Su Emily Dickinson

Non sempre il primo incontro decisivo con uno scrittore destinato a divenire importante nella nostra esperienza culturale, e quindi esistenziale, passa attraverso la lettura delle sue opere: una frase adattata per noi da un essere amato, un’allusione nel libro di un altro autore, un film biografico, un documentario, l’occasione della stampa di un francobollo commemorativo, una conferenza cui per caso capiti di assistere, la visita occasionale a una casa, poi divenuta museo, abitata dallo scrittore, fino a subito prima poco noto e indifferente, possono suscitare un’improvvisa attenzione, spingerci a una lettura appassionata della sua opera, prima non ancora esperita.

Ma può avvenire che pure approcci diversi non facciano ancora sbocciare l’interesse e che esso ci colga ancora più avanti, in un momento in cui qualcosa che in noi è maturato o è appena nato, ci spinga improvvisamente verso quell’autore, verso la sua opera che a un tratto consuona in noi.

In Mai devi domandarmi, di Natalia Ginzburg, curioso libretto, “qualcosa come un diario”, che raccoglie, salvo pochi inediti, la maggioranza degli scritti da lei pubblicati su La Stampafra il dicembre del 1968 e l’ottobre del 1970, appare la memoria, che è anche riflessione, ma poi si fa per brevi tratti anche racconto, Il paese della Dickinson, del gennaio 1969, sulla sua visita di qualche tempo prima ad Amherst, nella casa vicino a Boston, dove la più grande poetessa americana visse quasi del tutto nascosta e ignota al mondo, dalla nascita, nel 1830, alla morte, nel 1886.

Con un rimpianto quasi indispettito, Ginzburg ci dice che a quell’altezza di tempo Emily Dickinson era per lei poco più che un nome, che ne aveva letto poche rime e forse qualche lettera, non ne ricordava un solo verso. Riferisce di aver guardato la sua casa, i mobili, un quadro, senza partecipazione, distrattamente. Torna alle idee e nozioni confuse che aveva allora su quella zitella che le appariva irritante e antipatica, con le sue strane manie di vestire sempre di bianco e di andare incontro ai rari ospiti con due gigli fra le mani, col suo amore per gli uccellini, coi suoi amori umani non consumati per “un vecchietto e un prete”.

Ma il tempo è trascorso e “In questi giorni mi son messa a leggere le sue lettere, e poi, nel mio debole inglese, i suoi versi. Che grande poeta era, questa Emily Dickinson. Ma tutto in lei è tale da non poter essere compreso, accolto, appena cent’anni dopo la sua morte (siamo nel 1969). Ella era stravagante e noi non amiamo la stravaganza, amiamo la pazzia, che grida e veste colori sgargianti. Come i contemporanei di Dickinson, che la sfiorarono o che la frequentarono più intrinsecamente, ma non per discrezione, o per distrazione, o per animo mediocre, ma per altri motivi, più disprezzabili agli occhi di Ginzburg, più accecanti, cioè perché colmi di bovarismo, scettici, increduli e pieni di pietà per noi stessi, non avremmo potuto comprendere chi mai ebbe pietà per se stessa, mai ebbe lacrime su se stessa, che fu tragica e mai patetica, che mai volle pubblicare le proprie poesie, che definiva il suo solo compagno di giochi, ma che di esse allo stesso tempo diceva “Questa è la mia lettera al mondo, che mai scrisse a me”.

 




Il Premio Bagutta e le scrittrici

Se lo Strega, tra i premi letterari italiani, è indubbiamente il più prestigioso, la palma della longevità va al Premio Bagutta, fondato nel novembre del 1926 da un gruppo eterogeneo di persone di cultura che si ritrovavano intorno a Riccardo Bacchelli in un ristorante di via Bagutta a Milano. Alcune di loro facevano riferimento alla rivista “La fiera letteraria”, la cui sede era poco distante. “Si trovavano assieme per discutere liberamente d’arte e di letteratura, in genere tra soli uomini, uniti soltanto da uno spirito comune, che si rifaceva grosso modo alle esperienze e alle idee manifestate negli anni precedenti dalla rivista romana La Ronda (1919-23) e riprese proprio nel 1926 a Firenze dalla rivista Solaria”.

Oggi la giuria del premio è presieduta da Isabella Bossi Fedrigotti e composta da una quindicina di intellettuali, uomini e donne, provenienti da diversi settori culturali.

Leggiamo nella voce di Wikipedia che le caratteristiche della giuria, il clima conviviale, la scarsa incisività sulle vendite hanno messo questo premio al riparo dalle grandi manovre delle case editrici, ma, potremmo aggiungere noi, non dai pregiudizi contro le donne scrittrici. Magari proprio il fatto che i fondatori si ritrovassero tra soli uomini ha determinato un clima, una tradizione dura a morire; il fatto è che, dei novanta premi conferiti nei novantuno anni di attività del Bagutta a testi di narrativa, saggistica e poesia (il Premio venne sospeso per dieci anni, dal 1937 al 1946, ma vi sono alcuni ex aequo) solo dieci sono andati a opere firmate da donne. Dieci miracolate, poco più del 10%.

