a tratti straziante, dei messaggi di lui, nei quali invoca perdono e le chiede almeno un ultimo incontro. Eppure il sottrarsi di lei è colmo di dolore e rimpianto, malgrado il rapporto con Campana le appaia adesso come “martirio”.

Il 26 febbraio 2017 scrive infatti all’amico Vittorio Baldini: “Ho vissuto sei mesi di martirio, appetto a cui tutto ciò che avevo prima sofferto si è parso gioco. Ma era vita, e ora ch’è finito…”. E nelle lettere che continua a inviare al poeta, pur negandogli un nuovo incontro, gli dichiara un amore appassionato, la speranza disperata che il futuro insieme sia ancora possibile.

Nel 1918, su indicazione medica, Campana entra nel manicomio dal quale non uscirà mai più, morendovi nel 1932. Aleramo vive fino al 1960. Quello che era stato l’amore più perturbante della sua vita, fu una ferita definitiva, una vicenda della quale seppe e volle pochissimo parlare, autorizzando solo nel 1958 la pubblicazione del carteggio in suo possesso e che ha conosciuto una storia editoriale pure singolarmente tormentata e non ancora giunta a conclusione.

Le citazioni sono tratte dal carteggio Sibilla Aleramo – Dino Campana, Un viaggio chiamato amoreLettere 1916-1918, a cura di Bruna Conti (Feltrinelli, 2000), ma si veda pure l’edizione del 2015, per la stessa curatrice e ancora per Feltrinelli.




Su Emily Dickinson

Non sempre il primo incontro decisivo con uno scrittore destinato a divenire importante nella nostra esperienza culturale, e quindi esistenziale, passa attraverso la lettura delle sue opere: una frase adattata per noi da un essere amato, un’allusione nel libro di un altro autore, un film biografico, un documentario, l’occasione della stampa di un francobollo commemorativo, una conferenza cui per caso capiti di assistere, la visita occasionale a una casa, poi divenuta museo, abitata dallo scrittore, fino a subito prima poco noto e indifferente, possono suscitare un’improvvisa attenzione, spingerci a una lettura appassionata della sua opera, prima non ancora esperita.

Ma può avvenire che pure approcci diversi non facciano ancora sbocciare l’interesse e che esso ci colga ancora più avanti, in un momento in cui qualcosa che in noi è maturato o è appena nato, ci spinga improvvisamente verso quell’autore, verso la sua opera che a un tratto consuona in noi.

In Mai devi domandarmi, di Natalia Ginzburg, curioso libretto, “qualcosa come un diario”, che raccoglie, salvo pochi inediti, la maggioranza degli scritti da lei pubblicati su La Stampafra il dicembre del 1968 e l’ottobre del 1970, appare la memoria, che è anche riflessione, ma poi si fa per brevi tratti anche racconto, Il paese della Dickinson, del gennaio 1969, sulla sua visita di qualche tempo prima ad Amherst, nella casa vicino a Boston, dove la più grande poetessa americana visse quasi del tutto nascosta e ignota al mondo, dalla nascita, nel 1830, alla morte, nel 1886.

Con un rimpianto quasi indispettito, Ginzburg ci dice che a quell’altezza di tempo Emily Dickinson era per lei poco più che un nome, che ne aveva letto poche rime e forse qualche lettera, non ne ricordava un solo verso. Riferisce di aver guardato la sua casa, i mobili, un quadro, senza partecipazione, distrattamente. Torna alle idee e nozioni confuse che aveva allora su quella zitella che le appariva irritante e antipatica, con le sue strane manie di vestire sempre di bianco e di andare incontro ai rari ospiti con due gigli fra le mani, col suo amore per gli uccellini, coi suoi amori umani non consumati per “un vecchietto e un prete”.

Ma il tempo è trascorso e “In questi giorni mi son messa a leggere le sue lettere, e poi, nel mio debole inglese, i suoi versi. Che grande poeta era, questa Emily Dickinson. Ma tutto in lei è tale da non poter essere compreso, accolto, appena cent’anni dopo la sua morte (siamo nel 1969). Ella era stravagante e noi non amiamo la stravaganza, amiamo la pazzia, che grida e veste colori sgargianti. Come i contemporanei di Dickinson, che la sfiorarono o che la frequentarono più intrinsecamente, ma non per discrezione, o per distrazione, o per animo mediocre, ma per altri motivi, più disprezzabili agli occhi di Ginzburg, più accecanti, cioè perché colmi di bovarismo, scettici, increduli e pieni di pietà per noi stessi, non avremmo potuto comprendere chi mai ebbe pietà per se stessa, mai ebbe lacrime su se stessa, che fu tragica e mai patetica, che mai volle pubblicare le proprie poesie, che definiva il suo solo compagno di giochi, ma che di esse allo stesso tempo diceva “Questa è la mia lettera al mondo, che mai scrisse a me”.

