Ricordi di levatrici nel Veneto. La savia co-madre che allevia gli affanni del parto

Tra le intitolazioni toponomastiche femminili dei comuni, la figura delle levatrici con condotta, riceve riconoscimento e ricordo. È una figura sociale importante quella della levatrice, tra le più antiche della storia, il cui ruolo e considerazione ha sofferto nel tempo fasi alterne. 

Nell’XI secolo la levatrice diventa la specialista della gravidanza, la sapiente, sia riguardo a gestazioni complesse che a parti difficili. 

In epoca tardo medievale, nel periodo della caccia alle streghe per intenderci, si apre una fase oscura della storia dell’ostetricia e di persecuzioni, mentre nel periodo rinascimentale gli uomini iniziano a manifestare un interesse verso lo studio dell’anatomia femminile. Con il XVII secolo, il genere maschile entra ufficialmente nell’ambito dell’assistenza alla gravidanza e al parto che cessano così di essere considerati eventi sociali trasformandosi in questioni mediche, dove gli uomini insegnano alle donne l’arte dei parti, soppiantando ufficialmente la sapienza femminile.

È in questo periodo che la Repubblica di Venezia dà rilievo professionale alla categoria delle sue mammane, tanto da essere annesse al Collegio dei medici, a condizione che sostengano con esito positivo un esame di idoneità davanti a un medico del Magistrato della Sanità e a due levatrici esperte e riconosciute. Successivamente viene imposta anche la partecipazione a lezioni teoriche e pratiche e lo studio, come primo testo, del libro La commare o raccoglitrice, del medico Scipione Mercurio. Altri testi apparvero successivamente, nei quali non solo di questioni mediche si trattava, ma di un complesso di comportamenti e azioni che le commari-levatrici dovevano adottare sulla scorta del prontuario dell’arte ostetrica.

Oltre alle professioniste levatrici-ostetriche che superano l’esame, esistono le levatrici di fatto, donne che con conoscenza ed esperienza aiutano e assistono a partorire altre donne. Esiste a questo proposito una illuminante pubblicazione dal titolo Le levatrici a Battaglia dal XVII al XIX secolo, in cui l’autore, Luciano Donato, individua i nomi di 211 levatrici nei registri della parrocchia di Battaglia (PD), dal 24.11.1607 al 12.8.1871, donne che hanno dato assistenza a un solo parto, a due parti, fino al record di 948 parti nel periodo tra il 1846 e il 1871 raggiunto da Adelaide Simonetto. 

Esistono pertanto le levatrici autorizzate e quelle tollerate come Anna Pauletti Rech, nata il 25 marzo 1831, che a Pedavena (BL) aveva imparato ad assistere le partorienti da Corona Spada, altra mammana tollerata. Anna emigrerà con la famiglia nel 1876 in Brasile, dove metterà la sua sapienza a servizio delle donne emigranti, restando spesso lontana da casa per giorni per i parti più impegnativi. La zona dell’insediamento della sua comunità, nel Rio Grande do Sul, prenderà il suo nome. Il comune di Pedavena la ricorda con l’intitolazione di una scuola elementare e il comune di Seren del Grappa con un vicolo.

Foto 1. Seren del Grappa

Le levatrici vengono ricordate con molto affetto e stima dalla cittadinanza. Non di rado si trovano dipendenti comunali, quando telefoniamo per avere informazioni e dati sulle loro vite, che si ricordano di loro e a volte dicono: “mi ha fatto nascere!” con un senso di orgoglio.

Foto 2. Loria

Tra le levatrici ricordate nel nord-est c’è Maria Fontana a Loria (TV), classe 1885 che ha vissuto fino al 1970, Regina Moro, classe 1896 che ha lavorato a Curtarolo, Onorina Scanferla, classe 1912, vissuta a Bagnoli di Sopra, Nella Rezza, classe 1916 vissuta a Limena, comuni nella provincia di Padova. 

Foto 3. Curtarolo

Tra le curiosità troviamo che Onorina Scanferla e Nella Rezza hanno partecipato allo stesso concorso per il posto di ostetrica condotta per la provincia di Padova il 28 febbraio 1941 e Nella Rezza piazzandosi 5ª in graduatoria vince la condotta di Limena dove svolgerà la sua attività, mentre Onorina, pur piazzandosi 10ª non vince la condotta. Avrà la condotta di Bagnoli di Sopra.

Foto 4. Limena

Foto 5. Bagnoli di Sopra

Sempre in questa provincia, il comune di Sant’Angelo di Piove di Sacco intitola nel 1998 una via alla Cavalier* Maria Artusi, classe 1902, da poco scomparsa, per la professione svolta per oltre 40 anni di ostetrica nel comune e per i valori sempre dimostrati nella sua attività di solidarietà e assistenza alle partorienti, con il suo agire e la sua vita è entrata nel patrimonio della memoria collettiva come viene attestato dalla delibera di intitolazione della via.

Foto 6. Sant’Angelo di Piove di Sacco

Tutte le levatrici fin qui ricordate hanno vissuto lungamente e tra i motivi che possono contribuire a ciò si ritiene sia la soddisfazione nel proprio operato. Eloquente è quanto ha dichiarato in una recente intervista di Giusi Fasano a Maria Pollacci, classe 1924, vivente a Pedavena, 

«se voi aveste idea di quanto sia stupendo quello che faccio quando assisto un bambino che viene alla luce, sapreste come so io che la mia è una missione, che quando sono lì davanti a un esserino che sta nascendo non sto lavorando. Sto amando. Ci vuole amore, passione, professionalità. Non mi è mai morto un bambino e ormai, con la pratica che ho, capisco subito se è il caso di andare in ospedale, come ogni tanto succede» (articolo pubblicato il 9.2.2017 da Corriere.it). 

