INTERVISTA – “Precarious” al Premio Tropea. L’autrice: “Chi vorrà parlare di scuola non potrà non tenerne conto”

11012992_905017989584749_8495738008327200383_o (ph. Saverio Caracciolo)

Di Stefania Elena Carnemolla

 Precarious. Quello che della Scuola non si dice è il secondo titolo, uscito da poco, della collana I Bibliotecabili dell’editore WIP Edizioni di Bari. Un libro in 36 capitoli, con copertina di Giusy Michielli e Sadry Attanasio, illustrazioni di Antonello Lapesara (Lapis), fotografie dell’Autrice e Postfazione di Stefania Elena Carnemolla. Abbiamo intervistato l’Autrice, Angela Alessandra Milella, giornalista, scrittrice, regista-sceneggiatrice, attrice e docente di Letteratura e Storia, con cui abbiamo ripercorso la storia del suo libro, viaggio nel difficile mondo della precarietà, argomento di grande attualità tanto da valerle l’invito, il 5 settembre scorso e come ospite, alla IX Edizione del Premio Tropea, premio nazionale letterario, promosso dalla Accademia degli Affaticati di Tropea, inserito dal periodico Libri e Riviste d’Italia, organo del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, fra i “Premi di qualità” e giudicato dalla stampa nazionale fra i “sette principali riconoscimenti letterari nazionali”, nonché fra i “pochissimi premi di qualità” oggi in Italia. Un palcoscenico, quello del Premio Tropea, nel suggestivo scenario di Largo Galluppi, che l’Autrice, presenti i conduttori Livia Blasi e Michele Cucuzza, ha condiviso con Luigia Barone, presidente onorario del Tribunale dei Minori di Catanzaro, Beatrice Lento, dirigente dell’Istituto di Istruzione Superiore di Tropea, Franca Giansoldati, vaticanista del quotidiano romano Il Messaggero, Mario Rossetti, ex direttore finanziario di Fastweb, testimone di una storia di mala giustizia.

***

11908758_905017979584750_3629409719781528889_o (ph. Saverio Caracciolo)

Stefania E. Carnemolla Di un’esperienza molto intensa di solito si dice: sarebbe da scriverci un libro. Quand’è nata, dentro di te, l’idea del libro?

Angela A. Milella Prima del trasferimento in Veneto. Una sera ero seduta sul divano e avevo i bagagli pronti di fronte a me. Mi stavo rilassando, e guardando le valigie mi sovvenivano episodi della mia carriera che reputai pazzeschi e unici. Pensai che fosse giunto il momento di raccontare attraverso un libro la mia esperienza di docente precaria. Abbozzai l’indice individuando 27 temi.

Stefania E. Carnemolla Ti sei affidata a ricordi rimasti impressi nella tua mente o a pensieri, riflessioni, episodi che andavi via via appuntando?

Angela A. Milella Ho utilizzato appunti e ricordi indelebili. Mentre scrivevo ho provato la sensazione di rivivere le situazioni. Riascoltavo le voci, sentivo i rumori, gli odori, le sensazioni, rivedevo i volti e i luoghi, tutto come se fosse accaduto qualche ora prima.

Stefania E. Carnemolla Quando hai iniziato a scrivere il libro?

Angela A. Milella Appena terminai di risolvere i problemi logistici, alla fine del mese di Agosto, 2014.

Stefania E. Carnemolla Quanto tempo hai impiegato?

Angela A. Milella Otto mesi, ho terminato di scriverlo a metà Aprile.

Stefania E. Carnemolla Una stesura programmata o spontanea, assecondando, cioè, i ricordi man mano che riaffioravano?

Angela A. Milella Spontanea. Avevo la scaletta, ma non ho seguito l’ordine prefissato. Ho scritto assecondando l’urgenza dei ricordi e dei temi e la volontà della mente di liberarli e di riflettere su di essi.

Stefania E. Carnemolla Il canovaccio è nato passo dopo passo oppure sapevi sin dall’inizio in che ordine si sarebbero snodati i vari capitoli?

Angela A. Milella Per rendere il libro attuale ho aggiunto temi recentissimi ai 27 enucleati all’inizio, seguendo il continuo divenire della realtà. L’ordine è in linea di massima diacronico e in alcuni casi sincronico.

Stefania E. Carnemolla Hai scelto, come epigrafe, i versi di Giuseppe Ungaretti Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie. Un’immagine che suggerisce precarietà. Quante volte ti sei sentita come una di quelle foglie?

Angela A. Milella Costantemente, da quando terminai gli studi universitari.

Stefania E. Carnemolla Una foglia, parliamo sempre di te, apparentemente delicata, e che, come il libro ben testimonia, forte, tenace e che nessun vento è riuscito a strappare al suo albero. Ti rivedi in questa metafora o, se vogliamo, paragone?

Angela A. Milella Sì, continuo a stare in questa metafora, quando penso al mio lavoro di giornalista.

Stefania E. Carnemolla Lo stile del tuo libro è accattivante, i racconti si leggono tutto d’un fiato, catturano, rapiscono, trascinano, con pagine dove, talora, complici dialoghi vivaci, sembra di vedere la scena come su di un palco o, se vogliamo, come in un film. C’entra qualcosa il tuo amore per il teatro? Anche inconsapevolmente?

Angela A. Milella Amo molte cose: il teatro, la fotografia, il cinema. La loro frequentazione, il loro linguaggio, potrebbe mescolarsi alla mia scrittura, non posso escluderlo.

Stefania E. Carnemolla Hai vissuto e insegnato in tanti luoghi: a quale sei rimasta più legata e perché?

Angela A. Milella Ai comuni della provincia di Foggia. Ai ragazzi di Sannicandro Garganico, di San Severo, di Vieste, di Rodi Garganico, di Trinitapoli e dintorni. E a quelli dell’Industriale di Andria, in provincia di Bari. Perché non si limitavano a studiare o a non studiare, sono quelli che umanamente hanno reso più di tutti. Quando siedo in cattedra e valuto, non dimentico mai che quelle che insegno sono discipline umanistiche.