 




Griselda

È ben noto che Boccaccio è inscritto con eguale forza, spazio e fortuna sia nel filone della letteratura filogina che in quello dell’opposta letteratura misogina, dacché filo- e miso- ginia in Boccaccio non sono dati biografici, esistenziali, ma culturali, funzionali a due distinte materie di elaborazione letteraria: quello filogino incentrato sul rapporto tra amore e poesia, quello misogino sulla ricerca della ragione e su un ideale del sapiente libero da legami costrittivi.

Nel Decameron, non solo le dedicatarie sono appunto le donne, il pubblico che Boccaccio sceglie prima e più d’ogni altro, che non è poi una novità assoluta da Dante in poi, ma i narratori stessi delle novelle sono in maggioranza donne, non solo dunque solo passive fruitrici delle novelle, ma eloquenti narratrici. E le donne che nelle cento novelle vengono raccontate sono a volte gentili, acute, intelligenti, sagge, altre volte traditrici, false e rabbiose, ma il quadro del mondo femminile che emerge, di rado è dettato da misoginia, piuttosto ha la varietà e il movimento della vita stessa.

Molti studiosi, nella seconda metà del Novecento, si sono soffermati sulla novella di Griselda, poiché dalla comprensione di essa dipende, tutto sommato, il significato ultimo del Decameron. È lo stesso autore, infatti, a porre l’accento sull’esistenza di un percorso interno della brigata: da un «orrido cominciamento» a un «bellissimo piano e dilettevole» e così Griselda è stata interpretata in chiave allegorica, come immagine di Maria. L’interpretazione religiosa è giunta, persino, a vedere nei tormenti della giovane un’allegoria di Cristo, un’interpretazione storico-sociologica l’ha centrata sulla lotta sociale e intellettuale tra un nobile e una plebea e c’è stato chi ha sostenuto che Griselda è profondamente cosciente della propria dignità e dei propri diritti. Ma quella di Griselda può anche essere una “novella intellettuale”, in quanto la “virtù” della donna consiste nel contrastare la “fortuna” che le si abbatte contro, assumendo un’estrema estraneità e distanza dal mondo, tipica del nuovo intellettuale che Boccaccio vuole rappresentare. Un enigma, si è detto, che lo stesso Petrarca aveva risolto con una propria traduzione, De insigni obedientia et fide uxoria, optando per una Griselda simbolo della pazienza muliebre, ma soprattutto esempio di fermezza del buon cristiano, <<sottoposto da Dio a dure prove>>.

Credo che solo in qualche caso l’interpretazione abbia sfiorato il punto senza però centrarlo pienamente o almeno senza mai collocarsi in una visione unitaria dell’intera opera.

Secondo Tzvetan Todorov, l’unità semantica delle novelle sta nel tema di una trasgressione, che, invece di essere punita secondo l’attesa che dettano i modelli del passato, dà luogo a una vittoria grazie all’audace iniziativa personale. In questo senso, egli ritiene che Boccaccio sia un difensore della libera iniziativa e del capitalismo nascente.

A me pare che in Griselda tale schema riceva la più decisa conferma, che dà luogo al più imprevedibile dei successi.

Griselda, che non ha lo statuto sociale per diventare moglie del gran signore, viene da questi messa alla prova oltre ogni limite umano, provata nell’amore materno, nella dignità, nel ruolo di sposa. La risposta attesa dovrebbe essere quella della ribellione, della rottura del patto e quindi, senza appello, della sconfitta, la risposta dovrebbe provare che non ha la forza di spezzare lo statuto della diseguaglianza sociale dal marito. Ma Griselda rovescia ogni attesa e dunque vince. Tutto suo è il marito, i figli sono vivi e salvi, discendenza eletta sua e di Gualtieri, “savio” marito la cui fede nella donna viene sempre confermata, fino al tripudio finale, che non è trionfo dell’obbedienza, bensì rovesciamento del canone. La mite e umile pastora è signora lodata e incontrastata del suo piccolo regno. La sua ascesa sociale, facile da intraprendere, frutto inizialmente di una scelta apparentemente capricciosa del signore, e difficilissima da mantenere, attraverso circa quindici anni di torture, è ormai definitiva.  Vorrei che pensassimo a lei non come a una donna obbediente sino alla follia, ma come a una piccolissima ‘borghese’, che prende e tiene con successo definitivo un potere sociale che i modelli antichi, ch’ella contribuisce a dissolvere, avevano per secoli negato a quelle come lei.