Sì, perché l’ostetrica del bellunese dal 3.9.1945 al 13.01.2017 ha fatto nascere 7642 tra bambine e bambini.

Ma ha anche un’altra particolarità Maria Pollacci, nel 1961 fece nascere un bambino, chiamata dal circo appena arrivato in paese a Cles, e con il neonato in braccio scortata dal domatore, lo presentò al pubblico dalla gabbia dei leoni, come fosse una cosa normale, riscuotendo un lungo applauso.

Ma la levatrice non assiste solo al parto, accompagna la donna in gravidanza, insegna alla puerpera come maneggiare la nuova creatura venuta al mondo, dà consigli igienici e sanitari, indicazioni su cosa mangiare, sul riposo, consola e rincuora, segue nella crescita chi ha aiutato venire alla luce. 

Così si hanno delle caratterizzazioni di levatrici come Elodia Cecuta levatrice del comune di Marano Lagunare (UD), paese di pescatori molto carino da visitare, che entrata nella storia del paese, non solo con l’intitolazione di una via, ma la si ricorda anche nel sito del comune http://www.comune.maranolagunare.ud.it/index.php?id=14345&L=0 nella pagina dedicata in dialetto a “Le Done Maranese” dove Bruno Rossetto racconta di quando era piccolo e aveva bisogno di fare delle punture “ricostituenti”, punture che gli faceva regolarmente Sora Ludia e al momento di pagare la prestazione con i soldi che la mamma gli aveva dato, Elodia Cecuta diceva al bambino “benedetto figlio, va a casa e salutami tanto tua madre!”. Nel periodo del fascismo, l’importanza sociale che Elodia aveva per la professione svolta, era vista con fastidio. È morta povera, anche se le donne del posto la ricordano signora perché ha aiutato tutte e tutti. Le donne che l’hanno conosciuta, ogni volta che leggono il suo nome segnato sulla strada oltre le saline, pensano che il Comune abbia scelto una strada larga e grande, così com’era largo e grande il suo cuore.

Foto 7. Marano Lagunare

Come non ricordare, a questo punto, il film di Luigi Comencini del 1953 Pane, amore e fantasia con la figura di Annarella, la levatrice che, nell’immediato dopoguerra, quando ancora il parto avveniva in casa, ha una condotta che non finisce mai, rispettata e stimata nel paese del centro Italia?

A comprova di quanto le levatrici siano parte del tessuto sociale e della storia dei luoghi, almeno fino a quando si partoriva regolarmente in casa, sono gli articoli di giornale sulla scomparsa dell’ultima levatrice del paese come Flora Mucchietto, spentasi il 22 agosto 2014 all’età di 92 anni che ha fatto nascere centinaia di bambine e bambini tra Montegaldella, Grisignano di Zocco e Cervarese, nota anche per la sua trattoria a conduzione familiare, o Genoveffa Girardi, levatrice comunale di Santa Lucia di Piave per 31 anni, deceduta nel 2015 a 91 anni, amata da tutto il paese che ha fatto nascere anche l’ex sindaco. È stata un vero punto di riferimento in un periodo di trasformazione del territorio da società prevalentemente agricola a sviluppata industrialmente, a ridosso dell’istituzione del Servizio sanitario nazionale avvenuta nel 1978.

O ancora Alia De Nardo, morta a Tricesimo (UD) il 4.9.2017 a 101 anni, i cui tre figli erano cresciuti vedendola uscire di casa a tutte le ore, con la valigetta nera piena di ferri misteriosi, e avevano imparato a riconoscere nella luce dei suoi occhi, al rientro, la meraviglia della vita. Levatrice del paese, importante quanto il sindaco o il parroco, Alia De Nardo ha lavorato a San Vito, Pozzuolo, Treppo Carnico e Ligosullo.

L’affetto che i territori esprimono nei confronti delle levatrici è la testimonianza della legittimazione sociale verso chi ha svolto questa professione con tanta competenza, costanza, passione e dedizione, in un passato improntato alla socialità, quando ancora si partoriva tra le mura domestiche, rispetto all’attuale sopravvenuta esasperata medicalizzazione degli eventi quali la gestazione, la nascita e il puerperio che, se da una parte garantisce il minor tasso di rischio, dall’altra estranea dal contesto sociale di cura gli eventi. 




Da levatrici a ostetriche

In copertina: Il bagno, dipinto del 1902 di Leopoldo García Ramón 

L’ostetrica, chiamata anche levatrice perché leva il neonato dal corpo della donna, è stato un tradizionale mestiere femminile, frutto di una cultura secolare, dell’esperienza diretta di donne, basato su conoscenze empiriche del corpo femminile. La levatrice nella civiltà contadina godeva di un grande prestigio, poiché aiutava a dare la vita. 

Trotula de’ Ruggiero, medica dell’antica Scuola Salernitana, scrisse nell’XI secolo un trattato di ostetricia, De passionibus mulierum ante in et post partum, nel quale si danno precetti, consigli e norme che attraversano tutta la vita della donna. Da sempre guaritrici, le donne sapevano coltivare le erbe medicinali scambiandosi i segreti del loro uso, procurare gli aborti, fungere da infermiere. Per secoli sono state in breve mediche senza laurea: apprendevano e trasmettevano oralmente un patrimonio di conoscenze, da madre a figlia, da parente a parente. E al momento del parto, tutte le donne della famiglia offrivano il loro aiuto: protagoniste assolute di quegli eventi operavano in un clima di complicità e collaborazione. 

