Il linguaggio giuridico rispettoso del genere: un’analisi sulle norme della genitorialità (terza parte)

Nel contesto di sostanziale asimmetricità che vede, in modo non corretto, una predominanza del maschile anche per i sostantivi che indicano professioni femminili, soprattutto se ritenute di prestigio, mi sono chiesta che tipo di lingua sarà presente in due dei testi principali che regolano il tema della maternità e della paternità nel mondo del lavoro. 

Nella cultura italiana, il tema della maternità è un tema femminile. L’ipotesi è quella quindi di trovare una lingua adeguata al genere, anche dato il contenuto delle norme in esame.

I testi qui analizzati sono la Legge 8 marzo 2000, n. 53: “Disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi delle città” e il decreto legislativo 26 marzo 2001, 151 testo unico; “Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53”.

Il primo atto normativo è una legge, composta di 7 capi e 28 articoli. Si tratta di un testo che riassume sia la tematica dei congedi parentali, familiari e formativi, sia la flessibilità di orario, che ulteriori misure a sostegno di maternità e paternità. Tale legge riporta una serie di indicazioni utili per capire i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici quando decidono di diventare genitori. Le norme esposte riguardano in primis l’astensione, obbligatoria e facoltativa.

Il secondo documento invece è un decreto legislativo nato dopo la scrittura della legge 53, con l’obiettivo di porre ordine alle diverse leggi esistenti sull’argomento. Consta di 16 capi, e di 88 articoli, a cui vengono aggiunti quattro elenchi, con i lavori pericolosi, e le diverse assicurazioni per i lavoratori (sic!). Le tematiche principali coinvolgono i riposi giornalieri per allattamento, il divieto di licenziamento in caso di gravidanza, la tutela contro le discriminazioni e il divieto di adibire a lavori pericolosi la donna in gravidanza.

Legge 53, 2000. Nella prima analisi del testo si riscontra un’attenzione (che si pensava scontata) all’uso di una lingua adeguata al genere. Nel testo si trova infatti spesso la dicitura lavoratrici e lavoratori, con qualche inversione in lavoratori e lavoratrici. Si parla di lavoratrici, madri, di lavoratrice madre e di lavoratore padre (non sempre univoco: si trova anche padre lavoratore e madre lavoratrice), anche di genitori, ma si usano esclusivamente le forme del maschile per tutte le altre parole (e persone) coinvolte: si trova sempre il bambino o il minore, il datore di lavoro, il richiedente, il dipendente, i soggetti, il titolare d’impresa, l’imprenditore, il lavoratore autonomo, in tutti quei casi in cui la generalizzazione indica unicamente il maschile come forma di riferimento. E ancora, nell’art. 25, si indica il sindaco, il responsabile, il rappresentante, il dirigente, i presidenti, gli imprenditori, il provveditore, i cittadini.

In questo testo di legge, anche per la materia disciplinata, emerge che il legislatore (o la legislatrice?) si è sforzato a etichettare, in modo corretto, la persona portatrice di diritti e di doveri, a seconda della situazione illustrata. Ciò però avviene solo quando si intende un unico soggetto, e mai quando si deve generalizzare. È il caso già dell’art. 3, in cui si legge “il bambino” e si intende certamente la possibilità che sia una bambina. O ancora, dell’art. 12, in cui si indicano “le lavoratrici” che devono essere visitate da “un medico specialista”; in una frase successiva, il dialogo è fra la “gestante” e “il nascituro”.

L’art. 15 è molto significativo, dal punto di vista linguistico, perché esplicitamente, alla lettera c), recita, nell’elenco dei passi da compiere per l’attuazione della legge: “ coordinamento formale del testo delle disposizioni vigenti, apportando, nei limiti di detto coordinamento, le modifiche necessarie per garantire la coerenza logica e sistematica della normativa, anche al fine di adeguare e semplificare il linguaggio normativo”.

Tale adeguamento dovrebbe riguardare anche l’univocità dei termini utilizzati, e la ritualità. Nell’analisi del decreto legislativo di attuazione non sempre sarà questa la realizzazione. Un esempio in questo senso nella legge 53 è legato alle espressioni: lavoratrice madre vs. madre lavoratrice, e l’omologa espressione “lavoratore padre vs. padre lavoratore”. Le due locuzioni sono usate come sinonimi, nel testo di legge, mentre la diversa dislocazione pone il focus ora sulla parola madre, ora su quella di lavoratrice.

Decreto legislativo 151, 2001. Il decreto in oggetto è un testo più lungo della legge, completato da tre appendici; si tratta di un testo maggiormente operativo e concreto, proprio per la sua natura di attuazione di una legge. Dovrebbe valere come riferimento normativo per tutte le questioni riguardanti tematiche legate alla maternità, alla paternità, alla conciliazione di tempo di lavoro e tempo di vita personale.

In questo testo è costante l’espressione “lavoratrice o lavoratore”. Nello stesso articolo, 28, si trova la forma “il padre lavoratore e la lavoratrice”, quindi espressione non simmetrica.

Nell’art. 32 la forma utilizzata “genitore richiedente” è una buona soluzione per evitare la ripetizione e allo stesso tempo essere adeguato alla realtà comunicativa. Nel comma precedente, invece, è presente la forma duplicata.

In altre espressioni, come accade nel testo di legge, si usa la forma non declinata al femminile, soprattutto nel senso di inclusiva. Si trovano quindi, anche ripetuti, il datore di lavoro, i dipendenti, i soci delle cooperative, i terzi, i soggetti iscritti al fondo pensioni. Anche in questo testo, la prole è declinata sempre al maschile: si trova la parola figlio, il minore, bambino. Nell’art. 47 il testo “scivola” nel maschile anche relativamente alla locuzione “lavoratrice/lavoratore”.

In conclusione rileviamo che rispetto ad altri testi di legge, la presenza della donna è esplicita (e come potrebbe essere altrimenti, visto il tema?). C’è un’attenzione in entrambi i testi allo sdoppiamento, e quasi sempre all’attribuzione del femminile o del maschile in modo corretto. Quello che emerge è però anche l’uso di un maschile inclusivo per tutti quei ruoli che non riguardano direttamente “la lavoratrice madre o il lavoratore padre”. È chiaro che in questa denominazione l’attenzione del legislatore è quasi costretta ad un uso differenziato del termine; tale scelta però viene ripetuta spesso anche per lo sdoppiamento “lavoratrice e lavoratore”, che secondo le tradizioni del linguaggio giuridico italiano non sarebbe così normale. In questo senso, si assiste, in questi due testi normativi, ad un cambiamento verso la lingua adeguata al genere.

Resta, come detto sopra, un’abitudine all’inclusività per molti ruoli presenti nelle leggi.

E infine, una bibliografia tematica utile.

Beaugrande, R.A, Dressler, W.U (1987), Introduzione alla linguistica testuale, Bologna, Il Mulino

Berruto, G. (2004), Prima lezione di sociolinguistica, Roma-Bari, Laterza.

