La Psicoterapia è veramente accessibile?

Da alcuni anni a questa parte, in concomitanza con la crisi economica del decennio scorso, e in alcuni casi anche prima, si è diffusa a macchia d’olio nella comunità italiana di psicologhe e psicologi la pratica della psicoterapia accessibile o sostenibile o sociale. Una miriade di piccoli gruppi organizzati intorno a qualche centro o scuola di formazione che permettono l’accesso a pazienti meno abbienti a tariffa sostenibile e talora simbolica.

Tale pratica in realtà, si è ormai reticolarmente diffusa anche tra moltissimi singole/i

colleghe/i del privato professionale, probabilmente la maggioranza, ciascuna/o disponibile per una piccola parte del proprio tempo professionale ad accogliere pazienti a tariffa sociale.

Tale impegno nella sua dimensione ubiquitaria, al di là delle personali sensibilità, assume chiaramente un carattere sociologico in quanto risposta riflessa e automatica al disagio della nostra società e al progressivo impoverimento delle fasce socio-economiche medie e medio-basse, come tutte le statistiche degli ultimi anni dimostrano.

Ma tutto questo non basta, è solo una goccia nell’oceano e la domanda di cura e benessere psicologico tracima da ogni parte e si fa più pressante senza trovare alcuna sponda.

Dunque, di fatto oggi in Italia, migliaia di colleghe e colleghi ospitano migliaia di pazienti a tariffe simboliche o ridotte, ma tale impegno si confina e rimane invisibile purtroppo nelle quattro mura degli studi privati e non assume la giusta rilevanza presso l’opinione pubblica tale da sollevare interrogativi circa la mancata assunzione da parte del Servizio Sanitario Nazionale della domanda di cura e benessere psicologico esistente.

Sarebbe opportuno non solo che questo impegno invisibile e sommerso venisse alla luce del giorno e svelasse ciò che ogni addetto/a ai lavori sa e cioè che la salute e la prevenzione psicologica in Italia è praticamente lettera morta ed è troppo raramente appannaggio del SSN.

Se ci spostiamo nel Regno Unito, dove la programmazione sanitaria e l’epidemiologia hanno lunga tradizione e dove hanno calcolato impatto e costi sociali dell’ansia e della depressione, esiste da alcuni anni un grande progetto governativo (Improving Access to Psychological Therapies), rifinanziato con budget sempre maggiori, pensato per contrastare l’onda montante del disagio psicologico, previsto dall’OMS già nei decenni precedenti, ed i cui primi risultati appaiono molto confortanti.

In Italia non solo le fasce socioeconomiche basse sono tagliate fuori da una seria prevenzione e cura psicologica, ma ormai anche le fasce sociali medie, sempre più impoverite, soprattutto famiglie con figli piccoli e adolescenti, coppie giovani, giovani disoccupate/i e precari/e, persone emarginate sul lavoro, non riescono assolutamente a sostenere le spese di una cura psicologica, in genere necessariamente di lunga durata.

Vorremmo prima o poi assistere a una legislazione che riconosca e preveda il diritto alla cura e l’accessibilità a queste essenziali cure a tutta la cittadinanza.

 

 

 

 




BARI – Annalisa Marrone, capitana della squadra di rugby di Bitonto

Sono arrivata al campo sportivo cittadino dove aspetto Annalisa Marrone, la capitana della squadra di rugby femminile di Bitonto. Fa molto freddo, febbraio in Puglia è uno dei mesi più rigidi; guardo i tre splendidi campanili illuminati che cingono l’orizzonte molto oltre il campo, sembrano guglie di una corona, sento il mio freddo di questa sera, e mi domando se sarei capace di allenarmi con questa temperatura. Sì, penso di sì.

Arriva la capitana, e di lei noto subito lo sguardo fiero e una complicata acconciatura a trecce; glielo dico, e lei mi risponde subito: ‘Ci leghiamo i capelli perché altrimenti vengono avanti, sono molto lunghi. E poi è una specie di rituale’. L’intervista è già cominciata naturalmente e sono già ammaliata da questa informazione sui capelli.

Se io volessi avvicinarmi avvinarsi al rugby, cosa mi racconteresti?

Innanzitutto, che il rugby è uno sport di contatto, in cui con un gruppo di persone amiche si va a sfidare un altro gruppo di persone amiche.

Mi piace molto la questione del contatto, del corpo.

In genere, questa è la cosa che più spaventa gli altri. Quando si parla di sport di contatto, di placcaggio, cadere per terra, gli adulti, e solo gli adulti, si spaventano. Per i bambini è una cosa normalissima, abbracciarsi, placcare, è normalissimo, invece i pregiudizi dei genitori verso il nostro sport limitano l’afflusso di persone. È paura dell’altro, quando invece il placcaggio è un abbracciare e cadere insieme alla persona, un qualcosa, quindi, che non ha un elemento di violenza in sé. È il timore del placcaggio che conferisce questo alone di violenza. Tuttavia, a differenza, per esempio, della boxe, dove magari è più esplicito il riferimento alla violenza, il nostro obiettivo non è sferrarsi colpi, questa paura deriva più dall’essersi allontanati da qualcosa di naturale come cadere (insieme) per terra. I bambini lo fanno, tutti cadiamo, noi sappiamo come cadere, difficilmente ci feriamo a differenza di tante persone che non fanno sport in generale e non sono abituate a concepire il proprio corpo. Impariamo a gestire la caduta, e ci riappropriamo del contatto col compagno. Ho notato spesso che quando chiedo ai bambini, in allenamento, di abbracciare il compagno, restano un po’ intimoriti, specie quelli più grandi, adolescenti. Invece dovrebbero riabituarsi al contatto, abbracciarsi, cadere insieme, stare col proprio compagno di squadra: è proprio lì che crescono.

Quindi non si stimola l’aggressività, ma al contrario, si sollecita il contatto con l’altro.

Al massimo si torna a casa con qualche livido in più. Interviene l’allenatore, Marco Marcario: È una metafora di vita, come ripetiamo sempre ai corsi. Tu puoi stare sempre con gli amici, ma prima o poi incontri qualcuno che ha un obiettivo che è opposto al tuo, con cui ti devi confrontare; non per questo è un nemico da distruggere. È solo una persona che hai di fronte che ha un obiettivo opposto al tuo. A volte si assumono dei toni un po’ da scontro, ma dipende da quanto è acceso. Se è molto acceso, comunque non ti puoi tirare indietro, perché tirarsi indietro significa non raggiungere l’obiettivo, e questo succede anche a lavoro. Viceversa, quando incontri una condizione favorevole, non spingi. Non significa distruggere o essere violenti, ma riappropriarsi del fatto che non sempre possiamo essere amici di tutti, a volte affrontiamo qualcuno che ha un obiettivo diverso, e questa è la lotta, a volte scontro.

