Brescia – Memorie verticali (seconda parte)

Proseguendo lungo via Sant’Urbano si trovano altre lapidi, fra cui una, collocata in occasione del centenario delle Dieci Giornate che ne ricorda con fierezza i combattimenti che hanno visto protagonisti gli abitanti dello storico rione, e un’altra apposta nel decimo anniversario della Liberazione, sull’edificio nel quale il CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) locale emana il 26 aprile 1945 il suo primo atto ufficiale.

Foto 1. Targa nel centenario delle Dieci Giornate

Ridiscendendo lungo la strada tracciata dalle formelle delle vittime del terrorismo, si raggiunge nuovamente Piazza della Loggia, punto d’inizio del Percorso della Memoria. Esattamente di fronte al punto in cui è esplosa la bomba il 28 maggio 1974 si trova il Palazzo Comunale, sotto il cui ampio portico una serie di lapidi, risalenti a epoche differenti, celebra i caduti per la libertà nel Risorgimento e nella Resistenza, intrecciando memorie diverse. 

Foto 2. Palazzo Loggia

In Largo Formentone, su un lato del Palazzo della Loggia, in ideale continuità con il portico del palazzo, nel 1988 viene collocata una lapide in marmo per ricordare i caduti del primo eccidio che si consuma a Brescia per mano fascista, proprio in quella piazza. 

La lapide è censita nell’ambito del progetto nazionale Pietre della Memoria, messo a punto dal Comitato regionale umbro dell’ANMIG (Associazione Nazionale dei Mutilati e Invalidi di Guerra), che appunto censisce, cataloga, fotografa e rende pubblici i dati e le iscrizioni relative a monumenti, lapidi, steli, cippi commemorativi delle due guerre mondiali e della guerra civile del ’43-‘45. L’ANMIG, sorta già durante la prima guerra mondiale, a Milano nell’aprile 1917 e a settembre dello stesso anno a Brescia, inizialmente con fini solidaristici e assistenziali, nel febbraio 2002 costituisce una propria fondazione per “conservare la memoria storica di lotte, di sacrifici e di conquiste che hanno consentito all’Italia di crescere nella libertà, nella democrazia e nella giustizia sociale”. 

Foto 3. Lapide di Largo Formentone ai Caduti per la libertà

Piazza Rovetta, cuore popolare della Brescia storica situata a nord di piazza della Loggia, è il risultato di una serie di diversi sventramenti tra la fine dell’Ottocento e gli anni Trenta del Novecento. Nelle piante di Brescia del 1826 e del 1852 la zona tra piazza della Loggia e via S. Faustino è occupata da una serie di fabbricati che si affacciano direttamente sul corso del fiume Garza. Fino al 1865 esiste una contrada Ruetta che trasferisce il nome a una piazzetta Ruetta ricavata dalle demolizioni degli edifici posti lungo l’attuale via S. Faustino. Il nome deriva dal diffuso toponimo rua (strada) poi rova e quindi Rovetta (piccola strada). In conseguenza della completa apertura del tratto sud di via San Faustino, la piazzetta scompare e si apre invece un primo slargo a nord della Loggia che assume il vecchio toponimo di piazza Rovetta. Ulteriori interventi demolitori si verificano nel 1904, con l’abbattimento del caseggiato su vicolo Cogome (caffettiere nel dialetto locale, dal latino cucuma), nel 1906 e nel 1939. Con quest’ultimo sventramento si libera completamente il lato nord del palazzo della Loggia, sfrattandone gli abitanti e relegandoli nelle periferie, per procurare la superficie necessaria alla costruzione di un edificio che ospiti gli uffici comunali, finalizzata alla ridefinizione della morfologia di buona parte del quartiere e al completamento della nuova immagine della città, iniziata con la realizzazione di piazza Vittoria. In questo modo scompare definitivamente la suggestiva gola urbana, al cui fondo scorre, scoperto, tra antiche case, il torrente Garza. Le progettate costruzioni non vengono realizzate poiché nel 1940 l’Italia entra in guerra e la realizzazione dei progetti urbanistici cede il passo alle esigenze belliche e piazza Rovetta mostra ancora oggi la sua origine caotica con la parete cieca a nord e l’informe quadro urbano sul quale continuano a esercitarsi numerosi progettisti. 

Nel 2001, durante l’amministrazione di centrosinistra guidata da Paolo Corsini, vengono installate nel lato sud una serie di panchine in pietra  bianca sui sedimi delle epoche precedenti e, sul lato nord, tra via Rua Sovera e via San Faustino, una struttura metallica, sotto la cui copertura, sorretta da colonne alte 8,42 metri, trovano posto le bancarelle degli ambulanti. 

Foto 4. La pensilina

(dal Giornale di Brescia online, 30 marzo 2016)

Si vuole in questo modo ricreare il profilo dei volumi degli edifici demoliti, limitandosi a suggerirne il volume e lasciando libero spazio alle tradizionali attività della piazza. Il costo dell’intervento ammonta a 270.000 euro e la pensilina suscita una serie di polemiche. Nel 2008 si insedia in città la nuova amministrazione di centrodestra di Adriano Paroli , la quale subito  propone di eliminare da piazza Rovetta, ribattezzata piazza Kabul, le panchine in pietra bianca,  “diventate un bivacco di perdigiorno”, frequentato soprattutto da cittadini extracomunitari,  suscitando non poche reazioni e polemiche da parte di diverse associazioni di supporto agli immigrati, sindacati e forze politiche,  che organizzano iniziative di protesta contro la decisione della Loggia. A dicembre, dopo che le panchine “contestate” sono state rimosse, durante una manifestazione di protesta alcuni attivisti del Magazzino 47, espressione della “sinistra antagonista”, sfidando la decisione di Palazzo Loggia, fissano al terreno tre panche in legno e ferro, che vengono però prontamente rimosse. L’anno successivo, il 2009, dall’altro lato della piazza spariscono prima i banchi dei commercianti, destinatari di un contributo comunale di oltre 100.000 euro, e poi, nel 2010, la pensilina. Smontare la copertura metallica e rimontarla al parco Pescheto comporta un pesante onere per le casse comunali: per smontarla e trasferirla nei magazzini comunali vengono spesi 80.000 euro; 22.000 euro per studiarne la ricollocazione al Pescheto; 51.000 euro per le opere di carpenteria necessarie a erigerla nel parco di via Corsica; 185.000 per le opere edili richieste dal progetto;  complessivamente 338.000 euro, che, sommati al contributo agli ambulanti, diventano oltre 438.000. La pensilina viene prima trasferita momentaneamente nei magazzini comunali e solo due anni dopo, nel 2012,  rimontata al parco Pescheto. Nel 2010 viene bandito un concorso d’idee da cui esce vincitore il «Cubo bianco» o aula studio (con un premio di 12.000 euro all’ideatore, 8.000 al secondo classificato e 6.000 al terzo), ma l’opera, che sarebbe costata 1,4 milioni,  non viene realizzata. Alla fine del 2012 si decide di allestire un teatrino di burattini destinato a spettacoli per bambini, rapidamente abbandonato a se stesso (40.000 euro). 

Foto 5. Il teatrino

(dal Giornale di Brescia online, 30 marzo 2016)

In sintesi: 270.00 euro per fare, oltre 504.000 per disfare, in totale oltre 774.000 euro di denaro pubblico. Nel 2013, con la giunta di Emilio Del Bono, Brescia, dopo la sua unica amministrazione di centrodestra, torna a una di centrosinistra, che, nel dicembre 2013,  smonta il teatrino per far spazio alla pista di ghiaccio per il pattinaggio,  allestita durante il periodo natalizio. 

Foto 6. La pista di pattinaggio

 (dal Giornale di Brescia online, 30 marzo 2016)

Nel gennaio 2014, il Giornale di Brescia, uno dei quotidiani locali propone, consultati i propri lettori, una piazza alberata con tavolini e bancarelle sotto i tigli. Nel 2015 la vicesindaca Laura Castelletti propone di trasformare la facciata spoglia di Largo Formentone in una palestra d’arrampicata, ma non se ne fa nulla. 

In copertina:

Piazza Rovetta alla fine degli anni ‘40




Galleria Borghese: La donna oggetto del desiderio maschile, violenza carnale e mito (seconda parte)

Sala III – di Apollo e Dafne 

La sala prende il nome dal celebre gruppo di Apollo e Dafne, realizzato da Gian Lorenzo Bernini tra il 1622 e il 1625, collocato al centro, e strettamente correlato col dipinto centrale della volta, opera del pittore Pietro Angeletti, che rappresenta i diversi momenti del racconto narrato da Ovidio nelle Metamorfosi (I, 555-559).

Foto 1: Apollo e Dafne

Apollo e Dafne: il racconto

Dafne, giovane ninfa, figlia di Gea, la Madre Terra, e del fiume Peneo, viveva serena nella quiete dei boschi, quando la sua vita fu stravolta dal capriccio di due divinità, Apollo ed Eros. La leggenda racconta che un giorno Apollo, vantandosi con Eros delle sue imprese, derideva il dio dell’Amore che invece non aveva mai compiuto delle azioni degne di gloria. Ferito dalle parole di Apollo, Eros preparò la sua vendetta: prese due frecce, una spuntata e di piombo, destinata a respingere l’amore, che lanciò nel cuore di Dafne, e un’altra ben acuminata e dorata, destinata a far nascere la passione, che scagliò nel cuore di Apollo. Da quel giorno Apollo iniziò a vagare disperatamente per i boschi alla ricerca della ninfa, tanta era la passione che ardeva nel suo cuore. Alla fine riuscì a trovarla, ma Dafne, appena lo vide, terrorizzata scappò tra i boschi. Accortasi però che la sua corsa era vana, invocò la Madre Terra di aiutarla e questa, impietosita, trasformò la figlia in albero: i suoi capelli diventarono foglie; le braccia si allungarono in flessibili rami; il corpo si ricoprì di ruvida corteccia e i piedi si tramutarono in robuste radici. La trasformazione era avvenuta sotto gli occhi di Apollo che, disperato, abbracciava il tronco nella speranza di riuscire a ritrovare l’amata. Alla fine il dio, deluso, proclamò a gran voce che quella pianta, l’alloro, sarebbe stata sacra al suo culto e segno di gloria da porsi sul capo dei vincitori. E non è un caso che nel nome della ninfa c’era già una predestinazione: il nome Dafne significa, infatti “lauro”, alloro.

