COLAZIONE CON ELSA MORANTE

Se c’è un quartiere di Roma in cui ancora sopravvive la veracità romana, quello è Testaccio.
Nonostante i locali, i negozi e la vita notturna, addentrandomi per le vie del rione mi sono sempre sentita sospesa in una realtà parallela fuori dal tempo.
C’è un bar sulla piazza, con qualche tavolino all’esterno che dà su Santa Maria Liberatrice, di fronte ai giardini. È lì davanti che aspetto Elsa Morante1. Questa volta sono in anticipo.

– Scusa il ritardo, ‘sta città più passa il tempo, più è trafficata.
– Si figuri, anzi, grazie di aver accettato di incontrarmi.
– Cappuccino e cornetto, come da tradizione?

Ho già fatto colazione, ma un cornetto con la Morante è impossibile da rifiutare.

– Amo moltissimo i suoi romanzi, “L’isola di Arturo” è stato un grande compagno di viaggio nella mia adolescenza. Da cosa ha tratto ispirazione per raccontare l’età di transizione?
– Mi ricordo che da piccola, quando accompagnavo mio padre Augusto a lavorare nell’istituto di correzione, rimanevo ammaliata da questo mondo in cui i ragazzi vivevano in una situazione di collettività, di perenne gioco e confronto. Non era un luogo particolarmente felice, ma ai miei occhi sembrava meraviglioso e stimolava moltissimo la mia creatività.
Arturo, come tutti gli adolescenti, è prigioniero di un metamorfismo incontrollabile. Man mano che cresce, crollano tutte le sue certezze, riemergono ferite e lutti del passato, si frantuma l’immagine idealizzata che aveva di suo padre.
Crollano i miti e fioriscono le insicurezze. Sono le tipicità di quella che hai giustamente definito età di transizione, in cui ci si prepara per lanciarsi nel mondo degli adulti. È un limbo, per alcuni infernale, ma fuori dal quale “non v’è Eliso”, come ho scritto nella dedica del romanzo.

– Ascoltando le sue parole non posso far a meno di cogliere dei riferimenti alla sua storia personale.
– Questo è chiaro, i dolori di Arturo sono in parte stati anche i miei. C’è molto di me in quel libro.
– Allora perché ha dato voce a un ragazzo e non a una ragazza?
– Non ti nascondo che in fondo in fondo avrei sempre voluto essere un uomo.
Mi è mancata molto quella dimensione giocosa e infantile che si è sempre presentata davanti ai miei occhi come un privilegio riservato al genere maschile.

– Altra grande protagonista, oltre ai ragazzi, è la figura materna, non trova?
– Assolutamente sì. Ho posto al centro di moltissimi dei miei romanzi il legame madre-figlio.
L’universo femminile nei miei libri è fondamentalmente spaccato a metà, tra l’affermazione, a volte sofferta, della propria maternità e la tensione verso l’amore e la passione. Questi ultimi sono intrappolati però in un momento di sogno, destinato a infrangersi nella dura realtà. Ida, protagonista de “La storia”, ne è forse l’esempio più calzante.
– Anche per lei l’amore e la passione hanno sofferto nello scontro con la realtà?
– Io ho amato senza mezzi termini, tutte le volte. Lo saprai… La mia vita privata è, mio malgrado, sulla pubblica piazza. Delusione dopo delusione, sono arrivata a covare dentro di me una profonda infelicità; ma preferirei non parlarne, se non ti dispiace.

Per la prima volta dall’inizio del nostro incontro stacco gli occhi dai miei appunti e incrocio il suo sguardo. Vale più di mille parole: le leggo dentro una vitalità bruciante che fa la lotta con una selvatica, autodistruttiva insofferenza. Ho davanti Arturo.

1 Elsa Morante è nata a Roma nel 1912. È stata una delle principali letterate italiane del dopoguerra, donando al mondo capolavori come “L’isola di Arturo” e “La Storia”.
Fu la prima donna a vincere il Premio Strega, nel 1957, consacrandosi come una delle più importanti narratrici di tutti i tempi.
Dopo un lungo periodo di infermità, tentò il suicidio nel 1983. Morì nel 1985, in una clinica romana.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 




Attualità di “Violetta la timida” (seconda parte)