 

In copertina. Francesco di Stefano, detto il Pesellino (1422-1457). Storia di Giselda (particolare)

 

 




La nonna di Emiliano

Denotare il romanzo L’ospite di Lalla Romano, uscito nel 1973, come la vicenda dei giorni che il nipote neonato della scrittrice trascorre presso di lei, mentre i genitori sono in viaggio in Nepal, significa indurre immediatamente all’incomprensione di questo scritto breve e densissimo. Ben presto, infatti, la nonna, che ha accolto, con terrore e insieme con desiderio, la notizia dell’arrivo del piccolo Emiliano, ci dice esplicitamente che la lunga, eppure troppo breve, visita del bambino è in realtà l’epifania di un dio, dopo la quale le vite di coloro che lo hanno accolto non saranno più le stesse.

Malgrado il piccolo ospite sia figlio di Piero, il rapporto con lui per la nonna non è proiezione, tentativo di recupero, dell’amore, più antico e fallito, con Piero, la cui dinamica di sistematica frustrazione ed elusione dell’amore materno è narrata, dalle origini e fino alla prima maturità del figlio, nel romanzo Le parole tra noi leggére, ed è confermata ne L’ospite, immediatamente successivo. Già prima che Emiliano arrivi come ospite, appena nasce, la nonna sente che la sua esaltazione, la sua gratitudine sono dovute al fatto che Emiliano è Emiliano, lui stesso amato per sé stesso.

L’arrivo del neonato, più che quella degli altri abitanti della casa, il nonno Innocenzo, attento, sensibile e pensoso, la perspicace cameriera Rachele, sconvolge la vita della nonna. Durante la sua permanenza di quaranta giorni, “una quaresima”, Lalla non legge più, non scrive più, la sua scrivania di lavoro, ingombra di carte e pile di libri ormai inutili, è occupata da camomilla, acqua, pappa. Ma, nel suo nuovo ruolo di accudimento, l’intellettuale spodestata misura la propria goffaggine nelle faccende materiali e vive smacchi affettivi dolorosi, sconta, in realtà, un suo peccato originale verso il giovane dio: il calcolo di riservare a sé il ruolo di nutrirlo la notte per essere riconosciuta da lui e amata. Per orgoglio, non solo trascura il momento umile della preparazione della pappa, che induce per più giorni un errore nell’approntamento dei biberon, ma, sconfitta ben più dolorosa, il ruolo che si è ritagliata le sembra porti il bambino a vedere in lei soltanto la nutritrice, mentre la sua scelta affettiva, di rapporto, ricade piuttosto su Innocenzo e Rachele. Lalla accetta la dura punizione, che ritiene di aver meritato per il suo calcolo “criminoso”. Ma ben presto avviene una svolta: ella inizia “a fare”, per garantire cure umili e necessarie al bambino. Con estrema attenzione, senza mai entrare in automatismi, prepara pappe, frulla, passa.

Emiliano è un dio bellissimo, senza particolari graziosi o leziosi, è pieno di maestà e dignità, “un Mantegna”, è pure sereno e ineffabile come un Buddha, ride come un dio antropomorfo, ma, ancora, è divinità ancestrale, polimorfica: chiocciola, tartaruga, cetonia, marmotta, canta come un gallo e come un usignolo, sta teso in ascolto come un cane, a volte ha un piccolo ghigno di gatto, i suoi ditini scompigliano l’acqua come le ombrelle delle ortensie. Emiliano è un dio benigno, un salvatore. I nonni rincasano col bambino dopo una passeggiata. Lalla esce per prima dall’ascensore sullo stretto pianerottolo e nel muoversi col passeggino mette un piede nel vuoto, È di spalle alla ringhiera, tuttavia, riesce ad afferrarla e, mentre comprende di essere salva, vede alti sopra di sé il marito con il bambino in braccio. L’impressione che ne riceve è che siano stati loro, l’uomo col Bambino raggiante, a salvarla.