Cavagnoli, S. ( 2007), La comunicazione specialistica, Roma, Carocci.

Cavagnoli, S. (2013), Linguaggio giuridico e lingua di genere: una simbiosi possibile, Alessandria, Edizioni dell’Orso.

Conte M.E. (1999), Condizioni di coerenza. Ricerche di linguistica testuale, Alessandria, Edizioni dell’Orso.

Cossutta, M. (2000), Digressioni intorno alla correttezza del comunicare giuridico, in Kemol, E., Pira, F. (a cura di), Comunicazione e potere, Padova, Cluep, 93-106.

Fusco, F. (2012), La lingua e il femminile nella lessicografia italiana. Tra stereotipo e (in)visibilità, Alessandria, Edizioni dell’Orso.

Migliorino, F. (2008), Il corpo come testo, storie del diritto. Milano, Bollati Boringhieri.




Il linguaggio giuridico rispettoso del genere (seconda parte)

Se il linguaggio giuridico è una lingua di potere, pare chiaro che i suoi testi esprimano il potere di un parlante/scrivente di genere maschile. Anzi, nei testi si riscontra un uso esclusivo del maschile sebbene essi siano rivolti a persone di generi diversi, rendendo più difficile una corretta comprensione, come si cercherà di dimostrare con gli esempi seguenti, e un non rispetto per un gruppo consistente di persone, cittadine, che possono non sentirsi comprese nell’uso esclusivo del maschile.

Alla base di ogni accoglimento o rifiuto di novità linguistiche sta la percezione del parlante relativamente al concetto di normalità della lingua. Normale è ciò che non si discosta dalla norma. Ma la norma, anche quella linguistica, varia a seconda del contesto sociale e soprattutto del periodo storico. Quando nel 1963 vennero ammesse alla magistratura anche le donne, si creò la necessità linguistica di utilizzare un termine adeguato per rappresentare questa figura professionale. Quanti anni dovettero (e dovranno) passare per un utilizzo costante e coerente del termine magistrata(e non magistrato, donna magistratoper esempio)? Serianni, con un bel paragone, sostiene che la norma linguistica varia nel tempo come il senso del pudore. Entrambi sono legati al variare dei costumi e della sensibilità collettiva, da cui dipende l’accettabilità o meno del gruppo sociale e della comunità linguistica.

La genericità dell’uso del maschile anche per il femminile è intesa da molte persone come complessiva; si usa il maschile ma si intende il maschile e il femminile. È davvero così? La lingua rievoca immagini maschili, nella maggioranza dei casi. Pensare a un avvocato richiama l’immagine di un uomo, non di una donna. Lo stesso vale per il professore, per il direttore, per il chirurgo. Però poi di fronte ad affermazioni come «L’uomo è un mammifero perché allatta il suo piccolo» (Anderson, 1988) l’immagine deve essere necessariamente quella di una donna. Si tratta quindi di costruire delle immagini, attraverso la lingua, che corrispondano alla realtà sociale.

E allora viene da chiedersi, ma perché invece quando si parla di lingua di genere non si possono accettare le modifiche, considerandole brutte, fuori luogo, o addirittura negative per l’immagine complessiva della professione?

Si tratta di una scelta, personale in primo luogo, ma anche istituzionale, perché solo l’uso costante di una lingua adeguata al femminile può entrare nella routine linguistica e diventare norma. Anche nel diritto il linguaggio si può adeguare a nuovi istituti, a nuove richieste sociali, a nuovi diritti (o a vecchi diritti, finalmente attuati).

Eppure, il modello di riferimento è sempre quello maschile: è la lingua declinata al maschile che serve come punto di partenza per la formazione del femminile. “In verità il tratto che ha disturbato maggiormente è che in molte lingue le opposizioni grammaticali e le categorizzazioni semantiche privilegerebbero il maschile, ovvero le lingue si adatterebbero perfettamente all’uomo in quanto iperonimo (l’essere umano) e in quanto iponimo (l’essere di sesso maschile). Il lessico e la grammatica risulterebbero sessisti, perché in essi predominerebbe il maschile per esprimere la referenza umana, che in tal modo assumerebbe una funzione non marcata, generica, detta anche ‘falsa generica’ o ‘pseudogenerica’ (false generic), cioè neutra” (Fusco, 2012, 17). Ma la lingua italiana ha due generi, il genere maschile e il genere femminile. Non esiste, come è stato più volte ribadito nella letteratura, un maschile non marcato, un maschile “neutro”: il maschile è inclusivo, eventualmente, ma non neutro. L’italiano non prevede, nelle sue categorie, un genere neutro(Cavagnoli 2013, Berruto 2004).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 




Il linguaggio giuridico rispettoso del genere (prima parte)

Le somiglianze fra la lingua e il diritto sono molte: entrambi sono considerati sistemi, entrambi si basano sulla norma. Entrambi creano realtà con le parole.

Come Giorgio R. Cardona aveva ben messo in evidenza, la lingua è potere, da tanti punti di vista. Attraverso la lingua si definiscono i ruoli (simmetrici o asimmetrici, per esempio attraverso l’uso del tu o del lei, o di entrambi), e l’uso di particolari categorie definisce distanza e vicinanza (l’imperativo unidirezionale, la prosodia, il tono, il volume). Chi sa parlare, sa argomentare, può convincere, obbligare, creare una nuova realtà. 

Lo studio dei rapporti di potere fra il discorso giuridico e i suoi partecipanti, uomini e donne, aiuta a capire la realtà, anche politica. Del resto, il potere democratico presuppone una lingua più trasparente perché legittimato dai cittadini.

Il linguaggio giuridico è sicuramente il linguaggio di maggior prestigio e potere. È un linguaggio conservativo, maschile, in parte arcaico, non marcato. Il linguaggio giuridico è una finzione, nel senso che si tratta di una visione specifica della realtà, che serve a un determinato fine, non della realtà. Una scelta, appunto, che serve a gestire le situazioni da normare, disciplinare ed eventualmente sanzionare. Ma come tutte le scelte, questa selezione esclude altre visioni di realtà.

In questa scelta si inserisce anche l’uso del maschile al posto del femminile. Tutti i testi giuridici utilizzano il cosiddetto maschile inclusivo, o non marcato, intendendo con tale termine un uso valido al maschile e al femminile. La discussione su tale uso è viva, molti giuristi e molte giuriste ritengono che vada bene così, e ciò è vero anche per diverse linguiste da me interpellate. Ma se si interpretano le parole senza troppi filtri, si è portati a dire che il maschile è maschile ed esprime concetti relativi a esseri di genere maschile, mentre il femminile esprime concetti legati ad esseri di genere femminile.

Il fatto che il linguaggio giuridico italiano sia quasi esclusivamente androcentrico, scegliendo sempre la versione maschile al posto di quella femminile, pur in un’accezione non marcata, riproduce una realtà sociale, culturale, storica di un certo tipo. 