Gli stessi principi pedagogici li ritroviamo applicati dalla giovane insegnante di matematica, la signorina Cantoni, che non è per i metodi disciplinari coercitivi, che ritiene superati, ma per l’attenzione spontanea che fa dell’insegnane un’amica e non uno spauracchio. Anzi, a suo dire  il linguaggio delle nuove insegnanti è che «il sapere deve tener conto della sensibilità della materia che lo deve assorbire. Gli allievi non sono macchine ma creature umane differenti l’una dall’altra e non bisogna mai dimenticarsene.»[1] Inutile dire che un metodo del genere, un approccio di tale sensibilità soprattutto nei confronti delle più deboli in matematica, da presto i suoi frutti. L’atavica paura, il diffuso pregiudizio che chi va bene nelle materie letterarie abbia  “l’idiosincrasia” per i numeri sono rapidamente superati;  le allieve si avviano a trarre profitto da lezioni che prima seguivano con noia e grande fatica in un’atmosfera di reciproca collaborazione perché, come sostiene la stessa insegnante «Non è con le più brave che deve tenere il ritmo, il passo una classe ma con le più deboli …. Le altre dovranno aiutarle al fine di recuperarle per marciare quindi tutte  assieme verso un buon risultato finale.»[2]

Concezione della scuola

Altro argomento di grande attualità presente nel romanzo è la concezione della scuola vista come “elemento importantissimo per la formazione morale ed intellettuale dei giovani” che «non può rimanere sempre la stessa ma deve rinnovarsi e progredire col mutare e progredir dei tempi

Teniamo presente che il romanzo è ambientato negli anni ’Sessanta, quando era fondamentale il concetto di disciplina e di autorità (per non dire autoritarismo). Un’epoca in cui c’era una rigida divisione tra classi maschili e femminili (spesso con ingressi e palestre separate tra ragazzi e ragazze), dove si puntava moltissimo ad esercitare la memoria e ci si basava prevalentemente sul nozionismo, ove i programmi erano ancora quelli della Riforma Gentile  del 1923[3].  La riforma, che porta il nome del filosofo neoidealista Giovanni Gentile che la elaborò in collaborazione con il pedagogista e filosofo Giuseppe Lombardo Radice, era rimasta in vigore fino al 31 dicembre 1962. In quella data il Parlamento abolì la scuola di avviamento professionale istituendo la cosiddetta Scuola Media Unificata.  Da allora si susseguirono una serie di riforme che hanno preso il nome dai vari Ministri della Pubblica Istruzione che le promulgarono. Queste riforme hanno operato modifiche sulla durata del percorso scolastico, hanno portato alla liberalizzazione degli accessi alle varie Facoltà Universitarie (prima solo il diploma di Liceo Classico consentiva l’iscrizione a tutte le Facoltà mentre con il diploma di Liceo Scientifico si poteva accedere solo alle Facoltà Scientifiche),  all’abolizione  dell’insegnamento della lingua latina nella scuola dell’obbligo, alla condanna della selezione classista, evidenziata da Don Milani nella sua Lettera ad una Professoressa del 1967, alla presenza nella vita della scuola di rappresentanze dei genitori, del personale ATA e degli studenti, ad un rinnovamento dei  cicli scolastici e della durata degli stessi, ad una modifica relativamente allo  svolgimento degli esami di maturità, fino ad arrivare alla Riforma cosiddetta della Buona Scuola del 2015 in cui si è voluta mettere al centro l’autonomia scolastica, e auspicare  una più ricca offerta formativa che privilegi materie quali Musica, Arte, Lingue, Competenze digitali ed economiche e coinvolga l’intera comunità scolastica .

Le successive trasformazioni in campo scolastico attuate dalle riforme che si susseguirono erano impensabili all’epoca del romanzo eppure l’Autrice, precorrendo i tempi,  immagina che , per arrivare ad una scuola che “ ….risponda man mano alle esigenze delle nuove generazioni a cui si rivolge:” si organizzi in Televisione un incontro fra professori e studenti in cui , in un talk show ante litteram, gli studenti espongano le loro critiche al metodo scolastico sottolineando  quello che approvano della scuola e quello che criticano e gli insegnanti rispondano  durante un’amichevole discussione nel corso della quale si possano sentire le ragioni degli uni e degli altri.

L’Autrice conosceva bene il mezzo televisivo che considerava, come anche la Radio, un nuovo ed importantissimo mezzo di comunicazione in grado di raggiungere un grande pubblico e di cui si dovevano sfruttare le potenzialità.

In radio aveva partecipato a varie tavole rotonde su svariati argomenti relativi all’educazione ed alla crescita dei giovani ed in televisione era stata la sceneggiatrice del primo romanzo a puntate trasmesso dalla tv dei Ragazzi al suo esordio nel 1954 ed intitolato Il Diario di Giulietta.