Stefania E. Carnemolla I tuoi viaggi, come quelli all’alba su treni deserti, non ti hanno risparmiato brutti incontri, che si sarebbero potuti trasformare in pericolo: quello con l’uomo ubriaco, quello con un “arabo” che voleva vendere il suo sesso al porto. La miseria umana nel chiuso di un vagone. E tutti gli altri: quello con il controllore, viscido e bavoso, delle Ferrovie del Gargano o quello, ancora, con i pazienti del Cim di Rodi, amanti della masturbazione in vettura: troppo per una giovane che sa che non potrà sottrarsi all’insegnamento, persino all’insegnamento per un giorno e costretta, per obbligo e necessità, a viaggiare. Un’esperienza fortificante, senza dubbio: cosa ti senti di dire a chi, considerati i tempi, probabilmente vivrà la tua stessa esperienza?

Angela A. Milella Non so se si è trattato di fortuna o di abilità nella gestione dei rapporti umani. Non ho mai avvertito la necessità di iscrivermi a un corso di difesa personale. Certo, queste situazioni hanno risvegliato in me istinti che ho utilizzato molto da bambina, nella lotta corpo a corpo con i miei compagni di gioco, per quanto mia madre, pur essendo nipote di un maestro di arti marziali, non mi abbia spinto e incoraggiato a frequentare palestre, educandomi invece alla non violenza prima e alla femminilità dopo. I pericoli li conosci, se puoi li eviti. Ma se ti trovi in certe situazioni non puoi prevedere tutto, mantenere la calma aiuta, però serve molta fortuna. In bocca al lupo. Questo posso dire a chi vivrà la mia esperienza.

Stefania E. Carnemolla C’è un’immagine nel libro, molto bella, di te che nelle ore libere, in una scuola del Sud, guardi il mare dalla scala esterna, perdendoti con lo sguardo, respirando quell’aria dal sapore di libertà. Lontana dalla tua terra, quanto il ricordo di quel mare ti ha dato forza, facendoti respirare, sebbene fra le nebbie del Nord, quel senso di libertà?

Angela A. Milella C’è una canzone popolare barese che dice: “Allegre marinare sanda Nicole va pe’ mar. Allegre pellegrine sanda Nicole a va partì”, a volte me ne ricordo. Siamo marinai…

Stefania E. Carnemolla Sei uscita dal tuo mondo, da quelli che nel tuo libro chiami gli “orti protetti”, un’esperienza che ti ha regalato anche incontri belli e particolari, come quello con i Cantori di Carpino. Nel libro c’è una bellissima descrizione del tuo incontro con questo mondo così antico e lontano…

Angela A. Milella In realtà questo è il mio mondo, un mondo che difendo. Non a caso mi sono stati presentati da una mia zia.

Stefania E. Carnemolla Quanta sciatteria, pochezza, superficialità, senso dell’intrigo nella scuola italiana, un sottobosco che è diventato bosco, un bosco fin troppo affollato, di gnomi che si sentono giganti. Il tuo libro in questo senso è un atto di coraggio. Sei consapevole del fatto che con la tua testimonianza hai squarciato il velo del silenzio e dell’ipocrisia e che della scuola italiana e delle sue storture si potrà ora finalmente parlare come tu hai fatto raccontando ciò che molti, per paura di ricatti e ritorsioni, ancora oggi temono di raccontare?

Angela A. Milella Io ho semplicemente descritto la realtà, ho detto la verità. Adesso chi vorrà parlare di scuola non potrà non tenerne conto, se vorrà essere creduto.

Stefania E. Carnemolla L’insegnamento come missione, questo il messaggio del tuo libro. Bello, ciò che fa ben sperare per il futuro, che sia stata e sia una giovane a veicolare un tale messaggio in un’Italia stanca e demotivata. Non c’è retorica, nel tuo libro, e forse proprio per questo il suo messaggio darà speranza a chi non sa più cosa sia la speranza. Auguri per la tua vita e il tuo futuro.

 

Angela Alessandra Milella

Precarious. Quello che della Scuola non si dice

WIP Edizioni

Pagine: 144, illustrato

Anno: 2015

ISBN: 978-88-8459-343-6

Prezzo: € 12,00

Acquistabile su IBS




Generare, partorire, nascere. Una storia dall’antichità alla provetta, di Nadia Filippini

di Eleonora de Longis             

“Si nasce da un corpo di donna; tutti, uomini e donne, nascono da un corpo di donna: non c’è nascita senza la gravidanza e il parto di una donna […]. Tuttavia questo fatto non ha trovato nella cultura occidentale un’iscrizione simbolica o un adeguato rilievo a livello rappresentativo, almeno non da quando la società indoeuropea ha imposto il proprio Olimpo maschile, declassando le Dee madri di più antica tradizione (Iside, Ishtar, Demetra)” (p.11).  

Il percorso di Nadia Filippini attraverso le vicende della generazione, del parto, della nascita è un itinerario articolato, che si muove tra le diverse pieghe non solo della storia sociale e istituzionale, ma anche di quella culturale, delle mentalità, della religione e mostra come la rappresentazione della maternità sia in continuo movimento nel corso del tempo “anche se in forme tutt’altro che lineari e progressive, con fasi di improvvisa accelerazione e lunghe continuità e permanenze, accanto a innovazioni e mutamenti» (p. 10). Continuità e rotture di una vicenda ultramillenaria sono indagate nella parte del volume che affronta fecondazione, gravidanza, aborto, parto e nascita dall’antichità al Settecento. Le molte raffigurazioni della nascita di Maria nel corso dei secoli offrono uno specchio fedele dell’esperienza del parto nella tradizione dell’occidente cristiano. Anche sulla scorta di queste fonti iconografiche Nadia Filippini osserva con attenzione la scena del parto e della nascita, l’occupazione degli spazi, le figure coinvolte, le pratiche, i ruoli, tra i quali, centrale, quello della levatrice, un ruolo anch’esso destinato ad attraversare nel corso del tempo molte trasformazioni. O, per dir meglio, un ruolo plurale, che, fin dal mondo antico, comprendeva figure dotate di competenze diverse in merito alla fisiologia e alla patologia delle donne e del parto.

