Ad Atlanta con Margaret

Atlanta, con i suoi grattacieli e i suoi mille colori, non è lo sfondo che immaginavo per il mio incontro con Margaret Mitchell e il suo viso di porcellana. Eppure, è qui che Margaret1è nata e ha passato gran parte della sua vita.

“Tu ora la vedi così, ma un tempo di questi grattacieli non ce n’era neanche uno!”

“Com’è stata la sua infanzia ad Atlanta?”

“Credo di aver avuto una bellissima infanzia, anche se con mio padre ho sempre avuto un rapporto un po’ burrascoso, sai… Mentalità incompatibili! Con mia madre invece avevo un rapporto meraviglioso, è grazie a lei se sono come sono oggi.”

“Che tipo era sua madre?”

“Era una donna che sapeva coniugare una grande fermezza e una dolcezza indescrivibile. Quando se ne è andata per me è stato un colpo durissimo, ma le sue ultime parole non hanno fatto altro che confermare la sua infinita intelligenza e consapevolezza.”

“Cosa le ha detto prima di andarsene?”

“Purtroppo, non l’ho potuta abbracciare di persona, ma mi ha mandato una lettera in cui si è raccomandata di non tralasciare mai la mia vita per occuparmi di quella degli altri e di non rinunciare mai ai miei sogni per far felice qualcun altro.”

“Mi dispiace non abbia potuto salutarla… Dove si trovava?”

“Avevo iniziato gli studi di medicina allo Smith College, in Massachusetts, ma la morte di mia madre mi ha portato a lasciare il college e tornare a casa.”

“E una volta tornata ad Atlanta?”

“Avevo 20 anni e fino a quel momento avevo scritto per me stessa e pochi intimi, ma dopo qualche mese mi è stato offerto un posto all’Atlanta Journal Sunday Magazine… Che soddisfazione! Ho avuto persino l’occasione di intervistare Rodolfo Valentino! Poi quell’incidente…”

“Quale incidente?”

“Non lo sai? Si legge che abbia lasciato il lavoro per scrivere “Via col vento”, ma non è così: mi sono rotta la caviglia e la convalescenza mi ha costretto a letto per mesi! A quel punto mi sono dovuta licenziare per forza e per passare il tempo ho deciso di provare a dare forma a quella storia che avevo in mente da così tanto tempo.”

“È stato difficile delineare un personaggio poliedrico come Rossella O’Hara?”

“Molto e ti dirò perché: lei non c’entra assolutamente nulla con la classica eroina del filone romantico. Rossella non è un personaggio che piace o non piace, in quanto allo stesso tempo la si ama e la si odia e non si può fare altrimenti. Non fa altro che commettere errori in amore, non riusciamo a condividerne le scelte, ma questo la rende decisamente più umana e fa sì che in fondo, ci faccia simpatia. Seppur dall’alto dei suoi privilegi, Rossella è una ribelle per i tempi in cui vive. La Guerra di Secessione la costringe a rimboccarsi le mani e, in parte, a lasciarsi alle spalle la frivolezza della vita che conduceva. È in quel momento che l’apparente perfezione si frantuma e il suo comportamento fa parlare le malelingue della città.”
“Via col vento ha avuto un successo strepitoso, superando il milione di copie vendute nelle prime settimane dopo la pubblicazione. Come mai ha deciso di non pubblicare altri romanzi?”

“Attorno a “Via col vento” si è scatenato un polverone che non mi aspettavo di certo… Mi ha fatto vincere il Pulitzer del 1936 e addirittura mi ha fatto portare a casa una candidatura al Nobel per la letteratura! ll successo editoriale è stato accresciuto, non c’è neanche bisogno di specificarlo, dal film di Victor Fleming, che ha fatto esplodere i botteghini di tutto il mondo.
Tutto ciò mi ha riempito di gioia e orgoglio, ma credo che se avessi continuato a scrivere avrei deluso le aspettative dei miei lettori e delle mie lettrici, in quanto dubito che sarei mai riuscita a pubblicare qualcosa che reggesse il confronto con “Via col vento”.
Poi, in realtà, ho continuato a scrivere romanzi, ma non ho intenzione di pubblicarli… Ai miei familiari ho dato disposizioni di bruciare tutto, quando non ci sarò più. Chissà se rispetteranno la mia volontà o se ci saranno belle sorprese!”

1MARGARET MITCHELL: nata nel 1900 ad Atlanta, è stata una scrittrice e giornalista statunitense. Iniziò gli studi in medicina, ma lasciò il college dopo la morte della madre, nel 1919.Tornata ad Atlanta venne assunta all’Atlanta Journal Sunday Magazine come giornalista, anche se a causa di una brutta frattura fu costretta a lasciare il lavoro.
Fu proprio durante la convalescenza, infatti, che scrisse “Gone with the wind” (“Via col vento”), che fu pubblicato nel 1936 e che vinse il premio Pulitzer nel 1937.
Il romanzo ebbe un successo straordinario, ma dopo soli dodici anni Margaret morì, investita da un taxi.




La Nuoro di Grazia

Ai piedi del monte Ortobene, nella Sardegna continentale, si estende Nuoro, città natale di Grazia Deledda1.

Mi aspetta davanti alla scuola elementare del centro, con i capelli bianchi raccolti e quei tratti così marcati da conferirle un’apparente, perenne severità.

“Buongiorno signora Deledda!”

“Buongiorno a te! Prima volta a Nuoro?”

“Sì, sono stata più volte in Sardegna ma Nuoro mi mancava…”

“Dai, allora ti faccio fare un giro in città! Partiamo da qui: questa è stata la mia scuola elementare, nonché l’unica che io abbia mai frequentato.”

“Come mai si è fermata negli studi?”

“Non mi sono fermata, ho solo proseguito per conto mio! L’istruzione superiore qui a Nuoro, e non solo, era ancora preclusa alle ragazze, quindi, finita la quarta elementare, i miei genitori mi hanno fatto prendere lezioni private di italiano, latino e francese. Dopo di che ho continuato a studiare totalmente da autodidatta.”

“Non aver frequentato il liceo le ha mai creato problemi durante la sua lunga carriera?”