L’emergere poi del professionismo maschile, l’esclusione delle donne dal sistema di istruzione, soppiantarono la cultura medica femminile empirica e orale. Lo Stato unitario, per far fronte alla necessità di debellare pregiudizi e malsane abitudini, si adoperò per creare un’ostetrica istruita, fiduciosa nella medicina. La morte per parto era diffusa, come la febbre puerperale e altre patologie dovute a scarse precauzioni igieniche. Le scoperte batteriologiche e immunologiche hanno rivoluzionato il parto, introducendo norme antisettiche e protocolli sanitari totalmente nuovi, su luoghi, persone e strumenti. Venne messa al bando allora la sedia da parto e prescritta la posizione litotonica dorsale delle donne, certamente più agevole per il personale sanitario, ma poco favorevole all’espulsione naturale. Fu definita e regolamentata l’istruzione della levatrice, seguendo un processo di medicalizzazione del parto, e le ostetriche furono scolarizzate e subordinate ai medici e ai principi della scienza, dell’igiene e della salute pubblica. 

Scrive a tal proposito Rosanna Basso nel suo volume Levatrici (Viella, 2015):

[…] l’intervento statale ha precostituito lo scenario entro cui le levatrici, come segmento sociale, hanno potuto collocarsi ed evolvere, con una singolarità, però, che non si può sottacere: le levatrici, diversamente da altri gruppi professionali, non hanno avuto per lungo tempo la possibilità di determinate quel passaggio, perché, per disparità di potere, di sapere e di genere, non sono riuscite a far giungere ai decisori politici il loro punto di vista, né negoziare qualche richiesta. Ha interloquito in loro vece, ma non per loro conto, la categoria dei chirurghi ostetrici che, nelle vesti di tutori della scienza, e prima ancora degli interessi della propria professione, hanno potuto dialogare con i rappresentanti delle istituzioni, ragionare sui termini e sui confini delle competenze da attribuire a se stessi e alle levatrici, determinare la gerarchia dei ruoli e delle posizioni.

Negli anni ’60 la figura dell’ostetrica non era solo la professionista che presiedeva alle nascite, che avvenivano allora prevalentemente in casa, ma stabiliva con la comunità presso la quale operava un forte legame di empatia.

L’ostetrica odierna, oltre ad assistere alla gravidanza e al parto, cura il neonato dopo la nascita e segue la donna dal menarca alla menopausa, offrendo consulenza contraccettiva e sessuologica.

Molti comuni hanno intitolato vie e piazze a chi ha fatto nascere intere generazioni.

Il 13 maggio è stata Ausonia (FR) a intitolare una piazza a Iliana Tosti (Roma, 1928 – Ausonia, 2004).

Iliana si diplomò in Ostetricia presso l’Università degli studi di Roma nel 1956 e svolse il servizio prima a Spigno Saturnia, poi a Sant’Ambrogio sul Garigliano. Nel 1965 vinse il concorso per ostetrica condotta presso la Prefettura di Frosinone, e scelse come destinazione Ausonia e ha prestato il suo servizio all’ospedale di Cassino. Iliana era una donna profondamente innamorata del suo lavoro, che considerava una vera e propria missione di vita. Il suo ruolo andò ben oltre la semplice “assistenza” alla partoriente, ma fu piuttosto di partecipazione ai problemi di ciascuna, tanto da diventare, di volta in volta, mamma, sorella o figlia di chi si rivolgeva a lei. Il suo esempio rimane un modello di abnegazione e di umanità, che è giusto onorare e far conoscere alle giovani generazioni anche attraverso l’intitolazione di una piazza del paese dove tutti la stimavano. 

Come Iliana, molte altre levatrici/ostetriche hanno dedicato la vita all’assistenza di gestanti, partorienti e puerpere.

Il comune di Sant’Angelo di Piove di Sacco (PD) nel 1998 ha intitolato una via a Maria Artusi, insignita del titolo di Cavaliere del Lavoro, che ha svolto la professione di ostetrica nel territorio per oltre quarant’anni.

Per rimanere nella provincia di Padova, a Limena è ricordata Nella Rezza, che nel 1941 vinse la condotta di ostetricia. 

Nello stesso anno prese la condotta Onorina Scanferla, ricordata a Bagnoli di Sopra.

A Marano Lagunare (UD), una strada è dedicata a Elodia Cecuta, che tutti ricordano come una donna bassa e robusta, sorda e con i capelli raccolti sulla nuca e tenuti fermi sopra le orecchie da due forcine, per sentire meglio. Sempre disponibile ad aiutare bambine e bambini di famiglie povere, provvedeva a rifornirle anche di quaderni e pennini. Nonostante una vita di lavoro, è morta povera. 

A Loria, in provincia di Treviso, una via ricorda Maria Fontana, levatrice del paese, morta nel 1970.

A Cimolais (PN) una targa apposta nel 1999 ricorda Eva Pielli, cavaliere della Repubblica, e il viale a lei dedicato.

A Bologna un giardino ricorda un’ostetrica di guerra, Medea Zanardi. Le cronache la descrivono in stivali, gonna pantalone, occhialoni gialli e cuffia bianca, che vola ovunque ci sia bisogno, a cavallo di una Moto Guzzi 250, sotto le bombe dell’ultima guerra, violando il coprifuoco, armata soltanto di quattro croci rosse dipinte sul serbatoio e sui paraurti.

Foto 2

A Sansepolcro, provincia di Arezzo, è ricordata Rosina Gennaioli

A Fregene (RM) Bruna Pierlorenzi Ceotto

A Terranova di Pollino, in provincia di Potenza, è ricordata Ines Zurlini, morta nel 1977.

Foto 3

A Rieti, una strada ricorda Maria Fiore

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Cosenza dedica un’area di circolazione ad Anna Morrone e Nardò (LE) a Filomena Leopizzi.




Donne e Lavoro: essere ostetrica

Nasce oggi la rubrica Donne e Lavoro della sezione Toponomastica di ImPagine. Il tema scelto per dare vita alla sequenza non è casuale: levatrici e ostetriche hanno dato la vita a centinaia di generazioni, ai loro consigli e alle loro mani si sono affidate per secoli le donne del mondo.