Il Settecento rappresenta uno snodo determinante, una cesura nella storia occidentale della nascita: mutano figure, luoghi e tecniche del parto. Si afferma il “chirurgo-ostetricante” che introduce pratiche e terapie nuove, sorgono gli ospedali specializzati nell’accoglienza delle partorienti, si modifica ulteriormente il ruolo della levatrice, “si avvia insomma quel processo di medicalizzazione che si dispiegherà più ampiamente nel secolo successivo” (p. 181) e sarà indice di profonde trasformazioni sociali e culturali che coinvolgeranno soprattutto l’interesse specifico – e “politico” –  per la popolazione e una diversa sensibilità nei confronti del feto. 

La lotta alla mortalità materna e infantile, combattuta fieramente da politici, intellettuali, medici, comporta in primo luogo la colpevolizzazione delle tradizionali forme di assistenza al parto e in primis della levatrice, come figura priva delle necessarie conoscenze mediche e scientifiche. Si avvia nei paesi occidentali il lungo processo di professionalizzazione e istituzionalizzazione delle levatrici mentre, con tempi e modalità diverse, si afferma sulla scena del parto il chirurgo-ostetrico. Anche le prime teorie della fecondazione – che diedero avvio alla ricerca embriologica come si svilupperà nell’Ottocento – contribuirono a far sorgere una nuova sensibilità degli ambienti religiosi e laici verso il feto come “cittadino non nato”. Johan Peter Frank, consigliere di vari sovrani europei e direttore di sanità nella Lombardia austriaca aveva affermato: “I cittadini che sono ancora racchiusi nell’utero materno non sono anch’essi membri dello Stato? Non abbisognano o non meritano essi la protezione dei magistrati?” (p. 240). Da tali premesse discendevano misure volte a controllare e tutelare da parte di medici e amministratori non solo il momento della nascita ma tutto il periodo precedente, la gravidanza. In questa prospettiva anche il taglio cesareo sulla donna in vita, a lungo considerato come un’indebita interferenza con un processo naturale, veniva legittimato come estremo tentativo di salvare la vita del nascituro (raramente della madre): in realtà solo i progressi nella conoscenza della sepsi e dell’antisepsi acquisiti nel corso del Novecento renderanno sicura tale pratica anche per la madre.    

Il Novecento è l’epoca delle “molteplici rivoluzioni”: l’assistenza e la tutela della maternità per le donne lavoratrici, l’ospedalizzazione del parto, la diffusione di nuovi presidi igienico-sanitari volti ad assicurare la salute e il benessere del bambino trasformano profondamente, nel mondo occidentale, l’esperienza del parto e della nascita. Se nella prima metà del secolo aveva prevalso, sulla spinta dei movimenti di emancipazione femminile, l’affermazione dei diritti civili e politici, le esperienze dei movimenti femministi del dopoguerra avevano profondamente ribaltato la prospettiva delle donne nel rivendicare l’autonomia nella gestione del proprio corpo: “l’utero e mio e lo gestisco io” è la parola d’ordine significativa di questa rivoluzione copernicana al cui centro si collocava la libertà di scelta rispetto alla maternità, all’uso dei metodi contraccettivi, all’interruzione volontaria di gravidanza. Con tempi diversi, e attraverso il coinvolgimento dell’opinione pubblica, la legislazione dei paesi occidentali si adegua progressivamente alle rivendicazioni in fatto di contraccezione e IVG, mentre altri tabù sul parto e sulla nascita cadono per effetto degli sviluppi della medicina e delle tecnologie sanitarie e della sperimentazione di tecniche e metodi analgesici, che tendono a ridurre i dolori e le “violenze” associate al parto. 

Tra le trasformazioni più radicali che, nel corso del Novecento, hanno coinvolto il campo della riproduzione si colloca senz’altro la fecondazione artificiale “perché attraversa molteplici piani dell’esperienza umana (dell’immaginario, del simbolico, della rappresentazione) e perché mette in atto cambiamenti profondi che investono, oltre che la maternità e la nascita, anche i ruoli sessuali e la famiglia, sollevando una serie di problemi bioetici” (p. 299). 

Le questioni suscitate dalla fecondazione artificiale e le diverse risposte politiche e legislative che i paesi dell’occidente hanno dato alla crescente domanda di donne e uomini infertili di adire alle tecniche di PMA mettono in luce, secondo Filippini, le profonde ambivalenze e contraddizioni che, alle soglie del terzo millennio, segnano la realtà sociale del parto e della nascita. 

Nadia Filippini 

Generare, partorire, nascere. Una storia dall’antichità alla provetta 

Viella

2017

€ 29

pp. 349




ITALIA – “Precarious”. Dell’ultimo titolo di Wip Edizioni parlano anche i sindacati

A cura di Giusy Michielli

L’associazione “Pietra su Pietra” presenterà il libro “Precarious: quello che della Scuola non si dice” di Angela Alessandra Milella. L’evento si terrà il 4 settembre, alle ore 18.30, in via Amendola, 5 – BARI. Nel dibattito, moderato da Adele Dentice (insegnante e scrittrice), interverranno: Angela Alessandra Milella (autrice),  Stefano Ruocco (editore), Paolo Battista (attore).

“Precarious. Quello che della Scuola non si dice” è il secondo titolo della collana I Bibliotecabili della casa editrice WIP Edizioni di Bari. Un libro in più capitoli e riccamente illustrato, che fa discutere. Su cui, in vista della presentazione, anche  Uil com Bari – Puglia e  Fiom Puglia hanno rilasciato commenti.

UILCOM – L’Italia E’ una repubblica democratica fondata sul lavoro. Nel 1948 si scriveva E’ nel 2015 si legge con amarezza ERA.

La crisi socio-economica dell’ultimo periodo unitamente alla richiesta sempre più pressante di una flessibilità del lavoro (avviata con il pacchetto Treu e perfezionata con il governo Berlusconi) si è tradotta in ‘Precarious’, che ha raggiunto la sua massima precarizzazione con il job’s act.

Il Lavoratore ovvero il potenziale tale oggi vive ne l’ansia dell’attesa, una attesa riferita non solo alla ricerca del Lavoro (evanescente speranza) ma anche al suo mantenimento oltre che alla qualità dello stesso.

Perché cara Angela tu scrivi ‘…io cerco solo di non affondare…’ io invece auguro un futuro in cui quando verrà data la possibilità di scegliere tra affondare e galleggiare si possa decidere di volare.

