Darwin

Due giorni a Darwin, nel Top End, per conoscere l’Australia degli aborigeni, per vedere ancora parchi sterminati, per fare nuove scoperte. Il primo giorno ce ne andiamo a visitare il parco Nazionale di Litchfield, una enorme distesa di alberi giganteschi tra cui sbucano termitai alti come palazzi e cascate ricche di acque che si fronteggiano, come le Tolmer Falls.

Gli eucalipti hanno il tronco come diviso a metà: in basso la corteccia, in alto una superficie liscia e chiara. I rami sono bianchi, anneriti da tanti pipistrelli neri appesi a testa in giù. Spettacolo della natura veramente inquietante. La vastità degli spazi crea una sensazione di spaesamento e di solitudine. Si cammina per ore senza incontrare esseri umani, a parte qualche emù. Una lunga giornata punteggiata di soste fra eucalipti e foto vicino ai termitai.

Il secondo giorno segna l’incontro con gli aborigeni: entriamo in città camminando fra giardini e piccole case, mentre gruppetti di aborigeni sostano sulle panchine e ci osservano con una certa curiosità. Hanno lineamenti molto marcati, tanti capelli scuri e ricci che sembrano nidi; sono trascurati nel vestire, sembrano nullafacenti… In realtà la guida ci spiega che quelli che si incontrano in città sono i nativi che vivevano nelle riserve e che, non rispettandone le regole, sono stati scacciati dai loro conterranei. Dunque, sono persone scomode, che non hanno più dignità, prima chiusi come in gabbia, poi isolati dai loro stessi fratelli, infine abbandonati nelle strade, spesso alcolizzati. Ci sono alcune associazioni che in qualche modo se ne occupano; a me sembrano disperati e soli. Poi naturalmente ci sono gli aborigeni integrati che vendono oggetti di artigianato in dignitosi piccoli negozi.

La cittadina è graziosa, ordinata, strade ampie, negozi ben tenuti. Gli abitanti sono circa 130.000. Il waterfront – il lungomare – lascia vedere, lontana, la barriera corallina che crea una striscia bianca nel mare. Si passeggia, si respira un’aria sana, ma come a Sidney, Melbourne, Brisbane, Cairns i bambini indossano una bella divisa scolastica e coprono la testa con un berretto dotato di visiera e coprinuca. Fa caldo, ma tutti hanno maglie o camicie a maniche lunghe. Il sole fa paura. Entro in una farmacia per comprare una crema solare: non ci sono prodotti che abbiano meno di 30 spf, al contrario i 50+ si sprecano.

Nel pomeriggio, dopo un’ora e mezza di viaggio in bus, attraversando pianure smisurate, andiamo in battello sul fiume Adelaide alla ricerca di coccodrilli saltatori. Si naviga su acque giallastre e torbide, le rive sono verdissime a causa della vegetazione fitta. Ci hanno avvertito del pericolo di punture di insetti e io… finalmente! sfoggio il cappello da piccola esploratrice con veletta nera che arriva fino al collo. Si può rimanere sul ponte più basso per vedere meglio i coccodrilli, nonostante la parete di plexigas che non permette di sporgersi ma che protegge dai denti acuminati dei saltatori, o si può salire in alto e sporgersi, con qualche cautela. Noi arriviamo sul ponte più alto e vediamo i coccodrilli che sbucano violentemente dall’acqua e, con tutto il corpo fuori, addentano il pezzo di carne che una robusta ranger fa dondolare, appeso ad un lungo bastone.

Sono tanti, si intravedono sott’acqua quando si avvicinano e poi saltano con violenza, bocca spalancata, per conquistare il cibo. In cielo volteggia qualche aquila di fiume, attirata dalla carne proprio come i coccodrilli. Si scatena una battaglia senza esclusione di colpi e qualche volta l’aquila conquista il pasto perché è più veloce e soprattutto più intelligente. Sembra che capisca quale sarà l’oscillazione del bastone… È quasi buio quando si riprende il bus verso Darwin. Provo un senso di pena per quei giganteschi coccodrilli che, come al circo, devono esibirsi per conquistare un pezzo di carne.