Il primo riscontro è quello legato ai nomi delle professioni giuridiche (il giudice, il magistrato, l’avvocato, il notaio), che solo lentamente, e non in maniera uniforme, si stanno trasformando e adeguando alla realtà lavorativa con l’uso, per lo meno, dell’articolo femminile nel caso in cui sia una donna a ricoprire tali incarichi.

La semplificazione – sia dal punto di vista della riduzione a una realtà, sia dell’uso delle parole, con utilizzo di parole della lingua comune (come indica il manuale per la redazione dei testi normativi del 2007) – porta nella direzione di maggior condivisione dei testi giuridici e amministrativi da parte di cittadini e cittadine. Ma significa anche provocare un cambiamento dal punto di vista della lingua di genere, che lentamente, ma con costanza, si fa strada nella comunicazione quotidiana. 

Certi esempi di linguaggio giuridico (il buon padre di famiglia, la perizia dell’uomo medio) contrastano con la realtà nella quale spesso esistono famiglie in cui il capofamiglia è rappresentato da una donna, e il sapere dell’uomo medio è spesso quello della donna media. La locuzione “il buon padre di famiglia” che dovrebbe corrispondere all’idea di un’azione positiva e “diligente” rimanda a un mondo in cui è il padre a gestire la famiglia, e non solo dal punto di vista economico-finanziario. L’espressione “la buona madre di famiglia” non solo non è recepita dalla giurisprudenza e dai testi normativi, ma potrebbe quasi far sorridere. Nella realtà di oggi sono molte le famiglie in cui il “buon padre di famiglia” non è presente e in cui è la donna a gestire i rapporti familiari e finanziari. Quello che emerge è sia la necessità di adeguare il linguaggio giuridico a una nuova realtà, trasformandolo, creando, dove necessario, dei neologismi (come è avvenuto per il codice del diritto di famiglia, in cui si parla di responsabilità genitoriale, e non più di patria potestà – passando dalla potestà genitoriale), o ripensando l’uso esclusivo del maschile. In questo senso, è necessario che il giurista capisca quali sono gli elementi rilevanti, filtrandoli (decisione politica del legislatore) per poi renderli nella realtà normativa. In tutto questo il linguista può essere d’aiuto sia nella necessaria semplificazione del linguaggio, sia nell’attenzione a un linguaggio rispettoso del genere e dei significati a esso collegati. In questo senso il potere del linguaggio potrebbe diventare maggiormente democratico; un potere democratico presuppone una lingua più trasparente perché legittimata dai cittadini e dalla cittadine.




Quello che non si nomina non esiste

Una questione in questi ultimi tempi ampiamente dibattuta è se sia grammaticalmente corretto l’uso al femminile di alcuni sostantivi indicanti la professione. In altri termini: sindaca sì o sindaca no?

Nonostante le indicazioni dell’Accademia della Crusca e i consigli dei linguisti – che sostengono l’assoluta correttezza di termini come ministra, sindaca, magistrata    sembra che la sensibilità comune stenti ad accettarli, mentre nessuno si sogna di opporsi a operaia o infermiera. Perché? Si tratta evidentemente di una questione di potere e di rappresentazione asimmetrica. In questo la lingua di genere gioca un ruolo fondamentale. La lingua infatti crea la realtà ed è lo strumento per esprimere noi stessi, rappresentare il mondo, metterci in comunicazione con gli altri e creare relazioni. In molte professioni, come nell’avvocatura o nella scuola, le donne sono la maggioranza, eppure sono sottorappresentate dal punto di vista della lingua. Purtroppo però quello che non si nomina non esiste.

La nostra è una lingua androcentrica, costruita attorno all’uomo. Eppure l’italiano ha due generi: maschile e femminile.  È curioso che, se ci riferiamo a professioni ritenute comuni, come maestra, spazzina, cassiera non ci sono difficoltà a declinarle al femminile; se invece entriamo nell’ambito del potere o di professioni considerate prestigiose, allora l’uso del maschile prevale.

A parziale giustificazione possiamo addurre delle motivazioni storiche. La società stessa è sostanzialmente androcentrica e molte professioni fino a poco tempo fa erano negate alle donne. Se le prime giudici italiane sono del 1963, è chiaro che prima non potesse esistere la parola magistrata, ci vorrà quindi un po’ di tempo perché le cose cambino.

Una delle obiezioni più ricorrenti che si fanno è che certe parole «suonano male». Stranamente però questo approccio non lo applichiamo ad altre parole che con la rappresentazione del femminile non hanno nulla a che fare, da googlare a linkare: sono forse termini belli o che suonano bene? Eppure la parola che ci dà fastidio è ministra, che è come minestra. Qui mi pare che ci arrocchiamo su posizioni anteguerra.

Purtroppo sono molto spesso le donne ad assumere un lessico che prende come punto di partenza il maschile. Ci sono direttrici che si fanno chiamare direttore perché lo ritengono più prestigioso. Ma dubito che si farebbero chiamare operaio invece di operaia. Altre invece, anche giovani, fanno resistenze dicendo che “i problemi sono altri”, le violenze, i femminicidi… Ed è vero, ma non dimentichiamo che la lingua cambia la realtà. E se fosse davvero un argomento poco rilevante, non smuoverebbe così le viscere di tutti.

Si tratta infine anche di una questione di chiarezza.  Se io dico: “I giornalisti hanno incontrato il direttore” mi immagino si stia parlando di tre uomini. Se invece dico: “Il giornalista e la giornalista hanno incontrato la direttrice” rappresento la realtà effettiva. Dobbiamo essere consapevoli che la nostra grammatica non solo ci dice che si può fare, ma se un bambino a scuola scrivesse: “La ministro è andata”, la maestra gli correggerebbe la concordanza. Lo scopo è essere chiari e non fraintendibili. Umberto Eco diceva: lector in fabula, è chi legge che attribuisce il senso al linguaggio.

Per ogni dubbio poi, ricordiamoci che ci sono i manuali, come Tutt’altro genere di informazione (Consiglio Nazionale-Ordine dei Giornalisti, 2015) e Linguaggio giuridico e lingua di genere: una simbiosi possibile (Edizioni dell’Orso, 2013). O la guida dell’associazione di giornaliste Giulia, a cura di Cecilia Robustelli, Donne, grammatica e media. Gli strumenti ci sono, usiamoli.




Lingua di genere… in formazione (terza parte)

Nella parte precedente abbiamo gettato uno sguardo su come i manuali scolastici pongono la questione della formazione del femminile e del maschile per i nomi di professione.