Per quarantacinque anni infatti le giurie del Bagutta non si accorgono della presenza delle donne in letteratura e bisogna arrivare al 1972 per trovare la prima autrice premiata, Anna Banti (per il racconto Je vous écris d’un pays lointain). Ma anche dopo è con molta parsimonia che elargiscono premi alle scrittrici: a Natalia Ginzburg nel 1984 (per il saggio La famiglia Manzoni, ma la scrittrice aveva già vinto lo Strega vent’anni prima), a Francesca Duranti nel 1985 (per il romanzo La casa sul lago della luna), a Serena Vitale nel 2001 (La casa di ghiaccio. Venti piccole storie russe); nel 2003 Eva Cantarella vince il premio, ex aequo, con il saggio Itaca. Eroi, donne, potere tra vendetta e diritto, e nel 2005 tocca a Rosetta Loy (con il romanzo Nero è l’albero dei ricordi, azzurra l’aria, premiato anche in Francia con il Prix Jean Monnet de Littérature Européenne); nel 2009 il Premio va a Melania Mazzucco (già vincitrice dello Strega) con il romanzo La lunga attesa dell’angelo; nel 2013 si torna a premiare un saggio, Spaesati. Luoghi dell’Italia in abbandono tra memoria e futurodi Antonella Tarpino, e nel 2017 un libro di poesia, Madre d’invernodi Vivian Lamarque. Quest’anno, 2018, il premio è andato a Helena Janeczek per il suo romanzo La ragazza con la Leica,in cui l’autrice rievoca la figura di Gerda Taro. Forse qualcosa sta cambiando.

Dal 1987 lo storico Premio Bagutta ha una sezione Opera Prima. Qui le cose vanno un po’ meglio: le donne sono tredici su trentasei, circa il 36% del totale. Alle esordienti  il Bagutta ha offerto, sembra, qualche possibilità in più. Si può ipotizzare che a inizio carriera, per così dire, le donne incontrino meno preclusioni, ma che poi, nel mondo della critica letteraria vera e propria, nelle recensioni, nella convinzione con cui le case editrici appoggiano i propri libri, gli uomini siano favoriti sulla strada del successo (anche economico), mentre è più facile che le donne vengano accantonate.

Questi i nomi delle premiate: Franca Grisoni, La böba(poesia) 1987; Laura Bosio, I dimenticati (narrativa) 1994; Carola Susani, Il libro di Teresa(narrativa) 1996 ex aequo; Patrizia Veroli,Millos(saggistica) 1997; Helena Janeczek, Lezioni di tenebra(narrativa) 1998 ex aequo; Rosa Matteucci, Lourdes(narrativa) 1999 ex aequo; Silvia Di Natale, Kuraj(narrativa) 2001; Wanda Marasco, L’arciere d’infanzia(narrativa) 2004; Elena Varvello, L’economia delle cose(narrativa) 2008; Daria Colombo, Meglio dirselo(narrativa) ex aequo 2011; Laura Fidaleo, Dammi un posto tra gli agnelli(narrativa) 2013; Nadia Terranova,Gli anni al contrario, (narrativa) 2016; Giulia Caminito, La grande A(narrativa) 2017.




Scrittrici italiane per ragazzi e ragazze: da Emma Perodi a Bianca Pistorno

La letteratura destinata alle generazioni in erba è stata spesso definita una letteratura di serie B senza considerarne l’importanza culturale e pedagogica e l’obiettiva difficoltà che si incontra per suscitare in loro interesse e partecipazione.

Come sosteneva la scrittrice piacentina Giana Anguissola (Piacenza 1906- Milano, 1966), la letteratura per ragazzi e ragazze dovrebbe seguire regole ben precise: essere portatrice di valori etici, essere divertente/accattivante; avere una forma comunicativa salda e vivace.

E la stessa, rivolgendosi agli autori, li esortava dicendo: “Beati coloro che sulle loro ali sollevano i piccoli lettori….”.

In Italia la letteratura giovanile vera e propria (senza considerare le favole della tradizione orale, spesso di origine contadina), trova il suo inizio nella seconda metà dell’Ottocento quando sempre maggior attenzione si presta all’infanzia e al suo armonioso sviluppo psico-fisico e quando una sempre maggiore scolarizzazione aumenta il numero di potenziali lettori e lettrici.

In questo campo compaiono nomi insigni come quello di Carlo Collodi, Emilio Salgari, Giuseppe Fanciulli, Vamba, ecc. ma non mancano le figure di scrittrici, anche se spesso tenute in ombra da una prevalenza maschile dilagante in questo come negli altri campi delle lettere, delle arti, della scienza.

Nomi, da rivalutare e far conoscere, di autrici che furono spesso insegnanti e quindi a diretto contatto con l’universo infantile e adolescenziale di cui conoscevano bisogni e gusti. Furono anche educatrici, spesso pedagogiste, impegnate a trasmettere, attraverso i loro scritti, valori etici e morali.

Furono giornaliste, spesso direttrici di giornalini per la fascia giovanile, autrici di opere teatrali per i più piccoli muovendosi in un universo variegato e complesso con grande professionalità e passione.

Attraverso brevi biografie e accenni ai loro romanzi più famosi si procederà alla loro riscoperta partendo dalle prime e più famose scrittrici della seconda metà dell’ottocento, come Emma Perodi e Ida Baccini, continuando con le varie autrici del Novecento, da Giana Anguissola a Lina Schwrtz, fino ad arrivare alle attuali: da Bianca Pistorno a Paola Mastrocola.




Sul limite

Nella Divina commedia Ulisse, secondo Piero Boitani, “non è una statua, ma una fiamma: è la lingua di fuoco che dice di un greco condannato a morte dal Dio di un’altra cultura” (Piero Boitani, Parole alate, Milano, Mondadori, 2004, p. 241).

Nel finale della trasposizione cinematografica di Frankenstein di Mary Shelley realizzata da Kenneth Branagh nel 1994, in uno scenario ghiacciato, ai limiti del mondo, lo scienziato, che ha osato sfidare le leggi della natura e di dio, giace morto sulla banchina che, improvvisamente comincia a spaccarsi, proprio durante la cerimonia funebre, inducendo il capitano Richard Walton e il suo equipaggio a mettersi in fuga per raggiungere la nave. Sarà l’essere da lui creato a sottrarsi alla salvezza – ma è possibile per il “mostro” la salvezza? una vita tra gli esseri umani? – e a nuotare fino a raggiungere il banco di ghiaccio su cui è coricato il corpo del suo creatore, brandendo una fiaccola con la quale gli dà fuoco e perendo insieme a lui nel rogo. Anziché Ulisse e Diomede, creatore e creatura, uniti nella stessa fiamma, che arde in un paesaggio livido come il Cocito dantesco, cupo e senza speranza. Il capitano Walton, che attraverso mille perigli voleva insieme ai suoi uomini raggiungere il Polo Nord, invece di proseguire verso la meta come Ulisse, interrompe il folle volo e decide di volgere la prua verso casa.