Darwin è più vivace che di giorno, ci sono tanti piccoli bar e ristoranti affollati, c’è l’aborigeno che suona il suo didgeridoo, lo strumento musicale tipico di quelle terre, un ramo robusto di eucalipto scavato dalle termiti e decorato dagli stessi musicisti con disegni tradizionali. L’accompagnatore ci dice che quando è usato per riti sacri le donne non possono utilizzarlo, perché i riti sono quasi sempre legati all’iniziazione maschile. Il suono è profondo e ipnotico, oggi il didgeridoo viene suonato anche in sedute psicanalitiche.




Galleria Borghese: Amore, donne e dee (terza parte)

Piano Primo – Pinacoteca

Sala IX, di Didone – le donne di Raffaello

La sala deve la sua denominazione ai dipinti che decorano la volta, raffiguranti episodi della storia di Enea e Didone.

Fig. 1: Dama con liocorno, Raffaello 

L’opera raffigura una delle tante donne effigiate dall’artista urbinate, notoriamente grande ritrattista, e risale al 1505/1507, cioè al periodo fiorentino di Raffaello, prima del suo trasferimento a Roma. Rappresenta una fanciulla fiorentina, che indossa un prezioso abito alla moda dei primi anni del Cinquecento, con le ampie maniche di velluto rosso e il corpetto di seta marezzata (una seta cioè con venature, linee sinuose come onde del mare). Probabilmente era un dono di nozze. Le pietre del pendente alluderebbero al candore virginale, la collana annodata al collo richiamerebbe il vincolo matrimoniale, anche l’unicorno che giace in grembo alla fanciulla, animale fantastico, potrebbe essere un attributo simbolico della verginità. 

Nonostante la posa monumentale, la donna, col busto di tre quarti e lo sguardo rivolto verso lo spettatore, appare spontanea, mantenendo una sciolta naturalezza. E dall’acutezza dello sguardo si percepisce una profonda introspezione psicologica.  La ricercatezza dell’abito, i gioielli, testimoniano la sua appartenenza alla ricca borghesia. Sullo sfondo un dolce paesaggio collinare.

Nella sala è esposta anche una copia da Raffaello de La Fornarina (di Raffaellino del Colle).

Fig. 2: La Fornarina, Raffaello

Non è un mistero la passione amorosa di Raffaello per le donne. Sarà proprio la sua libertà  sessuale a farlo ammalare di sifilide e a portarlo alla morte a soli trentasei anni. L’originale, del 1518/19, è conservato a Palazzo Barberini a Roma. Anche qui una donna è la protagonista del quadro. Ora però la seduzione raggiunge il suo massimo livello. La ragazza, ritratta a seno nudo, coperta appena da un velo trasparente, col quale cerca inutilmente di coprirsi, guarda a destra, oltre lo spettatore. In testa ha un turbante di seta dorata a righe verdi e azzurre annodata tra i capelli, con una spilla composta di due pietre incastonate e una perla pendente.

Il quadro è noto come La Fornarina, perché, secondo l’ipotesi più accreditata, si tratterebbe di Margherita Luti, figlia di un fornaio di Trastevere, amatissima da Raffaello, durante il periodo in cui l’artista lavorava a Villa Farnesina.

Gran parte della critica è concorde sul fatto che la giovane donna sia stata presa come modello anche per altre opere, che raffiguravano Madonne o figure del mito. Ma questa è una donna reale, resa unica e seducente dal pennello dell’artista, un’allegoria di tutti gli amori del pittore.

 Sala X – di Ercole o del Sonno – gli amori degli dei

 La stanza fu chiamata nel ‘600 del Sonno, perché ospitava un letto a baldacchino e un gruppo scultoreo con l’Allegoria del sonno. Nel soffitto episodi relativi a Ercole e al centro la sua Apoteosi. Vi sono esposte a confronto due Veneri, una di Cranach, (Kronach 1472/Weimar 1553), del 1531, e l’altra del Brescianino, del 1525. 

Fig. 3: Venere e Cupido, Lucas Cranach

La prima, nuda, coperta solo da un sottilissimo velo trasparente, fissa l’osservatore; è sensuale, corpo affusolato e seni piccoli, sul capo porta un ampio e lussuoso cappello ornato di piume, mentre una reticella dorata raccoglie i capelli e una preziosa collana orna il collo sottile. Alcuni versi scritti in alto, in latino, tratti da un inno di Teocrito, ricordano che il piacere è caduco e porta tristezza e dolore, come capita al piccolo Cupido che, dopo aver rubato il miele dall’alveare, viene punto sul dito da un’ape: la dea dell’Amore si trasforma così in ammonimento di carattere morale sulle conseguenze dolorose della voluptas. 