Vorremmo ora verificare sul campo la percezione delle alunne e degli alunni e l’influenza esercitata su di loro dai manuali stessi. Per fare questo abbiamo compiuto una ricerca su un campione di ragazze e ragazzi dell’Istituto comprensivo “San Nilo” di Grottaferrata (RM), appartenenti alle classi seconde e terze della Scuola secondaria di primo grado. Alle classi è stata sottoposta una lista di nomi di professione al maschile, con la richiesta di indicare il corrispondente femminile. I nomi erano preceduti dall’articolo per verificarne l’eventuale variazione. La stessa lista di parole è stata poi sottoposta a un gruppo di docenti dei Consigli di Classe delle stesse classi prese in esame. Interessante, infatti, è verificare la differenza di percezione tra ragazzi/e e adulti e soprattutto in quale direzione va poi l’inevitabile influenza dei/delle docenti sui/sulle alunni/e. Hanno risposto al questionario 74 studenti, di cui 38 femmine e 36 maschi, e 14 docenti (di cui solo un maschio, l’unico di tutta la scuola secondaria – e su questo si potrebbe dire molto, ma la femminilizzazione della scuola italiana non è oggetto di questo articolo – per cui il dato del sesso per i docenti non è stato preso in considerazione nelle statistiche).

Come c’era da aspettarsi, alcune parole sono state di più immediata trasformazione: nessun dubbio sul passaggio da il professorea la professoressae da il direttorea la direttricesia per alunni/e che per il/le insegnanti, termini talmente parte del vissuto quotidiano di ambedue i gruppi da non costituire affatto un problema.

Lo stesso si sarebbe potuto ipotizzare per il sintagma lo studente, ma qui iniziano le sorprese. Se infatti il gruppo docente, con una sola eccezione, ha indicato come femminile la studentessa, fra alunni e alunne trova posto significativo il femminile la studente.

In pratica, 5 alunni su 36 e 8 alunne su 38 hanno preferito una forma che seguisse la regola grammaticale accettata per tutte le altre parole in –entepiuttosto che la forma in –essa, contrariamente alla quasi totalità delle insegnanti.

Solo un insegnante invece ha optato per la studente, si può dire quindi che la quasi totalità del gruppo docente ha dimostrato di essere legata a una forma conservativa in modo maggiore che quello degli/delle studenti.

Se passiamo ad analizzare due forme oggi balzate particolarmente sotto i riflettori, cioè sindacoe ministro, troviamo una situazione più equilibrata fra i tre gruppi oggetto della nostra analisi.

Accanto ad una percentuale ancora molto alta di agentivo al maschile, articolo compreso – 79% del totale degli/delle intervistati/e dei tre gruppi per il sindacoe 78% per il ministro– inizia ad emergere la forma al femminile, con più del 20% per la ministrae circa il 10% per la sindaca. Forse una maggiore visibilità nei mass-mediae una più rilevante presenza delle donne a ricoprire tali cariche sta influenzando le scelte linguistiche di giovani e adulti/e verso una diminuzione del maschile neutro. Un indice sicuro di tale influenza è l’inversione di tendenza per il lemma cancelliere che, sicuramente grazie alla innegabile autorevolezza e visibilità della figura di Angela Merkel, diviene la cencellieraper il 73% del totale degli/delle intervistati/e.

In generale è emerso poi come la forma in –essasia decisamente un’opzione minoritaria per i/le giovani, segnalando un probabile declino di un suffisso avvertito come obsoleto, e quindi andando maggiormente incontro alle indicazioni di Sabatini. Ne troviamo conferma con la parola poeta. Nonostante nei manuali di grammatica adottati nelle classi si ricorra quasi nella totalità dei casi all’esempio de il poetache diviene immancabilmente la poetessa(forse uno dei motivi per cui il 100% delle insegnanti propende per questa soluzione) troviamo tra alunni e alunne, accanto alla forma invariata il poeta anche per le donne, pure l’opzione la poeta, e in misura non trascurabile:

Ciò è significativo non solo come conferma della perdita di produttività del suffisso –essa, ma anche della maggiore influenza, in termini di prescrittività, dei manuali di grammatica sugli/sulle docenti che non sugli/sulle alunni/e.

Concludiamo con due termini che ritengo interessanti per il fatto che, al contrario dei precedenti, risultano tra alunni e alunne molto meno consueti, sia perché meno usati dai media sia perché meno comuni nella loro esperienza quotidiana e raramente utilizzati nei testi scolastici: giudicee notaio.

Se per la quasi totalità delle docenti il giudiceviene ad indicare anche la forma femminile, sia per le alunne che per gli alunni la forma la giudicecostituisce l’opzione scelta per il 50%.

Se le docenti si orientano circa per l’80% alla forma il notaioanche per le donne, la proporzione si inverte per alunne e alunni, che rispettivamente scelgono la notaiaper il 70 e il 65%:

Laddove gli/le alunni/e sono più liberi dalle pressioni mediatiche e dalle aspettative degli adulti, per le parole meno conosciute e quindi più “neutre” per loro, tendono ad applicare in modo spontaneo la regola grammaticale della formazione del femminile in –aper le parole in –oo l’uso dell’articolo femminile, anche quando gli adulti mostrano più resistenze a fare altrettanto.

Innegabilmente i libri di testo scolastici e i mass-media esercitano una forte influenza sulla formazione di una coscienza linguistica fra le/gli studenti, che ancora si accingono ad acquisire la propria lingua senza sovrastrutture o pregiudizi.  In questo senso il ruolo delle e degli insegnanti si fa delicato e fondamentale: corriamo il rischio di trasmettere, anche involontariamente, i nostri schemi, che a nostra volta abbiamo ereditato.  Senza la pretesa di costruire nuove barricate in una società già fortemente segnata da conflitti di ogni sorta, mi sembra legittima ed estremamente equilibrata l’affermazione di Daniela Finocchi nell’arguto e piacevole libretto La grammatica la fa… la differenza!(2015): non sono necessarie invenzioni o stravolgimenti della grammatica per arrivare all’utilizzo di un linguaggio rispettoso e non sessista, sarebbe sufficiente applicare le regole che già esistono. L’italiano, infatti, contempla il maschile e il femminile e tutti i nomi si possono declinare. Occorre quindi smascherare la falsa universalità della cultura maschile perché il soggetto del discorso – l’Uomo, intendendo con esso anche la donna – lungi dall’essere universale e neutro, come vorrebbe la filosofia classica, rispecchia solo il punto di vista patriarcale. Ma i soggetti sono due, poiché l’umanità è costituita da uomini e donne: si nasce maschi o si nasce femmine. Il riconoscimento della differenza sessuale, come differenza non solo biologica, ma sociale, storica e simbolica, fa quindi emergere quella metà dell’umanità che non ha statuto di soggetto.

Una maggiore sensibilità in questo senso non può che arricchire la lingua. Concludo con una riflessione di Francesca Dragotto proposta nell’introduzione ai Lavori del seminario interdisciplinare Grammatica e sessismo. Questione di dati?[1], che trovo particolarmente felice: la soluzione non può però passare per un appiattimento su quello che da alcuni è bollato come politically correcte da altri come sensibilità ed espressione di pari opportunità. Si pensi agli effetti che una generalizzazione miope dei femminili produrrebbe comunque nell’uso: se, ad esempio, di Rita Levi Montalcini si dicesse che è una tra le più grandi scienziateper evitare il maschile inclusivo, la si priverebbe della primazia anche su buona parte degli uomini. Insomma, dietro alle forme raccomandate e ai problemi nella loro accettazione c’è molto più che un problema di cacofonia o di abitudini e un eccesso di razionalità a guidare i comportamenti verbali non ritengo sia auspicabile per la natura stessa della lingua. Il sessismo veicolato attraverso la lingua è un dato di fatto e non lo si ribadisce mai abbastanza; ma come la bellezza è negli occhi di chi guarda, così la discriminazione è anche nelle orecchie di chi ascolta.