In foto. Necropoli di Porto (Fiumicino, RM), tomba 100. La levatrice

Sarà il solo testo di Alessandra Scirdi, letto il 13 maggio alla cerimonia per l’intitolazione di una piazza d’Ausonia all’ostetrica Iliana Tosti, a riempire di parole e poesia questa prima pagina.

Ebbene si … 

Essere Ostetrica è come essere artista.

È qualcosa che si è, non si fa. 

Te lo riconoscono gli altri.

È un’energia che ti porti nelle mani e nel cuore. 

Qualcosa che penetra profondamente nei luoghi più remoti della tua anima e non ti abbandona mai.

È nata con te. E tu con lei. 

Infondo l’arte è questo, 

Lo stare davanti; Il tirare fuori;

peculiarità sia dell’artista che dell’ostetrica.

Tutte le volte in cui mi hanno chiesto di descrivere cosa fosse una nascita, ho sempre descritto l’attimo prima dell’apertura del sipario. 

Quel velluto ROSSO messo a proteggere qualcosa di sacro che sta per accadere. 

La concentrazione. 

Il vocio del pubblico in sala. 

Il corpo che scalpita e la mente fredda, lucida, concentrata. 

Il buio.   

SILENZIO.

E poi il primo respiro. 

La prima battuta di copione. 

Il primo cenno di diaframma.

La prima nota.

Questa è la “mia” nascita: 

La stessa, identica, meravigliosa e terribile tensione che ho ritrovato più volte sul palco. 

Prima che tutto sia commedia, prima che tutto sia Tragedia. 

Quel piccolissimo e infinito lasso di tempo che ti rende Ostetrica e Madre contemporaneamente.

Quel piccolissimo e infinito lasso di tempo in cui tutto è silenzio prima che tutto sia musica, anche il silenzio stesso.

E tu hai già le mani sporche di vita e non te ne sei accorta.

Lo spettacolo è iniziato.

Il sipario … è aperto. 

In copertina. Ausonia (FR). Piazza Iliana Tosti. 

Intitolazione del 13 maggio 2018




Yoryanis Isabel Bernal Varela

I popoli indigeni dell’America Latina stanno combattendo una battaglia impari contro gli ingenti interessi economici delle multinazionali che sfruttano e distruggono il loro ambiente naturale, spesso con la connivenza dei governi locali che si spartiscono “la torta”. Donne e uomini, leader nella difesa delle loro terre e dei diritti umani, lottano per una sopravvivenza culturale che diventa sempre più anche fisica: è solo di venti giorni fa l’assassinio di Olivia Arevalo Lomas, ma le persone uccise sono centinaia e per la maggior parte di esse non c’è stata giustizia.

Una Giusta è stata senz’altro Yoryanis Isabel Bernal Varela, leader della comunità indigena Golkuche del popolo Wiwa, uccisa il 26 gennaio 2017, a soli quarantatré anni, con un colpo di pistola alla testa (anche questa, come altre, una vera e propria efferata esecuzione) vicino a Valledupar, città situata nella Sierra Nevada, all’estremità settentrionale delle Ande, nel nord della Colombia.

Nella Sierra Nevada di Santa Marta il territorio è ordinato da bacini, l’acqua è sacra, i cicli della Madre Terra vanno rispettati e l’equilibrio dell’universo va mantenuto. Gli indios devono prendersi cura del cuore del mondo (per esempio si oppongono con forza alle dighe idroelettriche che già esistono o che sono progettate nella loro regione, perché interferiscono col ciclo naturale dell’acqua, minacciando le colture e il bestiame delle tribù), devono ricompensare la natura di ciò che viene tolto per il sostentamento umano… se la natura viene saccheggiata, derubata, colpita… ciò è vissuto come un sacrilegio. Contro tutto ciò, mantenendosi fedele alla grande spiritualità del suo popolo, lottava Isabel Varela e per questo è stata assassinata.

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Il segretario dell’organizzazione Wiwa Golkuche, José Gregorio Rodríguez,ha denunciato fortemente tutte le intimidazioni e le minacce che subiscono i popoli indigeni, e ha affermato: “Hanno assassinato una nostra compagna e violato i nostri diritti. Gli altri leader devono essere protetti.” Infatti le ricchezze naturali della Sierra Nevada attirano sempre di più pericolosi progetti di “sviluppo”, che occidentalizzano quei popoli, militarizzano alcuni gruppi per farsene degli alleati, distruggendone l’atavica cultura e impossessandosi anche di tutti i profitti. Isabel difendeva i diritti delle donne, tutt’uno con l’origine, il nutrimento, la cura del mondo. “Hanno portato via una grande leader, e quando questo accade, la nostra cultura corre gravi pericoli, perché non ci sono molte persone abbastanza coraggiose da affrontare i nostri problemi di ordine pubblico, rischiando la vita”, ha detto il capo del consiglio tribale dell’Arhuaco, Kogui e popoli Wiwa, Jose de los Santos.