L’interesse del cardinale Borghese per questo dipinto potrebbe essere stato suscitato proprio dall’interpretazione in chiave moraleggiante dei versi latini. Lo stesso che caratterizza la favola mitologica di Apollo e Dafne di Bernini, scolpita sul basamento dai distici di Maffeo Barberini. 

Le Veneri di Cranach hanno la pelle d’avorio, gli occhi allungati, il corpo morbido, il sorriso malizioso: nude o abbigliate sono sempre seducenti, inquietanti.

Fig. 4: Venere con due Amorini, Brescianino

L’altra Venere, quella di Andrea Piccinelli detto il Brescianino (Brescia 1486 circa – Firenze, 1525 circa), da sempre fa da pendant a quella di Cranach. Si tratta però di una Venere mediterranea, dalla bellezza classica, scultorea, di chiaro influsso michelangiolesco. Non c’è ombra di moralismo, né di peccato, o di dolorosi presentimenti. Sicura di sé, si guarda allo specchio in una conchiglia, e i due Amorini ai lati le fanno da corteo.

Ma il vero e proprio gioiello della sala è la Danae del Correggio (1489-1534).

Fig. 5: Danae, Correggio

Dipinta nel 1530/1 da Antonio Allegri, meglio conosciuto come Correggio (Correggio, Reggio Emilia 1489-1534), l’opera raffigura l’istante in cui Danae si congiunge a Giove, trasformato in pioggia d’oro, aiutata da Amore. Dalla loro unione nascerà Perseo.

Fa parte della serie degli Amori di Giove che Correggio dipinse per Federico II Gonzaga allo scopo di farne dono a Carlo V in occasione della sua incoronazione a Bologna nel 1530. Danae viveva imprigionata in una torre, perché un oracolo aveva predetto al padre che sarebbe stato ucciso da un figlio di lei. La precauzione fu resa vana dall’intervento di Giove, che sedusse Danae tramutato in pioggia d’oro. Nel dipinto Danae giace su un letto a baldacchino splendidamente ampio, con vista fuori dalla finestra su una splendida distesa di cielo azzurro. Cupido siede familiarmente all’estremità del letto, guardando in su verso la nube, da dove scende la pioggia d’oro, e con la mano sinistra aiuta Danae a sollevare il lenzuolo bianco che è la sua ultima difesa. Danae stessa, sorridente, non sembra rifiutarsi all’amplesso, anzi con le gambe aperte favorisce l’unione. 

L’atmosfera intima e serena dell’ambiente domestico è accresciuta dalla presenza dei due amorini che, indifferenti all’evento miracoloso che si svolge alle loro spalle, testano su una pietra di paragone il metallo della punta della freccia amorosa.

Sala XII – delle Baccanti 

Chiamata così per l’affresco nella volta che riproduce un Ballo di Baccanti, ospita pittori del primo ‘500 di area leonardesca. La Leda, creduta fino alla fine dell’800 opera di Leonardo, è probabilmente un rimaneggiamento su un dipinto incompiuto di Leonardo operato da un suo allievo. Leda abbracciata al cigno-Giove e inserita nel paesaggio è certamente, però, invenzione leonardesca.

Fig.6: Leda e il cigno

Il mito di Leda e il cigno rappresenta l’intraprendenza sessuale maschile, in base alla quale anche l’inganno risulta lecito per giungere all’unione sessuale. E nulla potrebbe essere più lontano da uno stupro: Leda, come Danae, gode in questo amplesso.

Leda, regina di Sparta e madre di Clitennestra ed Elena, dormiva sulle sponde di un laghetto, quando fu posseduta da un candido cigno, l’animale nel quale Zeus si era tramutato per possederla. Concluso il rapporto sessuale, Zeus annunciò che dalla loro unione sarebbero nati due gemelli, i Diòscuri, Càstore e Pollùce. 

Sala XIX – di Paride ed Elena – La caccia di Diana

La decorazione della volta s’ispira all’Iliade, al centro della volta è la Morte di Paride. 