[1]Cf. ://art.torvergata.it/retrieve/handle/2108/82705/155714/Dragotto_Grammatica%20e%20Sessismo_Sezioni.pdf




Lingua di genere in… formazione (seconda parte). Uno sguardo ai manuali scolastici

Se è vero che attraverso la lingua non solo descriviamo la realtà vissuta e/o percepita, ma la costruiamo e la plasmiamo, e partendo dal presupposto che il processo di acquisizione di una lingua perdura fino ai quattordici anni circa, c’è da chiedersi in che modo viene trasmessa e quindi acquisita nella scuola la sensibilità alla lingua di genere. Una sensibilità che, con buona probabilità, segnerà il ragazzo e la ragazza, nel bene o nel male, in modo incisivo, condizionando le scelte, linguistiche e non, nel futuro. Per farlo ci soffermiamo in questo articolo sui testi di grammatica adottati nelle scuole, e in particolare su come viene trattata una questione apparentemente banale, ma tuttavia significativa: il genere dei nomi.

Certamente “il genere del nome” è un argomento affrontato ampiamente alle scuole primarie, così come il cambio di genere dal maschile al femminile e viceversa.  I bambini e le bambine quindi, arrivati/e alle medie, studieranno l’argomento partendo da concetti già acquisiti sia dall’esperienza, sia dalla formazione precedente impartita a scuola.  Normalmente, però, fino alla soglia della scuola media, l’attenzione è più concentrata al cambio di genere riguardante i nomi di animali e i nomi di persona afferenti all’area di esperienza personale dei/delle bambini/e. È in prima media che s’inizia ad affrontare più sistematicamente il cambio di genere dei nomi di mestieri e professioni, sul quale vogliamo brevemente concentrare l’attenzione per le sue implicazioni a livello culturale e sociale.

Abbiamo preso in considerazione alcuni libri di testo, manuali di grammatica della lingua italiana per la scuola secondaria di primo grado, in particolare il testo di morfologia, in uso generalmente nella prima media, in edizioni piuttosto recenti (L. Peruzzi, G. Martini, La grammatica dei perché, Le Monnier Scuola, 2013; M. Sensini, L’italiano di tutti, A. Mondadori Scuola, 2012; S. Rossi, G. A. Rossi, Italiano istruzioni per l’uso, Zanichelli, 2012; A. Palazzo, M. Ghilardi, A chiare lettere, Loescher, 2011; F. Musso, Parole che contano, Lattes, 2009).

Questi manuali non esauriscono certamente tutta la produzione di corsi di grammatica per la fascia considerata, ma ne costituiscono un campione significativo.

Diverse sono le considerazioni che si potrebbero fare a proposito di questi testi in un’ottica di sensibilità alla parità di genere, dall’uso della grafica, alla formulazione degli esercizi, alla scelta lessicale.

Ci soffermeremo tuttavia soprattutto su due punti, chiedendoci:

  • se nei paragrafi dedicati al cambio di genere la forma maschile è considerata la forma base, secondo un principio androcentrico per cui – come sostiene Alma Sabatini – “l’uomo è il parametro intorno a cui ruota e si organizza l’universo linguistico”;
  • come viene affrontata la questione dei nomi di professione, nell’ambito della quale è più evidente la dissimmetria grammaticale e semantica che emerge nel linguaggio comune, spesso avvallata dai media.

 

Notiamo quindi che nei testi presi in esame le posizioni sono varie: in alcuni casi si propongono schemi sotto forma di “passaggio dal maschile al femminile”, in altri ci si limita a fornire alcuni esempi significativi di cambio di genere evitando di addentrarsi in questioni “sensibili”, non presentando nello specifico i nomi di professione. Altre volte si espone un’amplissima serie di esempi con una preponderante presenza del suffisso–essa.

Se prendiamo il famoso Sensini, della casa editrice Arnoldo Mondadori, manuale fra i più diffusi nelle scuole, nel paragrafo chiamato “Dal maschile al femminile” si propone una pagina intera di esempi con un ricco corredo di esercizi. A conclusione troviamo un riquadro di approfondimento significativo dal titolo “Il femminile dei nomi indicanti cariche e professioni” (p. 100). Anche in questo testo la forma base è quella maschile, e la declinazione femminile dei nomi di professione viene affrontata come un problema da risolvere in termini di “femminilizzazione”. Il consiglio che appare con priorità è quello di usare il nome maschile anche per la donna, mentre un accenno alle proposte per un uso non sessista della lingua viene fatto in conclusione e per chi sarà così paziente da leggere fino in fondo il riquadro (forse non tutti/e i/le docenti, certamente pochissimi/e studenti). La questione viene poi liquidata piuttosto sbrigativamente prendendo ad esempio riviste, biglietti da visita e targhette, dove – si nota – prevale la tradizione, vale a dire l’uso del cosiddetto “maschile neutro”.

Anche nel testo della Zanichelli, Italiano istruzioni per l’uso, che a sua volta dedica diverse pagine all’argomento, nel paragrafo “Il cambiamento di genere”, dopo vari esempi volti a esplicitare la regola, è posto un approfondimento (p. 181), ma anche in questo caso la questione rimane aperta, con la descrizione di alcune soluzioni ovvie, come ad esempio l’invariabilità dei nomi con suffisso in –e, senza però mettere in discussione il mancato passaggio del suffisso –oin –a, previsto nella lingua italiana per tutti i cambiamenti di genere ma non contemplato fra le possibilità nel caso di professioni quali avvocato, notaio, ministro.

Il testo della Loescher A chiare letterepropone anch’esso un riquadro con un testo di approfondimento (p. 94) dal titolo “Mestieri e professioni”. È già un passo in avanti il fatto che la forma femminile non appaia come una deviazione dalla norma maschile ma ambedue vengano messe sullo stesso piano. Si apre, seppur timidamente, all’eventualità che si usino forme come ministra, magistratae prefettae la scelta dei nomi che non contemplano il maschile non può che confermare che la difficoltà del “passare dalla forma femminile a quella maschile e viceversa” è tutta culturale e non certo grammaticale.

Da questa veloce analisi, non certo esaustiva, notiamo che i nomi femminili di cariche e professioni come la sindaca, la ministra ecc. vengono proposti con esitazione, quasi a margine, in riquadri separati, con riflessioni complesse che si prestano solitamente a essere ignorate dagli/dalle studenti, mentre in molti testi il suffisso –essaè posto accanto agli altri, con pari enfasi. Sembrerebbe emergere, in conclusione, come la sensibilità per una lingua non sessista sia ancora da formare nelle formatrici e nei formatori prima ancora che nei discenti.