Immagino che questo sport abbia anche delle ricadute positive, alla luce di quello che ci stiamo dicendo, in termini di fiducia in se stess*.

Sì: sulla sicurezza, sull’autostima, sul decision making. Nel campo hai il pallone, e devi scegliere: corro, lo passo, qualsiasi cosa, però devi scegliere immediatamente.

Quanto è un gioco di squadra e quanto conta l’iniziativa del singolo?

Contano entrambe. La squadra è composta da quindici membri (uno contro uno in partita), tutti giocano ma solo chi ha la palla può essere placcato, quindi solo chi ha la palla, in quel momento di gioco, è partecipante attivo e deve avanzare verso la meta. Gli altri compagni, quando lui verrà placcato (o se non viene placcato attendono un passaggio) sono vicini a prestare sostegno.

La tua storia. Come ti sei avvicinata a questo sport, che fai, cosa ti dà questo sport…

Ho iniziato a giocare a rugby a diciassette anni, prima praticavo atletica leggera, che è uno sport individuale, per questo ritengo che l’individualità sia una parte fondamentale di me come giocatrice, però nell’atletica leggera, come ogni sport individuale, manca il gruppo, componente che noi abbiamo qui. Quello che ripeto sempre durante i corsi è che il bello del nostro sport è che la vittoria è condivisa – si vince e si gioisce tutte insieme – come anche la sconfitta. Dopo una sconfitta si riflette, ci si allena, tutte insieme. Questa capacità di essere tutte insieme, essere una comunità, il gruppo squadra, ti permette di affrontare meglio le problematiche che si presentano. Perché le capacità che ognuno di noi ha sono limitate, magari un’altra persona ha un’altra idea, una proposta, qualcosa di diverso che ci permette di migliorare tutte.

Parli spesso di fare corsi, quindi tu sei già allenatrice.

Sì. Fino all’anno scorso allenavo la categoria under 16, adesso cerco di fare anche reclutamento nelle scuole, per ragazzi e ragazze, riscontrando di tutto e di più. Proprio oggi, una ragazzina mi ha detto: ‘Rugby? Cos’è rugby? È uno sport a maschi, io so’ femmina’. Per me non esistono gli sport da maschi o da femmine; lo sport è sport. Le ragazze corrono e placcano come i ragazzi, i ragazzi danzano meglio di me, se ci mettiamo a confronto. Lo sport è una passione e perseguire i propri obiettivi. Ognuno sceglie quello che vuole fare. Se una ragazza vuole fare rugby, può benissimo farlo, l’importante è che lei voglia farlo. Voglia correre con noi, giocare con noi, non è una cosa limitante essere donna. Limitante è vedere sport da maschio e sport da femmina. So che è più rassicurante mettersi in questa bella casellina – sport da maschio, no, non lo faccio così mamma è contenta.

Alla luce di questo discorso, che ruolo gioca il corpo? Quanto conta avere una certa fisicità? Si può raggiungere comunque un obiettivo, migliorando?

Sì, il miglioramento è possibile in tutti i giocatori. Ognuno di noi entra in campo non sperando di essere il miglior giocatore, ma di migliorare, ogni giorno dobbiamo crescere. Chi ha il fisico più robusto si concentra di più sullo sfondamento della linea avversaria, prendendosi il placcaggio; invece chi è più esile può superare l’avversario ma girandogli intorno, cercare di scappare, non farsi prendere. L’obiettivo di tutti è fare meta, ma c’è chi usa il mezzo del contatto, perché ha un fisico che glielo permette, chi usa il mezzo della velocità perché gli conviene più evitare il contatto. Per ogni fisico c’è il ruolo adatto nel nostro sport. Ciò che importa è voler correre tutti insieme nella stessa direzione.

E per le donne, come funziona quando avete il ciclo?

In realtà l’allenamento fa diminuire sia il dolore che il flusso per azione dell’adrenalina. Nessun problema.

Che progetti hai per te?

Per ora sto continuando a studiare, mi sono laureata a dicembre in matematica e ora sto continuando la specialistica, mi piacerebbe molto entrare nell’ambito dello sport, anche coinvolgendo le scuole. Molti ragazzi e ragazze, in generale, non si dedicano allo sport con la scusa dei compiti, ‘devo studiare’, mi dicono, ma tutti studiamo, io mi sono laureata! Ci sono altre ragazze che studiano, che si sono laureate…L’importante è sapersi organizzare. Mi auguro di riuscire un giorno o a lavorare nell’ambito della matematica, e lasciare come passione il discorso dello sport, credo sia difficile possa diventare, da solo, un vero e propio lavoro, anche perché girano davvero pochi soldi. Ad esempio, nelle scuole vado come volontaria per diffondere la cultura del rugby. Questo sport ci mette tutti alla pari. Da noi, il rispetto per l’avversario e per l’arbitro sono cose fondamentali. Con l’arbitro parla solo il capitano, e il non rispetto di questa regola, da parte dei giocatori, può comportare un’ammonizione – cosa che si è verificata, in partita.

Per quanto riguarda le scuole, avete deciso voi di entrarci per promuovere il rugby?

Sì, è partito da noi, dalla società. Le scuole, in genere, non conoscono il nostro sport, però poi si incontrano insegnanti con particolare disponibilità a farci lavorare, anche se lavorare in una palestra, rispetto a un campo sportivo, è un po’ più pericoloso; però, prese le dovute precauzioni, siamo riusciti a lavorare.

Chi può fare questo sport, per quanto riguarda l’età?

Nelle scuole ci rivolgiamo alla fascia d’età 13-18, ma è uno sport che può fare chiunque tra i 6 e i 42 anni, limite fissato in Italia. Poi dopo i 42 anni c’è la categoria old, che riunisce tutte le persone sopra i 42 anni (possono giocare insieme).