Antonia Di Tommaso (segretaria regionale Uil com Bari-Puglia)

FIOM – Se è difficile far capire il termine “precario” a uno straniero, chi si ritrova a vivere in quello che assomiglia a un vero e proprio girone infernale trova altrettante difficoltà a raccontare le esperienze kafkiane che l’atipicità del lavoro, tipicamente italiana, riserva ai propri malcapitati, tradendone le speranze e negando loro il futuro.

In un mondo del lavoro in cui si è passati da “lavorare per vivere” a “lavorare per sopravvivere” e ci si rassegna all’idea che la differenza tra le due definizioni sia sostanzialmente nulla, si fa altrettanta fatica ad accettare che sulla condizione precaria poggi l’ossatura dell’istruzione scolastica. Quella che in un sedicente Paese civile dovrebbe rappresentare il polo dell’eccellenza pubblica, la connessione tra società ed educazione, progresso e formazione, universalità e inserimento, è in realtà la pietra dello scandalo dei governi avvicendatisi negli ultimi vent’anni.

Tagli lineari, “merito” e “competenza” proclamati solo per prosopopea e mai praticati, risorse stanziate pari a zero: questo è il risultato dei provvedimenti che hanno interessato la scuola italiana, diventata nel frattempo una declinazione di acronimi (Ssis, Tfa, Gae) e definizioni altisonanti (Invalsi, concorsone, Buona Scuola) che hanno ottenuto il solo scopo di ricevere le contestazioni degli addetti ai lavori.

Certo, alle responsabilità degli esecutivi di ogni colore che ne hanno provocato la decadenza, si aggiunge anche quella di un sistema che tende ad autoconservarsi, quasi in maniera corporativa, e a non andare di pari passo con il grado di innovazione necessario per l’auspicato miglioramento.

Il lento e continuo degrado della scuola si abbatte su docenti e studenti per poi propagarsi all’esterno nelle pratiche quotidiane, nella consapevolezza civica e nelle relazioni sociali.

A spezzare definitivamente le aspirazioni di rilancio, la riforma targata Renzi-Giannini che trasforma la scuola in senso aziendale, attraverso la creazione di consorterie di docenti alla sequela del preside-manager (che viene elevato a scolastico) e aumenti salariali che assumono l’aspetto di premi-fedeltà al dirigente invece di riconoscimenti dovuti.

A farne le spese, sempre e comunque loro: gli insegnanti precari. Assunzioni a rischio, nonostante la recente sentenza della Corte di Giustizia europea che chiede la stabilizzazione per quasi 300 mila soggetti interessati. Allargando il raggio a chi langue nel limbo delle graduatorie, la guerra tra poveri è servita.

non vuole essere un plastico esercizio di operazione-verità. La testimonianza offerta dall’autrice Angela Milella esprime la rabbia e l’indignazione di una categoria di lavoratori “invisibili” le cui storie quotidiane, in un Paese assuefatto a nefandezze e ingiustizie, non conosciamo o lasciano indifferenti. Alcune iniziano alle 3 del mattino per una supplenza a quasi 150 chilometri, altre ancora sono fatte di compensi non riconosciuti e spese non restituite. Tutte contengono un senso di frustrazione e di incompiutezza.

Di Nicola Rotondi (Fiom Puglia)




ITALIA – A Venezia il sindaco Brugnaro redige l’indice dei libri proibiti. L’Aie protesta

Vietare la lettura dei libri, mettendone una lista all’indice è la pratica ricorrente di chi vuole demolire la democrazia, è il gesto  oscurantista di ogni epoca: dai parabolani di Alessandria all’Inquisizione, fino ai roghi hitleriani.

La lista del neo sindaco di Venezia – imprenditore “renziano” eletto dalla Lega e dalla destra – non è meno penosa di altre che l’hanno preceduta. L’intenzione è infatti di impedire che una serie di favole per l’infanzia arrivino ai destinatari. Ben 49 libri sono stati considerati – da qualche oscuro funzionario ignorante e bigotto – “pericolosi” per l’integrità psicofisica dei bambini. Capolavori del genere, come “Piccolo blu e piccolo giallo” di Leo Lionni, oppure “Piccolo uovo” di Altan; ma anche testi sull’adozione, su genitori in seconde nozze, o sul bullismo a scuola (come “Il segreto di Lu”).

Difficile rintracciare un filo logico razionale, facile scovare l’integralista sotto il moralizzatore. L’intenzione dichiarata è quella di contrastare la diffusione della cosiddetta “cultura gender”, qualunque cosa possa significare questa espressione nella testa degli stilatori di liste proibite. In teoria, comunque, vorrebbero contrastare la “diffusione dell’omosessualità” (come se fosse un “virus culturale”). Ma visto che c’erano, hanno infilato dentro anche altri temi (adozione, secondo matrimonio, antibullismo, ecc).

Così facendo è venuta fuori la costellazione ideologica – decisamente catto-fascista, in patente contrapposizione persino con i discorsi del papa attuale – che sovrintende a questa lista. Concretizzata nella circolare a scuole materne ed elementari che esorta a eliminare dalle biblioteche quei 49 “testi del demonio”.

Scattano le polemiche, come si dice in questi casi, e il neosindaco si spaventa, ma non fa marcia indietro. Fa sapere infatti che medita di “smagrire” la lista, non di eliminarla.

Decisa e costante la reazione di genitori, insegnanti, editori, che hanno dato vita a petizioni (indirizzate al pessimo ministro Giannini, che pensa solo ad aziendalizzare la scuola), iniziative pubbliche di lettura dei libri proibiti, trasformando così la lista in “consigli alla lettura”.

“Ritirare libri da una scuola, qualsiasi libro da qualsiasi scuola, è sempre inaccettabile, nella sostanza e simbolicamente”. commenta  il presidente dell’Associazione Italiana Editori (AIE) Marco Polillo. “Il sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro, ha scelto l’occasione più sbagliata per confermare la sua decisione, già annunciata in campagna elettorale, di ritirare alcuni libri per bambini dalle scuole comunali dell’infanzia – ha proseguito -. Lo ha fatto durante la commemorazione dei 500 anni dalla morte di Aldo Manuzio, un grande editore e umanista che operava in quella che allora era la capitale mondiale del libro, Venezia. Poteva ricordare come il primato dipendesse soprattutto dal fatto che Venezia era la città più aperta della sua epoca. Perché il lavoro dell’editore ha questo di straordinario: è sì un mestiere industriale – e spesso difficile – ma tratta una materia prima preziosissima, la libertà di espressione. Per questo il gesto di ritirare libri da una scuola, qualsiasi libro da qualsiasi scuola, è sempre inaccettabile, nella sostanza e simbolicamente”.