 




Lingua di genere in… formazione (prima parte)

La percezione del maschile e del femminile all’interno di un gruppo di adolescenti esprime certamente in alcuni casi conflittualità, spesso convergenza, molto spesso fa emergere diversità più o meno profonde, a volte frutto del radicarsi degli stereotipi proposti dal mondo adulto.  Possiamo dire comunque che, all’età che corrisponde al periodo di frequentazione della Scuola secondaria di primo grado (la scuola media), i rapporti di forza tra il gruppo maschile e quello femminile sembrano ancora piuttosto simmetrici. In classe maschi e femmine risultano ugualmente visibili, si esprimono alla pari, ottengono successi ed insuccessi equamente distribuiti.

È evidente che la sfida di una sensibilizzazione e di una educazione alla parità di genere (che non significa ovviamente annullare le diversità ma offrire percorsi equi di realizzazione e di accesso alla costruzione di sé e della società sia ai bambini che alle bambine) si gioca, oltre che nella famiglia, anche nelle aule scolastiche e rendere questo sottile equilibrio – che di per sé dovrebbe essere naturale – un modello solido, che si sviluppa e si afferma invece che affievolirsi e spegnersi, è un compito che un educatore o un’educatrice dovrebbe avere fra i suoi obiettivi prioritari.

Purtroppo questa è una direzione verso la quale la scuola stenta ad orientarsi, ne è un segno il lento naufragare del progetto Polite (Pari opportunità nei libri di testo), promosso dal Dipartimento per le pari opportunità della presidenza del Consiglio tra il 1999 e il 2001, nell’ambito del Quarto programma d’azione a medio termine per la parità di opportunità tra le donne e gli uomini, ma rimasto lettera morta.

È quindi lecito chiedersi che tipo di formazione viene generalmente impartita in classe, anche attraverso i libri di testo adottati, ad un uso della lingua che non sia sessista e discriminatorio. Non si tratta solamente di cambiare prospettiva nei libri di storia, letteratura o nelle raccolte antologiche in modo da proporre modelli di femminilità e mascolinità che siano liberi da stereotipi e rispettosi, pur nella diversità, delle pari opportunità che la società può e deve offrire a bambine e bambini. Pare utile porre attenzione anche a come insegniamo ad alunni e alunne a sviluppare competenze linguistiche avendo chiaro il legame tra lingua, società e cultura, così come la relazione tra discriminazione linguistica e discriminazione sociale, evitando di cadere in quella forma di sessismo linguistico che ultimamente è divenuto oggetto di accesi dibattiti dopo anni di indifferenza. Ma c’entra qualcosa la lingua con la sensibilità di genere? Come osserva giustamente Stefania Cavagnoli in una recente intervista:

La lingua c’entra perché crea la realtà ed è lo strumento per esprimere noi stessi, rappresentare il mondo, metterci in comunicazione con gli altri e creare relazioni. Perciò la lingua di genere rappresenta una realtà adeguata alla nostra situazione. In molte professioni, come nell’avvocatura o nella scuola, le donne sono la maggioranza, eppure sono sottorappresentate dal punto di vista della lingua. Ma ricordiamoci che quello che non si nomina non esiste.

(Cf. http://www.corriereromagna.it/news/cultura—spettacoli/25423/la-lingua-e-una-questione-di-potere-quello-che-non-si-nomina-non-esiste.html).

Come è noto, la prima pubblicazione sull’argomento uscita in Italia risale a trent’anni fa: Il sessismo nella lingua italiana di Alma Sabatini, pubblicato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, ma fino ad oggi il cambiamento in termini di un uso delle norme linguistiche e della comunicazione verbale che non penalizzi l’identità sessuata e la visibilità delle donne è ancora molto lontana.  Nel terzo capitolo del volumetto intitolato Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, sono segnalati comportamenti linguistici da evitare, tra cui le forme del femminile in –essa, come avvocatessa, e l’uso del maschile degli agentivi indicanti cariche o titoli professionali prestigiosi riferiti a donne, come “il ministro Tina Anselmi”.

La polemica ancora oggi particolarmente accesa attorno a quest’ultimo punto segnala che le raccomandazioni sono ancora tutt’altro che acquisite.

 

 




La famiglia del III millennio, tre millenni di famiglie

Il 1 e il 2 marzo il laboratorio di grammatica e sessismo ha dato vita ad un seminario formativo interdisciplinare dal titolo: La famiglia nel III millennio, tre millenni di famiglie. Si tratta della seconda edizione di un seminario che si era svolto, sempre presso l’Università di Roma Tor Vergata, un anno fa. L’evento è stato ideato e pensato in primis per le scuole, docenti e insegnanti, ma intendeva costituire un momento di riflessione rivolto alla società tutta.

L’approccio è stato, come il laboratorio cerca sempre di fare, un approccio interdisciplinare. La scelta del tema, quello della famiglia e delle famiglie, un’ottima occasione per discutere, sulla base di dati e di esperienze empiriche, di un “contenitore” che condiziona la società e la vita delle singole persone.

L’apertura dell’evento è stata affidata a P.G. Medaglia per i saluti istituzionali. Medaglia è docente presso la facoltà di ingegneria e delegato del Rettore per l’inclusione degli studenti con disabilità e DSA (UniRoma2). Partendo proprio dal concetto di inclusione, ha voluto sottolineare l’importanza della famiglia come istituzione prima in cui si realizzano e prendono forma valori quali l’accoglienza, la pazienza, l’ascolto, la cura e la custodia.

 

In seguito, il direttore del dipartimento di Lettere e filosofia dell’Università di Roma Tor Vergata, E. Paoli, attraverso studi sull’antichità e sull’esegesi, ha posto la propria attenzione sull’evoluzione alla quale è andata incontro la sacra famiglia, da intendersi come modello dapprima impossibile, poi eversivo, e infine esemplare. Il modello originario presentato è stato quello di una famiglia cristiana “zoppa”, ovvero priva della figura paterna. Non era un caso che la castità fosse l’eccellenza, alla quale ogni buon cristiano e ogni buona cristiana doveva ambire. Col passare dei secoli o, per meglio dire, dei millenni il modello familiare ha però subito notevoli mutamenti. Nel ‘600, e ancor più nell’800 Giuseppe è divenuto una figura centrale e, con lui, ogni padre. Si è così giunti al modello di famiglia esemplare, costituito da padre, madre e figlio, ancora attuale pilatro della società cristiana.

  1. Meli, ricercatrice dell’Istat, ha invece apportato il suo contributo a partire da ricerche quantitative che ridisegnano e riscrivono la realtà familiare italiana, attraverso dati, percentuali e grafici. Dai dati presentati al seminario si evince che, nel nostro paese, ci si sposa sempre più tardi e si divorzia con maggiore frequenza. Inoltre, in aumento sarebbe anche la percentuale di secondi matrimoni. Le nascite sono invece in diminuzione, anche in relazione a un cambiamento del ruolo della donna, infatti ¼ di donne fertili sceglie volontariamente di non procreare. Le famiglie vanno incontro a una progressiva semplificazione e cristallizzazione, poiché costituite da pochi/poche figli/e che abbandonano il nucleo originario sempre più tardi. L’intervento si è poi concluso evidenziando non poche criticità riguardo i limiti dei parametri utilizzati, i quali non sempre riescono a individuare e a prendere in considerazione/analisi ogni tipo di nucleo familiare.