In uno tra i numerosi flash back del romanzo, ci vengono mostrati l’amore assoluto e la felice confidenza fisica tra il bambino e la propria madre. È innanzitutto per lei, Marlène, che l’amore della nonna paterna patisce una gelosia tormentosa, quella che Pasolini descrisse così acutamente in una tempestiva recensione del romanzo, forse la più nota.

La nonna, nella sua attenzione spasmodica sull’”essere più amato”, nota che Emiliano per strada è attratto dalle ragazze “bionde dai capelli sciolti a ciocche diseguali”, le osserva assorto e lei, con gioia insieme e pena, comprende che gli ricordano Marlène. Anche stavolta la gelosia di Lalla è priva di recriminazione e amarezza, è subito rassegnata, finanche lieta e grata, umile, come improntato all’umiltà, alla reverenza, alla gratitudine e alla consolazione è tutto il suo rapporto col bambino, carattere questo di cui ella ha consapevolezza fino a scrivere: “Mi domando se non avessi il<<complesso della schiava>>. E quand’anche?”.

Ma arriva fin troppo presto il momento in cui torna colei che Emiliano ama sopra tutti, cui appartiene totalmente e che totalmente gli appartiene. Con straordinaria grazia e naturalezza la coppia si riunisce. “Emiliano si volse a sua madre, ma come per scherzo. Lei non lo abbracciò né lo toccò. Lui si sporse verso di lei, che lo prese, poi si rivolse a Rachele, e tornò con lei; ma subito dopo tornò a voltarsi a Marlène. Così rimase con lei.”

Alla fine dell’estate successiva, Emiliano, che ha quasi due anni, torna nella casa dei nonni. Appare subito evidente che la riconosce, ne cerca pensoso e intento gli angoli già noti e praticati, ma non è più un dio, adesso, “Ora è soltanto umano. Prevale sempre la gioia in lui, ma non è più olimpica.”. È la saggia Rachele che, testimone della nuova esplorazione, come lo era stata della visita dell’anno precedente, suggella la fine irrecuperabile di un tempo favoloso con parole solenni: “- Emiliano, – disse, – si ricorda della sua giovinezza.”      




Micòl Finzi-Contini

Il giardino dei Finzi-Contini narra l’amore della voce narrante anonima per Micòl, ma anche l’intreccio delle amicizie, la vita divisa tra studi, abitudini e riti familiari di alcuni ragazzi di Ferrara, quasi tutti ebrei, che vengono sorpresi e attraversati dalle leggi razziali dell’Italia fascista, che trovano riparo e paradossalmente libertà dall’esclusione nell’orto concluso di due di loro, Micol e il fratello Alberto, ricchissimi e vissuti sempre in un isolamento aristocratico che li tiene per contrasto al centro dell’attenzione nella piccola, tranquilla, solida città. Nel meraviglioso giardino della grande casa, e nel suo campo da tennis, i ragazzi, giocano, parlano, alcuni progettano, malgrado tutto, il futuro. Gli adulti appaiono gentili ed affettuosi, ma in qualche modo distanti e meno consapevoli della catastrofe che sta per abbattersi su un mondo del quale quasi mai mostrano di avvertire la straordinaria precarietà.

Micòl, al contrario, appare più conscia di ogni altro personaggio del futuro incerto e angoscioso. Ella nega il progetto e, negando il progetto, nega l’amore, non solo all’io narrante, che le sembra troppo simile a sé, troppo indifeso per la lotta cruenta che la relazione amorosa le pare richiedere, ma forse anche a sé stessa, che pure forse lo ama e al quale forse preferisce incontri senza progetto col solido Malnate, il giovane comunista, non ebreo, che, lui sì, crede nel futuro, ma che, atroce disinganno, non tornerà più dalla spedizione italiana in Russia.

Micòl sfuggente e misteriosa, Micòl seduttiva e improvvisamente fredda, Micòl saggia e infantile, che sistematicamente spiazza il narratore o ne frustra le attese.

Il romanzo, che muove dal ricordo della tomba monumentale dei Finzi-Contini, arriva improvviso al galoppante epilogo, dove gli anni dalla fine del 1939 al 1943 sono narrati in due pagine, che tuttavia aggiungono quello che dall’Esordio era stato già annunciato, ma non circostanziato, la morte di tutti i Finzi-Contini: di Alberto per tumore, e poi la morte in campo di sterminio di Micol, del padre, il colto e mite professor Ermanno, della madre, la fragile signora Olga, atterrita dai microbi, della vecchissima nonna paralitica, Regina.