L’epica è piena di miti che riguardano le divinità, i loro amori difficili, e le violenze carnali. Basti pensare alle tante sembianze ingannevoli assunte da Giove per sedurre attraenti fanciulle. Dafne qui è modello di virtù, è una donna che difende fino all’ultimo l’onore che Apollo vorrebbe intaccare, ma rimane vittima del desiderio possessivo del dio, che egoisticamente non tiene in considerazione la contrarietà e la sua sofferenza, arrivando a rovinarle la vita. 

In realtà il vero messaggio di questo gruppo scultoreo del Bernini è l’inutilità dei tentativi di conquistare l’amata, se questa non ricambia gli stessi sentimenti, e il senso del rispetto di una scelta, anche se non condivisa. A conferma di ciò un distico morale, composto in latino dal cardinale Maffeo Barberini (futuro Papa Urbano VIII), è inciso nel cartiglio della base, che dice: chi ama seguire le fuggenti forme dei divertimenti, alla fine si trova foglie e bacche amare nella mano.

Sala IV – Sala degli Imperatori – Il trionfo di Galatea e il Ratto di Proserpina 

La sala è detta “Galleria degli Imperatori” per la presenza di diciassette busti in porfido e alabastro di Imperatori. L’ampia volta è impreziosita dai dipinti ispirati alle vicende della ninfa Galatea, anche queste narrate da Ovidio nelle Metamorfosi. Al centro si colloca Il trionfo di Galatea, figlia di Nereo, desiderata dal ciclope Polifemo (rappresentato sulla sinistra) e amata dal pastore Aci (sulla destra). 

Plafond de la Salle des Empereurs – Le Triomphe de Galatée (de Angelis, XVIIIe)

Foto 2: Il trionfo di Galatea

La leggenda narra di Polifemo, ciclope perdutamente innamorato della giovane Galatea, che a sua volta invece era innamorata di Aci, un bellissimo pastorello, che un giorno, mentre pascolava le sue pecore vicino al mare, vide Galatea e se ne innamorò perdutamente. Una sera, al chiarore della luna, il ciclope vide i due innamorati in riva al mare baciarsi. Accecato dalla gelosia, decise di vendicarsi. Non appena Galatea si tuffò in mare, Polifemo prese un grosso masso e lo scagliò contro il povero pastorello schiacciandolo. Appena Galatea seppe della terribile notizia, accorse subito e pianse tutte le sue lacrime sopra il corpo martoriato di Aci. Giove e gli dei ebbero pietà e trasformarono il sangue del pastorello in un piccolo fiume che nasce dall’Etna e sfocia nel tratto di spiaggia, dove gli amanti usavano incontrarsi. 

Tanti paesini in provincia di Catania ricordano nel nome, composto con Aci, questa bellissima storia di amore negato.

Al centro della sala è collocato Il Ratto di Proserpina di Gian Lorenzo Bernini, realizzato tra il 1621 e il 1622. 

Il grande gruppo marmoreo racconta un’altra violenza, dettata da uno smodato desiderio di possesso amoroso.

Foto 3: Il ratto di Proserpina

Proserpina, figlia di Demetra, fanciulla bionda e soave, sempre sorridente, in compagnia di altre ninfe, si divertiva a correre sui prati. A un tratto un terribile boato lacerò l’aria. La terra si spaccò e dal baratro balzò fuori, su un cocchio trainato da quattro cavalli Plutone, dio degli inferi, che, afferrata Proserpina, la trascinò nel grembo della terra. Il dio si era innamorato perdutamente di Proserpina e aveva chiesto e ottenuto da Giove di poterla sposare, perciò era venuto sulla terra e l’aveva rapita.

La fanciulla, atterrita, levò terribili grida, implorò il padre Giove ma questi, avendo consentito il rapimento, non poté aiutarla.

La madre Demetra udì le grida della figlia dall’Olimpo. Sconvolta scese sulla terra, e per nove giorni e nove notti la cercò disperatamente. Il sole ebbe pietà di lei e volle svelarle la verità.  Allora Demetra, disperata, si allontanò dall’Olimpo e si rifugiò in un tempio a lei consacrato, dimenticandosi della terra. Così a poco a poco i frutti marcirono, le spighe seccarono, i fiori ingiallirono. Alla fine la madre ottenne il permesso di far tornare per metà dell’anno la figlia sulla terra, per poi passare l’altra metà nel regno di Plutone: così ogni anno in primavera la terra si copre di fiori per accoglierla. 

In questo gruppo lo scultore sviluppa il tema della torsione elicoidale dei corpi, contrapponendo l’impeto delle figure (la mano di Proserpina spingendo arriccia la pelle del viso di Plutone, che affonda le sue dita nelle carni della vittima). Mentre il rapitore con passo potente e spedito trionfa fermo con il trofeo in braccio, dall’altro lato si scorge il tentativo disperato di Proserpina di sottrarsi alla violenza, mentre le lacrime le solcano il viso e il vento le sconvolge la chioma. In basso il cane a tre teste, guardiano infernale, abbaia. 

Sala VI – del Gladiatore – La Verità

La Sala prende nome da una scultura antica, il Gladiatore Borghese, già in questa sala e venduta a Napoleone nel 1807. Al centro è collocato il gruppo berniniano di Enea, che fugge dall’incendio di Troia, salvando il vecchio padre Anchise sulle sue spalle e il figlio Ascanio.

 Su un lato è collocata la Verità, un’opera allegorica realizzata dal Bernini per se stesso intorno al 1647-1648.

 Foto 4: La verità svelata dal Tempo 

L’opera nacque in un periodo in cui Bernini era caduto in difficoltà presso la corte papale, per le accuse mossegli dagli avversari contro il suo intervento nella basilica di San Pietro, che avrebbe causato problemi statici. La Verità si incarna in una figura femminile, nuda, come nella solita iconografia, seduta su un masso roccioso, e tiene nella mano destra il sole poggiando la gamba sinistra sul globo terrestre. La raffigurazione del Tempo, che doveva essere posta nella parte alta, non fu mai eseguita. C’è un espresso riferimento a Michelangelo per il voluto contrasto tra parti levigatissime e parti incompiute e alle figure femminili di Rubens per la prorompente fisicità. 

Sala VIII – del Sileno – Caravaggio

L’ultima sala del pianterreno, detta del Sileno, è oggi più nota per la consistente presenza di opere di Caravaggio (Milano 1571 – Porto Ercole, Grosseto 1610).

Sulle pareti, decorate a finto marmo, si trovano, infatti, sei dei dodici dipinti del maestro lombardo posseduti in origine dal cardinale: Giovane con canestra di frutta, Autoritratto in veste di Bacco o Bacchino malato, San Girolamo, Madonna dei Palafrenieri, San Giovanni Battista e David con la testa di Golia

      

 Foto 5: Madonna dei Palafrenieri 

 La Madonna dei Palafrenieri (1605-1606), anche detta Madonna della serpe, offre un’immagine a dir poco insolita della Vergine: una madonna-popolana, con un lembo della gonna arrotolata e i capelli arruffati, colta alla sprovvista, si china mostrando il seno. Ha un volto molto conosciuto a Roma, quello della modella e amica del pittore, Maddalena Antognetti detta Lena; anche l’immagine del Bambino è insolita: completamente nudo e troppo cresciuto; e Sant’Anna, una vecchia dal volto rugoso, ha un atteggiamento distaccato, dimesso. 

Il dipinto fu commissionato dalla Confraternita dei Palafrenieri per il proprio altare, dedicato a Sant’Anna, nella nuova basilica di San Pietro (i Palafrenieri Pontifici sono gli incaricati della gestione delle scuderie del Papa); ma rimase nella sede originaria solo pochi giorni, l’acquistò il cardinale Borghese per una cifra irrisoria. Probabilmente fu rimossa per motivi di decoro, vista la prorompente scollatura della Vergine e la nudità di un bambino, troppo cresciuto per essere mostrato nudo; non piacque alla Confraternita nemmeno la mancata partecipazione all’azione di S. Anna, patrona dei Palafrenieri. O più probabilmente fu il desiderio di possesso del cardinale Borghese a consentire il trasloco.

Tre sono i personaggi presenti: Maria, Gesù e Anna, la madre di Maria. Il Bambino è intento, con l’aiuto della madre, a schiacciare con il piede la testa di un serpente, allegoria del diavolo. Nonostante la scena sembri riprodurre un episodio di vita quotidiana (la mamma che corre in aiuto del bambino), simbolicamente raffigura la vittoria del Bene sul male. Anna li guarda, quasi nascosta nell’ombra. Lo sfondo è scuro, non si vede nulla dietro di loro. L’atmosfera cupa, ricca di pathos, tipica dei quadri di Caravaggio, ci fa immergere in una scena di sapore teatrale. 




Cagliari. Una guida di parità nasce a scuola

Una guida turistica al femminile colma ovunque un vuoto di oblio e di dimenticanza di tante donne che, con le loro azioni, con le loro scelte politiche, sociali e di vita si sono distinte in molti settori, contribuendo al progresso democratico e civile del nostro Paese. 

A Cagliari ci si è arrivate attraverso un lavoro didattico assolutamente originale. La guida proposta costituisce la sintesi di un percorso realizzato in tre anni dalla classe 5^A della scuola primaria Santa Caterina, che ha partecipato alle diverse edizioni del concorso nazionale Sulle vie della parità indetto da Toponomastica femminile.

Che cos’è la toponomastica? Questo il problema posto alle bambine e ai bambini che frequentavano la seconda classe. Semplici e divertenti le risposte date: è l’onomastico dei topi, è la domestica dei topi, è il topo che va in discoteca, è la città dei topi… Da qui è partita l’avventura nel mondo delle pari opportunità in generale e della toponomastica femminile in particolare e sono state passate al setaccio le vie e le piazze del quartiere per ricostruire la biografia delle donne che hanno avuto l’onore di un’intitolazione. 

Fig. 1. Città toponomastica

In terza il lavoro di ricerca è proseguito con lo studio delle figure femminili di un altro quartiere cittadino: il Villaggio Pescatori.