“Aggiungo – ha concluso Polillo – che non conta nemmeno la qualità dei libri ritirati. Non è mai compito delle autorità politiche locali o nazionali discutere dei contenuti dei libri presenti nelle scuole. Non lo è nemmeno di un’associazione di editori. In questa occasione si parla di una cinquantina di titoli, di altrettanti autori e di una ventina di editori: nel piccolo una rappresentazione di pluralità messa a disposizione degli educatori, gli unici titolati a giudicarne i contenuti e la loro utilità nel contesto di crescita dei bambini. Il compito di un sindaco, secondo noi, è semplice ed è un altro: lavorare perché abbiano una biblioteca a disposizione ancor più ricca e variegata e non interferire oltre”.




Come voci in balia del vento

Già nel titolo si percepisce la narrazione di una storia dimenticata. Le voci sono quelle delle contadine siciliane che lottarono per l’occupazione delle terre incolte e per l’applicazione della legge Gullo alla fine degli anni Quaranta. Voci coraggiose di donne che sfuggivano agli stereotipi femminili di quei tempi e che abbracciarono le lotte del P.C.I. e dei sindacati. Donne che invece di restare confinate tra le mura di pietra delle loro misere casa, apportarono il loro contributo, marciando, occupando, opponendosi, sventolando il vessillo comunista con la falce e il martello e a volte accanto l’immagine del cuore di Gesù.

“Quando andavamo ad occupare, i carabinieri mettevano  i cavalli tutti in fila davanti a noi e li facevano alzare per farci spaventare e ci dicevano: andate via di qua che per voi femmine non è possibile occupare la terra. Io. allora, ad uno di questi gli risposi: io sono capace di occupare la terra meglio di mio marito. Date la terra a mio marito e noi ci ritiriamo. Ma quello mi spingeva col moschetto. Allora mi arrabbiai e gli dissi: scendi dal cavallo se hai coraggio” Così Maria racconta la sua storia e continua dicendo che l’arrestarono e la misero in un porcile dove c’erano i maiali “con la puzza che non si poteva respirare e col pruvulazzo (polvere) che mi entrava dentro la bocca…poi la sera venne un carabiniere e mi portò una fetta di pane. Siccome insieme a me avevano preso anche gli uomini che stavano chiusi in un’altra stanza, io pensavo, a me il pane me lo danno a loro no. Allora dissi al carabiniere: perché non date il pane pure agli uomini? No, rispose, agli uomini diamo scorce (bucce) di fave. Io allora posai il pane sopra il tavolo e dissi che non lo volevo. Così i carabinieri si convinsero e diedero il pane pure agli uomini”

Questa è una delle tante storie raccontate, storie di donne battagliere e dignitose, come quella di Bernarda di Bisacquino, di Concetta di Valledolmo, di Antonietta di Castellana. Antonietta era stata la prima donna, nel suo paese, ad indossare i pantaloni. Tutte queste voci, la scrittrice le raccoglie nel 1977, quando decide di andare ad intervistarle. Si mette un registratore a tracolla e inizia a percorrere questi estremi lembi di terra siciliana, lontani dal mare e arsi dal sole cocente. Vaga per tanti piccoli paesi, incontra queste donne, le intervista e cattura  e cristallizza per sempre le loro storie.

Per vent’anni le voci tacciano dentro quell’ormai obsoleto registratore. Poi la decisione di farle riemergere dall’oblio: vengono recuperate, riascoltate, raccolte e diventano libro. Così la storia di queste donne ignorate e dimenticate anche dal partito politico a cui avevano aderito con entusiasmo viene restituita nella luce della sua importanza. Nel libro, Gisella Modica, racconta anche la sua personale voce, intreccia a quelle storie parte delle sue vicende personali, dai ricordi della nascita di sua figlia a quelli del dolore e dello smarrimento per la perdita di sua madre.

Voci appunto, voci di donne in balia di folate di vento che soffiano sulla coscienza di ognuna. Voci di donne tradite. Tradite dagli uomini, dai compagni di partito che non colsero la forte valenza delle loro lotte, che sminuirono le loro azioni facendole passare per “stramberie femminili”.

Ma quelle lotte non furono vane e lo dimostra il primo convegno Regionale del P.C.I. delle donne della campagna tenutosi a Palermo nel 1953: le delegate furono millecinquecento. Millecinquecento donne di cui si erano perse le tracce.

“Le immaginavo” scrive Gisella Modica” già alle prime luci dell’alba affaccendarsi per casa, fare ordine, cucinare frittelle di fave e finocchietti, e poi, coi cesti dei viveri sulla testa o appesi al braccio, riversarsi nei vicoli e nelle piazze gremite per il comizio, gridando col pugno alzato Terra a chi lavora! Le immaginavo fare cose fuori dall’ordinario: eccole mentre con esitazione entrano nella sede del Partito dove abitualmente le donne non usavano sostare…eccole mentre impugnano maldestre la bandiera: lasciapassare necessario per accedere dentro ai confini proibiti del feudo occupato… terra-nutrimento per la famiglia, per i figli che vanno protetti e difesi insieme alle masserie…con lo stendardo del cuore di Gesù preso con la forza dall’altare della chiesa contro il volere dei compagni… faranno di testa loro e porteranno lo stendardo in corteo, accanto alla bandiera rossa, perché entrambi sono fiamme che bruciano nei loro cuori… le immagino creature dai mille travestimenti in equilibrio su se stesse, sostenute solo dalla forza dell’amore. Sorprendenti, mutevoli e inafferrabili. Come voci in balia del vento.

Gisella Modica

Come voci in balia del vento

Iacobelli Editore, Roma 2018

pp. 224

13€




Le ricamatrici di Santa Caterina, di Ester Rizzo

di Grazia Mazzè

Sarà presentato il 9 giugno il libro di Ester Rizzo “Le ricamatrici” a “Una Marina di Libri” – il Festival del libro, all’Orto Botanico di Palermo.