 

[1][1][1] G. Anguissola, Violetta la timida, Mursia, Milano, 1963p. 154

[2] Ivi, p. 150

[3] La riforma, che porta il nome del filosofo neoidealista Giovanni Gentile che la elaborò in collaborazione con il pedagogista e filosofo Giuseppe Lombardo Radice, era rimasta in vigore fino al 31 dicembre 1962. In quella data il Parlamento abolì la scuola di avviamento professionale istituendo la cosiddetta Scuola Media Unificata.  Da allora si susseguirono una serie di riforme che hanno preso il nome dai vari Ministri della Pubblica Istruzione che le promulgarono. Queste riforme hanno operato modifiche sulla durata del percorso scolastico, hanno portato alla liberalizzazione degli accessi alle varie Facoltà Universitarie (prima solo il diploma di Liceo Classico consentiva l’iscrizione a tutte le Facoltà mentre con il diploma di Liceo Scientifico si poteva accedere solo alle Facoltà Scientifiche),  all’abolizione  dell’insegnamento della lingua latina nella scuola dell’obbligo, alla condanna della selezione classista, evidenziata da Don Milani nella sua Lettera ad una Professoressa del 1967, alla presenza nella vita della scuola di rappresentanze dei genitori, del personale ATA e degli studenti, ad un rinnovamento dei  cicli scolastici e della durata degli stessi, ad una modifica relativamente allo  svolgimento degli esami di maturità, fino ad arrivare alla Riforma cosiddetta della Buona Scuola del 2015 in cui si è voluta mettere al centro l’autonomia scolastica e auspicare  una più ricca offerta formativa che privilegi materie quali Musica, Arte, Lingue, Competenze digitali ed economiche e coinvolga l’intera comunità scolastica.




Con Simone, al Café de Flore

SIMONE DE BEAUVOIR: Nata a Parigi nel 1908, è stata una scrittrice, filosofa, insegnante e femminista francese. Oltre ai capolavori letterari come “Il Secondo Sesso”, “Una donna spezzata” e i quattro volumi di memorie autobiografiche, ne ricordiamo l’instancabile attivismo politico. Fu tra le fondatrici di “Choisir: la cause des femmes” e della “Lega dei diritti della donna”. Morì nel 1986 e fu sepolta nel cimitero di Montparnasse, accanto a Jean-Paul Sartre, compagno di una vita.

Dietro la vetrina del Café de Flore, tra i viali alberati di Saint Germain des Prés, riesco a distinguere chiaramente il profilo di una donna, seduta a un tavolino di legno scuro.

Mi saluta sorridendo attraverso il vetro: sono nel posto giusto.

– Prendi un espresso anche tu? Ci porta due caffè, per favore?

Dopo una stretta di mano molto calorosa, Simone de Beauvoir si risiede sulla panca di pelle rossa e comincia a seguire delicatamente con un dito la trama ruvida del legno.

– Non sai quante delle mie carte sono state qui, io e Jean Paul eravamo clienti abituali di questo caffè. Oltre ad offrirmi un porto sicuro dove scrivere è sempre stato una grande fonte di ispirazione per la mia creatività.

D’altronde, non c’è modo migliore di capire la società in cui si vive che osservare le persone mentre non sanno di essere guardate.

– Anche le carte de “Il Secondo Sesso” sono passate da qui?

– Ovviamente sì. In questo bar, come in ogni luogo che ho attraversato, ho ritrovato il riflesso di una società profondamente misogina. Ho osservato e analizzato tantissime donne diverse e, ai miei occhi, nessuna era meno donna di altre. Mi sono invece resa conto, mi creda, con infinita amarezza, che nella concezione comune una donna che non fosse moglie, o ancor di più, che non fosse madre, era vista come una femmina snaturata.

Si è instaurato sotto la nostra pelle questo apparentemente inscalfibile determinismo biologico applicato ai ruoli sociali. Io non nego che esistano differenze tra i due sessi nella società in cui viviamo, ma ritengo abbiano origine dalla nostra cultura; la natura c’entra ben poco.

Ha un’eleganza nel mettere le parole una dietro l’altra che farebbe rimanere a bocca aperta chiunque: cura e spontaneità così perfettamente calibrate da non lasciare spazio ad alcuna replica.

– Oltre ad aver scritto dei romanzi indimenticabili, so che è stata in prima linea nella lotta per la parità di genere. Guardando il mondo di oggi, quanto è stato fatto e quanto ancora c’è da fare?

– Sarebbe sciocco negare che si sono fatti dei passi avanti, basti pensare che fino agli anni ’70 del secolo scorso, nella stragrande maggioranza dei paesi europei, l’interruzione volontaria di gravidanza era illegale e perseguibile penalmente.

Fondando “Choisir: la cause des femmes” puntavamo a sopprimere le leggi anti-aborto e anti-contraccezioni e, nel frattempo, a difendere e assistere gratuitamente tutte le donne trascinate in tribunale con l’accusa di aborto o complicità con esso.

Dal punto di vista giuridico c’è ancora da fare, ma abbiamo vinto tantissime battaglie.

Al momento l’urgenza più sostanziale rimane, a mio avviso, quella di cambiare mentalità. Possiamo anche risultare pari sulla carta, ma non saremo uguali finché non cominceremo a considerarci effettivamente come tali.

Il cambiamento è necessario che parta in primis da noi, dobbiamo smettere di pensarci come donne spezzate.