Il romanzo epistolare di Mary Shelley si chiude invece sul “mostro” che, raggiunto Frankenstein, ormai morto, sulla nave di Walton, si allontana poi dall’imbarcazione camminando sulla banchisa per darsi fuoco, affinché dai suoi resti carbonizzati non sia possibile comprendere come dare vita a un altro essere come lui.

Entrambi i finali, quello del libro e quello del film, sono drammatici; entrambe le opere si concludono con un rogo, elemento di catarsi, nel romanzo solamente evocato dalle parole del Demone, come Frankenstein era solito definire l’essere che aveva creato, mentre nel film il fuoco è mostrato a rischiarare la cupa notte artica, sottolineando in questo modo il contrasto tra la luce e le tenebre, il calore del fuoco e il gelo dei ghiacci. È un’immagine di sapore dantesco che richiama in modo immediato e potente uno dei Leitmotiv dell’Inferno, il contrasto tra luce e oscurità, caldo e freddo, l’occhio luminoso del Creatore e il buio cui sono dannati per l’eternità coloro che hanno vissuto nelle tenebre del peccato. Nell’Inferno il Creatore è Dio, in Frankenstein è l’omonimo scienziato, ovvero un uomo, alla fine punito per la sua hybris, come l’Ulisse dantesco. Il titolo integrale del romanzo di Mary Shelley è Frankenstein, o il moderno Prometeo, a richiamare la figura dell’eroe mitologico orribilmente punito dagli dei per avere condiviso con i mortali il dono del fuoco. Prometeo, l’Ulisse dantesco e Frankenstein incarnano in modo diverso il tema del limite umano e del suo superamento, ma sono tutti egualmente e tragicamente sconfitti. Prometeo e l’Ulisse di Dante oltrepassano il limite segnato per i mortali dalle entità divine, mentre Frankenstein addirittura si sostituisce a Dio nell’atto della creazione della vita. In epigrafe a Frankenstein, o il moderno Prometeo Mary Shelley pone la seguente citazione dal Paradiso perduto di John Milton: «Ti ho forse chiesto io, Creatore, di farmi uomo dall’argilla? Ti ho forse chiesto io di trarmi fuori dall’oscurità?». È Adamo che parla a Dio, ma le sue parole non stonerebbero se fossero rivolte dal Demone a Frankenstein, il suo creatore.  La prima edizione del romanzo esce esattamente duecento anni fa, nel 1818, seguita da quella definitiva, in parte rimaneggiata, nel 1831.

Negli stessi anni Giacomo Leopardi fa poesia delle sue riflessioni sull’infelicità.

Il piacere, illimitato e assoluto è agli esseri umani inattingibile, se non nell’immaginazione, poiché il limite è insito nella condizione umana; la continua e sempre frustrata ricerca della felicità, sancita pochi decenni prima addirittura come diritto inalienabile dalla Dichiarazione dei Diritti, si trova tutta in questo impari scontro tra finito e infinito, nell’impossibile superamento del limite. L’antagonista della “letteratura del limite” di cui sono protagonisti Prometeo, l’Ulisse dantesco e anche Frankenstein si incarna negli dei dell’Olimpo oppure nel dio cristiano; in Leopardi invece lo sguardo si sposta e la potente e invincibile nemica è la “natura matrigna”. Combatterla è impossibile e inutile, stolto è confidare nelle “magnifiche sorti e progressive” dell’umanità, saggio è accettare la propria umana insignificanza nel cosmo poiché alle stelle “L’uomo non pur, ma questo/ Globo ove l’uomo è nulla, / Sconosciuto è del tutto”.

Dal tentativo di superamento del limite si passa all’accettazione dolorosa del limite, sia pure in parte lenita dall’immaginazione; dalla dialettica essere umano/divino si passa a quella essere umano/natura, ma il problema del limite resta. Anche oggi; e forse proprio per questo le figure di Prometeo e dell’Ulisse di Dante e l’opera di Mary Shelley e di Giacomo Leopardi, una giovane donna e un giovane uomo di duecento anni fa, ci parlano così da vicino e ancora ci interrogano.

Su noi stessi e le grandi questioni del nostro presente.

 

In copertina. Particolare di Ritratto di Mary Shelley (Richard Rothwell, 1840)

 

 




Griselda

È ben noto che Boccaccio è inscritto con eguale forza, spazio e fortuna sia nel filone della letteratura filogina che in quello dell’opposta letteratura misogina, dacché filo- e miso- ginia in Boccaccio non sono dati biografici, esistenziali, ma culturali, funzionali a due distinte materie di elaborazione letteraria: quello filogino incentrato sul rapporto tra amore e poesia, quello misogino sulla ricerca della ragione e su un ideale del sapiente libero da legami costrittivi.

Nel Decameron, non solo le dedicatarie sono appunto le donne, il pubblico che Boccaccio sceglie prima e più d’ogni altro, che non è poi una novità assoluta da Dante in poi, ma i narratori stessi delle novelle sono in maggioranza donne, non solo dunque solo passive fruitrici delle novelle, ma eloquenti narratrici. E le donne che nelle cento novelle vengono raccontate sono a volte gentili, acute, intelligenti, sagge, altre volte traditrici, false e rabbiose, ma il quadro del mondo femminile che emerge, di rado è dettato da misoginia, piuttosto ha la varietà e il movimento della vita stessa.