“Assolutamente sì, la nomea di “illetterata” ha gravato sulle mie spalle come un macigno! Pensa che, agli esordi, ho fatto molta fatica ad essere presa in considerazione, perché molti editori si rifiutavano anche solo di leggere ciò che scrivevo.”

“Poi però i suoi romanzi hanno ricevuto gli apprezzamenti di personaggi del calibro di Verga e Capuana, no?”

“Sì, ma non credere… Il marchio di non istruita me lo sono portato sempre appresso, anche quando ho vinto il Nobel del ‘26 c’è stato chi gridava all’ingiustizia, proprio a causa dei miei studi!

La vedi quella chiesa che sbuca lì in cima? È il mio posto preferito di tutta Nuoro, è la Chiesa della Madonna della Solitudine.”

Lo vedo nei suoi occhi quanto è innamorata di quest’isola.

“Cosa c’è della Sardegna in ciò che ha scritto?”

“C’è tanto, tantissimo: direi che è la protagonista indiscussa dei miei romanzi. C’è la sua meravigliosa natura, i suoi paesaggi ancestrali, ma c’è anche la società fortemente patriarcale che a me è sempre stata così stretta. Anche il sardo è un elemento importante, perché credo che, anche se stemperato dall’italiano letterario, abbia contribuito molto a rendere veri e realistici i miei personaggi.”

“E la Sardegna come ha reagito al successo raggiunto con ‘Elias Portolu’ prima e ‘Canne al vento’ poi?”

“Da una parte credo ci sia stato il classico orgoglio regionale, dall’altra, ti dirò, ho suscitato un’antipatia generale, dovuta al fatto di aver restituito un’immagine poliedrica della Sardegna, mettendone in luce il bene e il male. Io credo di averla descritta con autenticità, c’è chi crede io l’abbia invece dipinta più arretrata di quanto non fosse.”

“Secondo lei, c’è qualcosa che lega i personaggi dei suoi romanzi, a prescindere dalle vicende?”

“Sì, se ci fai caso, i protagonisti sono in questo stato di smarrimento, consapevoli della fatalità della vita umana, ma incapaci di arrendersi ad essa. L’uomo è così: si dimena tra angosce e pulsioni e, nel frattempo, incassa i colpi della sorte, proprio come una canna al vento.”

 

 

1GRAZIA DELEDDA: nata a Nuoro nel 1871, è stata una scrittrice italiana, vincitrice del Premio Nobel per la letteratura del 1926.

L’esordio letterario avvenne a soli 17 anni, quando inviò alla rivista romana “Ultima moda” il primo scritto “Sangue sardo”, chiedendone la pubblicazione.

Il suo primo romanzo di successo fu “Elias Portolu”, ma fu consacrata al grande pubblico da “Canne al vento”, del 1913.

L’ultimo romanzo “La chiesa della solitudine” venne scritto nel 1936. La protagonista è, come l’autrice, ammalata di tumore.

Di lì a poco, il 15 agosto dello stesso anno, Grazia Deledda si spense.Lasciò un’opera incompiuta, che verrà pubblicata l’anno successivo a cura di Antonio Baldini con il titolo “Cosima, quasi Grazia”.




A Bologna da Renata

Renata Viganò1ha un viso buono, è questa la prima cosa che mi ha colpito di lei. È una di quelle rare persone che riescono a metterti a proprio agio con un solo sorriso. Così è stata anche con me, dal momento in cui mi ha aperto la porta della sua casa a Bologna.
“Spero tu non abbia paura dei gatti!”
“No, si figuri.”
“Bene, da quando sono nata ho sempre avuto gatti in famiglia, ormai non so stare senza!”
“Com’era la sua famiglia?”
“La mia era una classica famiglia della borghesia bolognese, ma sin da piccola mi è stata stretta questa vellutata, stagnante, bigotta simulazione della classe a cui appartenevo. Poi a un certo punto la famiglia è andata in rovina e, di conseguenza, ho passato l’adolescenza in una situazione economica tutt’altro che rosea, tanto da dover abbandonare gli studi. Andai a fare prima l’inserviente, poi l’infermiera negli ospedali e ti dirò che sotto sotto mi piaceva! Certo, è stato un salto brusco, ma il mio sogno è sempre stato studiare medicina e in questo modo ho potuto farlo. In fondo, per me fu abbastanza facile passare alla condizione proletaria, e di questo devo ringraziare anche i miei, che fin da piccola mi abituarono a non considerare il mondo a strati.”
“Qual è la figura della sua famiglia che ha lasciato l’impronta più significativa sul suo modo di essere oggi?”
“Mi hanno sempre detto che assomiglio tanto alla bisnonna Caterina, che aveva guidato una ditta di vetture per matrimoni, battesimi e funerali che era stata la fortuna economica della famiglia. Sapevamo da vecchi discorsi tramandati che era piccola, vivace, aggressiva, che montava a cavallo come un cow boy e che ha passato la sua vita a mandare avanti la ditta. Vedevano questa somiglianza tra me e la bisnonna forse perché fra i nipoti ero la più piccola, vivace e aggressiva, o forse perché cominciai a scrivere poesie. L’estro poetico, dicevano, veniva di lì”.
“Oltre alla passione per la medicina, ovviamente il suo grande amore è la letteratura. Nel suo romanzo “L’Agnese va a morire” racconta le avventure di Agnese, un’eroina poco eroica, nella Resistenza italiana.
Qual è stato il suo rapporto con la lotta partigiana?”
“Mio marito Antonio nel ’43 si è unito alla Resistenza e io l’ho seguito. Ho mollato la mia casa, le mie cose, ho portato nostro figlio Agostino con me e sono diventata partigiana anch’io. Ho partecipato alla Resistenza come staffetta, sotto il nome di Contessa.”
“Cos’avete in comune lei e Agnese?”
“In comune c’è sicuramente la lotta partigiana, soprattutto perché l’abbiamo vissuta entrambe da donne. Devo però specificare che le ragioni che ci hanno spinto a combattere il fascismo sono profondamente diverse: il percorso politico che ho fatto io, insieme a mio marito, con Agnese non ha nulla a che spartire. Lei nel romanzo aderisce attivamente alla causa antifascista solo dopo l’uccisione della sua gatta da parte dei nazisti, una brutalità gratuita su un essere vivente che rappresentava il legame con il marito Palita, già ucciso dai tedeschi. Da quell’istante Agnese si unisce ai partigiani, spinta da una potentissima forza interiore, che, se vuoi, è un qualcosa di ancora più primordiale rispetto alla coscienza politica. Si muove per un istinto naturale, umano, di giustizia…”
Le sue parole vengono interrotte da un miagolio timido ma insistente: un bel gatto bianco è salito sul tavolo e ha cominciato a strusciare il muso sulla mano di Renata.
“Vedi, io parlo di istinto naturale di giustizia… Ma quale giustizia, tu vuoi i bocconcini, ti conosco, furbacchione!”