Avevo letto sul web la storia delle ricamatrici di Santa Caterina di Villermosa, un paesino del Nisseno, un paio di anni fa, curiosa di approfondire fatti in cui sono state coinvolte donne siciliane e le rivendicazioni dei loro diritti.

La lettura del romanzo però è arrivata alla mia memoria più intima, a un nostalgico nucleo di ricordi con mia nonna, una ricamatrice, vissuta nella realtà meno circoscritta della città di Palermo.

Sono certa, se fosse arrivata a lei l’eco del movimento della Lega della Rosa Rossa sarebbe stata una delle “Mille ragazze in lotta”.

La mattina al risveglio la trovavo già sulla sua seggiolina davanti all’imposta del balcone, sempre alla ricerca della luce “buona”, con il suo telaio, a tirare fili con affilatissime forbicine, a realizzare quadratini perfetti per poi ricomporli con un gioco di ago e filo, come un’artista, per creare quella preziosità fatta a mano chiamata “Cinquecento”.

Stesso anno di nascita di Filippa, anche lei aveva frequentato la sesta elementare, stessa tempra, risoluta, istruita per quei tempi, rinchiusa in un Collegio aveva studiato. Lì aveva imparato l’arte del ricamo, della maglia, le tessiture del filet e del Quattrocento, ma nel Cinquecento aveva trovato la possibilità di concretizzare un lavoro.

Un lavoro che la teneva china sul telaio dall’alba al tramonto, a volte più del dovuto. Lei si raccontava mentre sfilava ed io l’ascoltavo, meraviglitata per la capacità di creare dalle mani tale bellezza, arte che ho imparato, senza mai eguagliarla, spezzandone il filo dopo la morte di lei.

Indossando gli immancabili guanti e cappellino mi conduceva per mano a consegnare quei lavori, scrollandosi così la fatica e il dolore agli occhi. Sentivo trattava sul prezzo dei manufatti con i negozianti che glieli avevano commissionati per dei privati, non era mai soddisfatta quando mi riprendeva la mano per uscire dal negozio.

Filippa mi riporta alla memoria di quei miei primi otto anni, collocandoli nel contesto storico-politico di quel tempo. Forte e tenace, una figura capace di ricacciare dentro le sue emozioni, per permettere alle altre che il da farsi arrivasse chiaro e pulito. Accogliente ma autorevole, con addosso l’esperienza di emigrata che le aveva permesso di aprire la mente e convincersi che la cultura avrebbe liberato la nuova generazione delle donne dalle trappole del patriarcato.

Come scritto nella bellissima prefazione di Gaetano Savatteri, “Ester ha costruito con la dedizione di una ricamatrice una stagione in cui sembrava facile schierarsi dalla parte giusta, contro la prevaricazione, contro lo sfruttamento.”

La rivoluzione femminile si era già avviata, molte le donne nel mercato del lavoro, spinte dalla necessità economica e stimolate dai diritti conquistati, dalla crescente cultura femminile e il controllo della procreazione. Siamo nella fase aperta dal movimento del ’68, l’identità femminile punta alla liberazione, al riconoscimento e al valore delle differenze tra uomini e donne.

Eppure, scrive Savatteri, “le ricamatrici le pensiamo mansuete, chine sui loro tomboli, aduse a riprodurre un sapere antico tramandato di madre in figlia, competenti nell’impiego ritualmente femminile”.

Ester Rizzo ha una forte anima femminista e la troviamo intessuta nei fili del suo racconto, pieno di personaggi e temi che ancora oggi impegnano le donne in rivendicazioni e lotte.

Come allora l’emigrazione rientra tra le scelte quasi obbligate per avere un lavoro e una retribuzione adeguata. Il divario salariale tra uomini e donne è un peso che grava sull’economia del Paese e non c’è dubbio che le conseguenze ricadono maggiormente sulle donne.

C’è dentro l’attenzione alle vittime di uomini narcisi e violenti, come la povera Saretta, propensa a subire, incapace a denunciare, con l’amaro risvolto di una scelta obbligata o di una tragica fine.

Ci mostra la resa di coloro che si sentono forti e dalla parte della ragione e, nonostante ciò, provare l’impotenza cui costringe il potere mafioso e prevaricatore. L’onestà e il diritto non sono sempre carte vincenti.

L’amore in conflitto con le regole del patriarcato, nella storia di Pietro e la bella contadina. Il disagio di chi ha movimenti e pensieri da “straniera”, come Livia, testimone di quella evoluzione culturale che rende libere le donne dalle usanze di una realtà paesana.

E poi c’è Adele, la Marchesa, nella cui testa Ester fa muovere la libertà di non riconoscersi come donna nella maternità.  Un diritto di scelta ancora oggi intriso da pregiudizi e dall’incapacità sociale di dare lo stesso valore a coloro che scelgono di bastare a se stesse.

È anche una storia di sorellanza, di amicizia, di solidarietà, di un sentire comune tra donne che abbattono barriere, annullano ceti, si alleano nel bisogno.

Una storia d’amore, quella di Filippa e il marito, mai dissolto e garantito nel tempo, superbo esempio per chi ha paura dell’evoluzione delle donne nella libertà.

Queste sono le donne apparse mansuete, hanno riempito le strade del paese, queste schiave del racket degli intermediari e dei padroni ombra, bersaglio di attacchi che si scatenarono in tutta la Sicilia per il riconoscimento e la tutela del lavoro a domicilio. Qui c’è anche la formazione di un percorso sindacale, di una piattaforma, di un minimo salariale, del riconoscimento del lavoro nella sua dignità più vera, del valore di un prezzo da pagare e di un conto da saldare.

Ester Rizzo continua a insegnarci qualcosa, con le sue donne tirate fuori dall’oblio. Ci regala la testimonianza di una storia passata con ago e filo tra le mani. Siamo arrivate dove siamo perché queste donne, come tante altre, sono esistite, hanno marcato un tassello nel grande mosaico degli anni che ci sono appartenuti, cui dobbiamo dare ancora visibilità di margini e di consistenza.