In quarta il tema delle pari opportunità ha portato la classe a verificare se fossero state rispettate, nel libro di grammatica in uso, le linee guida indicate nel codice di autoregolamentazione Polite, promosso in Italia dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per le pari opportunità. Dalla ricerca, rigorosa e oggettiva, scaturisce una consapevolezza: il genere maschile è maggiormente rappresentato rispetto a quello femminile, i ruoli attribuiti alle donne non corrispondono ai ruoli che oggi svolgono nella realtà, mentre a livello linguistico, l’uso del maschile inclusivo è pervasivo.

Fig. 2. Intitolazione a Joyce Lussu nel Villaggio Pescatori

Queste attività convogliano, nell’ultimo anno, nella produzione della guida. 

A partire dalla toponomastica si è dunque cercato da un lato di ricostruire la biografia di molte figure femminili più o meno note – Santa Caterina e Sant’Eulalia, Mercede Mundula e Grazia Deledda, Anna Marongiu Pernis e Maria Piera Mossa, Joyce Lussu e Rosa Luxemburg, Mafalda di Savoia ed Eva Mameli Calvino – dall’altro di conoscere il contesto storico in cui le strade e le piazze si trovano, per ricostruire la storia della città, del suo passato, dei suoi monumenti, delle donne e degli uomini che le hanno attraversate.  

Fig. 3. Ritratto di Mafalda di Savoia e Maria Piera Mossa

Viene presentato un sistema di itinerari studiati sulla base della specificità di ciascun quartiere e proposti alle viaggiatrici e ai viaggiatori attraverso un incontro dinamico, coinvolgente ed evocativo, in modo tale da tenere sempre desta la loro curiosità e la voglia di conoscere.

La guida presenta al suo interno diversi percorsi, ognuno dei quali, rappresentato da un colore specifico, corrisponde a un quartiere storico della città di Cagliari – Castello, Stampace, Marina, Villanova e Villaggio Pescatori. Bambine e bambini prendono per mano turiste e turisti per accompagnarle/i, passo dopo passo, in scenari ricchi di atmosfere e magie e nella storia millenaria di Cagliari, dalla fondazione da parte dei Fenici agli invasori che si sono succeduti nel corso dei secoli: Cartaginesi, Romani, Vandali, Bizantini, periodo Giudicale, Pisani, Aragonesi, Catalani, Spagnoli, Piemontesi.

Grazie Deledda nel testo poetico Noi siamo sardi, riportato nella guida, ben descrive le conquiste dei vari invasori che si sono avvicendati sul territorio isolano, evidenziando soprattutto la fierezza del popolo sardo.

Fig. 4. Bastione Saint Remy e Torre pisana

Il primo itinerario parte dal quartiere Castello, dove è ubicato l’istituto che le alunne e gli alunni hanno frequentato tutti i giorni da ben cinque anni.

Proprio davanti al piazzale scolastico si trova Via Bastione Santa Caterina, viene pertanto ricostruita la biografia della santa che ha dedicato tutta la sua breve vita ai poveri, agli ammalati e ai carcerati.

Cara e caro turista,

via Bastione Santa Caterina fa angolo con via Canelles. Se proseguiamo in direzione di Piazza Palazzo, arriviamo in una suggestiva piazzetta dedicata a Mercede Mundula, dalla quale si ammira un paesaggio mozzafiato che spazia dal quartiere Villanova, a Monte Urpinu, alla laguna di Molentargius.

Viene così ricostruita la biografia della scrittrice delle donne, Mercede Mundula che, come espressamente dicono bambine e bambini, “si è distinta ed è riuscita a fare cose che a quell’epoca poche donne si sognavano di fare”.

Mercede Mundula scrive articoli sulle figure femminili presenti nelle opere di Grazia Deledda, studia personaggi come Eleonora d’Arborea e Santa Teresa d’Avila, pubblica diverse raccolte di poesie, scrive su riviste per bambine e bambini e romanzi per adulti.

Fig. 5. Intitolazione a Mercede Mundula

Tra le “Curiosità”, che chiudono tutte le biografie, riportiamo ciò che l’artista scrive su Grazia Deledda, con la quale aveva intrecciato un’amicizia ventennale:

Grazia Deledda fu non solo scrittrice originalissima, ma donna singolare, e della specie più insolita, che è poi quella di non aver l’aria di esserlo; il che, per una donna che scrive, è fenomeno assolutamente raro.

La ventennale, fedele amicizia che mi legò a lei è stata anch’essa cosa originale. C’era fra noi come una tacita intesa: parlare poco di letteratura e molto dei fatti veri della vita, tanto che a voler dare un titolo alle nostre lunghe conversazioni sceglierei senz’altro questo: “Meditazioni sulle cose”.

Continua quindi il dialogo con la passeggiata nella rocca di Castello:

Gentile turista,

proseguendo in via Martini, dopo circa cinquanta metri arriviamo nella piazzetta dedicata a Mafalda di Savoia.

Attraverso fonti scritte, visive e iconiche, le scolare e gli scolari hanno ricostruito la biografia di Mafalda di Savoia. Ecco le loro parole:

Mafalda di Savoia era nata principessa con i camerieri e i servitori. Aveva come padre il re d’Italia e come madre Elena di Montenegro. Mafalda aveva un sacco di nomi. Si sposò con un principe tedesco che si chiamava Filippo.

Durante la seconda guerra mondiale, il re si alleò con i tedeschi che iniziarono a bombardare gli inglesi, allora gli inglesi, insieme agli americani cominciarono a bombardare i tedeschi.

Il re d’Italia, visto che voleva far finire la guerra, firmò un trattato di pace con gli americani, ma i tedeschi non volevano. Mafalda fu catturata dai tedeschi e portata in un campo. 

Gli americani e gli inglesi lanciarono bombe “a manetta”, una sfiorò Mafalda e le bruciò il corpo. Prima di morire disse: Ricordatemi come una donna normale.

Mafalda aveva sofferto molto, ma era molto coraggiosa e generosa e l’ammiriamo tanto. Hanno fatto bene ad intitolarle una piazza.

Fig. 6. Castello

Divertenti e interessanti le notizie inserite nella voce “Curiosità gastronomiche”. Ci sono, infatti, diversi tipi di alimenti che portano il nome di Mafalda: le Mafalde, un tipo di pasta caratteristico della Campania, la Mafalda siciliana, un pane tipico siciliano e la Mafalda di Galatina, un gelato artigianale del Salento (Puglia), a base di cioccolato. 

Ogni itinerario si conclude con la voce “Cos’altro potrete scoprire nel quartiere…”. Ed ecco che bambine e bambini indicano i monumenti e le bellezze artistiche e architettoniche presenti, ad esempio, nella rocca di Castello: torri pisane poste a guardia del quartiere, la monumentale Cattedrale di Santa Maria, il Bastione di Saint Remy dal quale si ammira uno dei paesaggi più suggestivi della città che abbraccia il mare, lo stagno, le montagne e l’entroterra; il tutto reso allegro e accattivante dai disegni realizzati “dal vero” da tutta la classe.

Fig. 7. Cattedrale

Appena superate le bianche mura che circondano il quartiere Castello, entriamo immediatamente nel quartiere Stampace, contraddistinto nella guida dal colore verde, scelto per la collocazione al suo interno dell’Orto Botanico. Qui ha inizio il secondo itinerario. E poi il terzo e il quarto.

All’interno della guida, è possibile rintracciare altri percorsi che arricchiscono le conoscenze: dagli itinerari turistici letterari – con le poesie di Grazia Deledda, Bertolt Brecht, Garcia Lorca, e gli scritti di Joyce Lussu e di Mercede Mundula – agli itinerari turistici storici che ricostruiscono la storia di Cagliari e dei suoi quartieri; dagli itinerari turistici paesaggistici, che spaziano dall’Orto Botanico al Bastione Saint Remy, dalla Laguna di Santa Gilla al Villaggio Pescatori, agli itinerari turistici archeologici e turistici artistici – con l’iconografia di Santa Caterina e di Santa Cecilia, le acqueforti realizzate da Anna Marongiu Pernis, la scultura di Pinuccio Sciola dedicata al grande pensatore Antonio Gramsci.

Fig. 8. Al lavoro

Di grande rilevanza, per la costruzione di un linguaggio di genere, sono gli itinerari turistici linguistici che si ricavano soprattutto dalle professioni svolte dalle donne delle quali è stata ricostruita la biografia: la turista, la visitatrice, la viaggiatrice, la poeta, la santa, la figlia, l’autrice, la scrittrice, la principessa, l’artista, la pittrice, l’arredatrice, la caricaturista, l’illustratrice, l’acquafortista, l’incisora, la botanica, la direttrice, la matematica, la chimica, l’insegnante, la regista, l’operaia, la documentarista, la partigiana, la traduttrice, la rivoluzionaria, la politica, la filosofa, la pacifista, la vergine, la martire. Le bambine e i bambini, applicando le regole della grammatica italiana, che consente sempre la declinazione al femminile di tutte le professioni indicate nella guida, utilizzano un linguaggio rispettoso delle professioni svolte dalle donne oggetto d’indagine, donne che offrono modelli diversi in cui identificarsi per costruire un’immagine positiva di sé e per aspirare a professioni di prestigio. 

Il prezioso lavoro al servizio della comunità, della cittadinanza e delle turiste e dei turisti – on line e sfogliabile – rappresenta un utile strumento per informarsi e orientarsi nei quartieri storici cittadini.

Realizzato dalle alunne e dagli alunni della classe 5^A del plesso di scuola primaria Santa Caterina e dalla classe 1^E della scuola secondaria di I grado di Via Piceno, Cagliari.

https://www.sfogliami.it/fl/167784/81btmmhrm6s3kqjuv9r7ubbumfc9rtjn




Brescia – Memorie verticali (prima parte)

Le parole sono pietre, secondo il titolo di un libro di Carlo Levi, e Brescia è ricca di lapidi (dal latino lapis) sui suoi muri, ovvero parole incise su pietre; pietre che si fanno parola, parlano, dialogano, confliggono, intrecciando e sedimentando passato e presente, pietre dalla memoria di ferro che si fanno testimonianza plastica di memorie condivise e memorie ancora divise.