1RENATA VIGANÒ: Renata Viganò, scrittrice e partigiana, nacque a Bologna il 17 giugno 1900. A soli dodici anni riuscì a far pubblicare la sua prima raccolta di poesie “Ginestra in fiore”, seguita da “Piccola fiamma” nel 1915, ma l’opera che la consacrò fu “Agnese va a morire” (1949), romanzo di impianto neorealistico capolavoro della narrativa ispirata alla Resistenza. Tra le altre opere sulla guerra di Liberazione spiccano “Donne della Resistenza” e “Matrimonio in brigata”. Morì a Bologna il 23 aprile 1976.

 




Ni una mujer menos, ni una muerta más

Ciudad Juárez non è esattamente il posto ideale per farsi una bella vacanza, se sei una donna poi, meno che mai. Questa città messicana nella regione di Chihuahua è tristemente nota per l’altissimo numero di omicidi che da ormai quasi 30 anni la portano in cima alle statistiche sulla criminalità.
Una macchina accosta accanto al marciapiede. Considerata la fama della città non riesco a stare tranquilla, finché non si abbassa il finestrino: “Sali in macchina! Non è sicuro girare da sole!”.
È Susana Chávez1, ci saremmo dovute incontrare direttamente in un bar, poche centinaia di metri più avanti, ma a questo punto un passaggio lo accetto volentieri.
“Grazie, andiamo al bar di cui mi ha parlato al telefono?”
“Ti prego, non darmi del Lei. Siamo praticamente coetanee…”
Sedute davanti a una birra gelata, in una delle poche vie sicure di Ciudad Juárez, parlare con Susana è come rincontrare una vecchia amica, pur non avendola mai vista prima d’ora.
“Quando hai cominciato a scrivere poesie?”
“Ero molto piccola, avevo 11 anni. Ovviamente crescendo ho trascinato con me la mia poesia, è cresciuta anche lei.”
“C’è un filo conduttore in tutta la tua produzione?”
“Sicuramente il protagonismo della natura, del simbolismo naturale. Da grande, ho trovato grande ispirazione anche nel mondo femminile, nelle mille sfaccettature che esistono nell’approccio delle donne alla propria corporeità. Credo che questo senso di vergogna che ci è stato instillato fin da bambine abbia generato una cappa di silenzio, ma è proprio nel silenzio che una voce fa più rumore.”
“Che intendi dire?”
“Intendo dire che si può partire dal proprio silenzio, dalla propria marginalità per ritagliarsi uno spazio di libertà, di autonomia. In poche parole: non è mai troppo tardi!”
“Credi che scrivere possa cambiare il mondo?”
“A questo non so risponderti. Sono convinta che la poesia possa risvegliare le coscienze e magari, aiutare a far alzare la voce. Questo è sempre stato il mio obiettivo primario, sia come attivista sia come poetessa.”
“Cos’è che rende così grave la situazione nel Chihuahua?”
“Dal 1993 in questa regione viene portato avanti un genocidio di genere senza fine, che cresce ogni anno che passa, tanto che siamo arrivati a una media di tre donne uccise ogni due giorni. È difficile individuare i fattori che hanno portato il Messico a questa situazione, sicuramente c’è un problema culturale, c’è la criminalità organizzata e ci sono le maquiladoras…”
“Scusa se ti interrompo, cosa sono le maquiladoras?”
“Qui in Messico sono stabilimenti industriali controllati dagli Stati Uniti dove vengono assemblati prodotti che poi tornano al paese d’origine. I diritti umani nelle maquiladoras praticamente non esistono e ci lavorano moltissime ragazze per pochi dollari al giorno. Le inserisco tra i fattori che hanno fatto impennare il tasso di femminicidi in Messico, perché molte delle vittime sono operaie delle maquiladoras, che vengono rapite, violentate e uccise lungo il percorso che fanno tutti i giorni per andare e tornare dalle periferie e dalle zone rurali di questa regione.”
“C’è una speranza per Ciudad Juárez?”
“Finché il governo non si deciderà ad aprire gli occhi, a interrompere il suo silenzio complice, continueremo a essere decimate e potrà solo andare peggio. Ora come ora provo una sensazione di vuoto, abbandono e impotenza, suppongo come molti altri. Immaginare un miglioramento per quanto mi riguarda è difficile, ma nutro ancora delle speranze perché sono una donna di fede!”

Una Ciudad Juárez diversa Susana non la vedrà mai. Il 6 gennaio del 2011 l’hanno ritrovata morta sul ciglio della strada, abbandonata come un sacco di spazzatura. Aveva 36 anni.
Dopo il ritrovamento, il cadavere è stato trattenuto dalle autorità per cinque giorni e si è fatto di tutto per slegare l’omicidio di Susana dal suo attivismo politico.
“Era ubriaca…Ha incontrato tre ragazzi fuori controllo al bar, la situazione è sfuggita di mano…” hanno detto gli inquirenti, che, tradotto, suona come il solito, vergognoso “se l’è andata a cercare…”.

 

1SUSANA CHAVEZ: nata a Ciudad Juárez nel 1974 è stata una giornalista, poetessa e attivista per i diritti umani messicana. Iniziò a scrivere poesie da bambina, partecipando a molti dei festival letterari e forum culturali Messicani, offrendo anche letture delle sue poesie durante le manifestazioni per le donne scomparse e assassinate. Laureata in psicologia alla Universidad Autónoma de Ciudad Juárez, al momento della morte stava lavorando ad un libro di poemi e scriveva inoltre sul suo blog Primera Tormenta.
È conosciuta come l’autrice dello slogan “ni una mujer menos, ni una muerta más” (“non una donna di meno, non una morta in più”, usato dagli attivisti per manifestare contro il massacro delle donne di Juárez.
Fu uccisa nella sua città natale il 6 gennaio 2011.