Grazie alla Lega delle ricamatrici della Rosa Rossa, grazie a Ester Rizzo per la sua dedizione, per il dono che molte, dopo di noi, troveranno indispensabile per la marcia verso le conquiste future.

 

Ester Rizzo

Le ricamatrici di Santa Caterina

Navarra, Palermo, 2018

  1. 104

€ 10




ITALIA – All’asta i volumi dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli

Un patrimonio pubblico che andrà perduto.

Il tribunale di Napoli ha ordinato all’avvocato Gerardo Marotta, presidente dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli, di mettere all’asta alcuni dei suoi tesori più preziosi per coprire i debiti vantati dai creditori.
Sedici i tomi all’incanto,tutti editi tra il XVI e il XIX secolo, i cui argomenti spaziano dalla medicina alla storia e alla filosofia, dal diritto alla linguistica e alla poesia, per un valore stimato di circa venticinque mila euro: due cinquecentine, una di argomento medico e l’altro di argomento giuridico, ci sono un Vite de pittori, scultori ed architetti napoletani non mai date alla luce da autore alcuno dedicate agli eccellentiss. signori, eletti della fedelissima città di Napoli, di Bernardo De Dominici, stampato a Napoli dal mitico editore Ricciardi nel 1742; una Gerusalemme liberata del 1888 e una raccolta di opuscoli e diari sulla storia di Napoli stampati nel 1780.
Su tutti spicca Elementi di metafisica di Antonio Genovesi, edito a Napoli nel 1760
Si tratta della prima volta in assoluto che l’istituto perde una parte dei suoi volumi.
Questo il commento di Marotta: «Sono addolorato, rifarsi sui miei libri per questioni economiche è grave, mi rende triste, ma al di là delle mie reazioni emotive conta che dalla sera alla mattina i napoletani, e tutti gli studiosi che ne avrebbero fatto richiesta, saranno privati della possibilità di consultare gratuitamente questi testi».




Romain Rolland: pacifista libertario e pensatore globale

 

 

Il 14 marzo a Roma, presso l’aula Giuseppe Dalla Vedova di Palazzetto Mattei, in Villa Celimontana, la Società Geografica Italiana presenterà l’ultimo volume di Fiorenza Taricone.

Vi si racconta la vita e il pensiero di un uomo d’assoluta onestà e rettitudine che tenne fede ai suoi ideali di europeista, pacifista, antifascista, e nel contempo un ottantennio di storia europea, tra speranze e illusioni, contraddizioni e tragedie.

Romain Rolland (1866-1944), fu un raffinato musicologo, scrittore di saggi storici, biografie, drammi teatrali, romanzi a sfondo sociale e politico, novelle, pamphlets, farse liriche.

Nato in Borgogna, a Clamecy, studiò e insegnò a Parigi, per poi trasferirsi nella Svizzera neutrale allo scoppio della prima guerra mondiale. Dal 1914 al 1915 lavorò come volontario all’Agenzia dei prigionieri di guerra, smistando le lettere dei familiari ai soldati e occupandosi degl’internati e prigionieri civili. Un’esperienza unica che racconterà nei due volumi del Diario degli anni di guerra.

Nel 1915 ricevette il Premio Nobel per la Letteratura per il romanzo Jean-Christophe, che attraverso le vicende di un giovane musicista in lotta contro la tradizione, dipinge il quadro dell’Europa tra Ottocento e Novecento. Un altro suo libro, Au dessus de la mêlée, capolavoro del pacifismo europeo, in cui fa appello ai belligeranti affinché prendano le distanze dalla guerra e cerchino soluzioni di pace, gli attirò condanne, malumori, critiche e vendette, nonché sospetti di spionaggio.

Rolland salutò entusiasticamente la rivoluzione sovietica, primo vero tentativo di liberazione delle masse lavoratrici sfruttate, dissentendo poi dallo stalinismo. Antifascista coerente e dichiarato, fu un estimatore di Gramsci, che a sua volta rese famosa una frase  di Rolland: l’ottimismo della volontà, il pessimismo della ragione.

 

Fiorenza Taricone

Romain Rolland: pacifista libertario e pensatore globale

Guida editore, Napoli, 2018

pp. 331

€ 20,00

 

Fiorenza Taricone è Docente di Storia delle dottrine politiche all’Università degli Studi di Cassino e Lazio Meridionale. Si occupa di studi di genere dagli anni Ottanta, con particolare attenzione ai diritti civili e politici. Ha fatto parte della Commissione Nazionale Parità, Presidenza del Consiglio, dal 1994 al 1996. Fra le fondatrici del Centro Interuniversitario per gli studi sulla donna nella storia e nella società negli anni Novanta. Tra le sue ultime pubblicazioni, Ginevra Conti Odorisio – Fiorenza Taricone, Per filo e per segno. Antologia di testi politici sulla questione femminile dal XVII al XIX secolo, (Torino, 2009), Louis Blanc e Mme d’Agoult (Daniel Stern) socialismo e liberalismo (Firenze, 2013).

 




Tra l’Africa e l’Europa, una terra di pietre e di niente

Recensione di Luminusa di Franca Cavagnoli

Rileggere Luminusa è un buon antidoto contro il senso di smarrimento che si prova nel considerare le inedite misure del governo attuale di fronte alla tragedia delle migrazioni. Ci ricorda che c’è anche un altro modo di guardare a una realtà come quella.

La vicenda di Mario, studente cremonese di Scienze Politiche che ha scelto di passare qualche tempo a Lampedusa per dare una mano nell’emergenza, si intreccia con le vite degli isolani e con quelle della gente che viene dal Ciad, dal Ghana, dal Mali, dal Niger, dalla Somalia, cercando oltremare una possibilità di sopravvivenza che le è negata in un continente percorso dall’instabilità politica, dalla guerra, da tensioni di ogni tipo. Per tanti uomini e tante donne la terra promessa è stata per qualche tempo la Libia, dove era possibile trovare lavoro; poi, con lo scoppio della guerra civile, anche quel paese è diventato pericoloso, soprattutto per chi ha la pelle scura, e l’unica via di scampo è stata proseguire verso Nord, verso l’Europa, in qualsiasi modo.