Sul lato sud della centrale Piazza della Loggia si trova il cosiddetto Lapidario, voluto nel 1480 dal Consiglio della città, che dà avvio alla tutela dei resti storici, recuperando antiche iscrizioni della città per fare di Piazza Loggia il nuovo foro di Brescia.

FOTO 1. Particolare del lapidario romano

Colti eruditi del tempo sovrintendono alla disposizione delle vecchie pietre, accostandovi nuove iscrizioni a imitazione di quelle di età romana, per  creare un rapporto di emulazione e continuità con l’antica Brixia. Le lapidi sono inserite a vista nella tessitura muraria in pietra di Botticino delle facciate delle Carceri, del Monte Vecchio di Pietà (1489-1491) e del Monte Nuovo di Pietà (1599-1601), a formare un museo pubblico, tra i primi, se non il primo, in Europa.

FOTO 2. Monte vecchio di Pietà. Foto di Lara Trombini

In totale sono murate ventitré pietre di età romana, fra cui numerosi epigrafi, e cinque lapidi del V secolo. Fra le undici epigrafi di età romana, alcune sono decorate a rilievo ma prive di testo, mentre quelle con iscrizione sono prevalentemente dediche; in particolare sono interessanti quella a Lucio Antonio Quadrato, soldato della XX legione, probabilmente di stanza a Brescia, e quella collocata al di sopra dell’arco centrale della facciata, risalente alla seconda metà del 44 a. C, recante un’iscrizione incompleta che riporta come soggetto il giovane Ottaviano, pontefice dal 48 a. C. e futuro Augusto, ovvero C(aius) IVLIVS CAESAR PONTIF(ex). Due iscrizioni quattrocentesche celebrano invece la fedeltà di Brescia alla Repubblica di Venezia durante l’assedio di Niccolò Piccinino (1438), paragonandola a quella degli abitanti di Sagunto, in Spagna, verso Roma durante la seconda guerra punica (218-201 a. C.).

Sempre da Piazza della Loggia, luogo della strage del 28 maggio 1974, partono le formelle che ricordano le vittime del terrorismo e raggiungono il Castello attraverso un percorso che si snoda principalmente lungo Contrada Sant’Urbano, una strada in acciottolato, anticamente nota come Via delle Consolazioni. Nel tratto iniziale la via è contigua alla piazzetta, un tempo detta dell’Albera, successivamente intitolata a uno dei protagonisti dell’insurrezione antiaustriaca, Tito Speri, con al centro una sua statua collocata su un alto piedestallo. A ventisette anni, nel 1853, viene giustiziato, insieme agli altri “martiri di Belfiore”, in totale centodieci patrioti, mandati a morte tra il 1852 e il 1855 per avere cospirato contro l’Austria.

Proprio all’inizio della strada, all’angolo con via dei Musei, l’antico decumano massimo, si trovano alcune lapidi. Nella prima, collocata per decreto municipale nel 1918, si ricordano il “carnevale di sangue” di Gastone di Foix, nel 1512, e le Dieci Giornate del 1849, occasioni durante le quali le truppe francesi prima e quelle austriache poi, irrompono in città dal Castello, riuscendo a stroncare la resistenza della popolazione e facendone strage.

FOTO 3. Targa all’inizio di Contrada Sant’Urbano. Foto di Claudia Speziali

Nella seconda, collocata in occasione del primo centenario della seconda guerra di indipendenza, sono elencati i civili residenti nel rione trucidati dalle truppe asburgiche il 1° aprile 1849, alla fine delle Dieci Giornate, nel momento in cui la soldataglia, fiaccata la resistenza degli insorti, si dà al saccheggio e alla violenza.

FOTO 4. Lapide delle vittime del 1849. Foto di Claudia Speziali

Oltre a dare un nome alle ventinove vittime, l’elenco fornisce un interessante spaccato sociale del quartiere. Di queste ventiquatro sono uomini, di cui quattro sotto i vent’anni, undici tra i venti e i cinquant’anni, sette sono ultracinquantenni, e di due non si conosce l’età[1]. I diciannove uomini di cui è indicata la professione, con l’eccezione di un maestro elementare e di uno studente quindicenne, svolgono prevalentemente attività legate all’artigianato, al piccolo commercio, alla produzione manifatturiera in via di sviluppo, alla ristorazione e a quelli che oggi definiremmo servizi, lavorando fino a un’età decisamente avanzata,  considerando anche l’inferiore aspettativa di vita dell’epoca. A sessantasette anni Pietro Carobi e Francesco Locatelli fanno ancora rispettivamente il tornitore e il tagliapietre e a settanta Gio Batta Vicentini il calzolaio. Oltre a loro figurano un pittore, un orefice, due falegnami, un tintore, un sensale, due definiti genericamente “lavoranti”, un armaiolo, un arrotino, un lattaio. Ben tre vittime sono collegate all’Osteria del Frate, ancora oggi esistente;  il proprietario e gestore Bortolo Peroni, di sessantuno anni, e il figlio Pietro, di ventisette, che, martoriati e feriti, sono gettati dalla finestra del quarto piano della propria abitazione dai soldati, i quali prima la saccheggiano e poi la incendiano, e la stessa sorte tocca al loro garzone, lo svizzero Alberto Gherber, diciannovenne. Le donne uccise nel rione il 1° aprile 1849 sono cinque; due hanno tra i venti e i cinquant’anni,  mentre altre tre sono ultracinquantenni. Serena Radici[2], di quanrantadue anni, moglie del direttore del collegio Guidi, sola nell’abitazione con la suocera Teresa Zambelli[3], di settantatre anni, viene con lei massacrata. Anche le donne, come gli uomini, lavorano fino alla terza età; Margherita Anderloni a settant’anni fa ancora la cucitrice. Fra le professioni delle vittime, oltre a quella di cucitrice svolta da due di loro, vengono indicate, per due donne, quella di vedova  e, per un’altra, quella di madre di famiglia.

 

[1]In realtà, Carlo David, una delle vittime prive dell’indicazione della propria età sulla lapide commemorativa, avrebbe avuto, nel 1849, quarantasei anni, secondo l’elenco tratto da Storia della rivoluzione di Brescia dell’ anno 1849.

[2]Cesare Correnti, I dieci giorni di Brescia. Con una introduzione di Luca Beltrami, Milano, Libreria d’Italia, 1928, p. 158

[3]Ibidem, p. 15




Cicloturismo per un futuro sostenibile. Sui Colli Euganei per le domeniche del Fai: Villa dei Vescovi

Se ti piace la bicicletta come mezzo di trasporto e come stile di vita, se sei animato da una vivace curiosità per i luoghi sconosciuti al grande pubblico e da una grande adattabilità alle situazioni impreviste, il cicloturismo è un modo avventuroso per viaggiare, ma necessita di un’accurata preparazione e organizzazione tecnica. Il viaggiatore deve infatti essere in grado di fronteggiare in modo autonomo il pernottamento e ogni evenienza o guasto meccanico che possano verificarsi durante il tour.

Noi non ci siamo lasciati fermare e abbiamo percorso la Via del Vino nel Parco veneto dei Colli Euganei, partendo da Monselice alle 10 del mattino.

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Abbiamo fatto sosta a Battaglia terme per ammirare, tra fiumi e canali navigabili, il maestoso Catajo:

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La costruzione del Castello del Catajo è stata realizzata, tra il 1570 e il 1573, dal condottiero della Repubblica di Venezia Pio Enea I degli Obizzi, su insediamenti precedenti. Pio Enea II (1592-1674) procedette a delle modifiche; realizzò un teatro, poi trasformato in chiesetta neogotica, al posto delle scuderie e costruì la grotta con la Fontana dell’Elefante. Nel 1768 Tommaso degli Obizzi decorò il grande complesso con reperti archeologici e arredi lapidei, diventato poi di proprietà degli arciduchi d’Austria – Este e duchi di Modena che lo utilizzarono come sede di caccia e villeggiatura. Dopo essere diventato proprietà degli Asburgo (l’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo-Este, assassinato il 28 giugno 1914 a Sarajevo, la notte prima della sua morte aveva dimorato in questa residenza),  il Cataio appartenne alla famiglia Dalla Francesca.

Si articola su oltre 350 stanze, alcune delle quali affrescate da Giovan Battista Zelotti, allievo del Veronese. E’ circondato da un vastissimo parco di 26 ettari, non tutto aperto al pubblico, e il giardino delle delizie antistante il castello, di impianto romantico esteso su 3 ettari, con una grande peschiera e numerose piante esotiche.

Anche il Cataio ha il suo fantasma ovviamente generato da un episodio drammatico:
“Era la notte del 14 Novembre 1654 quando Lucrezia degli Obizzi (la famiglia Obizzi era proprietaria del maniero) fu uccisa con ferocia da uno spasimante respinto.”
La pietra macchiata del suo sangue è ancora lì, nel castello, e si dice che il suo spirito vaghi ancora tra le mura. Non pochi raccontano di aver visto una figura femminile, vestita di azzurro, affacciarsi dalle finestre dei piani più alti.

Passando tra masserie fortificate

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abbiamo disegnato un  percorso circolare lungo 50 Km, che ci ha condotto a visitare Villa dei Vescovi (dal 2005 parte del patrimonio del Fai) dove abbiamo consumato un gustoso pic-nic.

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Se amate la natura, la visita della Villa non è completa senza una passeggiata nel Parco. Tutto intorno e tra i vigneti si viene incantati da scorci meravigliosi, i visitatori di tutte le età, adulti e bambini, possono rilassarsi, trascorrere momenti gioiosi, scoprirne tutti gli angoli.

Situata in località Luvigliano, frazione di Torreglia (Padova), Villa dei Vescovi è considerata il primo trapianto del gusto per la classicità romana nell’entroterra della Serenissima, custodisce il più straordinario esempio di decorazione ad affresco nel Veneto precedente alla rivoluzione imposta da Paolo Veronese.

Villa dei Vescovi venne edificata tra il 1535 e il 1542 su un terrapieno dei Colli Euganei dalla curia di Padova, per offrire al vescovo una sontuosa casa di villeggiatura estiva.