Allenatore: gli old dovrebbero giocare con regole diverse, ma poi si vogliono sentire uomini, anche a 80 anni, e si placcano normalmente, con conseguente viaggio all’ospedale! Comunque, ho letto che tra due settimane (qualche giorno fa, quindi n.d.t.) si è tenuta a Napoli la prima competizione femminile per la categoria old, che poi è la prima generazione che rientra in questa categoria perché il rugby femminile è conosciuto in Italia da circa dieci anni, anche se ufficialmente parliamo del 1995.

Quando è arrivato a Bitonto questo sport?

Da tre anni, a gennaio 2015. Prima giocavo con un’altra squadra, poi con Angelica Lacetera (che ora studia fuori) abbiamo deciso di creare la squadra bitontina.

Allenatore: i risultati delle squadre femminili sono migliori per una ragione semplice: c’è un gap di 110 anni. Il fatto di essere partite alla pari con le altre nazionali ti porta a giocartela con le altre nazionali. Poi c’è un altro elemento importante: l’approccio della nazione allo sport. Per esempio, l’Inghilterra fa professionismo con le ragazze, cosa che da noi, oggi, è impensabile. Interviene Annalisa: chiaramente è diverso l’impegno che ognuna di noi può mettere in campo considerando che dobbiamo studiare, lavorare, curare la casa, invece col professionismo sarebbe molto più semplice, come in Inghilterra, dove vanno in palestra e vengono anche stipendiate. È questione di mentalità. Continua l’allenatore: in pochi altri sport ti è permesso di vedere i risultati se si fosse partiti tutti dallo stesso punto, il rugby può e lo sta facendo vedere, e nonostante questo non si mobilitano finanziamenti. Continua Annalisa: e molte persone non fanno sport, in generale. Nelle scuole, ormai, in una classe solo una o due persone praticano sport, magari lo facevano quando erano più piccoli ma crescendo se ne sono allontanati. I genitori preferiscono tenerli a casa, protetti. Interviene l’allenatore: i bambini non sono lasciati più neanche gattonare, si mettono direttamente nel girello, perdendosi una fase dello sviluppo motorio molto importante. Non si recupera più. Annalisa: invece è importante per la salute psico-fisica. E così molti ragazzi stanno accasciati, hanno problemi di postura.

Quante squadre femminili ci sono in Puglia?

Bitonto, Modugno e Lecce e Gioia del Colle di nuova formazione. Bitonto è seconda in classifica nel girone. Non abbiamo ancora fatto trasferte nazionali ma ora stiamo partecipando anche a un tutorato con Torre del Greco, abbiamo il doppio tesseramento.

Quante siete oggi, in allenamento?

10-12 ragazze, dai 16 anni. C’è una ragazza che ha iniziato quest’anno di 25 anni, io ne ho 23.

Come trovate questo campo?

È casa. Questo è quello che abbiamo (ride). Tecnicamente sarebbe meglio se avessimo l’erbetta.

Una domanda: perché non ti chiami/chiamano ‘capitana’?

Eh, l’italiano….anche quando faccio l’allenatrice mi pongo questo dubbio, come mi devo chiamare? Mister?

Capitana.

Ok! Allenatrice mi sembra troppo lungo, allora dico alle ragazze chiamatemi mister, coach, come vi pare, ci capiamo.

Io ti chiamerò capitana. La grammatica me lo consente ma è per me ancora più importante la filosofia che c’è dietro, riconoscere il femminile di un ruolo, come l’italiano mi consente di fare. Perché non è vero che uguale, poi le donne vengono invisibilizzate.

Qual è stata la reazione di amici e parenti quando avete espresso la volontà di fare questo sport?

‘Ma davvero?’, ‘Ma non è che ti fai male?’. Quando dico che pratico il rugby, rimangono a bocca aperta, un po’ come quando dico che studio matematica! Uguale! Due cose viste come anticonvenzionali, tutti si disgustano o sono spaventati perché la matematica non si capisce, la stessa reazione di timore per il rugby!

Viene girata la domanda a una giocatrice: Mia madre ha detto più cose, più volte. Continua, in realtà! Innanzitutto ha detto che sono troppo magra, ha detto che gli altri mi avrebbero rotta, che non mi avrebbe accompagnata in ospedale (risate) e cose del genere.

Un’altra giocatrice: mia madre si è abituata, diciamo, all’inizio diceva: ‘Però, figlia mia, fai qualcosa di più normale!’…in realtà alle elementari facevo kick boxing, tutti maschietti io l’unica bambina, e mia madre ha cercato di costringermi a fare danza classica (risate)…la prima volta che mi ci ha portato, indossavo la tuta da kick boxing e il borsone, mi ha portato proprio con l’inganno perché il mio maestro era malato e mi propose questa nuova attività…e quindi arrivo io, tutte le bambine vestite di rosa e io con la tuta larga’. Interviene l’allenatore: anche io ho avuto le mie scocciature. E poi sento anche dire: ‘Si vabbè, falle giocare le femmine. Sì, sì, falle giocare le femmine; sì… quanto devono giocare? Quanto Corrono?’

Ho notato che scendete in campo con delle belle acconciature.

Sì. I capelli, soprattutto quando sono lunghi, se ne vanno in giro! È diventata una tradizione legarci i capelli, farci le trecce tra di noi per toglierli dal viso, ma è anche un gesto di gentilezza, di vicinanza.

Penso a Mandela, a come abbia veicolato anche col rugby l’esortazione alla conciliazione. Per voi, questo sport ha anche un significato politico, come rivendicazione di uno spazio che è storicamente maschilizzato?

In generale, non solo. Per il rugby, in Italia, non ci sono fondi, non ci sono campi, le squadre sono poche, è poco noto, a differenza per esempio del calcio. Il nostro sport è più marginale, quando invece a mio parere ha tanto da dare, per questo ho deciso di insegnarlo e promuoverlo nelle scuole: ha tanti valori da insegnare a una popolazione che ha bisogno di rispettarsi, di educazione, di saper affrontare le difficoltà.

Il nostro incontro si conclude con una riflessione di Annalisa, man mano che arrivano le giocatrici.

Quando si entra nello spogliatoio, è come se tutti quanti si spogliassero di quello che sono fuori, l’avvocato, il dottore, lo studente, come anche delle difficoltà, ci mettiamo la stessa maglietta e gli stessi pantaloncini e si scende in campo e siamo tutti uguali, si è una squadra anche in questo.