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“Si vive una violenza selettiva, che colpisce esponenti politici ed attivisti e che molto si accanisce sulle donne: quelle che hanno conquistato visibilità sono uno schiaffo in faccia a chi storicamente in Colombia ha mescolato l’azione criminale con la sottomissione psicologica e morale della popolazione. Il corpo della donna e il territorio, violare il primo per sottomettere il secondo: è stato il tratto distintivo anche di questa guerra, che ha lasciato almeno 300.000 morti e cinque milioni di sfollati. Metà delle vittime sono donne. Innumerevoli i casi di stupro – almeno 550.000 – perpetrati per la stragrande maggioranza da paramilitari (67%), seguiti da esercito (23%) e guerriglia (8%)di cui solo il 10% fra quelli denunciati ha avuto un processo.” Così si legge in un interessante articolo uscito su Il manifesto del 18 aprile 2017 (http://www.yaku.eu/2017/05/02/la-pace-sul-corpo-delle-donne-in-colombia/)

E noi che cosa possiamo fare? Continuare l’informazione, la denuncia, non dimenticare…

 




Olivia Arevalo Lomas

Appena saputa la notizia, anche sulla pagina fb di Toponomastica femminile, quasi in diretta, sono apparsi i primi affranti, increduli e indignati commenti sull’ennesima uccisione di leader che lottano contro la corruzione e lo sfruttamento criminale delle risorse ambientali del pianeta: giovedì 19 aprile 2018 la Federazione delle comunità native di Ucayali e Affluentes (FECONAU) fa sapere a tutto il mondo (almeno a quella parte che vuole ascoltare e non nasconde queste notizie) che è stata uccisa Olivia Arevalo Lomas, insegnante e attivista nella difesa delle terre ancestrali e dei popoli dell’Amazzonia, a Yarinacoa, nella regione Ucayali, in Perù. “Cade un’altra sostenitrice dei diritti umani!” scrive Anna Luisa, “Ma è una strage, una dopo l’altra” è il grido indignato di Maria Pia, e “Addio, eroina dei diritti della natura e dei popoli indigeni” è il commosso saluto sulla pagina fb di GreenMe. Aveva 80 anni e da una vita combatteva contro le crudeltà e le ingiustizie che subiva la sua gente, massacrata dai Narcos e dai disboscatori illegali, ma non si arrendeva, nonostante il pericolo evidente, finché la sua vita non è stata fermata!

Olivia, chiamata “maraya” la saggia, apparteneva al popolo Shipibo-Konibo del Perù. In uno dei suoi ultimi video, pubblicato sul sito https://www.greenme.it/, Olivia canta immersa nella splendida natura lussureggiante alle sue spalle, in cui si notano già però gli interventi distruttivi umani, e prega che tutto ciò si fermi e si lasci in pace la natura. Difende la sua foresta, la sua cultura, le sue tradizioni. Si sentono i cinguettii degli uccelli unirsi al suo canto: anch’essi in pericolo di estinzione per la scomparsa del loro territorio, così come i popoli indigeni.

Molte altre organizzazione, insieme a FECONAU, hanno condannato quella che definiscono una vera e propria esecuzione, purtroppo da parte di sconosciuti che si teme non verranno mai identificati e condannati, nonostante lo stato peruviano abbia detto di aver iniziato immediatamente la ricerca dei responsabili! Come lei altri leader indigeni sono costantemente oggetto di minacce di morte e persecuzioni, per le loro denunce nei confronti delle multinazionali che saccheggiano in modo incontrollato le risorse ambientali. Sono ben 197 le persone uccise in America Latina, solo nel 2017, “per essersi opposte ai governi e alle imprese che saccheggiano le loro terre e danneggiano l’ambiente tramite corruzione e pratiche inique”, come afferma una ricerca della ONG Global Witness.

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Noi qui vogliamo ricordare alcune delle altre Giuste assassinate in America Latina: da Bertha Isabel Caceres Flores, ambientalista honduregna, a cui è già stata dedicata una ricerca da parte delle scuole, presente nel Viale delle Giuste nella libera Università di Alcatraz, uccisa nel marzo 2016 (foto 3) a Yoryanis Isabel Bernal Varela, leader della tribù Wiwa e attivista per i diritti delle donne indigene in Columbia, colpita a soli quarantatré anni nel febbraio 2017; da Laura Leonor Vásquez Pineda, fiera oppositrice del settore minerario in Guatemala, uccisa nel gennaio 2017 a Miriam Rodriguez Martinez, attivista per gli “scomparsi” in Messico, uccisa nel maggio 2017, dopo che, minacciata di morte dai cartelli della droga, lo Stato non è riuscito a proteggerla.

Loro, di cui parleremo nelle prossime settimane, e tante altre, di esempio per l’impegno volto a difendere interessi collettivi, non devono essere dimenticate e soprattutto devono diventare materia di studio e conoscenza della società globalizzata da parte dei e delle giovani studenti.

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Chi di voi, lettrici e lettori di ImPagine, volesse segnalare e vedere qui ricordata una figura di donna Giusta, che abbia messo a repentaglio la propria vita in difesa della giustizia, contro soprusi, discriminazioni e crimini, può scrivere a questa rubrica oppure sulla pagina fb di Toponomastica femminile.

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Emanuela Loi, una vita per la giustizia

Siamo state a Palermo in viaggio d’istruzione, con la guida dell’associazione Libera, che ci ha fatto conoscere i luoghi simbolo della città nella lotta alla mafia e i siti dove, dai beni confiscati, sono sorte imprese pulite che danno lavoro sano e onesto alla gente: dalla cantina Centopassi agli agriturismi del corleonese.

In via D’Amelio, dove si è consumata una delle stragi più terribili della mafia, ci siamo fermate ad ascoltare il racconto dell’esplosione che ha ucciso, davanti all’abitazione della madre, il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta.

Gabriele, il mediatore culturale di Palma Nana (cooperativa aderente all’associazione Libera) che ci accompagna, è commosso nel ricordarci che Borsellino sapeva benissimo di essere in grave pericolo, dopo l’omicidio del suo amico e collega Giovanni Falcone, il 23 maggio del 1992, ma che nonostante questo non aveva smesso di continuare quell’impossibile lavoro, con la tremenda consapevolezza di veder incombere la minaccia non solo su di lui, ma anche sulle persone a lui più vicine.