Le parole tra me e Lalla

“Buonasera, signora Romano1!”
“Buonasera! Mi scusi per l’orario insolito, ma il caffè ormai sono abituata a prenderlo a quest’ora, tra l’altro in questo bar.”
In effetti, un caffè alle 18:00 equivale a insonnia quasi certa…

“È una cliente abituale, quindi?”

“Sì, prendo qui il caffè ogni sera, da quando mi sono trasferita a Milano. Fino a qualche anno fa mi ritrovavo a questi tavolini con i miei amici scrittori, poi abbiamo perso quest’abitudine purtroppo…”
“Quando è venuta a vivere a Milano?”
“Ho raggiunto mio marito nel dopoguerra e qui sono rimasta tutta la vita, ma io in realtà sono piemontese, ho vissuto le guerre tra Demonte, vicino Cuneo, e Torino.”

“Che ricordo ha della Resistenza Italiana? So che ne ha preso parte!”
“Sì, ho partecipato alla lotta partigiana, ma riconosco di non essere mai stata in prima linea.
Sono entrata nei Gruppi di difesa della donna, ho corso anche io i miei rischi, ma ho deciso di non scriverne mai.”

“Come mai questa scelta? La letteratura sulla Resistenza ha avuto un successo clamoroso nei decenni dopo la seconda guerra mondiale…”

“È stata una scelta dettata dalla convinzione che ognuno debba occuparsi di ciò che gli compete e io mi sono sempre sentita aliena dallo scrivere di questioni politiche, sociali ed economiche.
È la stessa ragione per cui mi sono dimessa nel ’76, dopo esser stata eletta consigliera comunale a Milano… Banalmente, non fa per me!”

“Quando ha iniziato a scrivere?”

“In realtà piuttosto tardi, ho esordito con una raccolta di poesie intorno ai trent’anni: il mio primo approccio all’arte è stato con la pittura. Poi, dopo una serie di romanzi, ho scritto “Le parole tra noi leggere”: il successo è arrivato nel ’69 e non ero più una ragazzina da un bel po’!”

“Proprio di quel romanzo volevo parlare: Anna Banti al riguardo ha detto <Minuziosamente, con una precisione da cartella clinica niente affatto pietosa, vengono registrati gli incontri-scontri fra istinti analoghi e divaricati in una quasi sacrilega ricerca di reciproca offesa>.  Pensa sia una giusta analisi del libro?”

“Credo che Anna abbia ragione: le parole tra me e mio figlio sono tutt’altro che leggere. Anche quando sono ironiche, nascondono una sfida che va oltre le piccole battaglie quotidiane.”
“Secondo lei perché il romanzo ha avuto così tanto successo?”
“Penso abbia avuto un peso fondamentale il contesto storico in cui è stato pubblicato. Ovviamente io racconto di un periodo antecedente al ’68, ma le ribellioni di Piero alla scuola e alla famiglia si inseriscono perfettamente nel clima sessantottino, nonostante mio figlio sia della generazione precedente. È un personaggio che, se vuoi, ha anticipato gli atteggiamenti dei ragazzi figli del ’68 e credo sia questa la ragione di tanto successo. In fondo, la rivoluzione sociale che fa da sfondo al romanzo, ovvero il passaggio da un tipo di educazione più repressiva a un’educazione permissiva, nel ’68 ha avuto il suo massimo apice, quindi è ovvio che la sua pubblicazione nel ’69 sia caduta involontariamente a pennello.”

“È stato apprezzato tanto dal pubblico, quanto dalla critica: le ha fatto vincere il Premio Strega di quell’anno!”
“Sì, è stato un grande onore. Ma, proprio la genuina spontaneità premiata dalla critica ha aggravato ulteriormente il conflitto con mio figlio, che credo non mi abbia mai perdonato di aver messo per iscritto le parole tra noi tutt’altro che leggere. Sono cose che nessun riconoscimento ti ridà indietro…”
Afferra tra le dita la sua tazzina di caffè, in una presa tremolante, ma nel complesso solida, portandosela alle labbra per berne l’ultimo goccio. La conosco da dieci minuti, ma già mi ha trasmesso la straordinaria, insolita fierezza di essere pienamente sé stessa in tutto ciò che fa, serenamente libera in tutto che dice.

1LALLA ROMANO: nata a Demonte nel 1906, è stata una scrittrice, poetessa e giornalista italiana. Dopo aver conseguito la maturità classica, si iscrive alla facoltà di lettere dell’Università di Torino, dove si laurea a pieni voti nel 1928.
Pubblica la prima raccolta di poesie nel 1941, con il titolo “Fiore”. Dopo la guerra raggiunge il marito Giovanni Vermiglia a Milano e nel 1951 pubblica il primo romanzo “Le metamorfosi”, seguito da “Maria”, “Tetto murato” e “Diario di Grecia”.
Nel 1969 arriva il successo con “Le parole tra noi leggere”. Negli anni successivi continua a scrivere poesie e romanzi, come “L’ospite”, fino a che si spegne nel 2001, al fianco del suo amorevole compagno Antonio Ria.

 




L’Africa di Karen

A Nord di Copenaghen c’è una piccola cittadina di nome Rungsted, località natale di Karen Blixen1. Non è stato difficile raggiungere la sua tenuta: tutti sanno dove abita e la grande villa spicca sul resto del paesino, nel complesso piuttosto modesto.
Mi aspetta nel suo studio, seduta su una poltrona a fiori tra lance e quadri esotici, dove ha già fatto predisporre due tazzine di caffè fumante.

“È permesso?”
“Bellissimi questi quadri signora Blixen! Li ha portati dall’Africa?”

“Prego, accomodati! Sì, li ho dipinti io, quando vivevo in Kenya.”
“So che è partita quando era ancora molto giovane; perché ha deciso di lasciare la Danimarca?”