 

Info sulla squadra

Rugby Bitonto 2012

Allenatore: Marco Marcario

Segretario: Antonio Mattia

Capitana: Annalisa Marrone

Pilone: Annalisa Marrone, Angelica Passaquindici, Stefania Rubini

Tallonatrice: Ilenia Carella, Emanuela Zonno

Mediana di mischia: Chiara Spinelli

Mediana di apertura: Conny Generoso

Centro: Alessandra Cannillo

Ala: Rosanna Depalo, Valentina Fallacara

 

 

 

 

 




I calzoni catanesi

RICETTA

La preparazione che vi propongo oggi è quella dei Calzoni della rosticceria catanese, perché per me la tipica pasta brioche siciliana non ha uguali al mondo. Provatela, è soffice, con una punta appena di dolcezza che riequilibra il gusto del ripieno stuzzicante e sapido. La sua realizzazione non è difficile, non preoccupatevi, avrete solo bisogno di un po’ di tempo, magari una domenica di pioggia, o un lungo e noioso pomeriggio d’estate.

I Calzoni

della rosticceria siciliana

Per realizzare gli impasti lievitati utilizzo il Bimby, secondo me insuperabile, ma naturalmente va bene sia una planetaria che la normale procedura manuale.

per il lievitino:

100 gr di farina 00
100 gr di acqua tiepida
1 cucchiaino di zucchero
12 gr (mezzo cubetto) di lievito di birra fresco
mescolare in una ciotola capiente il lievito, l’acqua e lo zucchero (nel Bimby vel. 2 per pochi secondi) finché il lievito si scioglie.

Aggiungere la farina e amalgamare bene (se a mano, usate la frusta) facendo attenzione a non lasciare grumi. (nel Bimby, a vel. 3 per ca. 30”).

Coprire e lasciare raddoppiare in luogo caldo (circa 1 ora).

per completare l’impasto:

Aggiungere (direttamente nella ciotola del lievitino o nel boccale del Bimby):

400 gr di farina Manitoba
150 gr di acqua tiepida
50 gr di strutto
50 gr di zucchero
10 gr di sale

Impastare bene (nel Bimby 5 minuti a vel. Spiga).

Se procedete a mano, meglio ammorbidire prima lo strutto nei 150 gr di acqua tiepida a cui avrete aggiunto anche il sale e lo zucchero.

Coprite e lasciate di nuovo raddoppiare il tutto (circa un’ora, ma dipende dalla temperatura ambiente).

A questo punto rovesciate l’impasto su un piano infarinato e lavorate a mano per un paio di minuti (è la parte più divertente).

E’ il momento di fare alcune “pieghe”, indispensabili per lo sviluppo del glutine: appiattite l’impasto con i palmi dandogli forma di rettangolo, quindi portate circa un terzo del rettangolo verso il centro e copritelo con la parte rimasta scoperta. Ripetete almeno un paio di volte, impastando nuovamente tra l’una e l’altra piegatura.

Dopo le piegature, appiattite a cerchio l’impasto e afferrate con due o tre dita un punto del bordo portandolo verso il centro. Continuate così, come fosse una girandola, per punti successivi, fino a completare la circonferenza. Avrete ottenuto così una palla.

Appiattitela e ripetete questo procedimento un paio di volte, ogni volta lavorando bene l’impasto tra l’una e l’altra “piegatura”. Sono passaggi importanti, rendono il risultato finale soffice e arioso.

Lasciate riposare ancora, coperto e al caldo, fino al raddoppio.

Porzionate la pasta (utilizzate la bilancia per ottenere pezzature regolari) tagliandola in pezzi da 80 gr  per calzoni grandi, oppure in pezzi da 40/50 gr per i calzoncini mignon.

I pezzi dovranno essere appiattiti e allargati con le mani, e rilavorati nuovamente portando i bordi verso il centro (come la girandola di poco prima) fino a ottenere delle piccole sfere.
Le pallotte così ottenute vanno spolverate di farina e coperte con pellicola fino al raddoppio.

 

Nell’attesa preparate il ripieno tritando gli ingredienti. Ve ne suggerisco alcuni, ma non voglio mettere limiti alla fantasia:

 

– formaggio (caciotta o mozzarella), prosciutto cotto e salsa di pomodoro (e se vi piace,  origano)

– mortadella e mozzarella

– melanzane fritte, sugo di pomodoro e uovo sodo

– cipolline brasate

– salsiccia arrosto e broccoletti ripassati (alla romana, stufati in padella con aglio e peperoncino)

– cavolfiore ripassato in padella con uvetta, pinoli e pecorino e completato da pezzetti di provolone piccante

 

Insomma, sbizzarritevi come volete!

Attenzione: lasciate raffreddare bene i ripieni cotti, se utilizzati troppo caldi potrebbero rompere la pasta.

Se utilizzate mozzarella, dopo averla tagliata lasciatela a scolare alcune ore su un colino (in frigo).

 

Una volta che le pallotte avranno raddoppiato le loro dimensioni, prendetene una e allargatela con le mani fino a ottenere un cerchio (NO matterello, rovinereste tutto il lavoro fatto finora per dare aria all’impasto!)

Farcite e chiudete a metà ogni panzerotto pizzicando i bordi dopo averli inumiditi con acqua per sigillarli meglio.

Quando avrete farcito tutti i panzerotti lasciateli lievitare infarinati e coperti finché non li vedrete ben gonfi.

Friggeteli poi in olio di semi di arachide o di girasole.

Sono davvero squisiti, soffici soffici proprio come quelli che ricordo!

 

La ricetta che vi proporrò la prossima volta sarà quella della CASSATA SICILIANA AL FORNO, perfetta per il pranzo di Pasqua (anche comoda, si prepara il giorno prima).