Molti studiosi, nella seconda metà del Novecento, si sono soffermati sulla novella di Griselda, poiché dalla comprensione di essa dipende, tutto sommato, il significato ultimo del Decameron. È lo stesso autore, infatti, a porre l’accento sull’esistenza di un percorso interno della brigata: da un «orrido cominciamento» a un «bellissimo piano e dilettevole» e così Griselda è stata interpretata in chiave allegorica, come immagine di Maria. L’interpretazione religiosa è giunta, persino, a vedere nei tormenti della giovane un’allegoria di Cristo, un’interpretazione storico-sociologica l’ha centrata sulla lotta sociale e intellettuale tra un nobile e una plebea e c’è stato chi ha sostenuto che Griselda è profondamente cosciente della propria dignità e dei propri diritti. Ma quella di Griselda può anche essere una “novella intellettuale”, in quanto la “virtù” della donna consiste nel contrastare la “fortuna” che le si abbatte contro, assumendo un’estrema estraneità e distanza dal mondo, tipica del nuovo intellettuale che Boccaccio vuole rappresentare. Un enigma, si è detto, che lo stesso Petrarca aveva risolto con una propria traduzione, De insigni obedientia et fide uxoria, optando per una Griselda simbolo della pazienza muliebre, ma soprattutto esempio di fermezza del buon cristiano, <<sottoposto da Dio a dure prove>>.

Credo che solo in qualche caso l’interpretazione abbia sfiorato il punto senza però centrarlo pienamente o almeno senza mai collocarsi in una visione unitaria dell’intera opera.

Secondo Tzvetan Todorov, l’unità semantica delle novelle sta nel tema di una trasgressione, che, invece di essere punita secondo l’attesa che dettano i modelli del passato, dà luogo a una vittoria grazie all’audace iniziativa personale. In questo senso, egli ritiene che Boccaccio sia un difensore della libera iniziativa e del capitalismo nascente.

A me pare che in Griselda tale schema riceva la più decisa conferma, che dà luogo al più imprevedibile dei successi.

Griselda, che non ha lo statuto sociale per diventare moglie del gran signore, viene da questi messa alla prova oltre ogni limite umano, provata nell’amore materno, nella dignità, nel ruolo di sposa. La risposta attesa dovrebbe essere quella della ribellione, della rottura del patto e quindi, senza appello, della sconfitta, la risposta dovrebbe provare che non ha la forza di spezzare lo statuto della diseguaglianza sociale dal marito. Ma Griselda rovescia ogni attesa e dunque vince. Tutto suo è il marito, i figli sono vivi e salvi, discendenza eletta sua e di Gualtieri, “savio” marito la cui fede nella donna viene sempre confermata, fino al tripudio finale, che non è trionfo dell’obbedienza, bensì rovesciamento del canone. La mite e umile pastora è signora lodata e incontrastata del suo piccolo regno. La sua ascesa sociale, facile da intraprendere, frutto inizialmente di una scelta apparentemente capricciosa del signore, e difficilissima da mantenere, attraverso circa quindici anni di torture, è ormai definitiva.  Vorrei che pensassimo a lei non come a una donna obbediente sino alla follia, ma come a una piccolissima ‘borghese’, che prende e tiene con successo definitivo un potere sociale che i modelli antichi, ch’ella contribuisce a dissolvere, avevano per secoli negato a quelle come lei.

 

In copertina. Francesco di Stefano, detto il Pesellino (1422-1457). Storia di Giselda (particolare)

 

 




Il Premio Strega e le scrittrici

Tra i premi letterari italiani, senza dubbio il più noto è lo Strega. A volte contestato in passato, anche oggi c’è chi ne prende le distanze, ma nonostante ciò il Premio conserva un certo prestigio, anche per l’influenza che ha sulle vendite, non facile da quantificare ma comunque consistente. Come è noto il Premio Strega è stato fondato nel 1947 da un gruppo di persone che si ritrovavano nel salotto romano di Maria Bellonci, con il contributo di Guido Alberti, proprietario della casa produttrice del liquore Strega. Da allora ogni anno una giuria costituita fino allo scorso anno da 400 persone, diventate ora 660 (i cosiddetti “Amici della domenica”, la cui carica è praticamente a vita) sceglie, da una cinquina di opere finaliste, la vincitrice.

Il primo vincitore, nel 1947, fu Ennio Flaiano con il romanzo Tempo di uccidere, l’ultimo, nel 2017, è stato Paolo Cognetti con Le otto montagne: settantuno in tutto fra vincitori e vincitrici. Queste però sono solo 10 (dieci!), vale a dire un modestissimo 14%, percentuale nettamente inferiore a quella media (già non esaltante) del 20% sul totale di premi alle donne nei grandi concorsi letterari internazionali.

La prima a ottenere l’ambito riconoscimento, nel 1957, è Elsa Morante (L’isola di Arturo), seguita da Natalia Levi Ginzburg nel 1963 (Lessico famigliare) e da Anna Maria Ortese nel 1967 (Poveri e semplici). Nel 1969 è la volta di Lalla Romano (Le parole fra noi leggere) e nel 1976 di Fausta Cialente (Le quattro ragazze Weiselberger). Dieci anni dopo, nel 1986, è la stessa fondatrice del Premio, Maria Bellonci, a entrare nell’Albo d’oro con Rinascimento privato, e nel 1995 viene premiata Maria Teresa Di Lascia (Passaggio in ombra). Nel 1999 si aggiudica il premio Dacia Maraini (Buio), nel 2002 Margaret Mazzantini con Non ti muovere, romanzo da cui è stato tratto anche un film di successo, diretto da Sergio Castellitto e interpretato dallo stesso Castellitto e da Penélope Cruz. Ma dal 2003, quando il premio è stato consegnato a Melania Mazzucco per Vita, nessuna scrittrice ha più vinto lo Strega. Ben quattordici anni di vittorie esclusivamente maschili.