“Volevo allontanarmi da questo stile di vita, dalla mia famiglia… Ho sempre desiderato conoscere qualcosa di completamente diverso dalla mia realtà e immergermi in un altro mondo. Così, nel 1913, sono partita con mio cugino e, ai tempi, fidanzato Bror, ci siamo sposati e abbiamo realizzato il nostro sogno: comprare una piantagione e trasferirci definitivamente in Kenya. Poi l’amore è finito e io per dieci anni ho mandato avanti il lavoro senza mio marito, ma la crisi dell’industria del caffè negli anni ‘30 si è aggravata e l’azienda non ha retto.”
“Com’è stato il ritorno in Danimarca?”
“Sono stata costretta a ritornare nel ’31 e da quel momento non passa un giorno senza che io rimpianga di non essere rimasta in Kenya.”

“Come fa a superare la nostalgia?”
“Non l’ho mai superata e mai la supererò. Ho imparato a trasformare la mancanza in racconto, il pensiero in scrittura e così, una volta tornata, ho iniziato a cercare di far capire anche al resto del mondo, attraverso i miei libri, cos’avesse di così speciale quel luogo.”

“Penso di poter affermare con assoluta certezza che è riuscita a pieno nel suo intento, signora Blixen: ogni pagina de “La mia Africa” trasuda tutto il suo amore per quella terra.”
“Sai, dal momento della separazione da Bror, il mio legame con il Kenya è diventato ancora più forte, sia con la regione, sia con le persone del luogo. Mi sono resa conto di non essere sola, di aver intorno una famiglia da cui avevo tanto da imparare e senza la quale mai avrei potuto farcela.”

“Sbaglia chi legge in “La mia Africa” una pesante critica al colonialismo?”

“Ritengo che il colonialismo abbia sventrato l’Africa, risucchiando le sue ricchezze materiali e tentando di snaturarne l’infinita ricchezza culturale. Troppo spesso l’uomo bianco ha invaso le regioni africane dando per assunta la propria superiorità, facendo l’immenso errore di scambiare il diverso da sé per incivile. Invece a me la cultura africana ha insegnato tanto: mi ha fatto riscoprire l’importanza del contatto con la natura e la terra, la centralità del rispetto dell’altro in qualsiasi rapporto umano.”

“Qual è la cosa che più le manca dell’Africa?”

Non mi risponde, Karen. Ha lo sguardo perso in uno dei tanti prati della verde Danimarca e a me piace pensare che ai suoi occhi, con un po’ di fantasia, questo sfarzoso giardino non torni ad essere altro che una piantagione in Kenya, ai piedi degli altipiani di Ngong, e che lì, tra gli alberi, ci sia Denys2ad aspettarla.

 

 

1KAREN CHRISTENTZE DINESEN: nata a Rungsted nel 1885, è stata una scrittrice danese, nota con vari pseudonimi, il più famoso dei quali è Karen Blixen;
Dopo aver frequentato l’Accademia delle Belle Arti a Copenhagen e Parigi, iniziò a pubblicare i suoi primi racconti, sotto il nome di Osceola.
Si trasferì in Kenya nel 1913, ma fu costretta a tornare in Danimarca a seguito del fallimento della fattoria. Nel 1937 pubblicò il romanzo che la rese indimenticabile per i lettori di tutto il mondo: “La mia Africa”, capolavoro in cui racconta gli anni passati in Kenya, da cui fu tratto il celebre film del 1985 con protagonisti Meryl Streep e Robert Redford.
Trascorse gli anni successivi dedicandosi alla scrittura di romanzi e diari, di cui l’Africa rimarrà sempre il soggetto prediletto, ma non tornerà mai più nel suo amato Kenya.

Morì a Rungsted nel 1962.

 

2DENYS FINCH HATTON: fu il compagno di Karen Blixen fino al 1931, anno in cui morì in un incidente aereo. A testimonianza della loro intensa storia d’amore rimangono i diari di Karen e le numerose lettere che si scambiavano nei lunghi periodi di lontananza.

 




Un mate con Gabriela

Nel piccolo comune di Vicuña, nella regione cilena del Coquimbo, non è mai successo nulla di particolarmente eclatante. Tuttavia, è in questo tranquillo paesino di campagna che è nata Gabriela Mistral ed è proprio qui, in un bar sulla via che oggi porta il suo nome, che mi aspetta la poetessa cilena più famosa di tutti i tempi.

“Mi sono permessa di prendere un mate anche per te, qui in Sudamerica è d’obbligo!”

“Grazie mille signora Mistral1, non vedevo l’ora di provarlo.”

“Puoi chiamarmi Lucila, il mio vero nome. Qui a Vicuña mi conoscono così.”

“È qui che è cresciuta?”

“Sì, la mia famiglia è di qui, ho frequentato la scuola locale finché non sono stata cacciata.”

“Cacciata?!”

“Delle mie compagne hanno pensato bene di accusarmi di aver rubato del materiale scolastico… Ovviamente non era vero, ma poco importa, sono stata espulsa dalla scuola e ho cominciato a prendere lezioni private da mia sorella Emelina, che era già diventata una maestra. È grazie a lei che poco dopo ho iniziato ad insegnare anch’io. È riuscita a trasmettermi tutta la sua passione.”

“So che le sue prime poesie e i suoi primi articoli vennero pubblicati quando lei era ancora giovanissima, in concomitanza con l’inizio del suo percorso nella scuola. Non dev’essere stato facile affermarsi nel Cile di inizio ‘900! Quali sono le difficoltà maggiori che ha incontrato?”

“Ero una ragazza di campagna, socialista e libera pubblicista: è evidente che fossi un personaggio scomodo e piuttosto inusuale per il Cile di quegli anni. Infatti, quando avevo 15 anni mi hanno lanciato un messaggio molto chiaro: io volevo insegnare, già avevo lavorato come assistente in una scuola, ma per passare alle superiori bisognava entrare alla Normale di La Serena. In famiglia non c’erano soldi, ma, trattandosi di un investimento concreto sul mio futuro, io e mia madre siamo riuscite a mettere da parte la quota per la retta. Ho passato l’esame d’ammissione a pieni voti, ma sono stata espulsa poco dopo per via della mia collaborazione giornalistica con El Coquimbo, un quotidiano locale. Lo sai perché? Perché avevo osato parlare di accesso all’istruzione, avevo promosso un modello di insegnamento libero e aperto a tutti, senza limitazioni di classe sociale. Capirai! Per un’università che chiedeva 3000 pesos d’iscrizione era un colpo basso.”