 

 

 

 

 




Insonnia

Non riesco a dormire stanotte. Sto pensando a te, che non mi pensi. Bel pensare. Dovrei concentrarmi su qualcos’altro, scacciarti dalla mia mente per il tempo necessario ad acchiappare un sogno. Ma dove si prendono i sogni?  Forse i sogni li abbiamo dentro, e in questo momento il mio sei tu. Eccoti di nuovo, non va bene. Cambiamo domanda… dove si prende sonno? C’è un posto fisico, un mercato, un luogo in cui si incontrano la domanda e l’offerta di sonno?
Mi tuonano in mente le parole di quel prof così pieno di sé e così vuoto dentro “In concorrenza perfetta, nella teoria economica tradizionale, i mercati sono perfetti, quindi esiste un mercato per ogni bene.”
Probabilmente l’amore è un mercato imperfetto, deve essere così, non trovando quasi mai la corrispondenza.
Ma perché penso sempre all’economia poi? O all’amore o all’economia, sarà perché li studio entrambi all’università e ancora mi sfuggono.
A proposito, domani ho lezione alle 8.00. Devo svegliarmi presto! Ma che stupida, non mi devo svegliare se non mi addormento, no? Forse mi conviene restare sveglia, con gli occhi aperti a fissare il soffitto, e le luci che vengono da fuori e che si infilano nelle fessure. Per quanto possa chiudere le finestre, il buio non è mai nero.
Non si può impedire alle luci di entrare. Questo dovrebbe dirmi qualcosa, ma non sono particolarmente positiva da lanciarmi in metafore, la mia stanza non è la mia vita. So bene che la vita può completamente spegnersi. Mi sta venendo in mente proprio ora un esempio concreto di come. Speravo di essermi dimenticata, ma è marzo come lo era allora, è notte come lo era allora, sto fissando il soffitto come allora e soprattutto la mia finestra filtra la luce come allora. Solo che quelle luci erano sirene di ambulanze, e io ero in una camera sterile in un ospedale. Ci sarà tempo di raccontare come e perché ero dentro una camera sterile, per ora è sufficiente dire cos’è, perché per fortuna non troppe persone ci sono entrate (e per sfortuna alcune nemmeno ci sono uscite). In pratica si tratta di una camera più asettica possibile, dove chi entra deve disinfettarsi bene le mani, indossare guanti, cuffie, mascherina, para scarpe e camice. Ovviamente non ci entra quasi nessuno, se non infermieri e medici del reparto trapianti. E i tuoi familiari, solo negli orari prestabiliti.
Ovvio che la mia compagnia in quei mesi era la solitudine, e pur non apprezzandola, me la dovevo fare andare bene. A volte mi capitava, e mi capita tutt’ora, di litigare perfino con me stessa, quindi la solitudine non significava tranquillità. Ma quella notte, non erano i miei pensieri a tenermi sveglia. Dalla camera accanto provenivano rumori cupi, lamenti. C’era un gran movimento di personale, un via vai poco conosciuto dai corridoi del reparto. Io sapevo a chi appartenesse quella voce che pian piano diventava un urlo, sapevo che pur trattandosi di una persona più vecchia di me condivideva con me un piano terapeutico simile, essendo entrambi in quel luogo dimenticato da quel Dio eventuale così smemorato. Sapevo anche che stava per morire. Gli infermieri quella notte passarono spesso nella mia stanza, con la scusa di controllarmi ora la pressione, ora la febbre.
Ma io stavo benissimo, fisicamente.
Dentro invece sapevo che qualcosa si era rotto. Avevo capito che la vita non era una stanza, che nel buio si fa fatica a oscurare. Nella vita a volte succede che si spengano tutte le luci.  Che siano interruttori, fessure delle persiane, fiammelle di ceri in chiesa, chi decide di tenerle accese? In termini pratici, perché a spegnersi è stato  lui e non io?  Non avevo risposte allora, solo la paura.  Ora non ho né le prime, e nemmeno la seconda, per fortuna. Mi rimane un forte senso di non-senso. Forse ciò che mi può restituire un significato, riparare ciò che si è spezzato, è quello che mi tiene sveglia stanotte. Chissà se mi pensi.

 




La diagnosi psicologica in politica come insulto

Da qualche settimana è online un documento e una annessa raccolta adesioni (https://psicodiagnosiepolitica.wordpress.com/) di addetti ai lavori psicologi, psicoterapeuti e psichiatri, di diversi orientamenti, ma anche sostenitori non del settore, che intendono esprimere un disagio etico e anche una forte protesta verso tutti coloro che, specialmente se in contesti pubblici, utilizzano il linguaggio e le categorie della diagnostica e dei saperi psicopatologici per apostrofare o connotare un avversario politico.

Dare del “matto” o del “bipolare”, “schizofrenico”, “psicotico”, “disturbato”, o semplicemente dell’incapace a un politico dello schieramento opposto al proprio utilizzando argomenti clinici o teorie psicologiche in modo disprezzante è, indipendente dall’appartenenza politica, una scorrettezza grave in quanto si sposta un’azione da un contesto ad un altro. Ed in questa decontestualizzazione si opera una profonda alterazione degli scopi per i quali quei saperi e quei termini sono stati pensati.

In particolare si sposta una atto terapeutico (la diagnosi ha senso all’interno di una procedura di aiuto o di valutazione clinica) da un contesto di aiuto, servizio, cura, con tutti i vincoli di riservatezza necessari, ad un contesto in cui quella stessa diagnosi assume una forte connotazione negativa e discriminatoria, praticamente diventa un insulto, per lo più avvalorato dal prestigio del professionista che lo esprime, ad uno e consumo dell’agone politico e al servizio di una parte contro l’altra.

Cosa dovrebbe pensare una persona sofferente di uno di quei disturbi nominati laddove osservasse il  terapeuta o qualcuno della stessa categoria professionale utilizzare la sua diagnosi come insulto? Secondo la mia sensibilità è inimmaginabile anche solo porre un’eventualità del genere.

Su tale tema si è già espressa, senza alcuna esitazione e dubbio, l’APA, l’Associazione Americana di Psichiatria dichiarandosi contraria (https://www.washingtontimes.com/news/2018/jan/10/american-psychiatric-association-calls-end-arm-cha/) per motivi di riservatezza e rigore professionale a petizioni pubbliche diagnostiche a proposito del Presidente degli Stati Uniti e dei suoi veri o presunti squilibri psichici.

La diagnosi, atto riservato e fiduciario tra terapeuta e paziente, non può diventare argomento politico. Pena la perdita della fiducia pubblica verso quel terapeuta e verso l’intera professione che lo accoglie.

Purtroppo questa pratica sta pericolosamente prendendo piede a livello pubblico tramite articoli e dichiarazioni e fortunatamente comincia a sollevare le giuste inquietudini e proteste di alcune parti delle categorie professionali coinvolte che prendono le distanze da questa nuova barbarie.

Ben altra è la funzione di stimolo intellettuale dell’esperto “psy” che, invece di usare metodi da bar dello sport, utilizza i propri strumenti per analisi ben più ampie e corpose al servizio di tutti.