  • Anche lei si ritiene una donna spezzata?

– Io credo fermamente che noi donne abbiamo troppo spesso una rappresentazione mentale fuorviante di noi stesse. Si insinua come un tarlo nelle nostre menti la convinzione di aver bisogno di essere tutelate da un uomo, di avere necessità di un maschio accanto per poter essere.

Anche io da giovane sono caduta nella tela del ragno, ma dopo le prime delusioni ho smesso di concedere a un uomo il potere di definirmi.

Comunque, tornando al discorso di prima, se vuoi approfondire meglio la situazione attuale posso presentarti Gisele Halimi, siamo amiche da mezzo secolo e avevo in programma di incontrarla proprio questo pomeriggio.

 – Sarebbe un onore per me, è ancora la presidente di “Choisir”?

– Assolutamente sì, per questo credo possa darti risposte più puntuali delle mie.

E così la seguo, fuori dal Cafè de Flore, verso la fermata del tram. Vorrei imitarne tutto, se potessi: il passo, lo sguardo, le parole, ma mi limito a raccogliere scrupolosamente le briciole di orgoglio che lascia lungo il suo cammino. È una donna che ha imparato ad alzare la testa.

 

 




Micòl Finzi-Contini

Il giardino dei Finzi-Contini narra l’amore della voce narrante anonima per Micòl, ma anche l’intreccio delle amicizie, la vita divisa tra studi, abitudini e riti familiari di alcuni ragazzi di Ferrara, quasi tutti ebrei, che vengono sorpresi e attraversati dalle leggi razziali dell’Italia fascista, che trovano riparo e paradossalmente libertà dall’esclusione nell’orto concluso di due di loro, Micol e il fratello Alberto, ricchissimi e vissuti sempre in un isolamento aristocratico che li tiene per contrasto al centro dell’attenzione nella piccola, tranquilla, solida città. Nel meraviglioso giardino della grande casa, e nel suo campo da tennis, i ragazzi, giocano, parlano, alcuni progettano, malgrado tutto, il futuro. Gli adulti appaiono gentili ed affettuosi, ma in qualche modo distanti e meno consapevoli della catastrofe che sta per abbattersi su un mondo del quale quasi mai mostrano di avvertire la straordinaria precarietà.

Micòl, al contrario, appare più conscia di ogni altro personaggio del futuro incerto e angoscioso. Ella nega il progetto e, negando il progetto, nega l’amore, non solo all’io narrante, che le sembra troppo simile a sé, troppo indifeso per la lotta cruenta che la relazione amorosa le pare richiedere, ma forse anche a sé stessa, che pure forse lo ama e al quale forse preferisce incontri senza progetto col solido Malnate, il giovane comunista, non ebreo, che, lui sì, crede nel futuro, ma che, atroce disinganno, non tornerà più dalla spedizione italiana in Russia.

Micòl sfuggente e misteriosa, Micòl seduttiva e improvvisamente fredda, Micòl saggia e infantile, che sistematicamente spiazza il narratore o ne frustra le attese.

Il romanzo, che muove dal ricordo della tomba monumentale dei Finzi-Contini, arriva improvviso al galoppante epilogo, dove gli anni dalla fine del 1939 al 1943 sono narrati in due pagine, che tuttavia aggiungono quello che dall’Esordio era stato già annunciato, ma non circostanziato, la morte di tutti i Finzi-Contini: di Alberto per tumore, e poi la morte in campo di sterminio di Micol, del padre, il colto e mite professor Ermanno, della madre, la fragile signora Olga, atterrita dai microbi, della vecchissima nonna paralitica, Regina.

Ma a suggello di tutte le vicende, l’io narrante pone le disperate parole di Micòl che dicono la sua indifferenza, anzi la sua repulsione per il futuro: ”Micòl ripeteva di continuo anche a Malnate che a lei, del suo futuro democratico e sociale non gliene importava nulla, che il futuro, in sé, lei lo abborriva, ad esso preferendo di gran lunga “le vierge, le vivace et le bel aujourdhui“, e il passato, ancora di più, “il caro, il dolce, il pio passato.”, verace profetessa dell’orrore che stava per travolgere lei e i suoi più cari insieme ad un intero mondo.




Eugenia di Anna Maria Ortense

Nel 1953, per i tipi di Einaudi, nella Collana “I Gettoni”, diretta da Elio Vittorini, appare un libro sul quale da allora e poi ancora fino a tempi recentissimi, si è riversata la critica aspra e, lo dico subito, incomprensiva e a volte strumentalmente ostile, del mondo intellettuale napoletano.