Il periodo più ricco di nomi femminili sembra essere il decennio ’60 e forse non è un caso. Erano gli anni del boom economico e della crescita anche culturale della società italiana: il Paese cambiava pelle trasformandosi in una potenza industriale e anche la condizione femminile conosceva un’evoluzione: di lì a poco riforme epocali, come quella del diritto di famiglia o come le leggi sul divorzio e sull’aborto, avrebbero sancito l’ingresso dell’Italia nella modernità. Anche il Premio Strega, allora, mostrava di accorgersene.

Oggi il suo Albo d’oro rivela non solo una percentuale molto bassa di scrittrici, ma pure che non si sono fatti passi avanti, anzi la prestigiosa istituzione conosce un regresso per ciò che riguarda il gap di genere.

Di chi può essere la responsabilità?

Se consideriamo il fatto che, come è noto, lo Strega è tra i premi italiani quello dove le case editrici influiscono maggiormente sui risultati, abbiamo un indizio forte.




A Torino da Natalia

Via Morgari 11, Torino. Ore 17.30.
Scorro rapidamente con lo sguardo i tanti nomi sul citofono. Eccolo: Levi – Ginzburg.
– Quarto piano!
Dal pianerottolo sotto l’ultima rampa di scale intravedo la sua figura che mi aspetta sulla soglia, appoggiata con la schiena allo stipite della porta.
– Entra cara, accomodati. Ho già messo su il caffè.
Chiude il portone alle mie spalle e a me sembra quasi di incontrare l’autrice insieme al suo personaggio prediletto. D’altronde questa casa è la vera protagonista di “Lessico famigliare”: queste pareti hanno assistito alla storia della famiglia Levi e hanno origliato i più straordinari incontri tra gli intellettuali della Torino antifascista.

  • Scusa il disordine… Oggi non ho avuto tempo di sistemare, sono andata a tagliarmi i capelli.
    Se mi vedesse mio padre gli verrebbe un colpo!
  • Ma sta benissimo, perché dice così?
  • Mi è bastato vedere la reazione che ha avuto quando mia madre è tornata a casa con i capelli corti… Una tragedia greca, mi creda! Mio padre era un uomo d’altri tempi, un professore molto rispettato, inserito nel circolo degli intellettuali di Torino, ma era anche un grande despota all’interno della famiglia. Aveva le sue manie e pilotava tutti noi in base alle sue innumerevoli fissazioni.
  • E perché si arrabbiò così tanto quando sua madre si tagliò i capelli?
  • Perché lo vedeva come un simbolo di emancipazione, di rottura con la tradizione. Quest’odio per i capelli corti cominciò a diffondersi nel primo ventennio del Novecento, quando le donne hanno cominciato a liberarsi dalla prigione dei corsetti, delle sottane e, per alcune, anche dei capelli lunghi. La pretesa di gestire liberamente i propri corpi suscitava nelle famiglie delle vere e proprie tragedie, così è stato anche nella mia.
  • Eppure, dal romanzo non emerge la figura di sua madre come di un personaggio particolarmente eversivo, o sbaglio?
  • Non sbaglia: lungi da mia madre Livia essere una donna eversiva. Si è fatta dirigere a bacchetta da mio padre tutta la vita, assecondando ogni sua singola volontà, ma allo stesso tempo, come tutte le donne della sua età, aveva anche lei cominciato a respirare quelle ventate d’aria nuova che venivano dall’Europa.
  • Le donne dei suoi romanzi sembrano accomunate da una profonda infelicità, da cosa deriva quest’insoddisfazione?
  • Deriva dal fatto che la maggior parte delle mie protagoniste si senta in trappola. Sono donne che vivono un profondo senso di oppressione e che tentano continuamente di fuggire, o meglio di sfuggire all’amore, alla famiglia o a volte anche a sé stesse.

Dall’altra parte però ho dato grande spazio anche all’insoddisfazione maschile, perché credo fermamente che la società patriarcale mieta le sue vittime anche tra gli uomini. È per questo che la lotta per l’emancipazione femminile non dovrebbe tagliarli fuori, ma piuttosto coinvolgerli. A mio parere non deve trasformarsi in una guerra tra sessi.

  • Ho notato leggendo “Lessico famigliare” che tra tutti i grandi personaggi che figurano nel romanzo, la grande assente è forse proprio lei stessa. È effettivamente così o si tratta di una mia impressione?
  • In realtà hai ragione. La premessa a quel romanzo è che non si tratta della mia storia, ma della storia della mia famiglia. Il personaggio di Natalia è preponderante solo in quanto io-narrante, ma sono senza dubbio altri i libri in cui ho dato spazio alla mia sfera emotiva. Anche perché, diciamocelo chiaramente, ho passato un’infanzia in cui mi è stata preclusa qualsiasi possibilità di socializzazione, sono stata una bambina profondamente sola. L’essere tenuta così riguardata ha generato l’assimilazione della mia intera esistenza alla mia famiglia e a queste mura, ho imparato sin da piccola a convivere con un profondo senso di vuoto.

E così, seguita dall’eco della sua solitudine, varco lo stesso portone che chissà quante volte hanno aperto Einaudi, Calvino, Morante e Pavese, prima che Torino mi riscagli in faccia il suo asettico gelo invernale.