 

 




Ci presentiamo

A cura di Maria Strano e Paola Bortolani

Una volta c’erano i ricettari, libri e libroni che si passavano di madre in figlia, si conservavano in cucina e così si personalizzavano con qualche ditata infarinata e qualche schizzo di cioccolato. Libri di famiglia, che si aprivano da soli alle pagine dei piatti più graditi.

Oggi, c’è la rete.

Poi ci siamo noi, che vi proporremo solo ricette:

  • semplici
  • veloci
  • di sicuro e provato successo

Maria:

Sono nata a Catania, e a Catania ho vissuto i miei primi nove anni, assaporando piatti del patrimonio culinario siciliano che sono parte di me, e dunque parte inscindibile del mio mondo affettivo. Testimonianze di legami preziosi e nostalgie che ancora aleggiano come musica diffusa, o come un profumo leggero, aspettando di ricevere dalle mie mani nuovo “corpo”, epifanie improvvise in cui il passato ritorna intatto grazie ai sapori e agli aromi della mia infanzia, e delle nonne e zie che me ne facevano dono.

Il gusto e l’olfatto sono sensi primordiali, direttamente collegati alla memoria a lungo termine. Per questo il loro marchio resiste al tempo e non ha bisogno della mediazione del linguaggio, diventando ambedue, nell’Uomo – a volte persino suo malgrado – sensi “sentimentali”.

Questo passo di Proust risuona dentro di me dall’adolescenza:

“Trovo del tutto ragionevole la credenza celtica secondo la quale le anime di coloro che abbiamo perduto sono imprigionate in qualche essere inferiore, un animale, un vegetale, un oggetto inanimato, perdute davvero per noi fino al giorno, che per molti non arriva mai, nel quale ci troviamo a passare accanto all’albero o a entrare in possesso dell’oggetto che ne costituisce la prigione. Allora esse sussultano, ci chiamano, e non appena le abbiamo riconosciute, l’incantesimo si spezza. Liberate da noi, hanno vinto la morte, e tornano a vivere con noi. Così per il nostro passato.
Questo oggetto, dipende dal caso che noi lo incontriamo prima di morire, oppure che non lo incontriamo mai.

La memoria permette dunque di superare le barriere del Tempo, così che il “cucinare”, attraverso l’esperienza sensoriale, e dunque alchemica, del cibo, non è mai alla fine semplice rievocazione, perché sempre frutto della mescolanza di conoscenza, (il “sapere” e i “gesti” tramandati) e creatività individuale.

Sono convinta che tutte noi creiamo ogni giorno piccole “opere”, umili perché casalinghe, ma “d’arte” perché realizzate con amore e consapevolezza. Tramutiamo ogni giorno, noi donne, e a volte anche qualche uomo, la memoria in arte.

Ho due figlie, un marito, una cana, Morgana, golden retriever tutta bianca, e il gatto Romeo, rosso e dalla coda di volpe. Un giardino fatato e una cucina troppo piccola. Un mucchio di pentole e attrezzi e, per fortuna, nessuna paura di ingrassare (anche perché, le volte che mi coglie, me ne dimentico subito…).

Oggi, 8 marzo, voglio ringraziare le mie figlie, perché senza le loro pressanti richieste il mio blog non sarebbe mai nato, così come, di conseguenza, il mio contributo a questa rivista. Tutta una questione di donne… Al tempo che erano bambine, quando tutti i bambini desiderano ascoltare sempre lo stesso racconto, mi chiedevano spesso di riproporre piatti dal gusto identico alla loro personale “prima volta”, non tollerando le mie variazioni da adulta sì creativa, ma distratta e smemorata. Mi imposero perciò, esasperate, di appuntare le mie ricette su un “diario” online.  Una prima collezione di taccuini, quaderni e molti fogli sparsi (difficilissimi da ritrovare al bisogno…) diede dunque vita al blog imalasfoglia.it (che nel nome riecheggia le mie origini) così che potessero consultarlo dai luoghi dove nel frattempo si erano trasferite.

“Tutto questo che sta prendendo forma e solidità è uscito, città e giardini, dalla mia tazza di tè.”

Marcel Proust

Scrivetemi, se volete, sul blog imalasfoglia.it

Pagina Facebook iMalasfoglia

 Eccomi ai fornelli

Paola

Genovese di nascita e cultura, milanese di adozione, sposata, due figli. Figli oggi adulti che, quando sono arrivati, mi hanno fatto nascere la curiosità e l’attenzione verso un’alimentazione buona, sana, sostenibile.

Così la mia cucina è diventata sempre più attenta a non sprecare, a riciclare, a recuperare, un’attenzione che si è inserita senza fatica nella gestione del quotidiano, coniugando impegno famigliare e lavoro fuori casa.

Nel 2013 ho aperto il blog “Primo non sprecare” (primononsprecare.wordpress. com), nato con l’idea di creare un ricettario per la famiglia, e trasformatosi pian piano anche in una raccolta sempre più ampia di suggerimenti pratici per risparmiare tempo e denaro.

Ho recentemente pubblicato l’e-book “Il gusto di non sprecare”, con l’obiettivo di teorizzare il mio metodo e attivare la sensibilità verso un problema che è, prima che pratico, etico.

Sono contenta di presentarmi proprio l’8 marzo, giornata tradizionalmente dedicata alle donne, perché penso che il ruolo di “nutrice” – termine per il quale non esiste il corrispettivo maschile – nella sua più nobile essenza, sia sempre più importante man mano che le scoperte scientifiche confermano l’importanza dell’alimentazione.

Mi impegno a darvi tanti suggerimenti e ricette buone, eleganti e originali, ma soprattutto antispreco.

Per il nostro primo incontro ho in programma di proporre una torta molto scenografica, e molto buona, perfetta per “far fuori” piccole quantità di salumi, formaggi, verdure …

Sarà per me un piacere rispondere a dubbi, domande e curiosità.

https://www.facebook.com/PrimoNonSprecare/

primononsprecareblog@gmail.com

Foto in copertina mentre pulisco i carciofi

Quando l’ultimo albero sarà abbattuto, l’ultimo fiume avvelenato e l’ultimo pesce pescato, ci renderemo conto che non possiamo mangiare il denaro.