Il titolo stesso della breve raccolta di racconti, cinque soltanto, Il mare non bagna Napoli, è apparso e tuttora appare come una provocazione intollerabile a chi si è ostinato in passato e persiste oggi nel vedere nella città del libro un’immagine realistica e provocatoria verso la classe intellettuale della città, quella classe molto fortunata, politicamente e sul mercato pubblico e librario, la classe di Luigi Compagnone, Raffaele La Capria, Michele Prisco, Domenico Rea e di alcuni loro ideali eredi, primo fra tutti Erri De Luca.

A ben poco servì l’apprezzamento più generale, che valse all’opera il Premio Viareggio, la città  disconobbe ed escluse Ortese, che ben presto andò via per sempre da quella Napoli in cui non era nata, ma che aveva eletto a sua propria città. A queste ragioni va ricondotta la solitudine morale e materiale in cui ella visse poi per sempre, ostracismo da una parte e sua delusione e paura del mondo intellettuale che, dopo averla accolta nell’immediato caotico dopoguerra di Napoli, dopoguerra, pure animato da speranze e tentativi di riscatto politico, morale e civile, prima ancora che sociale ed economico (e forse fu anche questo un grave errore, una debolezza del tessuto della città e del Mezzogiorno tutto) per esempio anche con l’operazione della rivista “Sud”, fecero cadere su di lei attacchi, ma subito dopo una ancor più violenta “congiura del silenzio”, sì che oggi davvero pochi sono i napoletani che la conoscono, se non vagamente, e i più quelli che non conoscono il suo amore, mai dimenticato, ma anzi ribadito in quasi ogni altro suo libro, per quella che è forse una delle più contraddittorie città del mondo.

Il primo racconto della raccolta, Un paio di occhiali, apre sul tema che sottostà in realtà all’intero libro quello dello sguardo prima velato, poi aperto nitidamente sulla città. La piccola Eugenia, poverissima bambina quasi cieca, vive nella parte più povera della città, fra umiliazioni, fame, botte sempre immeritate, nella sua famiglia, dove la durezza delle parole e dei comportamenti della maggioranza dei miseri adulti non è cattiveria, ma esasperazione per un’ingiustizia che patiscono senza riconoscerla. Il mondo appare ad Eugenia attraverso un velo, nel quale colori e luci a volte intravisti le fanno credere che il mondo dev’essere pur bello finalmente il suo desiderio di ‘chiarezza’ può realizzarsi perché la zia Nunziata che ha un po’ di denaro da parte si offre di comprarle gli occhiali. Nunziata è la sorella del padre di Eugenia, zitella che vive con Eugenia, i suoi genitori e i due fratelli piccoli (le sorelle grandi sono state avviate alla monacazione),  nel piccolissimo basso, umido e sporco che affaccia su un cortile pieno di tanta altra umanità sofferente e ferita nel corpo e nell’anima da una povertà senza speranza di riscatto, mentre ai piani alti stanno i signori egoisti e privi di pietà, loro sì, davvero ciechi sul mondo.

Eugenia esce con la zia, manesca e brusca, e con lei si reca a via Toledo, una strada di signori, dove, dopo la visita oculistica, l’ottico poggia sul naso della bambina, emozionata e con le gambe che le tremano, le lenti correttive a lei adatte. E la bambina guarda fuori e il mondo che vede appare pieno di luce e di colori, le signore dai capelli lucenti come l’oro sedute ai bar della strada, le vetrine degli altri negozi piene di abiti dalle stoffe fine fine, financo le persone che passano nei grandi autobus verdi sono ai suoi occhi elegantissime, il mondo è bello, si dice Eugenia, è bello assai.

Quasi in estasi, umilmente grata alla zia che brontola per la spesa enorme di ottomila lire a cui si è impegnata, Eugenia torna a casa, e piena di ansia gioiosa attende gli otto giorni che ancora la separano dalla consegna degli occhiali, senza curarsi delle botte della zia, delle allusioni cattive della signora del palazzo, delle umiliazioni quotidiane che nulla e nessuno le risparmiano, a lei, come agli altri abitanti dei miseri tuguri della città che per quelli come lei non ha sole né mare. E finalmente il giorno atteso arriva. Sarà la mamma, pur malata e piena di dolori per la spaventosa umidità del misero tugurio che per loro è casa, a recarsi a ritirarli. Al suo ritorno, non solo Eugenia, ma tutta la famiglia e tanti vicini dei bassi, informati dell’evento si affollano intorno alla madre e alla bambina. Rosa, la madre, entrata nel basso, estrae dall’astuccio gli occhiali, che appaiono come uno strano insetto e li inforca alla figlia … che subito prende a tremare, vede piccolo piccolo e tutto nero…vacillando esce nel cortile, senza provare più gioia, anche se si sforza di sorridere, ma le affiora sul volto pallidissimo una smorfia ebete.