 

Di taglio sociologico il contributo di A. Volterrani, docente di Sociologia presso L’Università degli studi di Roma Tor Vergata. Partendo da dati anagrafici, e in particolare dallo studio dello stato di famiglia, lo studioso ha evidenziato l’esistenza di almeno diciassette tipi di famiglie diverse. Pertanto, la nostra penisola risulta essere ben lontana dal modello stereotipato di “famiglia tradizionale”, che ricopre solo il 50% dell’attuale panorama familiare italiano. Insomma, tante famiglie, costitutivamente diverse, eppure simili in quanto egualmente fonte di opportunità e problemi.

 

La famiglia è fortemente rappresentata anche nei media, e nei social, così come nella pubblicità, analizzata in modo interculturale da due classi del liceo paritario San Paolo di Roma che, come momento di sintesi e a parziale conclusione di un progetto di alternanza scuola lavoro incentrato sulla comunicazione consapevole, hanno elaborato un filmato che metteva in evidenza come la famiglia, le famiglie, sono state rappresentate, ieri e oggi, dal marchio Coca Cola, a seconda del paese in cui è stato proiettato lo spot pubblicitario.

Lo stesso argomento, seppur con tagli diversi, è stato preso in esame anche da S. Melchiorre (ricercatrice presso L’università degli Studi della Tuscia), L. Bagini (docente presso l’Università degli Studi di Poitiers) ed L. Selvarolo (laureata in comunicazione presso l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata). La prima ha introdotto la propria analisi partendo dall’identità individuale, ormai fluida nell’epoca dei media, per poi passare a un’analisi dell’identità familiare. Identità che si costruiscono e riscostruiscono senza sosta e che vengono inevitabilmente condizionate e guidate dai (social)media. Biagini e Selvarolo hanno invece offerto il loro contributo analizzando il mondo pubblicitario di ieri e di oggi, fornendoci così una panoramica chiara e continuativa della rappresentazione familiare all’interno del mondo pubblicitario. Bagini si è concentrata sui caroselli, ovvero le originarie rappresentazioni di quelli che oggi definiamo spot, Selvarolo invece ha focalizzato la propria ricerca attorno ai recenti spot pubblicitari di tre grandi marchi, ovvero Findus, Barilla e Kinder.

In entrambi i casi le conclusioni alle quali sono giunte sono pressoché simili. La famiglia proposta è quella “tradizionale”, e le figure rappresentate (di padre, madre e figli/e) sono fortemente stereotipate.

La famiglia è stata considerata anche dal punto di vista medico, della cura, con il racconto di M. Macchiaiolo, specializzata in malattie rare e croniche. In contesti così delicati, le famiglie svolgono un ruolo centrale, poiché accompagnano il/la figlio/a malato/a nel loro cammino, di guarigione o di cura, ma, a loro volta, devono essere supportate e sostenute. Accettare che il proprio figlio, o la propria figlia, sia affetto/a da una malattia rara significa accettare la morte della rappresentazione mentale di un figlio, o di una figlia, idealizzato/a per mesi, se non per anni, e iniziare a ricostruire un nuovo percorso di vita, in cui il/la medico/a diventa il primo punto di riferimento, clinico, morale e psicologico.

Quest’ultimo ambito è stato analizzato in particolar modo dalla psicologa Anna Maria Di Santo. Con i cambiamenti avvenuti nella società contemporanea, i figli e le figlie appartengono non più ad una famiglia, ma sempre più a gruppi familiari a plurale. Famiglie ricomposte, famiglie allargate, famiglie allungate, che rideterminano i ruoli e le relazioni fra le persone coinvolte. In ogni caso, si fa sempre riferimento a un luogo in cui si deve instaurare un clima di serenità, capace di garantire un equilibrato sviluppo psico-fisico dei bambini e delle bambine che ne fanno parte.

Famiglie, però, sono anche quelle che adottano a livello internazionale. Questo argomento è stato trattato dalla psicologa M. Azzacconi, la quale ha messo il rilievo, da una parte, le difficoltà delle famiglie, nel riuscire a ottenere un/una figlio/a in adozione, e dall’altra, i vantaggi e le difficoltà dell’inserimento nella nuova vita da parte di minori adottati/e.

Il seminario ha dato spazio anche ad altri ambiti. Uno fra i tanti è stato quello antropologico, rappresentato dal P. Vereni. Quest’ultimo ha demolito il concetto di famiglia naturale, sotto un duplice aspetto. In un primo momento ha dimostrato che ogni costituzione familiare si basa sull’unione tra due individui che non possiedono legami naturali, ovvero di sangue. A sancirne l’unione è soltanto un contratto, prodotto artificiale ben lontano dal concetto di natura. In un secondo tempo si è poi concentrato sul concetto di famiglia socialmente valido e naturalmente condiviso. Creando quindi dei parallelismi tra la cultura italiana e quelle appartenenti ad altri popoli, ha dimostrato quanto ogni concetto di normalità familiare, di spontanea accettazione, sia legato alla propria visione del mondo, alla propria cultura, e nulla abbia a che fare davvero con la natura umana.

Lo stesso concetto di famiglia e famiglia, congiunto ai due ambiti del naturale e dell’artificiale (quindi del contratto di matrimonio), è stato analizzato anche dalla linguista S. Cavagnoli, docente presso l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata. L’analisi compiuta dalla studiosa verteva sul diritto di famiglia e, in particola modo, sulla lingua che il diritto di famiglia utilizza per rappresentare l’attuale panorama italiano.

Il seminario ha inoltre ospitato anche R. Oliva De Concilis, dell’associazione “Rete per la parità” e B. Belotti, dell’associazione di “Toponomastica femminile”.

La prima, compiendo degli studi che ruotano attorno all’anagrafe, ha dimostrato quanto, negli anni scorsi, le donne abbiano dovuto lottare per eliminare la procedura del cognome coatto (ovviamente in riferimento al cognome del marito). Oggi tanti passi avanti sono stati compiuti, soprattutto in relazione ai/alle figli/e vittime di femminicidio. Per loro è stata messa in atto una procedura semplificata, in relazione all’abbandono del cognome paterno e all’acquisizione di quello materno. Nonostante ciò, tanto c’è ancora da fare all’interno di un mondo, quello dei cognomi, ancora capace di svelarci innumerevoli relazioni di potere familiare.