Il vescovo committente fu Francesco Pisani (episcopato dal 1524 al 1564), mentre per l’esecuzione dell’opera venne incaricato il nobiluomo Alvise Cornaro, amministratore della mensa vescovile dal 1529 al 1537. Cornaro, con l’appoggio del vescovo Pisani, ne affida il progetto al pittore architetto Giovanni Maria Falconetto (Verona 1468 – Padova 1535).
Nella versione originale, la Villa era costituita da un compatto parallelepipedo a base quadrata, alleggerito su due lati del primo piano da due logge aperte sul paesaggio circostante. Abbracciata dalla verde tranquillità dei Colli Euganei,  è immersa in un paesaggio di grande bellezza che riecheggia negli splendidi affreschi interni del fiammingo Lambert Sustris. Sorta nel Cinquecento come buen retiro del vescovo di Padova, la Villa costituisce la più importante dimora pre-palladiana del Rinascimento, frequentata per secoli da artisti e intellettuali che qui trovavano quiete e ispirazione.

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All’interno la parte cinquecentesca prevedeva un ambiente centrale al piano terra, sovrastato da un cortile pensile in corrispondenza del piano nobile. Allontanandosi dai tradizionali canoni costruttivi locali, l’edificio superava quindi i confini regionali per trarre ispirazione dai contemporanei modelli fiorentini o per risalire addirittura agli esempi dell’antichità romana, fornendo così una personale anticipazione della posteriore opera palladiana.

Tale influenza della classicità si inseriva d’altra parte all’interno di un più ampio programma politico di trasformazioni territoriali, teso a ribadire l’origine romana della città di Padova: lo stesso nome di Luvigliano deriva infatti da “Livianum”, che all’epoca veniva identificato come il sito in cui Tito Livio avrebbe edificato la sua villa in campagna.

Tra gli architetti che succedettero al Falconetto, oltre all’intervento di Giulio Romano sul bugnato del piano terreno, è certa la presenza dell’istriano Andrea da Valle (?-1577) che, chiamato dai vescovi Alvise Pisani (episcopato dal 1567 al 1570) e Federico Corner (episcopato dal 1577 al 1590), diresse importanti interventi monumentali che modificarono il complesso della Villa, privilegiando e sviluppando il lato ovest. Venne costruito con la sua direzione un nuovo accesso principale costituito dalla corte quadrata e dalla recinzione merlata aperta in tre ampi portali. La facciata stessa della Villa venne arricchita con le scalinate di collegamento tra la loggia e la piattaforma a terrazza.
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La villa poggia su un terrazzamento in sommità del colle, con scalinate sostenute da arcate inserite nel declivio. Fanno parte del complesso edifici rustici, stalla, abitazione del gastaldo e quattro portali monumentali.DSCN27988

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Successivamente Vincenzo Scamozzi (Vicenza 1552 – Venezia 1616) intervenne sulla facciata orientale con l’inserimento di una scalinata e di una grotta con fontana.

Nel Seicento, diversi vescovi dedicarono molta attenzione ai giardini, agli orti e al brolo negli spazi circostanti la Villa. All’episcopato (1697-1722) di Giorgio Corner (o Cornaro), vanno ascritti ulteriori miglioramenti, tra cui il completamento della scalinata dalla loggia orientale alla piattaforma, così come alcuni interventi sono attribuibili a Minotto Ottoboni (vescovo dal 1730 al 1742), mentre all’epoca del benedettino Nicolò Antonio Giustiniani (vescovo dal 1772 al 1796) o del suo predecessore, potrebbe collocarsi la revisione planimetrica con la risistemazione di alcuni spazi interni.

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Nelle logge, finti archi, adornati di pergole e tralci di vite, si aprivano su paesaggi immaginari. Il ciclo risente evidentemente delle teorie di Alvise Cornaro, legate a modelli desunti dal mondo classico, già applicate in altre opere da lui sponsorizzate, come l’Odeo padovano.

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La scoperta del parco prosegue tra le vigne, camminando lungo il perimetro delle mura o nelle vie tra i filari. Dai  grappoli nascono Moscato e Fior d’Arancio.

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Poco si conosce delle vicende di Villa dei Vescovi nell’Ottocento. Nel 1910, il vescovo Luigi Pellizzo decise di privarsi dell’uso della dimora per affittarla a un privato che si facesse carico dei restauri resi necessari. Durante la seconda guerra mondiale la residenza fu messa a disposizione delle famiglie sfollate e per un breve periodo fu anche sede del monastero delle suore Carmelitane Scalze.

Nel dopoguerra, Villa dei Vescovi divenne “Villa San Domenico Savio”, sede degli esercizi spirituali per i giovani.
Nel 1962 esaurita anche quest’ultima funzione la Villa venne quindi ceduta, destinando il ricavato all’Opera della Provvidenza Sant’Antonio, a Vittorio Olcese e all’allora consorte Giuliana Olcese de Cesare, che ne curarono un primo restauro sia nella struttura architettonica sia nella decorazione interna ad affresco, riportata finalmente alla luce dopo secoli di mascheratura.

Nel 2005 Maria Teresa Olcese Valoti, seconda moglie di Vittorio, e il loro figlio Pierpaolo decisero di donare Villa dei Vescovi al FAI.

Concepita sin dall’inizio come palazzo di città e destinata a ritrovo per intellettuali e circoli umanistici, l’imponente dimora è giunta straordinariamente intatta fino ai nostri giorni, mantenendo a tutt’oggi l’antico rapporto di dialogo e armoniosa

convivenza col paesaggio circostante.

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A 20 minuti da Padova e a un’ora da Venezia, Villa dei Vescovi si trova nel cuore del Parco regionale dei Colli Euganei. Qui non mancano le occasioni di svago come il trekking tra i sentieri del Parco, le passeggiate a cavallo, il golf, il relax nei rinomati centri termali, l’itinerario gastronomico della Strada del Vino e la possibilità di visitare le splendide ville palladiane.

Prima di rimettervi sulla strada del ritorno vi consigliamo di fermarvi all’abbazia di santa Maria Assunta di Praglia destinata alla coltivazione delle piante officinali per la farmacia e alla preparazione di unguenti, creme e saponi naturali.

L’abbazia benedettina di Praglia sorge ai piedi dei Colli Euganei, a 12 Km da Padova, lungo l’antica strada che conduceva a Este. Il suo nome deriva dal toponimo Pratalea: località tenuta a prati.

La fondazione del monastero è databile agli anni tra la fine dell’XI e l’inizio del XII secolo: dell’originario impianto medioevale oggi rimane soltanto la torre campanaria.

Dopo le due interruzioni ottocentesche – la prima per decreto napoleonico (1810), la seconda per la legislazione sabauda (1867) – il 26 aprile 1904 riprende a Praglia la vita di preghiera e lavoro, secondo la Regola di san Benedetto.




Galleria Borghese: Amore, donne e dee (terza parte)

Piano Primo – Pinacoteca

Sala IX, di Didone – le donne di Raffaello

La sala deve la sua denominazione ai dipinti che decorano la volta, raffiguranti episodi della storia di Enea e Didone.

Fig. 1: Dama con liocorno, Raffaello 

L’opera raffigura una delle tante donne effigiate dall’artista urbinate, notoriamente grande ritrattista, e risale al 1505/1507, cioè al periodo fiorentino di Raffaello, prima del suo trasferimento a Roma. Rappresenta una fanciulla fiorentina, che indossa un prezioso abito alla moda dei primi anni del Cinquecento, con le ampie maniche di velluto rosso e il corpetto di seta marezzata (una seta cioè con venature, linee sinuose come onde del mare). Probabilmente era un dono di nozze. Le pietre del pendente alluderebbero al candore virginale, la collana annodata al collo richiamerebbe il vincolo matrimoniale, anche l’unicorno che giace in grembo alla fanciulla, animale fantastico, potrebbe essere un attributo simbolico della verginità. 

Nonostante la posa monumentale, la donna, col busto di tre quarti e lo sguardo rivolto verso lo spettatore, appare spontanea, mantenendo una sciolta naturalezza. E dall’acutezza dello sguardo si percepisce una profonda introspezione psicologica.  La ricercatezza dell’abito, i gioielli, testimoniano la sua appartenenza alla ricca borghesia. Sullo sfondo un dolce paesaggio collinare.

Nella sala è esposta anche una copia da Raffaello de La Fornarina (di Raffaellino del Colle).

Fig. 2: La Fornarina, Raffaello

Non è un mistero la passione amorosa di Raffaello per le donne. Sarà proprio la sua libertà  sessuale a farlo ammalare di sifilide e a portarlo alla morte a soli trentasei anni. L’originale, del 1518/19, è conservato a Palazzo Barberini a Roma. Anche qui una donna è la protagonista del quadro. Ora però la seduzione raggiunge il suo massimo livello. La ragazza, ritratta a seno nudo, coperta appena da un velo trasparente, col quale cerca inutilmente di coprirsi, guarda a destra, oltre lo spettatore. In testa ha un turbante di seta dorata a righe verdi e azzurre annodata tra i capelli, con una spilla composta di due pietre incastonate e una perla pendente.

Il quadro è noto come La Fornarina, perché, secondo l’ipotesi più accreditata, si tratterebbe di Margherita Luti, figlia di un fornaio di Trastevere, amatissima da Raffaello, durante il periodo in cui l’artista lavorava a Villa Farnesina.

Gran parte della critica è concorde sul fatto che la giovane donna sia stata presa come modello anche per altre opere, che raffiguravano Madonne o figure del mito. Ma questa è una donna reale, resa unica e seducente dal pennello dell’artista, un’allegoria di tutti gli amori del pittore.

 Sala X – di Ercole o del Sonno – gli amori degli dei

 La stanza fu chiamata nel ‘600 del Sonno, perché ospitava un letto a baldacchino e un gruppo scultoreo con l’Allegoria del sonno. Nel soffitto episodi relativi a Ercole e al centro la sua Apoteosi. Vi sono esposte a confronto due Veneri, una di Cranach, (Kronach 1472/Weimar 1553), del 1531, e l’altra del Brescianino, del 1525. 

Fig. 3: Venere e Cupido, Lucas Cranach

La prima, nuda, coperta solo da un sottilissimo velo trasparente, fissa l’osservatore; è sensuale, corpo affusolato e seni piccoli, sul capo porta un ampio e lussuoso cappello ornato di piume, mentre una reticella dorata raccoglie i capelli e una preziosa collana orna il collo sottile. Alcuni versi scritti in alto, in latino, tratti da un inno di Teocrito, ricordano che il piacere è caduco e porta tristezza e dolore, come capita al piccolo Cupido che, dopo aver rubato il miele dall’alveare, viene punto sul dito da un’ape: la dea dell’Amore si trasforma così in ammonimento di carattere morale sulle conseguenze dolorose della voluptas. 