Improvvisamente i balconi cominciarono a diventare tanti, duemila, centomila; i carretti con la verdura le precipitavano addosso; le voci che riempivano l’aria, i richiami, le frustrate, le colpivano la testa come se fosse malata; si volse barcollando verso il cortile, e quella terribile impressione aumentò. Come un imbuto viscido il cortile, con la punta verso il cielo e i muri lebbrosi fitti di miserabili balconi; gli archi dei terranei, neri, coi lumi brillanti a cerchio intorno all’Addolorata; il selciato bianco di acqua saponata, le foglie di cavolo, i pezzi di carta, i rifiuti, e, in mezzo al cortile, quel gruppo di cristiani cenciosi e deformi, coi visi butterati dalla miseria e dalla rassegnazione, che la guardavano amorosamente. Cominciarono a torcersi, a confondersi, a ingigantire. Le venivano tutti addosso, gridando, nei due cerchietti degli occhiali.

Eugenia non regge e vomita, vomita fino a non avere più nulla nel povero stomaco affamato. E nello sconcerto generale, nella pena della madre e della zia, nelle parole di conforto della vicina, si leva la voce afferrata della bambina, che di nuovo senza  occhiali, che provvidamente una vicina, donna Mariuccia, le ha tolto, si aggrappa alla madre e le chiede perdutamente <<Mammà, dove stiamo?>>, quasi tutti sorridono di sollievo: è mezza cecata, è mezza scema. Solo donna Mariuccia, ancora lei, capisce, è la sola che sa dare parole di comprensione alla sua amarezza:<<Lasciatela stare, povera creatura, è meravigliata>> fece donna Mariuccia, e il suo viso era torvo di compassione, mentre rientrava nel basso che le pareva più scuro del solito.

Insieme ad Eugenia, amaro nome, così in contrasto con la nascita e il destino di questa creatura atrocemente indifesa e deprivata,  Ortese apre gli occhi sulla città, ma quel che vede non permette una visione, un’analisi, razionale, non sembra profilarsi soluzione: la città distorta e spaccata fra bellezza e orrore, altera lo sguardo, dà il capogiro, angoscia e spezza. E’ la Napoli del secondo dopoguerra, già tradita dalla sua classe politica e intellettuale, quella che nei decenni successivi, ha più volte tentato un riscatto, fra luci e ombre, speranze brevi e delusioni amare, una città che ancora oggi ci appare nella sua bellezza, nelle sue zone di miseria, una luogo difficile in cui vivere, dove ancora tanti ogni giorno si inventano la giornata, sono delusi, a volte obbligati alla fuga: giovani intellettuali e professionisti, operatori degli affari, del mondo informatico ed editoriale, operai specializzati.

Oggi i tempi per una più attenta e, vorrei dire, riconoscente lettura dell’intera opera di Ortese sembrano maturi.

 

 




Un tè con Virginia

VIRGINIA WOOLF: Nata a Londra nel 1882, fu una delle principali scrittrici del XX secolo.
Impegnata nella lotta per la parità dei sessi, coniugò attivismo ed elaborazione letteraria in opere come “Una stanza tutta per sé” e “Le Tre Ghinee”.
Morì suicida nel fiume Ouse nel 1941.

Salendo le scale mobili di King’s Cross Station, non posso fare a meno di notare, tra la frenesia dei passanti, una donna impellicciata, con i capelli raccolti in una crocchia un po’ all’antica e uno sguardo inconfondibile: non può essere che lei.

– Signora Woolf? È un onore conoscerla, sono la giornalista con cui ha parlato al telefono.
– Piacere, mia cara. Sbrighiamoci, un taxi ci sta aspettando.

Siamo dirette a Gordon Square, nel cuore di Bloomsbury, dove Virginia si trasferì dopo la morte dei genitori.

– Lo vede il civico 46? Quella è la prima casa che ha accolto me, Vanessa e i miei fratelli, prima di trasferirci più in là nel quartiere. È stata uno dei punti di ritrovo del Bloomsbury Group… Un via-vai che neanche si immagina.

Sedute al tavolino di un caffè, al centro della piazza, la signora Woolf mi sembra alquanto distratta. I suoi grandi occhi guizzanti sono carichi di una curiosità travolgente e ora capisco perché incutesse tanto timore agli uomini del suo tempo: non dev’esser stata una donna che aveva paura di fare domande scomode.
Peccato che il suo sguardo curioso non si accenda con la nostra conversazione. Avvolta dai fumi di un tè nero bollente non distoglie un attimo quel piglio quasi accigliato dalla vetrina del bar, come se una patina di smarrimento, che assomiglia molto a una profonda delusione, fosse calata sulle sue pupille.