Toro Seduto, Sioux

 

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Maria Strano Nata nel 1954 in Sicilia, trapiantata suo malgrado a Roma nel 1963.
Ha lavorato come Insegnante nella Scuola Primaria.
Laureata in Psicologia, Mediatrice Familiare e Counselor.
Da anni si occupa della violenza psicologica all’interno della coppia organizzando seminari e conferenze in collaborazione con criminologi e avvocati sensibilizzati al problema.

strano.m@impagine.it

 

Paola Bortolani Dapprima dirigente commerciale presso un’azienda distributrice di macchine per ufficio per la Liguria e il Basso Piemonte e poi libera professionista contabile e amministrativa in diverse città del Nord Italia ha svolto in contemporanea attività di volontariato culturale e orientamento post diploma per studenti liceali. Ha lavorato per dieci anni in una agenzia di comunicazione, occupandosi di aziende del settore food & beverage Appassionata da sempre di cucina sostenibile, ha scritto articoli e svolto ricerche per testi diversi. Nel 2013 ha aperto il blog Primononsprecare.wordpress.com, e ha pubblicato l’e-book “Il gusto di non sprecare” (Indies g&a).

bortolani.p@impagine.it




Levami quel peso dal cuore

Chi sono?

Vedevo opportunità all’orizzonte, là dove il cielo si confonde con il mare e non si distinguono più i colori. Le vedevo come si scorgono i profili delle navi, e come una bambina le indicavo con il dito dalla spiaggia. Ero forse una bambina davvero, a 16 anni e una manciata di idee in testa. Ora nemmeno le ricordo, quelle idee. Mi ricordo però perfettamente il giorno in cui le opportunità sparirono dalla mia visuale, prima timidamente, poi di colpo. Mi dissero che avevo un tumore con lo stesso tono con cui si annunciano le previsioni del tempo. “Domani sono previste ampie schiarite in tutto il nord-ovest, ma tra quindici giorni al massimo perderai tutti i capelli.”  Fu allora che compresi che ogni cosa sarebbe cambiata, senza cambiare per nulla.
Mi spiego: i miei compagni di scuola, i miei parenti, i libri da studiare e i muri di casa sarebbero stati sempre gli stessi, ma ero io a vederli ogni giorno un po’ diversi. I giorni poi, si somigliano tutti, cambiano i numeri, cambiano i nomi: lunedì, martedì, venerdì … ma hanno tutti la stessa cadenza sorda, si ripetono e si ripetono ancora. Io anche cambiavo e restavo sempre la stessa, mi confondevo come cielo e mare al tramonto. E nelle stesse acque dove vedevo le opportunità ora scorgevo minacce.
Molte volte ho creduto di non vedere più l’alba, e gli orizzonti nitidi dei giorni di sole.
Ho imparato però che forse non dovevo guardare così lontano, ma coniugare tutti i verbi al presente. Me lo ha imposto una malattia che prevede cicli di cura lunghi e dolorosi e controlli serrati, dove la parola “guarire” compare solo dopo 5 anni.

Ma non voglio parlare di questo, o si, anche. Ma parlare di cancro in questo modo, raccontando per filo e per segno la propria battaglia, non è poi difficile, e a me le cose facili non piacciono.
Per quanto le storie di “cancer surviors” siano bellissime, si somigliano sempre un po’ tutte.
E nemmeno io sono così speciale. Ora che sono in remissione da un bel po’- senza contare troppo gli anni e voler fare bilanci-  vivo la mia vita da ventunenne che studia e ha qualche sogno nel cassetto, dove ogni tanto dovrebbe fare un po’ d’ordine. Insomma, normale.

Eppure sono certa che qualcosa da dire ce l’abbia. Qualcosa di bello, o di interessante, o anche semplicemente di vero. Un messaggio di speranza, uno scorcio di vita quotidiana, un po’ di me e un po’ degli altri. Un po’ di riflessioni, un po’ di spensieratezza.
Tutti abbiamo bisogno di leggerezza nella vita. Io lo sostengo da sempre, da quando in una radiografia ho scoperto un bel malloppo di 15 cm, che opprimeva il petto.
Da allora, ho fatto di tutto per levarmi quel peso dal cuore. Ma sono certa che ciascuno abbia i propri fardelli. Io sono riuscita a liberarmi del mio, e non era per nulla scontato. Magari, pian piano, vi racconto come.

 




FRANCIA – Portogallo campione d’Europa. I lusitani battono la Francia 1 – 0

Il Portogallo è campione d’Europa per la prima volta. I lusitani hanno battuto 1-0 la Francia dopo i tempi supplementari.

Decisivo un gol di Eder al 109′, con una staffilata da 20 metri. Impresa vera, dopo che Cristiano Ronaldo era uscito al 25′ per aver subito un fallo.

La rete di Ederha ha scritto la storia di una nazione che fino ad oggi non aveva ancora vinto nulla.

La Francia si è piegata all’improvviso, nonostante abbia avuto il vantaggio di giocare quasi tutta la partita senza l’incubo di Cristiano Ronaldo, costretto ad abbandonare la scena per colpa di un brutto infortunio, con il trasporto dello , con una serie di occasioni da gol non sfruttate che hanno del clamoroso. Se Eder e’ stato il cecchino dei transalpini, Rui Patricio ha tenuto in vita il Portogallo con le sue straordinarie parate.

Primo tempo senza grandi emozioni. Quella più grande non è né una rete né un’occasione, ma l’infortunio di Ronaldo. CR7, toccato duro da Payet, stoicamente cerca di restare in campo, ma dopo 25 minuti deve alzare bandiera bianca. Al suo posto Quaresma. Per il resto Francia pericolosa con Griezmann e Sissoko, Portogallo quasi mai in attacco, solo qualche spunto di Nani.

Secondo tempo

Ai punti la vittoria l’avrebbe meritata la Francia. Griezmann fallisce una grande occasione di testa anche nella ripresa, Rui Patricio è bravo su Sissoko e fortunato sul tiro in pieno recupero di , che colpisce il palo. Portogallo, privo di Ronaldo, si difende con ordine e punge solo con un tiro cross di Nani. Ora può succedere davvero di tutto.

Tempi supplementari

la Francia torna a giocare una finale casalinga come in quel Mondiale di 18 anni fa (Zidane e Petit piegarono per 3-0 il Brasile), mentre il Portogallo si affaccia alla seconda finale della sua storia ricordando lo sgambetto greco del 2004.