Fig. 7: La caccia di Diana, Domenichino

Dipinta nel 1616/17 da Domenico Zampieri, detto il Domenichino (Bologna 1581 – Napoli 1641), l’opera rielabora il tema dei celebri Baccanali tizianeschi nella più sensuale delle battute di caccia. Diana è al centro tra le sue ninfe e solleva con le mani frecce e arco; sullo sfondo alcune ninfe tornano con la cacciagione, altre tengono a bada i cani, che si lanciano verso i profanatori, nascosti tra i cespugli, altre sono al bagno, immerse nell’acqua. Perni della composizione sono le due ninfe in primo piano: una delle due rivolge lo sguardo allo spettatore invitandolo quasi a entrare nel quadro. Le altre vergini sono articolate ritmicamente intorno a Diana, rappresentata al culmine di una gara con l’arco. L’atmosfera festosa è accresciuta dai colori chiari e dalla luce diffusa.

La Caccia di Diana era stata commissionata dal cardinale Pietro Aldobrandini per la sua villa di Frascati, ma Scipione Borghese, per la sua nota spietatezza collezionistica, volle il dipinto per sé e lo fece prelevare con la forza dallo studio del pittore, che fu trattenuto per alcuni giorni in prigione. A parziale risarcimento del singolare espediente a Domenichino venne saldato un pagamento di 150 scudi riferito a La caccia di Diana e a un altro dipinto, La Sibilla, presente anch’esso nella collezione Borghese. 

Sala XX – di Psiche

La sala è decorata nella volta con tele raffiguranti i momenti salienti della favola di Amore e Psiche, così com’è narrata nell’Asino d’oro di Apuleio. 

Sulle pareti si trovano alcune delle opere più famose della collezione e, tra queste la Madonna col Bambino di Giovanni Bellini (Venezia 1433 ca.-1516) e quattro tele di Tiziano (Pieve di Cadore, Belluno, 1480/85 – Venezia 1576): Amor Sacro e Amor Profano, San Domenico, Cristo alla colonna e Venere che benda Amore. 

Tra le quattro tele di Tiziano Vecellio spicca “ Amor Sacro e Amor Profano” (1514).

Copertina: Amor sacro e Amor profano, Tiziano

Capolavoro di Tiziano venticinquenne, raffigura due donne, una vestita e una seminuda, nei pressi di un sarcofago, nel quale un amorino alato sta rimestando le acque. Sullo sfondo si vedono, a sinistra, una città all’alba, contrapposta ad un villaggio al tramonto, sulla destra. Lo stemma sulla fronte del sarcofago ha permesso di legare l’opera alle nozze della figlia di un noto giurista padovano con un veneziano della famiglia degli Aureli, celebrate nel 1514. La donna seduta indossa in effetti tutti gli ornamenti abituali di una sposa: l’abito candido, bianco dai riflessi argentei, i guanti, la cintura e la corona di mirto, simbolo di amore coniugale. La sposa è assistita da Venere in persona, nuda, avvolta parzialmente in un manto rosso, con in mano la fiamma dell’amore; il bacile sul bordo della fontana, parte integrante del corredo perché utilizzato dopo il parto, e la coppia di conigli sullo sfondo sono un augurio di unione feconda. Ispirato agli ideali della dottrina neoplatonica, il soggetto si presta a molteplici livelli di lettura. Una delle principali interpretazioni identifica nella donna con in mano la fiamma ardente dell’amore di Dio la Venere Celeste, e in quella riccamente vestita, col vaso di gioie, la Venere Volgare, la felicità terrena, simbolo della forza generatrice della natura. Il titolo rivela invece una lettura in chiave moralistica del tardo ‘700 della donna svestita, l’Amore profano, contrapposto alla donna vestita, l’Amore sacro. Per quanto errato, però, il titolo tradizionale continua a esercitare fascino e a essere usato, poiché mette bene in evidenza l’armonico dualismo che è alla base dell’incanto del dipinto: alba-tramonto, sarcofago/morte-acqua/vita, bianco-rosso, donna nuda-donna vestita.