L’Albero di Borsellino, in via D’Amelio (in foto) testimonia la volontà di non dimenticare e lottare finché la mafia non sarà distrutta e il lavoro dei giudici trucidati portato comunque a compimento.

FOTO. L’albero di Borsellino

Fra i tanti ricordi e omaggi, lasciati dalla gente comune, spicca l’immagine di Emanuela Loi (in copertina), la poliziotta agente della scorta, uccisa insieme al giudice e ad altri quattro agenti. Sentendo la sua storia, l’abbiamo riconosciuta come una Giusta, come una donna che ha agito in nome della giustizia e per questo ha sacrificato la sua vita. Certo, si può dire che stesse semplicemente facendo il suo dovere (lo ripeteva sempre ai genitori preoccupati: “è il mio lavoro!”), ma quel giorno, il 19 luglio 1992, avrebbe potuto non essere lì, essere in ferie, lontana da quello che sapeva essere un grande pericolo, lei giovane ragazza di ventiquattro anni, solo da un mese nel servizio scorte: invece decise di voler rimanere a proteggere quel giudice di cui aveva grande stima e che stava combattendo, isolato e malvisto, contro la criminalità. Ciò che ha particolarmente colpito Roberta, della classe 3 E del Liceo Maffeo Vegio di Lodi, ricercando su Emanuela Loi, è stata una frase spiritosa del giudice Borsellino che, vedendo la giovane agente nella sua scorta sbottò: “E lei dovrebbe difendere me? Dovrei essere io a difendere lei”. Il suo coraggio nel non fuggire davanti al pericolo, ma nel rimanergli accanto, dimostrerà che ne era all’altezza!

Emanuela Loi, diplomata maestra e abilitata all’insegnamento, nell’attesa di ottenere la cattedra, decise di tentare anche il concorso in polizia per far compagnia alla sorella Claudia, di due anni più grande: fu lei e non la sorella a superare il concorso e diventare poliziotta, combattendo contro tanti pregiudizi che non la facevano ritenere adatta a quel lavoro, ritenuto troppo pesante fisicamente e psicologicamente per una donna. Non si fece demotivare dalle voci e si preparò con responsabilità ed entusiasmo, partendo dalla sua Sardegna per andare prima a Trieste e poi via via in altri posti fino a Palermo, assegnata al pool antimafia.

La sorella Claudia è testimone indefessa del suo coraggio e della sua determinazione nel contribuire alla sconfitta della mafia, e parla soprattutto nelle scuole e ai giovani perché ne seguano l’esempio sulla via della legalità e della giustizia, perché diventino, come lei, antidoto alla criminalità, nella convinzione che ognuno deve impegnarsi, perché solo quando gli ideali di onestà e giustizia diventeranno patrimonio universale non sarà più necessario morire per difenderli.

A Emanuela, prima donna in polizia a morire in servizio, sono stati dedicati libri, film e moltissime vie in tante parti d’Italia.

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Intitolazione a Bolsena, foto di Livia Capasso

Intitolazione a Olbia, foto di Enrico Grixoni

 

 

 




Marielle

A Rio de Janeiro, nella notte tra il 14 e il 15 marzo 2018, viene brutalmente assassinata Marielle Francisco da Silva, insieme al suo autista, Anderson Pedro Gomes, in quella che è stata definita come una vera e propria esecuzione.

Attivista per i diritti umani, femminista, difensora di donne, neri, persone LGBT e indigeni, Marielle Franco con coraggio denunciava le violenze contro le donne afroamericane delle favelas (lei stessa era nata e cresciuta a Marè, una favela di Rio, e amava chiamarsi Cria da Marè, Figlia della Marea) e ultimamente aveva aspramente criticato la polizia per le azioni violente che avevano portato all’uccisione di Matheus Melo, l’assistente di un sacerdote, nella favela di Acari.

A febbraio si era pubblicamente dichiarata contraria alla militarizzazione delle forze di polizia decisa dal governo centrale. Forse proprio per questo è stata “giustiziata” a soli trentotto anni, con quattro colpi di pistola alla testa e proiettili provenienti da un lotto venduto alla polizia federale: la sua figura come Giustaci è stata segnalata da moltissime amiche, rimaste attonite e sconvolte di fronte a tanta brutalità per spegnere un impegno e una passione tanto grandi.

A chi dava così tanto fastidio?

Rispondere a questa domanda è trovare i responsabili della sua morte.

Eletta consigliera comunale del Partito Socialismo e Libertà a Rio de Janeiro, nel 2016, con un impegno politico volto a combattere discriminazioni e diseguaglianze, era in prima linea per difendere i diritti, soprattutto delle donne e della comunità LGBT, da quando a diciannove anni si era trovata ad affrontare la vita da sola con una figlia e l’aiuto della compagna, Mônica Benício.

Orgogliosa della sua condizione di donna, povera, nera e omosessuale, si era laureata in Scienze Sociali, specializzata in responsabilità sociale e settore terziario, conseguendo anche un masterin pubblica amministrazione.

È stata consigliera parlamentare del deputato Marcelo Freixo e coordinatrice della Commissione per la difesa dei diritti umanie della cittadinanza. Nel Consiglio municipale ha presieduto la Commissione per la difesa delle donne ed è entrata anche nella Commissione incaricata di monitorare l’azione della polizia federalea Rio de Janeiro, ricoprendo tale incarico sino al suo assassinio.

Migliaia di persone sono scese in piazza in diverse città del Brasile per protesta, ma l’ondata di sdegno si è propagata in tutto il mondo, sulle reti sociali. La figlia Luyaraha scritto: “Hanno ucciso mia madre e altri 46 mila elettori! Continueremo la tua lotta! Ti amo”. In un bellissimo video Marielle appare in tutta la sua forza e bellezza, in tutto il suo impegno contro i poteri forti.