Ma a suggello di tutte le vicende, l’io narrante pone le disperate parole di Micòl che dicono la sua indifferenza, anzi la sua repulsione per il futuro: ”Micòl ripeteva di continuo anche a Malnate che a lei, del suo futuro democratico e sociale non gliene importava nulla, che il futuro, in sé, lei lo abborriva, ad esso preferendo di gran lunga “le vierge, le vivace et le bel aujourdhui“, e il passato, ancora di più, “il caro, il dolce, il pio passato.”, verace profetessa dell’orrore che stava per travolgere lei e i suoi più cari insieme ad un intero mondo.




Eugenia di Anna Maria Ortense

Nel 1953, per i tipi di Einaudi, nella Collana “I Gettoni”, diretta da Elio Vittorini, appare un libro sul quale da allora e poi ancora fino a tempi recentissimi, si è riversata la critica aspra e, lo dico subito, incomprensiva e a volte strumentalmente ostile, del mondo intellettuale napoletano.

Il titolo stesso della breve raccolta di racconti, cinque soltanto, Il mare non bagna Napoli, è apparso e tuttora appare come una provocazione intollerabile a chi si è ostinato in passato e persiste oggi nel vedere nella città del libro un’immagine realistica e provocatoria verso la classe intellettuale della città, quella classe molto fortunata, politicamente e sul mercato pubblico e librario, la classe di Luigi Compagnone, Raffaele La Capria, Michele Prisco, Domenico Rea e di alcuni loro ideali eredi, primo fra tutti Erri De Luca.

A ben poco servì l’apprezzamento più generale, che valse all’opera il Premio Viareggio, la città  disconobbe ed escluse Ortese, che ben presto andò via per sempre da quella Napoli in cui non era nata, ma che aveva eletto a sua propria città. A queste ragioni va ricondotta la solitudine morale e materiale in cui ella visse poi per sempre, ostracismo da una parte e sua delusione e paura del mondo intellettuale che, dopo averla accolta nell’immediato caotico dopoguerra di Napoli, dopoguerra, pure animato da speranze e tentativi di riscatto politico, morale e civile, prima ancora che sociale ed economico (e forse fu anche questo un grave errore, una debolezza del tessuto della città e del Mezzogiorno tutto) per esempio anche con l’operazione della rivista “Sud”, fecero cadere su di lei attacchi, ma subito dopo una ancor più violenta “congiura del silenzio”, sì che oggi davvero pochi sono i napoletani che la conoscono, se non vagamente, e i più quelli che non conoscono il suo amore, mai dimenticato, ma anzi ribadito in quasi ogni altro suo libro, per quella che è forse una delle più contraddittorie città del mondo.

Il primo racconto della raccolta, Un paio di occhiali, apre sul tema che sottostà in realtà all’intero libro quello dello sguardo prima velato, poi aperto nitidamente sulla città. La piccola Eugenia, poverissima bambina quasi cieca, vive nella parte più povera della città, fra umiliazioni, fame, botte sempre immeritate, nella sua famiglia, dove la durezza delle parole e dei comportamenti della maggioranza dei miseri adulti non è cattiveria, ma esasperazione per un’ingiustizia che patiscono senza riconoscerla. Il mondo appare ad Eugenia attraverso un velo, nel quale colori e luci a volte intravisti le fanno credere che il mondo dev’essere pur bello finalmente il suo desiderio di ‘chiarezza’ può realizzarsi perché la zia Nunziata che ha un po’ di denaro da parte si offre di comprarle gli occhiali. Nunziata è la sorella del padre di Eugenia, zitella che vive con Eugenia, i suoi genitori e i due fratelli piccoli (le sorelle grandi sono state avviate alla monacazione),  nel piccolissimo basso, umido e sporco che affaccia su un cortile pieno di tanta altra umanità sofferente e ferita nel corpo e nell’anima da una povertà senza speranza di riscatto, mentre ai piani alti stanno i signori egoisti e privi di pietà, loro sì, davvero ciechi sul mondo.