“E con quale giustificazione l’hanno espulsa?”

“Sono stata tacciata di essere una sovversiva, di scrivere articoli pagani e socialisti e, di conseguenza, di non essere adatta all’insegnamento. Sinceramente, non porto rancore… Posso dire con serenità di aver avuto la mia rivincita.”

“Parla del Nobel per la letteratura del ’45?”

“Per carità, il Nobel è stato un onore indescrivibile, ma non è a quello a cui mi riferivo. Anche prima del ’45 ho avuto tante altre soddisfazioni, ma non c’è concorso letterario o incarico istituzionale che possa eguagliare la gioia che mi hanno regalato i miei studenti.”

“Cosa significa per lei insegnare?”

“Insegnare è lasciare un segno. È andare oltre qualsiasi pregiudizio, tentare di cambiare il mondo, di renderlo più giusto. Ho lottato tutta la vita affinché ai banchi della mia classe potessero sedersi bambine e bambini, di qualsiasi estrazione sociale. Ho cercato di azzerare le disparità, almeno dentro l’aula, e di trasformare la differenza in arricchimento, in una spinta alla scoperta.
È un lavoro difficile, me se funziona… Oh, se funziona allora quei bambini e quelle bambine usciranno dalla scuola con una luce diversa negli occhi! Magari non sapranno a memoria tutte le date di storia, o i fiumi del Cile, ma sapranno guardare la realtà con occhi vispi e aperti, saranno uomini e donne libere.”

“Cosa pensa del valore che l’insegnamento ha assunto oggi?”

“Trovo le politiche scolastiche attuali vergognose: stanno trasformando la scuola in una fabbrica di manodopera, in cui gli studenti sono numeri funzionali alla macchina del lavoro e non più menti libere da incoraggiare, da far fiorire. Ma cos’è la scuola se non uno stimolo a conoscere il mondo? Chi è l’insegnante se non chi riesce a far dialogare il sapere con le reali esperienze della vita?
Insegnare è un atto di sublime bellezza, è poesia! Nel momento in cui viene privato del suo valore critico, della sua libertà, perde il suo senso.”

C’è poco da fare: un vero insegnante non smette mai di insegnare, c’è tanto da imparare in ogni suo gesto, in ogni sua parola. E Gabriela, anzi Lucila, con ogni sillaba insegna e cattura, in un vortice inscindibile di educazione e poesia.

1GABRIELA MISTRAL: nata in Cile, nel comune di Vicuña nel 1889, è stata una poetessa, insegnante e femminista cilena. Fu la prima donna latinoamericana a vincere il Premio Nobel per la letteratura nel 1945. Insegnante anticonformista, si fece promotrice di una scuola libera e accessibile a tutti e nonostante non avesse titoli accademici, nel 1922 fu invitata dal Ministro dell’Educazione messicano a collaborare alla riforma scolastica del Paese. Tra le sue raccolte di poesie più belle ricordiamo “Sonetos de la muerte” “Desolación” e “Tala”. Morì a New York nel 1957.




Sul dondolo con Louisa

Affacciata al portico di Orchard House, tra gli alberi di mele, una donna agita una mano in aria “Sonoqui! Mettiamoci sul dondolo che oggi c’è un bel sole!”.

Un volo fino al Massachusetts solo per incontrare un’autrice potrà sembrare un follia, ma se quell’autrice ha cambiato per sempre la letteratura per ragazzi, se quell’autrice è Louisa May Alcott1, allora la distanza diventa un irrisorio dettaglio.

“Questa villa è bellissima, signora Alcott. Quanto ha vissuto qui?”

“Non male vero? Ci siamo trasferiti qui nel 1840, da Boston. Questo giardino era un paradiso per me e le mie sorelle!”

“Quanto c’è della sua famiglia in ‘Piccole donne’?”

“La vita della famiglia March è in fondo uno scorcio sulla mia vita, sulla mia famiglia. Al di là dei chiari riferimenti autobiografici, come la composizione familiare e l’ambientazione del romanzo, l’elemento su cui ho tentato di focalizzare la vicenda è la solidarietà che regna tra la madre, Meg, Jo, Beth e Amy, la loro forza e autonomia. Mi rendo conto che per una ragazza della tua generazione sia molto difficile immaginare la famiglia March, e di riflesso la mia, come una famiglia progressista, ma ti assicuro che nell’Ottocento, in piena guerra civile americana, eravamo tutt’altro che conservatori.”

“In cos’è che la sua famiglia è stata progressista?”

“Sono figlia di un trascendentalista e di una suffragetta, tra l’altro due abolizionisti convinti. Abbiamo collaborato all’Underground Railroad e i miei hanno tentato tutta la vita, riuscendoci solo qui a Concord, di aprire una scuola che fosse meno rigida, meno conservatrice, che desse una possibilità anche a chi non aveva accesso all’istruzione. ”

“Sua madre Abby May le ha lasciato in eredità la passione per l’attivismo politico?”

“Che scherzi? Devo ammettere che mia madre è stata politicamente più impegnata di me, ma sono stata al suo fianco nella lotta per il suffragio universale. Lo sapevi che sono stata la prima donna in assoluto di questa città a iscriversi nelle liste elettorali? Adesso a te sembrerà una cosa scontata, le generazioni dopo la mia sono nate con questo diritto, noi ce lo siamo dovuto conquistare… Votare per la prima volta fu un’emozione straordinaria, lo ricordo ancora come fosse ieri!”

“Eppure, la critica che più viene rivolta a ‘Piccole donne’ è quella di presentare una visione di genere molto stereotipata. Lei cosa ne pensa?”