“Per te non un minuto di silenzio ma anni di numerose battaglie”

Fino a quando grandi e Giuste donne, come Marielle – e tante altre, attualissime purtroppo, come, per ricordarne qui solo alcune, Ilaria Alpi, Bertha Caceres, Anna Politkovskaja, Daphne Caruana Galizia…- dovranno morire per rivendicare i diritti di tutti e tutte e per combattere la criminalità?

Questo spazio è aperto alle segnalazioni biografiche di lettori e lettrici




La ricerca delle “Giuste”. Anna Paolina Pazzaglia Spazio aperto a contributi esterni

Il viale delle Giuste, inaugurato nella Libera Università di Alcatraz, conta a oggi quaranta figure di donne degne di essere definite tali. I pannelli biografici esposti sono il risultato di una selezione operata dalla giuria nell’ambito del concorso nazionale “Sulle vie della parità.  Centinaia di altre proposte hanno raggiunto il tavolo delle giurate: si tratta soprattutto di personaggi poco noti, segno di una grande ricchezza di vite esemplari femminili nascoste nelle pieghe della storia. In questo spazio vorremmo far uscire dall’ombra quei nomi meritevoli e sconosciuti e raccogliere nel contempo, nuove segnalazioni di donne che hanno combattuto contro ingiustizie, soprusi, criminalità o discriminazioni.

Invitiamo pertanto lettrici e lettori a inviare contributi e profili via mail, scrivendo all’indirizzo baldo.d@impagine.it

Esordiamo oggi con la sintesi della proposta pervenuta dalla classe prima del Liceo Maffeo Vegio di Lodi, guidata dai docenti Laura Coci e Ivano Mariconti.

La biografia, inviata al concorso, è già presente nel viale perugino (foto di copertina).

Anna Paolina Passaglia, nata a Gragnano Trebbiense (Piacenza) l’11 aprile 1902 si avvia in giovanissima età alla professione di sarta. Nel 1920 sposa Giovanni Lanzani e si trasferisce a San Colombano al Lambro, nella casa di famiglia del marito, dove mette al mondo quattro figli.

Anna non frequenta la chiesa e non nasconde le sue opinioni socialiste, maturate grazie al confronto con il padre, e pertanto è isolata e malvista in paese.

Nel 1932 Giovanni viene investito da un’automobile guidata da un fascista e muore; l’antifascismo di Anna è rafforzato dall’impunità di cui gode l’uccisore del marito.

Il regime non le rilascia né la tessera alimentare né il materiale scolastico per i figli, uno dei quali, Mario, diventa partigiano dopo l’8 settembre 1943.

Anna entra in contatto con il partito comunista clandestino: procura armi e viveri ai resistenti del territorio e ne accompagna alcuni in montagna, dove andranno a costituire la 167a Brigata Garibaldi. Le viene affidato il delicato compito di ufficiale di collegamento.

Nel 1944 è arrestata e condotta nel carcere di Lodi, dal quale riesce a fuggire. Torna a San Colombano per trasferire i figli in un luogo sicuro e continuare la lotta fino alla Liberazione. Dopo la guerra fonda la sezione ANPI del territorio e si dedica ad aiutare le persone in difficoltà. Muore a San Colombano, il 19 settembre 1998.

La generosità e il coraggio di Anna sono ancor oggi ricordati nelle sue terre, dove le è stata dedicata la sezione locale dell’ANPI.

FOTO 1




Il Viale delle Giuste nella Libera Università di Alcatraz

10 e 11 marzo 2018: due giorni stupendi nella Libera Università di Alcatraz (Gubbio) per il progetto Viale delle Giuste, realizzato dall’associazione Toponomastica femminile e tante scuole di tutta Italia… studenti e docenti di Lodi, Codogno, Milano, Ferrara… e le prime due opere d’arte in onore delle Giuste, create da ACAV Codogno (LO) Associazione Culturale per le Arti Visive e ARTISANE Casalpusterlengo.

Premiazione con Jacopo Fo, Mario Pirovano, Maria Pia Ercolini e le docenti Danila Baldo, Venera Tomarchio, Daniela Fusari, Elvira Risino, Sara Marsico, Alice Vergnaghi, Margherita Falgetano, Maria Rosa Del Buono, Federica Pintus.

Queste le figure di donne Giuste (che hanno operato contro discriminazioni, ingiustizie e soprusi, mettendo a repentaglio o perdendo la vita) esito del lavoro delle/degli studenti in questo a.s. 17/18. Premiazione ulteriore avverrà nell’ambito del concorso “Sulle vie della parità” a Roma il 27 aprile prossimo.

Ayse Deniz                   Diritti civili
Gisella Floreanini Antifascismo
Renata Fonte               Legalità
Mary Harris Jones         Lavoro minorile, emarginazione
Ipazia                          Matematica
Wangari Maathai          Politiche di genere
Lise Meitner                 Antimilitarismo
Anna Maria Mozzoni      Diritti delle donne
Alice Paul                     Diritti delle donne
Anna Politovskaja         Attivista per i diritti umani
Salwa Salem                Femminista e pacifista
Teresa Sarti Strada       Attivismo sociale
Sophie Scholl               Resistenza tedesca
Irena Sendler               Nazifascismo
Settimia Spizzichino     Campi di concentramento
Ecaterina Teodoroiu      Prima Guerra Mondiale
Jeanne Antide Thouret Emarginazione
Harriet Tubman            Abolizionismo schiavitù
Jessie White Mario        Moti risorgimentali
Saamiya Yusuf Omar    Migrante per ottenere diritti




Un gomitolo di solidarietà

C’è una storia vecchia più di cent’anni che ancora oggi srotola un gomitolo di solidarietà femminile.