PORTOGALLO – FRANCIA 1-0

RETE: 109′ Eder (P)




FRANCIA – Finalissima Euro 2016 Francia – Portagallo. Islanda la vincintrice simbolica

L’Europa ha assistito attonita al risultato del referendum sulla Brexit che ha decretato l’uscita dell’Inghilterra dall’Unione Europea. Contemporaneamente, lo svolgersi dei campionati di calcio Euro 2016 ha in un primo momento distolto l’attenzione delle masse, ciò nonostante l’Europa si è ritrovata frammentata e claudicante, infatti sull’onda della Brexit, altri paesi membri dell’UE, tra cui la Francia, paese ospitante dell’edizione 2016, si sono interrogati sulla probabilità di non essere più parte di un’Europa che pare aver perso la sua identità.
In Italia da alcuni anni si discute su questa tematica, ma in questo momento il coraggio e l’audacia degli azzurri in campo ha distolto l’attenzione degli Italiani. La squadra azzurra sin dal principio era stata data per perdente, infatti in molti non avrebbero scommesso che avrebbe superato la fase preliminare, invece sin dalla prima partita hanno mostrato grinta e valore battendo il Belgio che risultava essere tra le favorite. L’Italia si è classificata prima nel suo girone e negli ottavi ha battuto la Spagna, squadra tra le più temute. Ai quarti si è dovuta arrendere ai rigori contro i teutonici campioni del mondo .
La delusione è giunta proprio quando il sogno europeo covato per 48 anni sembrava trasformarsi in realtà .
Gli azzurri sono tornati a casa con un trofeo simbolicamente più importante, perché grazie al duro lavoro dei giocatori e del loro allenatore Antonio Conte, hanno riportato gli italiani a credere nella nazionale di calcio divenuta sinonimo di unità.
Unica nota negativa è stata dovuta al comportamento semplicistico e irriverente di Pellé nei confronti del portiere tedesco Neuer. L’attaccante italiano nelle precedenti partite si era mostrato decisivo segnando 2 gol decisivi, uno durante la partita col Belgio e l’altro contro la Spagna.
La finale degli europei si disputerà tra la squadra del Portogallo e quella della Francia, domenica 10 luglio alle 21:00 a St Denis presso lo Stade de France che ha ospitato l’apertura di Euro 2016, ma in molti hanno decretato l’Islanda come vincitrice simbolica, che ha per la prima volta partecipato agli europei, strappando la qualificazione, sconfiggendo nel 2014 l’Olanda. L’Islanda è stata sconfitta il 3 Luglio dalla Francia, ma dopo la partita tutti gli spettatori hanno cantato con i calciatori Islandesi l’inno nazionale, nel pieno rispetto di valori quali solidarietà e condivisione.
Non ci resta che incrociare le dita per l’Europa sempre più priva di dignità e, calcisticamente parlando, che vinca la migliore!




OLANDA – Europei Femminili di Volley: l’Italia lotta ma passa la Russia

Convincente l’avvio delle azzurre che sono riuscite a mettere pressione alle avversarie con un servizio molto efficace. Guidata dalla lucida regia di Lo Bianco, per lunghi tratti l’Italia ha giocato un’ottima pallavolo e con un’ispirata Lucia Bosetti, insieme ai muri di Guiggi-Chirichella, si è portata nettamente avanti (16-11). La Russia però non si è disunita e, dopo aver superato il momento di maggior difficoltà, ha dato vita a una lunga rimonta, culminata sul (16-16). Emozionante e interminabile il finale del parziale: la Russia scappata sul 24-22 ha visto annullare la prima la palla set dal video check che ha invertito la decisione arbitrale (palla dentro/fuori). Un ace di Chirichella ha invece annullato la seconda e da lì è nato continuo botta e risposta tra le due formazioni. L’Italia ha avuto la sua chance di chiudere sul 26-27, ma una volta sprecata, sono state le russe a prevalere alla sesta palla utile (30-28).

Nel secondo set Bonitta ha ben presto inserito Del Core per Caterina Bosetti e il capitano azzurro ha risposto in maniera positiva. La schiacciatrice campana è stata tra le protagoniste di un allungo che ha visto l’Italia scappare avanti (12-7). I muri di Guiggi e Chrichella (perfette anche in attacco) hanno scavato un divario sempre più ampio (18-9). Qualche imprecisione delle ragazze di Bonitta ha permesso alle avversarie di avvicinarsi, ma la frazione non è mai stata in discussione (25-20).
Al rientro in campo le azzurre hanno sofferto il servizio avversario e così la Russia ha preso il comando delle operazioni. Con pazienza e carattere l’Italia, che ha registrato l’ingresso di Centoni per Diouf, è riuscita velocemente a riportarsi a contatto (15-15). Una convincente Lucia Bosetti ha permesso alle azzurre anche di allungare, ma le russe hanno immediatamente risposto (19-19). L’equilibrio si è protratto fino al 23-23, quando è stata la squadra di Marichev a trovare il break decisivo (25-23).
Spinta dalla vittoria in volata, la Russia è partita meglio anche nel quarto set, prendendo un buon margine sulle azzurre (9-14). Con le spalle al muro l’Italia anche questa volta ha reagito con cuore e orgoglio, riaprendo le sorti del set (20-19). Il finale, però ha sorriso di nuovo alla Russia, condannando la nazionale tricolore all’uscita dal torneo (20-25).

IL TABELLINO

ITALIA – RUSSIA 1-3 (28-30, 25-20, 23-25, 20-25)
ITALIA: Lo Bianco 1, C. Bosetti 4, Guiggi 12, Diouf 9, L. Bosetti 17, Chirichella 17. Libero: De Gennaro. Centoni 9, Malinov, Del Core 11, Tirozzi. N.e: Sorokaite, Arrighetti e Sansonna. All. Bonitta
RUSSIA: Pasynkova 3, Kosheleva 24, Zaryazhko 6, Obmochaeva 17, Fetisova 13, Kosianenko 1. Libero: Malova. Ilchenko 3, Malykh 1, Startseva. N.e: Orlova, Lyubushkina, Kuzyakina e Schcherban. All. Marichev
Arbitri: Huhtaniska (Fin) e Blyaert (Bel).
Spettatori: 3200. Durata Set: 42’, 30’, 33’, 30’.
Italia: 9 bs, 6 a, 19 m, 25 et.
Russia: 7 bs, 6 a, 20 m, 16 et.