L’interesse del cardinale Borghese per questo dipinto potrebbe essere stato suscitato proprio dall’interpretazione in chiave moraleggiante dei versi latini. Lo stesso che caratterizza la favola mitologica di Apollo e Dafne di Bernini, scolpita sul basamento dai distici di Maffeo Barberini. 

Le Veneri di Cranach hanno la pelle d’avorio, gli occhi allungati, il corpo morbido, il sorriso malizioso: nude o abbigliate sono sempre seducenti, inquietanti.

Fig. 4: Venere con due Amorini, Brescianino

L’altra Venere, quella di Andrea Piccinelli detto il Brescianino (Brescia 1486 circa – Firenze, 1525 circa), da sempre fa da pendant a quella di Cranach. Si tratta però di una Venere mediterranea, dalla bellezza classica, scultorea, di chiaro influsso michelangiolesco. Non c’è ombra di moralismo, né di peccato, o di dolorosi presentimenti. Sicura di sé, si guarda allo specchio in una conchiglia, e i due Amorini ai lati le fanno da corteo.

Ma il vero e proprio gioiello della sala è la Danae del Correggio (1489-1534).

Fig. 5: Danae, Correggio

Dipinta nel 1530/1 da Antonio Allegri, meglio conosciuto come Correggio (Correggio, Reggio Emilia 1489-1534), l’opera raffigura l’istante in cui Danae si congiunge a Giove, trasformato in pioggia d’oro, aiutata da Amore. Dalla loro unione nascerà Perseo.

Fa parte della serie degli Amori di Giove che Correggio dipinse per Federico II Gonzaga allo scopo di farne dono a Carlo V in occasione della sua incoronazione a Bologna nel 1530. Danae viveva imprigionata in una torre, perché un oracolo aveva predetto al padre che sarebbe stato ucciso da un figlio di lei. La precauzione fu resa vana dall’intervento di Giove, che sedusse Danae tramutato in pioggia d’oro. Nel dipinto Danae giace su un letto a baldacchino splendidamente ampio, con vista fuori dalla finestra su una splendida distesa di cielo azzurro. Cupido siede familiarmente all’estremità del letto, guardando in su verso la nube, da dove scende la pioggia d’oro, e con la mano sinistra aiuta Danae a sollevare il lenzuolo bianco che è la sua ultima difesa. Danae stessa, sorridente, non sembra rifiutarsi all’amplesso, anzi con le gambe aperte favorisce l’unione. 

L’atmosfera intima e serena dell’ambiente domestico è accresciuta dalla presenza dei due amorini che, indifferenti all’evento miracoloso che si svolge alle loro spalle, testano su una pietra di paragone il metallo della punta della freccia amorosa.

Sala XII – delle Baccanti 

Chiamata così per l’affresco nella volta che riproduce un Ballo di Baccanti, ospita pittori del primo ‘500 di area leonardesca. La Leda, creduta fino alla fine dell’800 opera di Leonardo, è probabilmente un rimaneggiamento su un dipinto incompiuto di Leonardo operato da un suo allievo. Leda abbracciata al cigno-Giove e inserita nel paesaggio è certamente, però, invenzione leonardesca.

Fig.6: Leda e il cigno

Il mito di Leda e il cigno rappresenta l’intraprendenza sessuale maschile, in base alla quale anche l’inganno risulta lecito per giungere all’unione sessuale. E nulla potrebbe essere più lontano da uno stupro: Leda, come Danae, gode in questo amplesso.

Leda, regina di Sparta e madre di Clitennestra ed Elena, dormiva sulle sponde di un laghetto, quando fu posseduta da un candido cigno, l’animale nel quale Zeus si era tramutato per possederla. Concluso il rapporto sessuale, Zeus annunciò che dalla loro unione sarebbero nati due gemelli, i Diòscuri, Càstore e Pollùce. 

Sala XIX – di Paride ed Elena – La caccia di Diana

La decorazione della volta s’ispira all’Iliade, al centro della volta è la Morte di Paride. 

Fig. 7: La caccia di Diana, Domenichino

Dipinta nel 1616/17 da Domenico Zampieri, detto il Domenichino (Bologna 1581 – Napoli 1641), l’opera rielabora il tema dei celebri Baccanali tizianeschi nella più sensuale delle battute di caccia. Diana è al centro tra le sue ninfe e solleva con le mani frecce e arco; sullo sfondo alcune ninfe tornano con la cacciagione, altre tengono a bada i cani, che si lanciano verso i profanatori, nascosti tra i cespugli, altre sono al bagno, immerse nell’acqua. Perni della composizione sono le due ninfe in primo piano: una delle due rivolge lo sguardo allo spettatore invitandolo quasi a entrare nel quadro. Le altre vergini sono articolate ritmicamente intorno a Diana, rappresentata al culmine di una gara con l’arco. L’atmosfera festosa è accresciuta dai colori chiari e dalla luce diffusa.

La Caccia di Diana era stata commissionata dal cardinale Pietro Aldobrandini per la sua villa di Frascati, ma Scipione Borghese, per la sua nota spietatezza collezionistica, volle il dipinto per sé e lo fece prelevare con la forza dallo studio del pittore, che fu trattenuto per alcuni giorni in prigione. A parziale risarcimento del singolare espediente a Domenichino venne saldato un pagamento di 150 scudi riferito a La caccia di Diana e a un altro dipinto, La Sibilla, presente anch’esso nella collezione Borghese. 

Sala XX – di Psiche

La sala è decorata nella volta con tele raffiguranti i momenti salienti della favola di Amore e Psiche, così com’è narrata nell’Asino d’oro di Apuleio. 

Sulle pareti si trovano alcune delle opere più famose della collezione e, tra queste la Madonna col Bambino di Giovanni Bellini (Venezia 1433 ca.-1516) e quattro tele di Tiziano (Pieve di Cadore, Belluno, 1480/85 – Venezia 1576): Amor Sacro e Amor Profano, San Domenico, Cristo alla colonna e Venere che benda Amore. 

Tra le quattro tele di Tiziano Vecellio spicca “ Amor Sacro e Amor Profano” (1514).

Copertina: Amor sacro e Amor profano, Tiziano

Capolavoro di Tiziano venticinquenne, raffigura due donne, una vestita e una seminuda, nei pressi di un sarcofago, nel quale un amorino alato sta rimestando le acque. Sullo sfondo si vedono, a sinistra, una città all’alba, contrapposta ad un villaggio al tramonto, sulla destra. Lo stemma sulla fronte del sarcofago ha permesso di legare l’opera alle nozze della figlia di un noto giurista padovano con un veneziano della famiglia degli Aureli, celebrate nel 1514. La donna seduta indossa in effetti tutti gli ornamenti abituali di una sposa: l’abito candido, bianco dai riflessi argentei, i guanti, la cintura e la corona di mirto, simbolo di amore coniugale. La sposa è assistita da Venere in persona, nuda, avvolta parzialmente in un manto rosso, con in mano la fiamma dell’amore; il bacile sul bordo della fontana, parte integrante del corredo perché utilizzato dopo il parto, e la coppia di conigli sullo sfondo sono un augurio di unione feconda. Ispirato agli ideali della dottrina neoplatonica, il soggetto si presta a molteplici livelli di lettura. Una delle principali interpretazioni identifica nella donna con in mano la fiamma ardente dell’amore di Dio la Venere Celeste, e in quella riccamente vestita, col vaso di gioie, la Venere Volgare, la felicità terrena, simbolo della forza generatrice della natura. Il titolo rivela invece una lettura in chiave moralistica del tardo ‘700 della donna svestita, l’Amore profano, contrapposto alla donna vestita, l’Amore sacro. Per quanto errato, però, il titolo tradizionale continua a esercitare fascino e a essere usato, poiché mette bene in evidenza l’armonico dualismo che è alla base dell’incanto del dipinto: alba-tramonto, sarcofago/morte-acqua/vita, bianco-rosso, donna nuda-donna vestita.




La Gallura che non ti aspetti. Percorsi alternativi fra mare e monti Itinerario costiero. Da Porto Liscia a Vignola

La Gallura (Gaddura in gallurese, Caddura in sardo) è la parte all’estremo nord della Sardegna e costituisce una regione storica e geografica comprendente 23 comuni in provincia di Sassari, dopo che la LR 2/ 2016 ha abolito le province nate nel 2001. Il nome ha una origine incerta; secondo alcune teorie deriverebbe da una popolazione seminomade preromana, per altre dal gallo sullo stemma pisano dei giudici Visconti, oppure sembra significhi “rocciosa, sassosa” e in effetti – sia nella parte propriamente costiera sia nell’interno ricco di rilievi montuosi –  le conformazioni bizzarre delle rocce rendono questa area straordinariamente pittoresca. Una terra aspra, spesso battuta dal maestrale, come la vicinissima Corsica con cui ha molte somiglianze (anche linguisti-che), ma piena di colori e profumi, specie durante la primavera. 

La storia ha lasciato profonde tracce che precedono la civiltà nuragica: questa terra fu abitata dall’uomo fin dal neolitico e la sua posizione certamente favorì gli scambi con il continente, passando attraverso l’arcipelago toscano: doveva essere infatti il corridoio dell’ossidiana e della ceramica, l’oro nero e l’oro bianco dell’antichità. Qui si trovano nuraghi importanti, tombe, siti in parte ancora da studiare; i Romani – mai del tutto tranquilli in Sardegna e circondati dal pericolo costante di rivolte – trovarono il modo di sfruttarne l’abbondanza di granito. I Pisani lasciarono evidenti impronte nell’architettura religiosa e gli Aragonesi nelle imponenti strutture difensive. I Piemontesi – con i loro ingegneri militari – hanno tracciato l’urbanistica di alcune cittadine, come Santa Teresa, costruite a scacchiera con le strade perfettamente rettilinee che si incrociano, mentre le case talvolta mantengono la tipica struttura gallurese a un solo piano, come a San Pantaleo. Oggi è una delle aree con il più alto reddito pro-capite della Sardegna grazie a una florida economia in parte ancora agro-pastorale e all’importante risorsa del turismo.