Cicloturismo per un futuro sostenibile. Sui Colli Euganei per le domeniche del Fai: Villa dei Vescovi

Se ti piace la bicicletta come mezzo di trasporto e come stile di vita, se sei animato da una vivace curiosità per i luoghi sconosciuti al grande pubblico e da una grande adattabilità alle situazioni impreviste, il cicloturismo è un modo avventuroso per viaggiare, ma necessita di un’accurata preparazione e organizzazione tecnica. Il viaggiatore deve infatti essere in grado di fronteggiare in modo autonomo il pernottamento e ogni evenienza o guasto meccanico che possano verificarsi durante il tour.

Noi non ci siamo lasciati fermare e abbiamo percorso la Via del Vino nel Parco veneto dei Colli Euganei, partendo da Monselice alle 10 del mattino.

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Abbiamo fatto sosta a Battaglia terme per ammirare, tra fiumi e canali navigabili, il maestoso Catajo:

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La costruzione del Castello del Catajo è stata realizzata, tra il 1570 e il 1573, dal condottiero della Repubblica di Venezia Pio Enea I degli Obizzi, su insediamenti precedenti. Pio Enea II (1592-1674) procedette a delle modifiche; realizzò un teatro, poi trasformato in chiesetta neogotica, al posto delle scuderie e costruì la grotta con la Fontana dell’Elefante. Nel 1768 Tommaso degli Obizzi decorò il grande complesso con reperti archeologici e arredi lapidei, diventato poi di proprietà degli arciduchi d’Austria – Este e duchi di Modena che lo utilizzarono come sede di caccia e villeggiatura. Dopo essere diventato proprietà degli Asburgo (l’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo-Este, assassinato il 28 giugno 1914 a Sarajevo, la notte prima della sua morte aveva dimorato in questa residenza),  il Cataio appartenne alla famiglia Dalla Francesca.

Si articola su oltre 350 stanze, alcune delle quali affrescate da Giovan Battista Zelotti, allievo del Veronese. E’ circondato da un vastissimo parco di 26 ettari, non tutto aperto al pubblico, e il giardino delle delizie antistante il castello, di impianto romantico esteso su 3 ettari, con una grande peschiera e numerose piante esotiche.

Anche il Cataio ha il suo fantasma ovviamente generato da un episodio drammatico:
“Era la notte del 14 Novembre 1654 quando Lucrezia degli Obizzi (la famiglia Obizzi era proprietaria del maniero) fu uccisa con ferocia da uno spasimante respinto.”
La pietra macchiata del suo sangue è ancora lì, nel castello, e si dice che il suo spirito vaghi ancora tra le mura. Non pochi raccontano di aver visto una figura femminile, vestita di azzurro, affacciarsi dalle finestre dei piani più alti.

Passando tra masserie fortificate

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abbiamo disegnato un  percorso circolare lungo 50 Km, che ci ha condotto a visitare Villa dei Vescovi (dal 2005 parte del patrimonio del Fai) dove abbiamo consumato un gustoso pic-nic.

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Se amate la natura, la visita della Villa non è completa senza una passeggiata nel Parco. Tutto intorno e tra i vigneti si viene incantati da scorci meravigliosi, i visitatori di tutte le età, adulti e bambini, possono rilassarsi, trascorrere momenti gioiosi, scoprirne tutti gli angoli.

Situata in località Luvigliano, frazione di Torreglia (Padova), Villa dei Vescovi è considerata il primo trapianto del gusto per la classicità romana nell’entroterra della Serenissima, custodisce il più straordinario esempio di decorazione ad affresco nel Veneto precedente alla rivoluzione imposta da Paolo Veronese.

Villa dei Vescovi venne edificata tra il 1535 e il 1542 su un terrapieno dei Colli Euganei dalla curia di Padova, per offrire al vescovo una sontuosa casa di villeggiatura estiva.

Il vescovo committente fu Francesco Pisani (episcopato dal 1524 al 1564), mentre per l’esecuzione dell’opera venne incaricato il nobiluomo Alvise Cornaro, amministratore della mensa vescovile dal 1529 al 1537. Cornaro, con l’appoggio del vescovo Pisani, ne affida il progetto al pittore architetto Giovanni Maria Falconetto (Verona 1468 – Padova 1535).
Nella versione originale, la Villa era costituita da un compatto parallelepipedo a base quadrata, alleggerito su due lati del primo piano da due logge aperte sul paesaggio circostante. Abbracciata dalla verde tranquillità dei Colli Euganei,  è immersa in un paesaggio di grande bellezza che riecheggia negli splendidi affreschi interni del fiammingo Lambert Sustris. Sorta nel Cinquecento come buen retiro del vescovo di Padova, la Villa costituisce la più importante dimora pre-palladiana del Rinascimento, frequentata per secoli da artisti e intellettuali che qui trovavano quiete e ispirazione.