“Penso che leggendo attentamente il libro ci si renda conto che non è assolutamente così, anche se questa potrebbe essere la chiave di lettura più immediata. In realtà, ogni personaggio ha la sua personalissima identità, che entra in relazione con le altre del romanzo, tutte diverse, complesse e poliedriche, certamente lontane dai canoni. È proprio il rapporto tra le protagoniste che a me interessava mettere in evidenza, più dei personaggi stessi, perché non è forse la solidarietà, l’unione, la base e la forza di qualsiasi forma di femminismo? Essendo poi personaggi così diversi c’è ovviamente chi è più eversiva e chi meno, chi nello stereotipo si trova a suo agio e chi invece sgomita per uscirne, altrimenti sai che noia!”

“Quando parla di personaggi eversivi non posso fare a meno di pensare a Jo. Possiamo considerarla la sua gemella letteraria?”

“Tra tutte è sicuramente quella che più ho ritratto a mia immagine e somiglianza. Anche lei, come me, è la secondogenita, fa di tutto per aiutare la famiglia ad andare avanti ma ha ben impresso in mente l’obiettivo: scrivere. È quando ha in mano carta e penna che la creatività e la curiosità prendono il sopravvento. Jo è tra tutte la più selvatica, la più determinata, sicuramente la meno ancorata alla tradizione e ai canoni femminili della sua epoca.”

“Ed è anche, a mio parere, l’unica ad avere un rapporto ‘sincero’, mi passi il termine, con l’altro sesso. Non trova?”

“È così, Jo, al contrario delle altre ragazze della sua età, si sposa per amore, tra l’altro con un professore molto più grande di lei, ha un rapporto di amicizia assolutamente paritario con Laurie, il vicino, che prescinde da qualsiasi implicazione romantica. Questo non rientrava di certo nel quadro della famiglia americana post-secessione.”

Si dà una piccola spinta con il piede, per rimettere in moto il dondolo. Con un bicchiere di sidro in mano, sospira guardando i meli e mi sembra di essere catapultata in una scena del libro, di vedere Jo, che altri non è che Louisa, combattere con tutte le forze per inseguire il suo sogno da scrittrice, dietro la maschera da piccola donna.

 

1 LOUISA MAY ALCOTT: nata a Germantown nel 1832 è stata una scrittrice statunitense, principalmente nota per la tetralogia di “Piccole donne”. Scrisse anche alcuni romanzi appassionanti sotto lo pseudonimo di A.M. Barnard. Morì nel 1888 a Boston, probabilmente a causa di un avvelenamento da mercurio, contratto durante il suo servizio da infermiera volontaria nella Guerra civile americana.




L’altra verità di Alda

“Maria, ci porti due espressi fuori, per favore?”
“Signora Merini1, conosce la proprietaria?”
“Scherzi?! Fino a qualche anno fa venivo qui ogni giorno, con quelle che mi piace chiamare “le mie compagne di sventura”: ormai sono di casa. “La Chimera” era il nostro rifugio, il nostro confessionale, persino la barista conosce le nostre storie a memoria. Comunque, ti prego, dammi del tu e chiamami Alda, non sono mica così vecchia!”
Alda è innamorata di questa città, si vede lontano un miglio. Volge uno sguardo distratto, ma pieno d’affetto, al Naviglio su cui si affaccia il bar dove ha scelto di incontrarmi e si accende una sigaretta: un decennale rito quotidiano, trasformato, ormai, in una semplice gestualità automatizzata.
Chiude gli occhi, mentre aspira il primo, lungo tiro, e si lascia baciare dal raro sole di Milano.
“Alda, la tua figura è associata prevalentemente alle meravigliose poesie che hai scritto, ma forse le opere in cui più ci hai raccontato di te sono “La Terra Santa” e “L’altra verità. Diario di una diversa.”, entrambe in prosa e a tematica autobiografica. Perché ti definisci diversa? In cosa consisteva, o consiste tutt’ora, la diversità che racconti?”
“Cos’è poi in fondo la diversità? Siamo tutti diversi gli uni dagli altri, ti sfido a trovare due persone uguali! Io, anche da ragazzina, non mi sentivo capita e mi sembrava di fare pensieri diversi da quelli che facevano i bambini della mia età. Tuttavia, avevo imparato a conviverci e anzi, quei viaggi così strani che faceva la mia mente alimentavano il fuoco della mia creatività. Purtroppo, andando avanti con gli anni le cose sono peggiorate, ho perso spesso l’equilibrio e la mia salute era sempre più altalenante, però sai una cosa? Nonostante tutto, non penso di essermi meritata la mia prigionia, nessuno merita una cosa del genere.”
“Quando parli di prigionia, parli degli anni nell’ospedale “Paolo Pini”?”
“Parlo degli anni in manicomio, chiamiamo le cose con il loro nome. Sono stata rinchiusa in quell’inferno dal ’61 al ’72, seppur con dei brevi periodi di pausa, trascorsi a casa con la mia famiglia. Inutile dire che non è stato un ricovero volontario: è stato il mio primo marito a volerlo e a quel tempo aveva tutto il potere di decidere delle mie sorti. Ti ricordo che ancora non c’era la legge Basaglia, che ha regolamentato i trattamenti sanitari obbligatori, bastava veramente poco per essere etichettati come folli pericolosi. Tornando al tema della diversità, io non sono poi così diversa, ma non potrò mai più essere guardata come se fossi uguale agli altri, perché il manicomio mi ha marchiata a fuoco con il suo timbro di alienazione.”
“Non pensi, quindi, che il ricovero abbia funzionato? Che quest’esperienza ti abbia fatto anche del bene?”
“Non credo che i manicomi avessero alcuna utilità clinica, né tantomeno sociale, oltre a servire per scaricare gli istinti sadici dell’uomo. Però, in fondo, del bene me l’ha fatto. Infatti, è tra quelle mura che ho imparato ad accettare il male e questa, mia cara, è una prerogativa soprattutto dei poeti, perché il poeta indossa i propri dolori come fossero i suoi migliori vestiti, li rende poesia. Tra iniezioni forzate, elettroshock e tanta disperazione, ho anche conosciuto la gentilezza di una premura inaspettata, da parte delle mie compagne, o l’amore comprensivo di un abbraccio. Ho accolto tutto questo dentro di me, mi sono lasciata permeare dal dolore e dall’amore allo stesso modo e ho capito di cosa ho sempre avuto davvero bisogno:di poesia, questa magia che brucia la pesantezza delle parole, che risveglia le emozioni e dà colori nuovi.2
Un ultimo tiro di sigaretta, ormai ridotta al filtro, e socchiude di nuovo le palpebre, ruotando un po’ quel viso stanco alla ricerca del dolce caldo di aprile. È in quel piccolo movimento insignificante che riconosco Alda, in bilico perenne tra caduta e risalita.