Eugenia esce con la zia, manesca e brusca, e con lei si reca a via Toledo, una strada di signori, dove, dopo la visita oculistica, l’ottico poggia sul naso della bambina, emozionata e con le gambe che le tremano, le lenti correttive a lei adatte. E la bambina guarda fuori e il mondo che vede appare pieno di luce e di colori, le signore dai capelli lucenti come l’oro sedute ai bar della strada, le vetrine degli altri negozi piene di abiti dalle stoffe fine fine, financo le persone che passano nei grandi autobus verdi sono ai suoi occhi elegantissime, il mondo è bello, si dice Eugenia, è bello assai.

Quasi in estasi, umilmente grata alla zia che brontola per la spesa enorme di ottomila lire a cui si è impegnata, Eugenia torna a casa, e piena di ansia gioiosa attende gli otto giorni che ancora la separano dalla consegna degli occhiali, senza curarsi delle botte della zia, delle allusioni cattive della signora del palazzo, delle umiliazioni quotidiane che nulla e nessuno le risparmiano, a lei, come agli altri abitanti dei miseri tuguri della città che per quelli come lei non ha sole né mare. E finalmente il giorno atteso arriva. Sarà la mamma, pur malata e piena di dolori per la spaventosa umidità del misero tugurio che per loro è casa, a recarsi a ritirarli. Al suo ritorno, non solo Eugenia, ma tutta la famiglia e tanti vicini dei bassi, informati dell’evento si affollano intorno alla madre e alla bambina. Rosa, la madre, entrata nel basso, estrae dall’astuccio gli occhiali, che appaiono come uno strano insetto e li inforca alla figlia … che subito prende a tremare, vede piccolo piccolo e tutto nero…vacillando esce nel cortile, senza provare più gioia, anche se si sforza di sorridere, ma le affiora sul volto pallidissimo una smorfia ebete.

Improvvisamente i balconi cominciarono a diventare tanti, duemila, centomila; i carretti con la verdura le precipitavano addosso; le voci che riempivano l’aria, i richiami, le frustrate, le colpivano la testa come se fosse malata; si volse barcollando verso il cortile, e quella terribile impressione aumentò. Come un imbuto viscido il cortile, con la punta verso il cielo e i muri lebbrosi fitti di miserabili balconi; gli archi dei terranei, neri, coi lumi brillanti a cerchio intorno all’Addolorata; il selciato bianco di acqua saponata, le foglie di cavolo, i pezzi di carta, i rifiuti, e, in mezzo al cortile, quel gruppo di cristiani cenciosi e deformi, coi visi butterati dalla miseria e dalla rassegnazione, che la guardavano amorosamente. Cominciarono a torcersi, a confondersi, a ingigantire. Le venivano tutti addosso, gridando, nei due cerchietti degli occhiali.

Eugenia non regge e vomita, vomita fino a non avere più nulla nel povero stomaco affamato. E nello sconcerto generale, nella pena della madre e della zia, nelle parole di conforto della vicina, si leva la voce afferrata della bambina, che di nuovo senza  occhiali, che provvidamente una vicina, donna Mariuccia, le ha tolto, si aggrappa alla madre e le chiede perdutamente <<Mammà, dove stiamo?>>, quasi tutti sorridono di sollievo: è mezza cecata, è mezza scema. Solo donna Mariuccia, ancora lei, capisce, è la sola che sa dare parole di comprensione alla sua amarezza:<<Lasciatela stare, povera creatura, è meravigliata>> fece donna Mariuccia, e il suo viso era torvo di compassione, mentre rientrava nel basso che le pareva più scuro del solito.

Insieme ad Eugenia, amaro nome, così in contrasto con la nascita e il destino di questa creatura atrocemente indifesa e deprivata,  Ortese apre gli occhi sulla città, ma quel che vede non permette una visione, un’analisi, razionale, non sembra profilarsi soluzione: la città distorta e spaccata fra bellezza e orrore, altera lo sguardo, dà il capogiro, angoscia e spezza. E’ la Napoli del secondo dopoguerra, già tradita dalla sua classe politica e intellettuale, quella che nei decenni successivi, ha più volte tentato un riscatto, fra luci e ombre, speranze brevi e delusioni amare, una città che ancora oggi ci appare nella sua bellezza, nelle sue zone di miseria, una luogo difficile in cui vivere, dove ancora tanti ogni giorno si inventano la giornata, sono delusi, a volte obbligati alla fuga: giovani intellettuali e professionisti, operatori degli affari, del mondo informatico ed editoriale, operai specializzati.

Oggi i tempi per una più attenta e, vorrei dire, riconoscente lettura dell’intera opera di Ortese sembrano maturi.