 

NATALIA GINZBURG: nata da Giuseppe Levi e Lidia Tanzi a Palermo nel 1916, trascorse l’infanzia e l’adolescenza a Torino, in un ambiente intellettuale e antifascista.
Una vita costellata di profonde tragedie personali, compresa la morte di entrambi i coniugi (Leone Ginzburg nel 1944 e Gabriele Baldini nel 1969), che non riusciranno però a fermare la grande produzione letteraria di Natalia. Tra le sue opere più amate dai lettori troviamo “La strada che va in città”, “Lessico Famigliare” e “La famiglia Manzoni”.
Si impegnò in politica a partire dagli anni ’70, tanto da essere eletta al Parlamento nelle liste del Pci nel 1983.
Morì a Roma nel 1991.




Scrittrici e premi letterari

Come è noto (e come confermano gli ultimi dati Istat) in Italia le lettrici sono più numerose dei lettori. Tuttavia non sembra che le donne siano così ben accette nell’ambiente della letteratura. Non è un’affermazione avventata: si fonda su quanto osservava un editore italiano, Luigi Spagnol (un addetto ai lavori, quindi, assai qualificato), in un articolo dal titolo “Maschilismo e letteratura. Cosa ci perdiamo noi uomini”, comparso nell’ottobre del 2016 in www.illibraio.it , articolo cui erano seguiti parecchi altri contributi, sullo stesso argomento, ad opera di Michela Murgia, Valeria Parrella, Giusi Marchetta e altre.

“Il mondo letterario e la società in generale – si chiede l’autore nell’articolo citato –  riconoscono alle opere scritte dalle donne la stessa importanza che viene riconosciuta a quelle scritte dagli uomini? Siamo altrettanto pronti, per esempio, a considerare una scrittrice o uno scrittore dei capiscuola, ad accettare che una donna possa avere la stessa influenza di un uomo sulla storia della letteratura?”

La risposta è no, e il numero insignificante di presenze femminili negli albi d’oro dei grandi premi letterari  – Nobel, Goncourt, Booker, Strega, Pulitzer –  dove le donne sono un quinto degli uomini, non fa che confermare questa intuizione.

La cosa strana, continua Spagnol, è che i numerosi libri scritti dalle donne hanno un gran successo di vendite, soprattutto all’estero, il che significa che le scrittrici sono più in sintonia con il pubblico, però non godono, nell’ambiente della critica letteraria e dell’editoria, della stessa considerazione dei loro colleghi maschi. La letteratura “alta” continua a essere dominata dagli uomini. Questa esclusione, conclude l’autore, può essere spiegata solo con il maschilismo perdurante nel mondo letterario, atteggiamento che mira a conservare i privilegi (potere, controllo, denaro, autostima) che gli uomini detengono da sempre e che rifiutano di spartire. Ma è un’operazione che ha un costo: la rinuncia ad arricchire il proprio orizzonte culturale con tutto un bagaglio di pensieri e sentimenti di cui le donne sono portatrici.

Si tratta di un articolo particolarmente significativo proprio perché scritto da un uomo. E da un uomo che non solo ha la lucidità di interrogarsi su un fenomeno che è sotto gli occhi di tutti e tutte senza essere riconosciuto, ma che si rende conto delle conseguenze negative  di questo stato di cose e ha il coraggio di dichiararlo.

E qual è la situazione in Italia? Quante donne hanno ottenuto il massimo riconoscimento nei premi letterari di casa nostra? Quante scrittrici hanno vinto lo Strega, il Viareggio, il Campiello? Quante sono state premiate al Bagutta, al Bancarella, al Calvino? Quando? E con quali opere?

Sarà l’oggetto di una ricerca i cui risultati compariranno su queste pagine prossimamente.




Attualità di “Violetta la timida” (terza parte)

Così la ex timida Violetta viene scelta come portavoce delle compagne e l’Autrice descrive una trasmissione della tv di quegli anni in cui i microfoni erano appesi al collo delle cosiddette “giraffe” piccole gru montate su un carrello guidato da un tecnico in camice bianco, che portavano il microfono sulle teste di chi doveva parlare. Su altri carrelli erano trasportate le ingombranti telecamere, il regista faceva accendere e spegnere le luci e tracciava cerchi a terra per indicare a ognuno il suo posto.

Il civile dibattito che vede impegnata da un lato Violetta e dall’altro i professori, moderato da un pedagogista, si conclude con la schiacciante vittoria dei professori stessi che con valide ragioni contestano tutte le obiezioni indicate dalle allieve di cui Violetta si fa portavoce. D’altra parte i ragionamenti sono inoppugnabili e la stessa ragazzina deve ammettere che gli insegnanti hanno pienamente ragione. Così vengono rapidamente smontate le obiezioni fatte dalle allieve.

Non sono troppi i compiti assegnati da svolgere a casa o durante le vacanze, ma il vero problema è la mancanza di metodo da parte delle allieve che tendono a rimandarli all’ultimo momento col risultato di sentirsi oppresse dalla mole dei compiti stessi.

Non è eccessiva la quantità di testi/poesie da mandare a memoria anzi essa in questo modo viene efficacemente esercitata per evitare che si atrofizzi come ogni facoltà non tenuta in esercizio. Del resto lo stesso Italo Calvino raccomandava: “Imparate delle poesie a memoria, molte poesie a memoria; da bambini, da giovani, anche da vecchi.  Le poesie fanno compagnia, uno se le ripete mentalmente e poi lo sviluppo della memoria è molto importante.”.[1]

Non sono i compiti dati per castigo a essere indice di un metodo antiquato per una scuola moderna ma è l’indisciplina delle scolaresche a essere un atteggiamento incompatibile con la presa di coscienza che si auspicherebbe fosse ormai raggiunta dai giovani i quali dovrebbero convenire che a scuola si va per imparare.

Quanto  al fatto che, per la loro giovane età non è giusto che gli studenti siano per tante ore costretti nei banchi e curvi sui libri, riconoscendo che non sempre viene tenuta in giusta considerazione la vivacità propria dell’età, i professori alla fine si impegnano a dare maggior libertà ai ragazzi quanto più dimostreranno di saper studiare razionalmente.