  1. Belotti ha utilizzato lo stesso punto di partenza, quello dei cognomi, unendo però quest’ambito a quello della toponomastica. Le analisi e gli studi compiuti da Belotti dimostrano che, nei secoli, smisurate donne, madri, mogli, figlie e sorelle, non sono state tenute in considerazione nell’intitolazione delle strade delle nostre città. Strade che ci raccontano il nostro passato, un passato dal quale le donne sono state cancellate, non soltanto perché a loro è stato riservato poco spazio nella toponomastica rispetto a quello maschile, ma anche perché, se presenti, le donne sono state completamente oscurate da cognomi maschili, capaci di inglobarle in sé fino a farle cadere nell’oblio.

La rappresentazione della famiglia è stata completata dalla presentazione di analisi di libri di testo per la scuola primaria e per l’apprendimento della lingua italiana per non italofoni, e dal racconto di una scrittrice insegnante, che si è confrontata con il tema della famiglia a scuola.

I libri di testo, destinati alla scuola primaria, sono stati presi in esame da A. Cassarino, laureata magistrale presso l’Università degli studi di Roma Tor Vergata. La ricerca diacronica ha dimostrato che, ieri come oggi, il libro di testo contribuisce alla costruzione dell’immaginario comune attraverso la rappresentazione di un unico modello familiare, quello nucleare, in cui i ruoli ricoperti risultano ancora fortemente stereotipati.

  1. Nardi e C. Coccia, in qualità rispettivamente di responsabile del CLICI (Centro di Lingua e Cultura Italiana) e di dottoranda presso l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata, hanno invece analizzato i testi destinati a individui di cultura non italiana, sottolineando la centralità della famiglia, calata nei diversi contesti culturali, come punto di partenza e come indispensabile veicolo per un’efficiente pratica dell’insegnamento/apprendimento.
  2. Dai Prà, insegnante e scrittrice, ha infine voluto evidenziare il profondo legame che unisce scuola e famiglie. A volte però, l’incuranza e la scarsa informazione possono risultare fuorvianti per uno sviluppo ottimale degli/delle studenti/studentesse in piena fase di formazione. Dai Prà ha pertanto messo in luce la pericolosa diffusione nelle scuole dell’infondata teoria gender, priva di qualsiasi fondamento scientifico eppure fortemente viva all’interno del mondo scolastico.

Il seminario, organizzato con un interesse linguistico di fondo dalle docenti F. Dragotto e S. Cavagnoli (linguiste presso l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata), si è chiuso con una riflessione di F. Dragotto sulla definizione di famiglia dal punto di vista della sua etimologia, che emerge anche dalle pieghe delle diverse proposte di lettura offerte da questo incontro interdisciplinare che, tra chi presente, ha fatto registrare una insolita partecipazione alla discussione. Indicativa di quanto ci sia ancora da dire su questo tema di cui si parla con scarsa consapevolezza




Il laboratorio di Grammatica e Sessismo (GeS) dell’Università di Tor Vergata (Roma)

A cura di Francesca Dragotto e Stefania Cavagnoli

GeS, Laboratorio di grammatica e sessismo, inizia la propria attività nel 2011, sviluppato a partire da un’idea di Francesca Dragotto, docente di linguistica generale presso vari corsi dell’Università di Roma Tor Vergata.

È stato pensato, fin dalla sua istituzione, per alimentare una discussione intorno al genere, categoria presente in numerose lingue oltre che in moltissime altre entità organizzate, allo stesso modo che il linguaggio verbale, in forma di struttura. Società in primis.

Divenuto di recente argomento di grande attualità e discussione per la prima volta anche presso il pubblico non specialista a seguito della diffusione della cosiddetta Teoria gender, di genere si parla in modo per lo più distorto a causa della sua facile ma erronea sovrapposizione alla categoria di genere biologico ovvero di marker sessuale. Una sovrapposizione favorita, nel caso della lingua italiana, da quel processo di grammaticalizzazione del genere che alcune migliaia di anni fa ha condotto il latino a munirsi di marche per l’evidenziazione di maschile, femminile e neutro, interpretate frettolosamente ed erratamente come riproposizione linguistica di una situazione presente in natura.

Per tentare di superare le conseguenze di questa distorsione, i cui effetti possono essere facilmente assunti a fini manipolatori da parte della comunicazione politica e di massa, si è ritenuto di dover contribuire a diffondere una visione del genere fondata da un punto di vista epistemologico e scientifico avendo cura di mostrare come si tratti di un fenomeno che può essere colto solo adottando una prospettiva di studio inter e pluridisciplinare, volta a coglierne la sussistenza e le conseguenze nelle lingue, nei testi, nella mente, nelle patologie, nel diritto, nelle arti e in ogni altra entità organizzata in forma di struttura, ovvero di grammatica.

Chi è GeS

Anima da tre anni stabilmente le attività di GeS, insieme con la sua ideatrice, Stefania Cavagnoli, docente di linguistica applicata e glottodidattica e direttrice del Centro Linguistico di Ateneo – CLA dell’Università di Roma Tor Vergata, che nella linguistica di genere annovera uno dei suoi interessi più profondi e duraturi, e, dal 2017, Annalisa Cassarino, laureata in linguistica studiosa di questioni di genere e, in particolare, di analisi dell’acquisizione e sedimentazione degli stereotipi in età evolutiva oltre che ideatrice e conduttrice di “De-generiamo”, una rubrica per la webradio Radio libera tutti.

Cosa fa GeS

L’attività del Laboratorio GeS, prevede ogni anno e più volte nel corso dello stesso anno l’organizzazione e lo svolgimento di giornate di seminario presso la macroarea di Lettere.

Inoltre, stabilmente

–       svolge attività di formazione al di fuori dell’università in primis nelle scuole

–     promuove la circolazione della conoscenza scientifica del genere e di ciò che implica attraverso la pubblicazione e la diffusione di testi

–    collabora con enti e associazioni (è stabile, per esempio, quella con il Forum del Terzo Settore del Lazio)

–       collabora con il CUG e con la commissione CARIS di Ateneo, per l’inclusione

–       collabora e progetta interventi didattici con Toponomastica femminile

–       partecipa a convegni internazionali e ad altre iniziative di carattere scientifico

–       assegna tesi triennali e magistrali su aspetti connessi con il genere

 

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  Francesca Dragotto

Francesca Dragotto è professoressa associata di Linguistica all’Università di Tor Vergata. I suoi campi di interesse includono semantica, lessico e pragmatica, sia sincroniche che diacroniche. In anni più recenti i suoi interessi si sono focalizzati sull’analisi del testo, considerata come un insieme cognitivo, culturale e sociale nel quale ciascun parlante ricostruisce la propria rappresentazione del mondo e dei ruoli e delle norme sociali che in esso agiscono.

dragotto.f@impagine.it

 

  Stefania Cavagnoli

Stefania Cavagnoli è professoressa associata presso l’Università di Roma Tor Vergata (abilitata alla I fascia), dove insegna Linguistica generale e applicata e Teoria e prassi della traduzione. È delegata del rettore per il centro linguistico di ateneo e sua direttrice. I suoi campi di ricerca sono l’educazione plurilingue e la linguistica giuridica, con particolare attenzione alla lingua di genere.

cavagnoli.s@impagine.it