1 Alda Merini, nata a Milano il 21 marzo 1931, è stata una grande poetessa e scrittrice italiana.
Dopo aver terminato la scuola elementare e tre anni di avviamento al lavoro, tentò di essere ammessa al Liceo Manzoni, ma, paradossalmente, non superò la prova di italiano.
Esordì come autrice a soli 15 anni, grazie a Giacinto Spagnoletti. È l’autrice di poesie che hanno segnato il Novecento letterario e di opere di grande successo, come “La Terra Santa” e “L’altra verità. Diario di una diversa.”, narrazioni autobiografiche di una vita molto tormentata.
Morì a Milano nel 2009, all’età di 78 anni.

2Verso tratto dalla poesia “Non ho bisogno di denaro”

 




In viaggio sull’Orient Express

“Mi scusi, sa dov’è la carrozza ristorante?”
“Carrozza 12, signorina, dall’altra parte!”
Oltre i lussuosi vagoni letto del treno, da cui non mi sorprenderebbe affatto veder sbucare i maestosi baffi di Hercule Poirot, mi aspetta la grande intervistata di oggi: niente di meno che la signora del delitto per eccellenza.
“Buonasera Mrs. Christie1, che impressione incontrarla proprio qui!”
“Non lo dica a me! È una grande emozione per me tornare tra questi vagoni!”
“L’Orient Express le ha portato una grande fortuna, ma il famosissimo libro è uscito nel 1934: quattordici anni dopo la prima indagine di Poirot. Come e quando ha iniziato a scrivere gialli?”
“Sono sempre stata una grande fan dei polizieschi, soprattutto delle avventure di Sherlock Holmes orchestrate da Arthur Conan Doyle. Così, nel 1920 ho scritto il mio primo romanzo giallo, “Poirot a Styles Court”, delineando la figura di un detective molto particolare, che avesse la genialità di Sherlock ma non gli somigliasse né nell’aspetto, né tantomeno nel carattere. Inoltre, l’altra grande ispirazione mi è venuta durante la prima guerra mondiale, quando ho lavorato come infermiera e nel dispensario dell’ospedale di Torquay, dove ho imparato tutto ciò che so su farmaci e veleni: ho capito che mi sarebbero tornati molto utili per raccontare storie di delitti intriganti.”
“È da qui che nasce la sua passione per la farmacologia?”
“Assolutamente. Il veleno ha per me un grande fascino: non ha la crudezza della pistola o del coltello. È tutta una questione di dosaggio: la distinzione tra farmaco e veleno è talmente ambigua che molte sostanze, a seconda della quantità, possono risultare curative o letali.”
“Ha nominato prima Hercule Poirot, ma non è l’unico grande detective dei suoi romanzi: dal 1930 è Miss Marple l’altra brillante protagonista delle indagini. Cos’è che, a suo avviso, la rende un personaggio così interessante?”
“Per chi si approccia per la prima volta a Miss Marple è inevitabile riconoscere la figura stereotipata di un’anziana signora inglese, con i capelli grigi raccolti e una grande passione per l’uncinetto, il giardinaggio e il tè. Andando avanti ci si rende conto che accanto all’adorabile vecchietta di St. Mary Mead c’è una donna di un’intelligenza estrema, che grazie al suo intuito geniale riesce a risolvere delitti apparentemente senza soluzione. Questo dualismo funziona, rende il personaggio molto simpatico al pubblico!”
“Non ritiene che Miss Marple sia stata un po’ sfavorita dalla critica rispetto a Poirot?”
“Forse sì… Una donna che combatte il crimine grazie alla sua spiazzante intelligenza era, ed è forse tutt’ora, ritenuta meno credibile rispetto a un uomo. Con questa realtà si scontra Miss Marple stessa durante le sue indagini: è circondata da colleghi che tentano continuamente di screditarla, convinti di avere la verità in tasca. A questi la protagonista risponde più con i fatti, che con le parole, lasciandoli sempre un passo indietro e riuscendo a chiudere dei casi complicatissimi grazie a intuizioni a dir poco strabilianti.”
“Mrs. Christie, lei è ritenuta universalmente la signora del giallo più famosa di tutti i tempi. Al di là dei romanzi, la sua vita privata è circondata da un grande mistero su cui ancora non si è fatta luce. Mi può raccontare cosa è veramente successo nel 1926? Perché è scomparsa per 11 giorni?”
Non avrei dovuto farle questa domanda: la sua espressione, fino a quel momento così cordiale, si adombra all’improvviso. Posa delicatamente la sua tazza di tè caldo sul piattino e comincia a guardarsi intorno, quasi in cerca di una via di fuga. Poi uno sguardo, che vale più di mille parole, uno sguardo che dice “Sì, ho tentato di incastrare quel traditore di mio marito! Sì, è proprio così! Neanche il più astuto personaggio dei miei romanzi avrebbe mai saputo inscenare un omicidio così ad arte!”.

Ma tutto questo Agatha non l’ha mai detto, né a me, né a nessun altro.

 

1Agatha Mary Clarissa Miller, nota al pubblico come Agatha Christie, (Torquay,1890 – Wallingford, 1976) è stata la regina del romanzo poliziesco.Ha segnato la storia del giallo con romanzi come “Dieci piccoli indiani” e “Assassinio sull’Orient Express”, oltre ad aver raccontato magistralmente le indagini di detective brillanti come Hercule Poirot e Miss Marple.
Il vero grande mistero rimane la sua scomparsa del 1926, a seguito del tradimento di suo marito Archimbald Christie: fu trovata dopo undici giorni in un albergo ad Harrogate, dove si era registrata con il nome dell’amante del marito. Tra chi ipotizza una montatura pubblicitaria e chi invece un tentativo di far incolpare il signor Christie di omicidio e occultamento di cadavere, non si è mai fatta chiarezza sulla vicenda.