Da un punto di vista pedagogico e di trasmissione dei valori l’Autrice da un lato manifesta una grande modernità prevedendo la possibilità dei ragazzi di esprimere i loro pareri e far valere le loro ragioni ma dall’altro, attraverso un inoppugnabile ragionamento, li porta a convenire che gli insegnanti, e in altre situazioni educative, i genitori e in generale gli adulti con il loro bagaglio di esperienza hanno il ruolo di indirizzare e istruire i giovani pur tenendo conto delle loro necessità e legittime esigenze.

Pedagogia e psicanalisi

L’aspetto psicologico cui si inspira l’Autrice è messo bene in evidenza anche per quello che riguarda la questione, particolarmente di attualità in una classe tutta femminile, dell’abbigliamento e del trucco. Sarà compito dell’insegnante di matematica, la professoressa Cantoni, cercare di conciliare il risvegliarsi dell’istinto femminile di voler essere belle e desiderabili delle sue giovani allieve e l’atteggiamento di genitori e insegnanti in generale che disapprovano queste tendenze.

La classica risposta “non è ancora l’età per queste cose non può essere considerata soddisfacente, troppo debole“ in rapporto alla forza della vanità, del desiderio di apparire che sorge in voi”. D’altra parte le proibizioni degli adulti hanno una loro ragion d’essere ma l’errore è di volerle imporre e di non volerle spiegare. Con fine dialettica la giovane insegnante che si rifà come lei stessa sostiene, a quelle conoscenze di psicologia ormai indispensabili per un buon rapporto con le giovani generazioni, definisce “L’adolescenza un’età che non è più infanzia e non è ancora giovinezza”. Un’età da rispettare senza voler né indulgere negli istinti dell’infanzia né anticipare quelli della giovinezza. Un’età di attesa, una primavera della vita una breve età in cui si è belle senza alcun ornamento, un’età invidiabile di naturale eleganza e agilità. Per bocca della docente parla la stessa Autrice che attraverso questo personaggio esprime le sue personali opinioni dettate da un sano buonsenso e da saldi principi morali espressi in modo analogo in altri suoi romanzi quasi tutti imperniati su personaggi di giovinette che si trovano a vivere le contraddizioni e gli entusiasmi di quell’età definita “terra di nessuno” che è l’adolescenza.

Consigli e suggerimenti

In pratica qual è il metodo segreto perché Violetta, Terenzio e i tanti timidi, disseminati nel romanzo riescano a superare le loro paure e a diventare sicuri di sé recuperando l’autostima che tante circostanze ed anche tanti atteggiamenti di critica da parte degli altri avevano contribuito a distruggere? Semplicemente, come dice la Signora A, affrontare ogni situazione che intimorisca o faccia soggezione, affrontare le proprie paure, imporsi di fare esattamente quello che si teme di fare. Che si tratti di chiedere all’insegnante di matematica di spiegar più lentamente le lezioni, di ottenere il permesso di invitare le amiche a casa per una festicciola, farsi portavoce delle compagne nell’incontro studenti- professori, o affrontare il primo servizio giornalistico intervistando alcune compagne e compagni di scuola l’importante è non tirarsi indietro, mai.

In questo modo la ex-timida Violetta si prepara a un futuro di giovane donna consapevole delle proprie capacità e pronta ad affrontare quello che la vita vorrà riservarle.

Conclusioni

Il personaggio di Violetta, che ha conquistato negli anni Sessanta un’intera generazione di adolescenti timide, ha mantenuto intatta la sua attualità.

Nonostante siano mutati i tempi e gli scenari in cui si svolgono le vite dei giovani di adesso, alcuni atteggiamenti dell’essere umano sono sempre uguali e sempre lo saranno. La timidezza, la mancanza di autostima si riscontrano anche nelle generazioni del XXI secolo malgrado comportamenti più o meno aggressivi per cercare di mascherarli.

Il rimedio, che consiste nel vincere la timidezza imponendosi di fare le cose che si teme di dover fare, è qualcosa di cui l’Autrice parla per esperienza personale se pensiamo che lei stessa, poco più che adolescente (aveva sedici anni) affrontò un viaggio a Milano e la difficoltà di chiedere e ottenere un colloquio con il direttore del Corriere della Sera Luigi Albertini per sottoporgli una sua novella sorretta dalla determinazione che le veniva dal desiderio di realizzare il suo sogno di diventare giornalista e scrittrice.

Una lettura attenta della biografia di Giana Anguissola dei suoi numerosi racconti, novelle e romanzi sia per adulti che per ragazzi, dei molti articoli pubblicati su vari giornali dell’epoca, dalla Domenica del Corriere a Libertà ecc. ci fanno capire in che ricco panorama di esperienze personali, conoscenze culturali, si siano maturate le sue profonde convinzioni e siano scaturiti i suoi insegnamenti validi per tutte le stagioni.

E sono le avventure di Violetta, ma anche delle varie Priscilla, Giulietta, Marilù, Pierpaola, Giana, eroine di tanti romanzi, che testimoniano la volontà dell’Autrice, attraverso quella che si può considerare la vita normale di normalissime ragazzine di varia estrazione sociale, di dare delle linee guida di comportamento che possano aiutare nella delicata fase della crescita le giovani protagoniste e, attraverso di loro, le giovani lettrici.

Un intento e una volontà che, a distanza di oltre sessant’anni dalla morte della scrittrice piacentina, e con tutti i cambiamenti che si sono verificati nella Società, mantiene ancora una sua intramontabile attualità.

 

 

[1] In un’intervista nel libro di Alberto Sinigaglia Vent’anni al Duemila Eri, Torino, 1982.