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All’interno la parte cinquecentesca prevedeva un ambiente centrale al piano terra, sovrastato da un cortile pensile in corrispondenza del piano nobile. Allontanandosi dai tradizionali canoni costruttivi locali, l’edificio superava quindi i confini regionali per trarre ispirazione dai contemporanei modelli fiorentini o per risalire addirittura agli esempi dell’antichità romana, fornendo così una personale anticipazione della posteriore opera palladiana.

Tale influenza della classicità si inseriva d’altra parte all’interno di un più ampio programma politico di trasformazioni territoriali, teso a ribadire l’origine romana della città di Padova: lo stesso nome di Luvigliano deriva infatti da “Livianum”, che all’epoca veniva identificato come il sito in cui Tito Livio avrebbe edificato la sua villa in campagna.

Tra gli architetti che succedettero al Falconetto, oltre all’intervento di Giulio Romano sul bugnato del piano terreno, è certa la presenza dell’istriano Andrea da Valle (?-1577) che, chiamato dai vescovi Alvise Pisani (episcopato dal 1567 al 1570) e Federico Corner (episcopato dal 1577 al 1590), diresse importanti interventi monumentali che modificarono il complesso della Villa, privilegiando e sviluppando il lato ovest. Venne costruito con la sua direzione un nuovo accesso principale costituito dalla corte quadrata e dalla recinzione merlata aperta in tre ampi portali. La facciata stessa della Villa venne arricchita con le scalinate di collegamento tra la loggia e la piattaforma a terrazza.
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La villa poggia su un terrazzamento in sommità del colle, con scalinate sostenute da arcate inserite nel declivio. Fanno parte del complesso edifici rustici, stalla, abitazione del gastaldo e quattro portali monumentali.DSCN27988

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Successivamente Vincenzo Scamozzi (Vicenza 1552 – Venezia 1616) intervenne sulla facciata orientale con l’inserimento di una scalinata e di una grotta con fontana.

Nel Seicento, diversi vescovi dedicarono molta attenzione ai giardini, agli orti e al brolo negli spazi circostanti la Villa. All’episcopato (1697-1722) di Giorgio Corner (o Cornaro), vanno ascritti ulteriori miglioramenti, tra cui il completamento della scalinata dalla loggia orientale alla piattaforma, così come alcuni interventi sono attribuibili a Minotto Ottoboni (vescovo dal 1730 al 1742), mentre all’epoca del benedettino Nicolò Antonio Giustiniani (vescovo dal 1772 al 1796) o del suo predecessore, potrebbe collocarsi la revisione planimetrica con la risistemazione di alcuni spazi interni.

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Nelle logge, finti archi, adornati di pergole e tralci di vite, si aprivano su paesaggi immaginari. Il ciclo risente evidentemente delle teorie di Alvise Cornaro, legate a modelli desunti dal mondo classico, già applicate in altre opere da lui sponsorizzate, come l’Odeo padovano.

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La scoperta del parco prosegue tra le vigne, camminando lungo il perimetro delle mura o nelle vie tra i filari. Dai  grappoli nascono Moscato e Fior d’Arancio.

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Poco si conosce delle vicende di Villa dei Vescovi nell’Ottocento. Nel 1910, il vescovo Luigi Pellizzo decise di privarsi dell’uso della dimora per affittarla a un privato che si facesse carico dei restauri resi necessari. Durante la seconda guerra mondiale la residenza fu messa a disposizione delle famiglie sfollate e per un breve periodo fu anche sede del monastero delle suore Carmelitane Scalze.

Nel dopoguerra, Villa dei Vescovi divenne “Villa San Domenico Savio”, sede degli esercizi spirituali per i giovani.
Nel 1962 esaurita anche quest’ultima funzione la Villa venne quindi ceduta, destinando il ricavato all’Opera della Provvidenza Sant’Antonio, a Vittorio Olcese e all’allora consorte Giuliana Olcese de Cesare, che ne curarono un primo restauro sia nella struttura architettonica sia nella decorazione interna ad affresco, riportata finalmente alla luce dopo secoli di mascheratura.