Mario ascolta i racconti dei sopravvissuti e colloca nel piccolo “museo” del paese, accompagnandoli con didascalie in versi, gli oggetti restituiti dal mare, trovati sul fondo dei barconi o abbandonati da chi è arrivato sull’isola e ne è ripartito. Sono fotografie dilavate dall’acqua marina, disegni, tanti disegni fatti dai bambini, scarpe da tennis, sandali scompagnati, giocattoli. C’è un fumetto macchiato di sangue, c’è anche un rotolo di lettere in tigrino, trovato nella tasca di una giacca. Qual è stato il destino delle persone cui quegli oggetti sono appartenuti? Nel piccolo cimitero di Lampedusa, affacciato su quel cimitero più grande che è il mare, le persone senza nome che vi sono state seppellite (uomini e donne giovani, e poi bambini e bambine) sono solo ottanta, ma molte di più sono quelle che il mare non ha mai restituito. Mario e gli altri ragazzi con cui vive e collabora sull’isola sanno che “dei morti, dei dispersi, dei caduti in mare non rimane traccia in nessun archivio. Sono scomparsi e basta. Il minimo che si può fare è cercare di ricordarli” con quello che rimane di loro. 

Foto 1. Migranti

Sono giovani ma tristi, Mario e i suoi amici. Vivono in un paese senza speranza, un paese “che ha perso la sua dignità” e non produce che “governanti meschini”. Per questo sempre più spesso questa gioventù non vede altra prospettiva che andarsene dall’Italia. Anche Mario, alla fine, decide di partire e sceglie una direzione diversa, atipica, perché ha il “dono” di sentire la sofferenza degli altri, quella dei deboli e degli offesi, come gli dice suo padre. Ma a spingerlo c’è anche un dramma personale di cui si viene a conoscenza soltanto alla fine del romanzo, ed è questa scoperta a conferire intensità al personaggio e a farcelo rimanere nel cuore.

Una lettura non banale, una storia breve ma densa, incardinata su temi attuali e significativi. E poi c’è l’isola di Lampedusa, con la sua luce, la sua aria trasparente, il suo fascino. Lampedusa porta d’Europa, “terra di pietre e di niente”. Un niente che diventa, per chi legge, un grosso, pressante punto interrogativo.

Franca Cavagnoli

Luminusa

Pagg. 158

€ 18,50

Frassinelli, Milano, 2015




Bella mia, di Donatella Di Pietrantonio

Il terremoto che il 6 aprile 2009 ha sconvolto L’Aquila ha lasciato ferite profonde nella famiglia di Caterina, la protagonista e narratrice di Bella mia. La sua gemella, Olivia, è morta sotto le macerie della sua casa, dove si era attardata per recuperare qualche oggetto, quasi sotto gli occhi del figlio adolescente e della sorella, che invece avevano fatto in tempo ad uscirne.

In attesa di una ricostruzione (che non si sa se e quando avverrà) a Caterina e a sua madre è stato assegnato un appartamento del progetto governativo C.A.S.E., dove le raggiunge il figlio di Olivia, Marco, dopo un tentativo fallito di convivenza con suo padre, musicista, da tempo separato, che vive a Roma con una donna molto più giovane di lui.

La protagonista, pur non avendo mai voluto figli suoi, si ritrova così a fare i conti con una sorta di maternità obbligata nei confronti del nipote, adolescente “furioso e desolato”, in un momento difficile anche per lei che, dopo la scomparsa della sorella Olivia, si trova come amputata: era l’altra, infatti, l’elemento forte della coppia gemellare.

Pittrice su ceramica, Caterina ha trovato in affitto un locale dove continuare la propria attività, ma un amico ceramista le ha regalato anche gli strumenti del proprio lavoro e un giorno lei sente il bisogno di usarli per scolpire due figure femminili. Così, attraverso l’energia messa in moto dalla creazione artistica, il processo di ricerca interiore iniziato da tempo trova la strada per una nuova consapevolezza: Caterina capisce che la sua infelicità ha radici profonde, e risale a prima della tragedia, connessa com’è alla rinuncia di una parte di sé. L’avvio della risoluzione della crisi permetterà anche l’accettazione di un nuovo amore.

Bella mia(il titolo riecheggia le parole di un canto popolare intriso di nostalgia per la terra natale) è uscito nel gennaio scorso con una postfazione dell’autrice nella nuova edizione einaudiana, dopo quella di Elliot del 2014, che aveva concorso al Premio Strega vincendo poi il Premio Brancati. È il secondo lavoro di Donatella Di Pietrantonio dopo Mia madre è un fiume, (Elliot 2011, Premio Tropea) romanzo d’esordio diventato un caso editoriale nazionale.

Lo sfondo della vicenda è la città dell’Aquila colpita dal terremoto e in gran parte inagibile; la “zona rossa” ancora è transennata e ne è vietato l’accesso, ma sia Caterina sia suo nipote vi penetrano più volte, all’insaputa l’uno dell’altra, quasi non potessero fare a meno di tornare nel luogo dove è avvenuta la tragedia famigliare legata alla crisi da cui ognuno cerca dolorosamente di uscire a suo modo: la vecchia madre ricorrendo alle certezze offerte dalla fede, Caterina attraverso l’arte e Marco, il personaggio forse più intenso del romanzo, attraverso una sua via difficile, tortuosa, in cui alla rivolta si accompagna una sorta di acerba progettualità. E le macerie sono nello stesso tempo reali e simboliche, così come è reale e ma anche metaforica la mezza stanza che Marco, insieme ai suoi amici, riesce a liberare dai calcinacci  e a rendere in qualche modo abitabile, nella casa lesionata dove è morta sua madre e dove lui vuole assolutamente ritornare, dopo che sarà ricostruita.

Semplice nella trama, il romanzo dà largo spazio ai sentimenti e ai conflitti legati ai rapporti famigliari attraverso la prosa secca, scabra, priva di lusinghe formali ma capace di improvvise accensioni  che caratterizza anche l’ultimo lavoro di Donatella Di Pietrantonio, L’Arminuta,vincitore del premio Campiello 2017, attraverso il quale l’autrice si è confermata come una delle voci più interessanti nel panorama della letteratura italiana degli ultimi dieci anni.

Donatella Di Pietrantonio

Bella mia

Einaudi, Torino, 2018

  1. 182

€ 12