La nonna di Emiliano

Denotare il romanzo L’ospite di Lalla Romano, uscito nel 1973, come la vicenda dei giorni che il nipote neonato della scrittrice trascorre presso di lei, mentre i genitori sono in viaggio in Nepal, significa indurre immediatamente all’incomprensione di questo scritto breve e densissimo. Ben presto, infatti, la nonna, che ha accolto, con terrore e insieme con desiderio, la notizia dell’arrivo del piccolo Emiliano, ci dice esplicitamente che la lunga, eppure troppo breve, visita del bambino è in realtà l’epifania di un dio, dopo la quale le vite di coloro che lo hanno accolto non saranno più le stesse.

Malgrado il piccolo ospite sia figlio di Piero, il rapporto con lui per la nonna non è proiezione, tentativo di recupero, dell’amore, più antico e fallito, con Piero, la cui dinamica di sistematica frustrazione ed elusione dell’amore materno è narrata, dalle origini e fino alla prima maturità del figlio, nel romanzo Le parole tra noi leggére, ed è confermata ne L’ospite, immediatamente successivo. Già prima che Emiliano arrivi come ospite, appena nasce, la nonna sente che la sua esaltazione, la sua gratitudine sono dovute al fatto che Emiliano è Emiliano, lui stesso amato per sé stesso.

L’arrivo del neonato, più che quella degli altri abitanti della casa, il nonno Innocenzo, attento, sensibile e pensoso, la perspicace cameriera Rachele, sconvolge la vita della nonna. Durante la sua permanenza di quaranta giorni, “una quaresima”, Lalla non legge più, non scrive più, la sua scrivania di lavoro, ingombra di carte e pile di libri ormai inutili, è occupata da camomilla, acqua, pappa. Ma, nel suo nuovo ruolo di accudimento, l’intellettuale spodestata misura la propria goffaggine nelle faccende materiali e vive smacchi affettivi dolorosi, sconta, in realtà, un suo peccato originale verso il giovane dio: il calcolo di riservare a sé il ruolo di nutrirlo la notte per essere riconosciuta da lui e amata. Per orgoglio, non solo trascura il momento umile della preparazione della pappa, che induce per più giorni un errore nell’approntamento dei biberon, ma, sconfitta ben più dolorosa, il ruolo che si è ritagliata le sembra porti il bambino a vedere in lei soltanto la nutritrice, mentre la sua scelta affettiva, di rapporto, ricade piuttosto su Innocenzo e Rachele. Lalla accetta la dura punizione, che ritiene di aver meritato per il suo calcolo “criminoso”. Ma ben presto avviene una svolta: ella inizia “a fare”, per garantire cure umili e necessarie al bambino. Con estrema attenzione, senza mai entrare in automatismi, prepara pappe, frulla, passa.

Emiliano è un dio bellissimo, senza particolari graziosi o leziosi, è pieno di maestà e dignità, “un Mantegna”, è pure sereno e ineffabile come un Buddha, ride come un dio antropomorfo, ma, ancora, è divinità ancestrale, polimorfica: chiocciola, tartaruga, cetonia, marmotta, canta come un gallo e come un usignolo, sta teso in ascolto come un cane, a volte ha un piccolo ghigno di gatto, i suoi ditini scompigliano l’acqua come le ombrelle delle ortensie. Emiliano è un dio benigno, un salvatore. I nonni rincasano col bambino dopo una passeggiata. Lalla esce per prima dall’ascensore sullo stretto pianerottolo e nel muoversi col passeggino mette un piede nel vuoto, È di spalle alla ringhiera, tuttavia, riesce ad afferrarla e, mentre comprende di essere salva, vede alti sopra di sé il marito con il bambino in braccio. L’impressione che ne riceve è che siano stati loro, l’uomo col Bambino raggiante, a salvarla.

In uno tra i numerosi flash back del romanzo, ci vengono mostrati l’amore assoluto e la felice confidenza fisica tra il bambino e la propria madre. È innanzitutto per lei, Marlène, che l’amore della nonna paterna patisce una gelosia tormentosa, quella che Pasolini descrisse così acutamente in una tempestiva recensione del romanzo, forse la più nota.

La nonna, nella sua attenzione spasmodica sull’”essere più amato”, nota che Emiliano per strada è attratto dalle ragazze “bionde dai capelli sciolti a ciocche diseguali”, le osserva assorto e lei, con gioia insieme e pena, comprende che gli ricordano Marlène. Anche stavolta la gelosia di Lalla è priva di recriminazione e amarezza, è subito rassegnata, finanche lieta e grata, umile, come improntato all’umiltà, alla reverenza, alla gratitudine e alla consolazione è tutto il suo rapporto col bambino, carattere questo di cui ella ha consapevolezza fino a scrivere: “Mi domando se non avessi il<<complesso della schiava>>. E quand’anche?”.

Ma arriva fin troppo presto il momento in cui torna colei che Emiliano ama sopra tutti, cui appartiene totalmente e che totalmente gli appartiene. Con straordinaria grazia e naturalezza la coppia si riunisce. “Emiliano si volse a sua madre, ma come per scherzo. Lei non lo abbracciò né lo toccò. Lui si sporse verso di lei, che lo prese, poi si rivolse a Rachele, e tornò con lei; ma subito dopo tornò a voltarsi a Marlène. Così rimase con lei.”

Alla fine dell’estate successiva, Emiliano, che ha quasi due anni, torna nella casa dei nonni. Appare subito evidente che la riconosce, ne cerca pensoso e intento gli angoli già noti e praticati, ma non è più un dio, adesso, “Ora è soltanto umano. Prevale sempre la gioia in lui, ma non è più olimpica.”. È la saggia Rachele che, testimone della nuova esplorazione, come lo era stata della visita dell’anno precedente, suggella la fine irrecuperabile di un tempo favoloso con parole solenni: “- Emiliano, – disse, – si ricorda della sua giovinezza.”