– Mi diceva del gruppo Bloomsbury, cosa ricorda di quel per… Signora Woolf? Cos’è che attira così tanto la sua attenzione lì fuori?
– Tutto questo inesprimibile, rumorosissimo vuoto.
– In che senso? A me sembra un quartiere pieno di vita!
– Vede, è proprio questo che intendo. Lei percepisce un quartiere pieno di vita, io invece vedo un senso d’inadeguatezza spesso come un muro di cemento e sento risate pronte a infrangersi al suolo e rompersi in mille pezzi, proprio come questa tazza da tè. Vedo tante Mrs. Dalloway lì fuori, tutte pronte a dare feste per coprire il silenzio delle proprie vite.
– La Mrs. Dalloway del suo romanzo era una donna paralizzata dalle convenzioni e dalla sterilità delle relazioni umane. In che modo crede che la rigidità degli schemi e dei ruoli sociali del suo tempo abbiano influito sulle opportunità culturali ed editoriali delle donne?
– L’educazione e il sistema di valori nel quale le donne dell’inizio del secolo scorso erano inserite hanno inciso significativamente sulla loro effettiva possibilità di diventare scrittrici. Il talento senza istruzione non va da nessuna parte e le assicuro che anche nella società borghese ed altolocata, ai miei tempi, non era affatto scontato che le ragazze potessero studiare. La subordinazione socio-economica delle donne rispetto agli uomini, che fossero padri o mariti, era un dato di fatto.
– Se dovesse darmi un consiglio per il mio futuro editoriale, cosa mi direbbe?
– Cara, ti direi di andare per la tua strada. Non aggrapparti mai al braccio di un uomo e lotta per la tua indipendenza. Una donna, per poter scrivere, ha bisogno di “una stanza tutta per sé” e di non dipendere da nessuno.

Alzo gli occhi dagli appunti, pronta per riversare su di lei tutte le domande che questa sua riflessione mi ha suscitato, ma purtroppo il nostro tempo è finito.

– Ora devo andare cara, il treno per Rodmell parte tra un quarto d’ora e Leonard mi aspetta per cena. È stato un piacere incontrarti, buona fortuna per il tuo libro!

Seguo i suoi passi sempre più lontani, ancora una volta incredibilmente tesi tra una decisione spiazzante e l’incertezza di chi si sente fuori posto.




Attualità di “Violetta la timida” (parte prima)

Introduzione

Un romanzo secondo la definizione di Italo Calvino,[1]  si può considerare classico quando ha ancora tanto da dire ai suoi lettori. Questo vale sia nel caso di romanzi per adulti che nel caso di romanzi per ragazzi.

Rileggendo il romanzo di Giana Anguissola, “Violetta la timida” scritto nel 1963 e che vinse il Bancarellino nel 1964, ci si può rendere conto dell’assoluta validità di questa definizione.

Il romanzo è ambientato nella Milano degli inizi degli anni  Sessanta , e parla delle avventure di una ragazzina di tredici anni, Violetta Mansueti, di una famiglia di media borghesia composta da un padre, una madre ed un fratello più grande, che frequenta una seconda media ( rigorosamente tutta femminile) e che si trova ad affrontare ogni giorno il problema della sua congenita timidezza ( o come lei dice “coniglite”) per nulla aiutata dalle compagne che la prendono costantemente in giro chiamandola “Mammola Mansueta”.

 

Piani di lettura

Un primo piano di lettura, il più immediato, diverte ed intrattiene il lettore con la briosa [2] ironia della scrittrice che descrive le disavventure della giovinetta e la sua iniziale incapacità a reagire.

Ma un piano di lettura più approfondito fa riflettere su come certi atteggiamenti e certe tendenze siano sempre esistite e sempre esisteranno. Nei primi anni Sessanta, quando erano ancora molto lontane le contestazioni studentesche ed il gap intergenerazionale, non si parlava, ovviamente , di “bullismo”[3] ma la tendenza a prendere in giro i più deboli, i timidi, quelli che per il loro aspetto fisico si prestavano ad essere oggetto di burle e scherzi ( vedi il grasso Terenzio amico di Violetta) era comunque presente.  E la sofferenza esistenziale di chi doveva subire quelle prese in giro e quelle vessazioni era la stessa.

La particolarità di questo romanzo e che, se da un lato si parla del problema, dall’altro si offre una soluzione, il che permise alle tante “ Violette” che lo lessero di affrontare e, spesso, risolvere la loro timidezza e di darne testimonianza con immutata gratitudine all’Autrice che le aiutò così validamente  a superare la loro mancanza di autostima.[4]

Influenza della pedagogia steineriana

Non si può escludere che l’Autrice, che nonostante il suo carattere brillante e determinato, era per sua stessa ammissione  molto timida,[5]  si sia rifatta, per  aiutare la protagonista  ad affrontare tutte le sue  difficoltà, alla pedagogia di Rudolf  Steiner, noto in Italia tramite le traduzioni della scrittrice Lina Scwartz[6], che era una grande amica di Rinaldo Kufferle[7], marito di Giana Anguisola

Rudolf Steiner (Murakiraly, 25/1/1861 – Dornach, 30/3/1925) è stato un filosofo e pedagogista austriaco. Fu il fondatore dell’ Antroposofia, intesa come percorso spirituale e filosofico,  una “ via della conoscenza che vorrebbe condurre lo spirituale che è nell’uomo allo spirituale che è nell’universo” ( STEINER Rudolf , Anthropological Leading Thoughts, London, Rudolf Steiner Press, 1924). Fu anche il fondatore della Pedagogia Wardolf ( la prima scuola ad essa ispirata nacque a Stoccarda nel 1919 su richiesta di Emil Milt, direttore della fabbrica di sigarette Wardolf Astoria, per i figli degli operai.)