Nel 2005 Maria Teresa Olcese Valoti, seconda moglie di Vittorio, e il loro figlio Pierpaolo decisero di donare Villa dei Vescovi al FAI.

Concepita sin dall’inizio come palazzo di città e destinata a ritrovo per intellettuali e circoli umanistici, l’imponente dimora è giunta straordinariamente intatta fino ai nostri giorni, mantenendo a tutt’oggi l’antico rapporto di dialogo e armoniosa

convivenza col paesaggio circostante.

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A 20 minuti da Padova e a un’ora da Venezia, Villa dei Vescovi si trova nel cuore del Parco regionale dei Colli Euganei. Qui non mancano le occasioni di svago come il trekking tra i sentieri del Parco, le passeggiate a cavallo, il golf, il relax nei rinomati centri termali, l’itinerario gastronomico della Strada del Vino e la possibilità di visitare le splendide ville palladiane.

Prima di rimettervi sulla strada del ritorno vi consigliamo di fermarvi all’abbazia di santa Maria Assunta di Praglia destinata alla coltivazione delle piante officinali per la farmacia e alla preparazione di unguenti, creme e saponi naturali.

L’abbazia benedettina di Praglia sorge ai piedi dei Colli Euganei, a 12 Km da Padova, lungo l’antica strada che conduceva a Este. Il suo nome deriva dal toponimo Pratalea: località tenuta a prati.

La fondazione del monastero è databile agli anni tra la fine dell’XI e l’inizio del XII secolo: dell’originario impianto medioevale oggi rimane soltanto la torre campanaria.

Dopo le due interruzioni ottocentesche – la prima per decreto napoleonico (1810), la seconda per la legislazione sabauda (1867) – il 26 aprile 1904 riprende a Praglia la vita di preghiera e lavoro, secondo la Regola di san Benedetto.




Brescia – Memorie verticali (seconda parte)

Proseguendo lungo via Sant’Urbano si trovano altre lapidi, fra cui una, collocata in occasione del centenario delle Dieci Giornate che ne ricorda con fierezza i combattimenti che hanno visto protagonisti gli abitanti dello storico rione, e un’altra apposta nel decimo anniversario della Liberazione, sull’edificio nel quale il CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) locale emana il 26 aprile 1945 il suo primo atto ufficiale.

Foto 1. Targa nel centenario delle Dieci Giornate

Ridiscendendo lungo la strada tracciata dalle formelle delle vittime del terrorismo, si raggiunge nuovamente Piazza della Loggia, punto d’inizio del Percorso della Memoria. Esattamente di fronte al punto in cui è esplosa la bomba il 28 maggio 1974 si trova il Palazzo Comunale, sotto il cui ampio portico una serie di lapidi, risalenti a epoche differenti, celebra i caduti per la libertà nel Risorgimento e nella Resistenza, intrecciando memorie diverse. 

Foto 2. Palazzo Loggia

In Largo Formentone, su un lato del Palazzo della Loggia, in ideale continuità con il portico del palazzo, nel 1988 viene collocata una lapide in marmo per ricordare i caduti del primo eccidio che si consuma a Brescia per mano fascista, proprio in quella piazza. 

La lapide è censita nell’ambito del progetto nazionale Pietre della Memoria, messo a punto dal Comitato regionale umbro dell’ANMIG (Associazione Nazionale dei Mutilati e Invalidi di Guerra), che appunto censisce, cataloga, fotografa e rende pubblici i dati e le iscrizioni relative a monumenti, lapidi, steli, cippi commemorativi delle due guerre mondiali e della guerra civile del ’43-‘45. L’ANMIG, sorta già durante la prima guerra mondiale, a Milano nell’aprile 1917 e a settembre dello stesso anno a Brescia, inizialmente con fini solidaristici e assistenziali, nel febbraio 2002 costituisce una propria fondazione per “conservare la memoria storica di lotte, di sacrifici e di conquiste che hanno consentito all’Italia di crescere nella libertà, nella democrazia e nella giustizia sociale”. 