Era il 25 Marzo 1911 a New York, una giornata di primavera tiepida e soleggiata, quando alle 16,30, finito il massacrante turno di lavoro, più di cinquecento operaie, per lo più giovanissime, si accingevano a ricevere la paga della settimana e pregustavano già il giorno di meritato riposo.

Ad un tratto nell’Asch Building all’ottavo, nono e decimo piano, dove era ubicata la Triangle Shirtwaist Company, fabbrica di camicette alla moda, scoppiò un incendio. E fu l’inferno: fiamme e fumo s’impadronirono di quelle giovani vite che, disperate, tentarono invano la fuga. Le ragazze giravano impazzite come in una macabra giostra, correvano da una finestra all’altra tentando di respirare, portavano i loro manicotti alla bocca per non soffocare. Si udivano grida di disperazione in tante lingue diverse: erano operaie emigrate provenienti dall’Italia, dalla Russia, dall’Ucraina, dalla Romania, dall’Austria, dall’Ungheria…

Alcune restarono impietrite: gli occhi pieni di terrore, le labbra che non riuscivano ad articolare alcun suono. Ferme, aspettarono di diventare cenere. Quelle che si erano accalcate davanti le finestre, quando il fuoco iniziò a lambire le loro lunghe gonne nere, si gettarono nel vuoto. E fu una terribile pioggia di vite che si schiantavano al suolo.

Centoquarantasei vittime di cui centoventinove donne.

Così finì il loro sogno americano, in fumo tante piccole certezze appena conquistate, tanti piccoli agi strappati a forza alla miseria, alla povertà, agli stenti della terra natia.

Così si spense per sempre la loro speranza.

Così finì il coraggio che aveva loro permesso di attraversare l’oceano sfidando pregiudizi, sorte e paure.

Lunghe gonne, camicette bianche e tra i capelli forcine e qualche fermaglio: giovani donne, in alcuni casi bambine, a cui fu rubato tutto. Un furto, un ratto dell’ingordigia umana, della corsa sfrenata verso il profitto a tutti i costi.

Ma il loro sacrificio non fu vano e il filo del gomitolo di solidarietà iniziò a dipanarsi.

Altre donne, combattive e determinate, con le loro lotte riuscirono ad ottenere nuove leggi che migliorarono notevolmente le condizioni lavorative nelle fabbriche.

Rose Schneiderman, emigrata dalla Polonia, era un’attivista sindacale socialista. Parlava agli angoli delle strade, sui palchi, ai microfoni delle radio: il suo scopo era sensibilizzare le donne a una maggiore consapevolezza dei loro diritti come lavoratrici. Le incitava a iscriversi ai sindacati di settore. Dopo l’incendio del 1911 il suo impegno diventò ancora più pressante e suffragette, associazioni di donne, studentesse, in nome di “una sacra solidarietà femminile” si batterono per ottenere leggi migliori.

Anche Francis Perkinson, testimone casuale di quella tragedia, giurò solennemente a se stessa che avrebbe dedicato la sua vita affinché simili tragedie non si verificassero più.  Diventò Segretaria del Lavoro negli USA, sia durante la presidenza Roosevelt che in quella successiva di Truman: prima donna al mondo a ricoprire questa carica. Grazie a lei furono introdotte tutte le leggi che miglioravano il lavoro femminile. Francis è stata per lungo tempo ignorata anche dai libri di storia americana. Per tutta la vita ripeté: “Dopo tutto quello che è successo mi resi conto del valore sacro della vita di un lavoratore, capii come le condizioni precarie della sicurezza potevano uccidere come un fucile”.

Da quel rogo si salvò l’operaia Rose Rosenfeld Freedman che riuscì a salire sul tetto del decimo piano. Rose accusò sempre i proprietari di avere ucciso le sue colleghe. Denunciò che le porte che avrebbero consentito la fuga erano tutte chiuse a chiave. Disse che volevano pagarla affinché, durante il processo, cambiasse la sua versione: lei, indignata e fiera, rifiutò, nessuna ricchezza al mondo avrebbe potuto comprare la sua dignità.

Tante, tante donne per le donne. Per quelle operaie di un secolo fa l’impegno fu grande, per non vanificare la loro atroce morte.

Con il passare dei decenni, pareva che il filo di solidarietà si fosse interrotto, che su quelle sfortunate operaie fosse calato per sempre l’oblio. Invece il caso ha deciso che in Italia iniziasse una ricerca per attribuire alle vittime il loro vero nome, la composizione del loro nucleo familiare, il paese di provenienza. Delle 38 italiane perite oggi si sa con certezza che due erano nate in Basilicata, cinque in Puglia, una in Campania e ben ventiquattro in Sicilia. Quest’isola allora piena di luce e di fame aveva pagato il tributo più alto. Le povere vittime sono rinate dai fogli ingialliti dei registri dell’anagrafe di tanti comuni.

Così tante donne di oggi hanno ripreso in mano il filo di quel vecchio gomitolo. Tante addette ai servizi demografici si sono appassionate alla ricerca. Tante docenti hanno raccontato a studenti e studentesse questo tragico evento. Tante improvvisate attrici, indossando una camicetta bianca le hanno impersonate. Tante giornaliste ne hanno divulgato la storia.

Con tenerezza e affetto migliaia di donne, in ogni angolo d’Italia, le hanno adottate e riconsegnate alla Storia.

Accogliendo la richiesta dell’associazione Toponomastica femminile, oggi molte vie sono state loro intitolate e alcune targhe commemorative renderanno indelebile il loro ricordo.

E quando questo gomitolo di solidarietà si sarà interamente srotolato, resterà, per sempre, scolpito nella pietra, il loro fugace passaggio a memoria e monito.

Così da quel lungo filo è nata una preziosa trama, intrecciata dalle donne.

Donne, da sempre, tessitrici di memorie.