Proprio di questo vogliamo parlare, e in modo alternativo, visto che spesso – quando inizia la stagione delle vacanze – la Sardegna del nord viene identificata solo con le località alla moda, visitate dai personaggi che affollano le pagine dei rotocalchi. Saltiamo dunque tutta la fascia costiera da Olbia fino a Isola dei Gabbiani, nonostante ambienti magnifici e panorami mozzafiato non manchino certo, per approdare su una spiaggia lunghissima e poco frequentata, anche in pieno agosto. Si tratta di Porto Liscia a cui si arriva con una strada asfaltata, circondata da arbusti e vegetazione mediterranea; il parcheggio è grande e gratuito.

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Foto 1. Porto Liscia

Lo sguardo si posa su una sorta di immenso lago visto che di fronte abbiamo le isolette dell’arcipelago Spargi e Spargiotto e ai lati due promontori. Passeggiare è una bellezza, fra mare piatto e bassi cespugli. 

Proseguendo in direzione di Santa Teresa – lungo la strada 133 bis – si trovano le deviazioni verso altre spiagge; curioso a Conca Verde il richiamo nell’odonomastica  ai personaggi dell’Odissea. Porto Pozzo, qui vicino, sarebbe infatti il mitico paese dei Lestrigoni, giganti antropofagi che distrussero la flotta di Ulisse e uccisero tutti gli uomini, eccetto quelli della sua nave, rimasta fuori dal porto. Ancora più bella e ampia è la valle dell’Erica, una sorta di baia ben protetta circondata da scogli. Affacciato sulle Bocche di Bonifacio, il capoluogo Santa Teresa di Gallura – che proprio in pieno centro ha la rinomata Rena Bianca (sempre affollata) – merita una sosta  per ammirare la bella torre spagnola di Longonsardo, i resti dell’antico mulino, la chiesetta di Santa Lucia, i giardini ben curati, le piazze accoglienti, il porticciolo turistico. Da qui non si può non raggiungere Capo Testa che offre molteplici motivi di interesse: percorsi naturalistici, il sito archeologico Lu Brandali, calette nascoste e un imponente faro; in questo luogo le stupefacenti conformazioni di granito modellate dal vento fecero esclamare al celebre scultore Henry Moore: «Ho trovato chi sa scolpire meglio di me!» Lungo l’istmo, sulla spiaggia delle Colonne (o di zia Colomba), sono ancora ben visibili gli abbozzi di quelle abbandonate dall’epoca romana, là dove ora giocano i bambini in acque calme e limpide come meravigliose piscine naturali.

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Foto 2. Spiaggia delle Colonne

Lungo la strada costiera, in direzione Castelsardo, si incontra una breve deviazione per raggiungere una spiaggetta suggestiva e poco frequentata, anche perché spesso ricoperta di alghe (ma va ricordato che la posidonia non è un rifiuto: è infatti  una protezione naturale dall’erosione costiera): Lu Pultiddholu. Grazie a sentieri non difficili, si possono fare, da entrambi i lati della baia, passeggiate in cui si ammirano scoglietti, minuscole insenature, mille sfumature di azzurro.

Ma da ora in poi inizia la vera meraviglia: il sito di importanza comunitaria “Monte Russu” di 1.989 ettari di cui circa 300 ancora nel comune di Santa Teresa e 1.000 nel comune di Aglientu, mentre  il resto è  lo spazio marino antistante. 

Foto 3. Monte Russu

Quel tratto di costa incontaminata, fra baie, scogliere e lunghe spiagge orlate da dune – dove non esistono costruzioni nella fascia fra strada e mare – ha fatto affermare al giornalista Beppe Severgnini, abituale frequentatore: «ancora oggi penso che i venti chilometri tra Santa Teresa e Vignola siano il tratto di mare più spettacolare, affascinante –  e rispettato –  del Mediterraneo». Ecco allora il susseguirsi della Liccia, di Rena Majore, della spiaggia di Matteu, e poi: cala Pischina, Monte Russu, Naracu Nieddu, Riu Li Saldi. Tutto il percorso si può fare a piedi, interamente o a tratti, grazie ad un sentiero che si snoda fra ginepri e corbezzoli, fra cespugli di mirto e di lentisco, fra fiori profumati e dai colori più vari: il bianco del giglio marino, il giallo del papavero delle spiagge, il rosa acceso del cisto, il fucsia del  fico degli ottentotti, il verde intenso della palma nana.

Foto 4. Rena di Matteu

La baia sabbiosa di Vignola si annuncia di lontano con la chiesetta di San Silverio e la torre, in posizione dominante, preceduta dalla spiaggia detta Saragosa (o Chisgjnaggju) e seguita dalla spiaggetta sul versante opposto, meno frequentata, vicina al nuraghe Tuttusoni; anche qui sono possibili vari percorsi pedonali, senza difficoltà e affascinanti. Salire verso la possente torre di avvistamento – in copertina – realizzata in blocchi di granito, costituisce un’ulteriore esperienza: il silenzio è totale, anche se i bagnanti sono a pochi passi; si cammina fra farfalle e lucertole, nel ronzio degli insetti e il frinire delle cicale, e intorno ancora vegetazione spontanea, mentre il gabbiano corso e i cormorani  volano alla ricerca di cibo, pronti a tuffarsi. Il nostro percorso costiero si conclude in bellezza e armonia, anche se continua sulla carta geografica fino ai confini della Gallura e oltre. 




ITALIA – Trekking urbano per uno stile di vita sano e un rapporto emotivo con la città

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Il trekking urbano è un’attività sportiva facile e divertente, adatta a tutti perchè non richiede particolari attitudini e allenamento. Non c’è niente di meglio che camminare piacevolmente lungo itinerari urbani ricchi di storia e d’arte.

A Verona, per esempio, a due passi dal centro, c’è l’anello delle mura: chilometri di verde e di fortificazioni, torri e cortine merlate medioevali, rondelle cinquecentesche, bastioni veneti e asburgici, porte monumentali.

Il trekking urbano è un modo nuovo di vivere la città, ma anche di fare un turismo meno legato ai circuiti tradizionali. Basta seguire la propria curiosità e scegliere il percorso più adatto.

Il rapporto personale ed emotivo che si instaura tra chi cammina e la città rende il trekking urbano una forma di turismo sostenibile, uno stile di vita sano che aiuta a conoscere meglio i luoghi in cui si abita, adatto a tutta la famiglia.

Partecipare a queste giornate di trekking significa non solo rilassarsi in modo salutare, ma anche appoggiare iniziative per la realizzazione di parchi, la creazione di itinerari, la manutenzione e la pulizia delle aree verdi, la collocazione di tabelle informative, l’organizzazione di gruppi di cammino.

E’ il modo migliore per chiedere, con le giornate senz’auto, una città più vivibile e un’aria più pulita.

Camminare fa bene e fa bene anche alla città!

Segue photoreportage

Rondelle vecchie e nuove: Boccare e Batteria di scarpa (itinerario realizzato da Legambiente e dal Comitato per il verde)

Il gruppo di cammino si è mosso dalla chiesa consacrata alla Madonna del Terraglio, in sostituzione di un’edicola votiva collocata nelle vecchie mura medioevali, i cui resti sono  ancora presenti ai fianchi della chiesa.

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Lungo le mura medioevali soffocate da vegetazione spontanea e costruzioni di epoche successive è possibile individuare rondelle cinquecentesche.

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come quella delle Boccare, rinforzata in epoca asburgica e così chiamata perchè all’interno, sul soffitto,sono presenti tre bocche che servivano per la fuoriuscita della polvere da sparo sprigionata dai cannoni.

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Lungo il perimetro, durante la seconda guerra mondiale, sono stati costruiti dei tunnel per proteggere i feriti e far passare le barelle.

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La parte superiore esterna è stata costruita dagli austriaci ed è oggi lasciata all’incuria e per questo minacciata dalle radici degli alberi e della vegetazione spontanea.

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Seguendo il perimetro delle mura è possibile raggiungere il Pomerio Mura Magistrali, un grande parco dove è facile incontrare scoiattoli e piccoli roditori.

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Sul sentiero, un tempo di guerra, è possibile scorgere anche qualche resto fascista.

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Non mancano le torri scaligere

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a sovrastare il percorso di 3 km che conduce a Batteria di scarpa di San Zeno in Monte, opera dell’architetto Franz von Scholl. La Batteria fa parte delle fortificazioni ottocentesche inserite nel tratto collinare delle mura di Cangrande che ben esemplificano lo stato generale della cinta muraria collinare per i molteplici aspetti tecnici e problematici del progetto conservativo.

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Il Comitato per il verde ha chiesto e ottenuto dal Demanio la concessione dell’edificio, questo ha permesso di poter usufruire di un contributo di 80.000 euro della Fondazione Cassa di Risparmio, che sarà interamente speso per il ripristino della copertura.

Per rendere interamente fruibile la struttura, in modo da consentire un uso della stessa che induca a visitarla e ad ammirarla per la grande qualità costruttiva e per l’ingegnosità delle sue difese, occorre completare il restauro con la sistemazione degli spazi interni (pavimentazione, impianto elettrico, serramenti). Il progetto approvato dalla Soprintendenza, è stato redatto dall’architetto Lino Vittorio Bozzetto, profondo conoscitore e storico delle fortificazioni di Verona.

Con il presente progetto di recupero della batteria di Scarpa il Comitato per il Verde affronta un importante impegno per restituire alla città una delle opere fortificate più originale, nella quale si fondono i talenti tecnici e artistici medioevali dei fortificatori di cangrande I, con il talento del più illustre architetto militare asburgico Franz von Sholl. Una volta completato il restauro la Batteria di Scarpa diventerà la sede del Museo delle fortificazioni e del Centro visite del Parco delle Mura, aperto a tutti gli interessati. Il restauro sarà dedicato alla memoria di Carlo Furlan, scomparso recentemente, che da anni stava lavorando per il recupero del Parco delle Mura.