Lo scopo di questa pedagogia è quello di educare in modo armonico e di sviluppare le facoltà cognitive-intellettuali (pensiero), quelle creativo-artistiche ( sentimento) e quelle pratico- artigianali (volontà) dell’allievo. Gli insegnanti hanno l’obiettivo di adattare continuamente le modalità di insegnamento ad una più profonda comprensione dell’individualità dell’allievo di cui  intendono sviluppare sentimenti, volontà ed intelligenza.

Nel romanzo i principi pedagogici steineriani sono  seguiti  dalla mentore di Violetta, la Signora A, sotto il cui pseudonimo si nasconde la stessa Autrice. Scegliendo Violetta come giovane collaboratrice del Corriere dei Piccoli per scrivere una pagina su quello che interessa le ragazzine, la Signora A le offre di poter realizzare il suo sogno che è quello di diventare giornalista. Inoltre le propone una Pagella della Timidezza, dove le darà  di volta in volta il  voto in base al suo comportamento in varie situazioni.  Questo le permetterà di esercitare la sua volontà sempre più atrofizzata e di controllare la timidezza a cui per troppo tempo ha lasciato campo libero.

Così, un passo alla volta, Violetta affronta situazioni che prima l’avrebbero vista paurosa e ritrosa: dal fronteggiare l’eterna antagonista, la compagna di classe Calligaris, ad ottenere dal ricco zio della sua giovane supplente di matematica la promessa di  finanziare gli studi post laurea della nipote che vuol fare la ricercatrice. Dal riuscire ad ottenere il permesso per una festicciola in casa tra amiche al costituire addirittura un Club dei Timidi per i ragazzi e le ragazze della scuola che, per vari motivi, soffrivano del suo stesso problema.

 

[1] Italo Calvino (Santiago del Las Vegas de La Habana, Cuba, 15/10/1923 – Siena, 19/9/1985) è stato un grande scrittore e giornalista italiano. Questa definizione di romanzo classico si trova nel suo volume Perché leggere i classici, Oscar Mondadori, Milano, 1995.

[2][2] Il termine  <<briosa>> riferita alla scrittrice si trova nel volume di Sabrina Fava  <<Dal Corriere dei Piccoli >> Giana Anguissola scrittrice per ragazzi, Vita e Pensiero, Milano, 2009.

[3] IL termine <<bullismo>> ed i primi libri sull’argomento compaiono a partire dagli anni settanta. Tra i primi quello dell’autore norvegese Dan Olweus  Bullismo a scuola. Ragazzi oppressi, ragazzi che opprimono, Giunti, Firenze, 1996

[4] Una per tutte la scrittrice Tiziana Colosimo, vincitrice del Primo Premio, III Ed. del Concorso Letterario Nazionale Giana Anguissola, Travo, 2012 che lo scrive in Giana Anguissola: tra le sue pagine profumo di modernità, AA.VV Giana Anguissola alla riscoperta di una grande scrittrice per ragazzi   Atti del Convegno, Roma 10 marzo 2014, Mursia, Milano, 2015.

[5] In alcuni ricordi inediti dell’Autrice si legge: “ …il mio temperamento timidissimo […]Come tutti i timidi che si sforzano di superarsi finivo poi per sembrare sfrontata, spiritosa […]la “tanto vivace”, di ritorno da Milano, riposava mezza giornata al buio, con una fascia di acqua e aceto intorno alla testa, per lo sforzo d’apparire disinvolta davanti a quegli uomini importanti che in realtà le mettevano una soggezione maledetta”. Gianfranca Mursia Re, Presentazione, in Storie di ragazze, Mursia, Milano, 1973.

[6] Lina Schwarz ( Verona, 20/3/1876 – Arcisate, 24/11/1947) è stata una scrittrice e traduttrice italiana.

[7] Rinaldo Kufferle (S. Pietroburgo, 1° novembre 1903  – Milano, 20 febbraio 1955) fu giornalista, poeta e soprattutto traduttore di grandi Autori russi come Dostoievski e  di libretti d’opera . Negli anni trenta si avvicina agli ambienti dell’antroposofia milanese e nel 1946 fonda la rivista «Antroposofia. Rivista mensile di scienza dello spirito».