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Tonga, “Patria dell’amore”

Siamo a Nuku’Alofa, la capitale di questo regno sperduto nel Pacifico. Scendiamo dalla nave e ci accolgono con canti e danze, c’è anche una banda formata da ragazze in divisa. A tutti i passeggeri mettono una collana di piccoli fiori arancioni al collo. Carina, ma punge. Me la metto in testa come una coroncina.

  1. Carta di Tonga

Il nome di questa capitale, che conta meno di duemila abitanti (1000 adulti e 700 bambini) vuol dire “Patria dell’amore”. Io e Piero andiamo verso il centro, troviamo un mercatino per turisti e poi un mercato vero, con frutta verdura e oggetti di paglia che servono ai tongani per la vita quotidiana. Le donne indossano un gonnellino di foglie intrecciate a striscioline: è il segno del rispetto che ci portano, il gonnellino si usa nelle occasioni importanti. Gli uomini usano una gonna nera tipo pareo sulla quale avvolgono una stuoia. Prima di fotografare un bambino che è con la mamma al mercato, chiedo il permesso. La mamma, felice, chiama anche gli altri tre figlioletti, se li stringe e sorride: fotografo il bel gruppo famigliare. L’escursione si fa in scuolabus, un po’ rannicchiati. La guida è una ragazza di 26 anni, si chiama Eunice Pongipongi, ci racconta esprimendosi in un buon italiano di aver studiato in Nuova Zelanda e di vivere ora sull’isola con marito e figlio. Conosciamo il bimbetto perché una sosta si effettua nel luogo dello sbarco di Cook, dove c’è un banchetto con souvenirs: la madre di Eunice è la venditrice, il piccolo Joe si attacca alle gambe della mamma. Nel corso dell’escursione vediamo qualche palazzo reale, anche quello dove abita la regina madre, la Chiesa cattolica di Sant’Antonio, le tombe reali e alcuni cimiteri.

2-3 Al mercato

Qui al cimitero sono sepolti i poveri, i ricchi hanno nei loro giardini più degna sepoltura. I tumuli di terra sono addobbati con fiori e teli colorati, più o meno preziosi. Uno è abbellito con un copriletto damascato bianco. Eunice ci dice che quando muore qualcuno, i parenti meno vicini provvedono al pranzo dei parenti stretti. Se non c’è il tempo, ci si rivolge a un’impresa di catering che pensa a tutto e che mette a disposizione anche ampi spazi. Insomma, il funerale diventa occasione di incontro per persone che magari non si vedono da molto tempo (anche se su un’isola così piccola mi pare strano…) o che invece tornano dalla Nuova Zelanda o dall’Australia.

  1. Cimitero

Le case sono di proprietà di chi le abita, i tetti sono coperti di foglie dell’albero del pane. I giardini sono curatissimi. Il re regna, con un parlamento formato (ci avrei scommesso!) da soli uomini. Regime assoluto. Le donne ballano con il corpo unto di olio di cocco. Se si tratta di ragazze, si attende che l’olio goccioli insieme al sudore: sarebbe la prova della verginità della ballerina. Io ho l’impressione che in questo regno gli unici a non avere problemi siano i reali e i loro adepti. Intorno mi sembra di vedere una dignitosa povertà, per nascondere la quale uomini e donne ostentano denti d’oro, anche da giovani.

L’isola è piatta, niente colline e piccole valli verdi come in Polinesia. Però c’è un trilite, una porta in pietra costituita da tre massi. Forse è uno strumento per misurare il tempo o i solstizi, evoca Stonehenge. È del 1200 circa.

  1. Trilite

Dopo essere stata a Papeete, Moorea e Bora Bora, questa impronunciabile capitale mi lascia indifferente, o forse no, è un mondo ancora primitivo che cerca di attirare turisti… e non sa che, dove arrivano i turisti, muore l’autenticità, almeno un po’.

 

 

 

 




La Gallura che non ti aspetti. Percorsi alternativi fra mare e monti Itinerario interno. Da Olbia a Vignola

Un libro veramente prezioso, per chi ama la Sardegna lontana dal turismo di
massa e al di là degli stereotipi, è Viaggio in Sardegna. Undici percorsi nell’isola
che non si vede di Michela Murgia (Einaudi) in cui la scrittrice di Cabras racconta
la sua terra attraverso una serie di tematiche mai banali: Alterità, Pietra, Confine,
Indipendenza, Femminilità. Anche il cibo ha un suo preciso ruolo, come momento
conviviale; a questo proposito ricordiamo che in Gallura i piatti tipici non hanno
alcun legame con la pesca e il mare (d’altronde ciò avviene in quasi in tutta l’isola,
terra di pastori e agricoltori). Troviamo innanzitutto la zuppa gallurese, detta
zuppa cuata (o nascosta): è infatti una “zuppa” priva di parte liquida perché i vari
strati di pane carasau (o carta da musica) che si sovrappongono a strati di
pecorino di più stagionature sono bagnati dal brodo (di carni varie) e poi il tutto si
mette in forno, così l’aspetto finale è simile alle lasagne. Altre specialità sono i
chiusoni (sorta di malloreddus rustici) e i ravioli di ricotta dolci, con un po’ di
scorza di limone, che costituiscono un primo piatto, conditi con pomodoro. Magari
dopo aver gustato del pane con l’olio genuino accompagnato dal saporito
prosciutto locale e dalla ricotta (su cui si può spargere una buona composta di
frutta locale o ancora meglio l’abbattu, ovvero un decotto di miele e polline
veramente sublime); a fine pasto un bicchierino di mirto gelato è d’obbligo, ma
attenzione: il liquore è di due tipi, il bianco prodotto dalle foglie macerate, il rosso
dalle bacche (molto più profumato e saporito, comunque i gusti non si discutono).
Sulla tavola non mancheranno mai la birra (di cui i sardi sono i massimi
consumatori italiani), il filu ‘e ferru, sorta di grappa per lo più casalinga, e il vino
(sia bianco che rosso), prodotto un po’ ovunque, grazie al lavoro di eccellenti
cantine.
Lasciata la costa, si percorre l’entroterra su comode strade asfaltate che conducono
in varie direzioni, secondo le mete e gli itinerari, oppure si può utilizzare il trenino
verde, che da Palau arriva a Tempio Pausania. Un itinerario può essere quello delle
chiese cittadine o rurali, un altro può essere archeologico, un altro naturalistico,
un altro ancora museale. Qui ci limitiamo a dare alcuni suggerimenti.
A Olbia, dove i più approdano o atterranno per passare subito oltre (come del
resto a Porto Torres), la basilica di San Simplicio merita una sosta; dedicata al
protovescovo e martire, splendido esempio di stile romanico pisano, è stata
realizzata fra l’XI e il XII secolo quasi interamente in granito.

Foto 1. Olbia, basilica di San Simplicio

A Budoni, nota località turistica, è visitabile il Museo dello stazzo e della civiltà
contadina, mentre i dintorni di Arzachena offrono molteplici aree archeologiche
di notevole interesse: il nuraghe Albucciu, il villaggio la Prisgiona, la tomba dei
giganti di Coddu Ecchju, il tempietto nuragico di Malchittu, i circoli megalitici.
Oltrepassata Santa Teresa (il cui nome è un omaggio del fondatore Vittorio
Emanuele I alla moglie, la regina Maria Teresa d’Asburgo-Este) si entra nel
comune di Aglientu. Appena fuori paese, nascosta nel verde, si trova la graziosa
chiesetta campestre di San Pancrazio, realizzata in granito; la affianca la
“cumbessìa”, tradizionale porticato destinato ad accogliere viandanti e pellegrini.

Foto 2. Aglientu, chiesetta campestre di San Pancrazio

La strada 133 conduce all’ex capoluogo provinciale Tempio Pausania (foto di
copertina); poco oltre l’abitato, ecco l’imponente mole del nuraghe Majori,
circondato da un vero giardino fiorito di piante spontanee, anche rare.
Proseguendo si raggiungono i rilievi più alti della Gallura con il monte Limbara
(1362 metri), preceduto da bellissime sugherete che in primavera si adornano di
asfodeli rosati.
A Calangianus non poteva mancare il Museo del sughero, la cui lavorazione è
ancora di primaria importanza economica.

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Foto 3. Calangianus, maschere locali

Nei pressi di Luras un vero prodigio della natura, che lascia senza fiato: gli
olivastri più vecchi d’Europa, fra gli alberi più antichi del mondo. In particolare
uno, immenso, detto “il Patriarca”, è datato fra i 3800 e i 4200 anni di età, ed è
ben vivo; il suo tronco è abbracciato a fatica da 12-13 persone e la sua chioma
forma una cupola di foglie impenetrabile, di circa 600 mq. Un’oasi di pace, a poca
distanza dal lago Liscia, su cui si naviga con un battello con ruota a pala come sul
Mississippi.
A Luras si trova un museo di grande interesse: il Museo etnografico Galluras che
consiste nella ricostruzione di una abitazione tradizionale, dal 1600 alla metà del
1900; il pezzo più pregiato è il martello in legno della “femina agabbadòra” usato
un tempo per praticare l’eutanasia (di cui narra Michela Murgia nel suo romanzo
Accabadora).


Foto 4. Luras, l’olivastro millenario (il Patriarca)

Una località non lontana, Aggius, ospita sia il Museo del banditismo sia il Museo
etnografico Oliva Carta, veramente affascinante, in cui predominano le attività
tradizionali femminili, in primo luogo la tessitura, a cui si dedicava con maestria
Oliva, madre del generoso donatore degli edifici e di molti arredi. Nelle vicinanze
del paese merita una sosta la cosiddetta valle della Luna (o piana dei grandi sassi),
un’ampia spianata punteggiata dalle forme irregolari e curiose di migliaia di massi,
grandi e piccoli.

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Foto 5. Aggius, la valle della Luna

A Pasqua, nelle feste patronali, in particolari momenti di vita comunitaria
(fidanzamenti, matrimoni, eventi stagionali) e poi in primavera ed estate sono
molte le occasioni in cui si festeggia con balli e canti o si riprendono gli antichi
rituali della cosiddetta “civiltà degli stazzi”, come la trebbiatura (s’agliola), la
tosatura delle pecore, la panificazione, l’utilizzo del maestoso carro a buoi,
testimonianza di tradizioni ancora oggi vissute e sentite, da condividere con chi
viaggia in maniera responsabile e consapevole.


Foto 6. La torre di Vignola