Foto 3. Lapide di Largo Formentone ai Caduti per la libertà

Piazza Rovetta, cuore popolare della Brescia storica situata a nord di piazza della Loggia, è il risultato di una serie di diversi sventramenti tra la fine dell’Ottocento e gli anni Trenta del Novecento. Nelle piante di Brescia del 1826 e del 1852 la zona tra piazza della Loggia e via S. Faustino è occupata da una serie di fabbricati che si affacciano direttamente sul corso del fiume Garza. Fino al 1865 esiste una contrada Ruetta che trasferisce il nome a una piazzetta Ruetta ricavata dalle demolizioni degli edifici posti lungo l’attuale via S. Faustino. Il nome deriva dal diffuso toponimo rua (strada) poi rova e quindi Rovetta (piccola strada). In conseguenza della completa apertura del tratto sud di via San Faustino, la piazzetta scompare e si apre invece un primo slargo a nord della Loggia che assume il vecchio toponimo di piazza Rovetta. Ulteriori interventi demolitori si verificano nel 1904, con l’abbattimento del caseggiato su vicolo Cogome (caffettiere nel dialetto locale, dal latino cucuma), nel 1906 e nel 1939. Con quest’ultimo sventramento si libera completamente il lato nord del palazzo della Loggia, sfrattandone gli abitanti e relegandoli nelle periferie, per procurare la superficie necessaria alla costruzione di un edificio che ospiti gli uffici comunali, finalizzata alla ridefinizione della morfologia di buona parte del quartiere e al completamento della nuova immagine della città, iniziata con la realizzazione di piazza Vittoria. In questo modo scompare definitivamente la suggestiva gola urbana, al cui fondo scorre, scoperto, tra antiche case, il torrente Garza. Le progettate costruzioni non vengono realizzate poiché nel 1940 l’Italia entra in guerra e la realizzazione dei progetti urbanistici cede il passo alle esigenze belliche e piazza Rovetta mostra ancora oggi la sua origine caotica con la parete cieca a nord e l’informe quadro urbano sul quale continuano a esercitarsi numerosi progettisti. 

Nel 2001, durante l’amministrazione di centrosinistra guidata da Paolo Corsini, vengono installate nel lato sud una serie di panchine in pietra  bianca sui sedimi delle epoche precedenti e, sul lato nord, tra via Rua Sovera e via San Faustino, una struttura metallica, sotto la cui copertura, sorretta da colonne alte 8,42 metri, trovano posto le bancarelle degli ambulanti. 

Foto 4. La pensilina

(dal Giornale di Brescia online, 30 marzo 2016)

Si vuole in questo modo ricreare il profilo dei volumi degli edifici demoliti, limitandosi a suggerirne il volume e lasciando libero spazio alle tradizionali attività della piazza. Il costo dell’intervento ammonta a 270.000 euro e la pensilina suscita una serie di polemiche. Nel 2008 si insedia in città la nuova amministrazione di centrodestra di Adriano Paroli , la quale subito  propone di eliminare da piazza Rovetta, ribattezzata piazza Kabul, le panchine in pietra bianca,  “diventate un bivacco di perdigiorno”, frequentato soprattutto da cittadini extracomunitari,  suscitando non poche reazioni e polemiche da parte di diverse associazioni di supporto agli immigrati, sindacati e forze politiche,  che organizzano iniziative di protesta contro la decisione della Loggia. A dicembre, dopo che le panchine “contestate” sono state rimosse, durante una manifestazione di protesta alcuni attivisti del Magazzino 47, espressione della “sinistra antagonista”, sfidando la decisione di Palazzo Loggia, fissano al terreno tre panche in legno e ferro, che vengono però prontamente rimosse. L’anno successivo, il 2009, dall’altro lato della piazza spariscono prima i banchi dei commercianti, destinatari di un contributo comunale di oltre 100.000 euro, e poi, nel 2010, la pensilina. Smontare la copertura metallica e rimontarla al parco Pescheto comporta un pesante onere per le casse comunali: per smontarla e trasferirla nei magazzini comunali vengono spesi 80.000 euro; 22.000 euro per studiarne la ricollocazione al Pescheto; 51.000 euro per le opere di carpenteria necessarie a erigerla nel parco di via Corsica; 185.000 per le opere edili richieste dal progetto;  complessivamente 338.000 euro, che, sommati al contributo agli ambulanti, diventano oltre 438.000. La pensilina viene prima trasferita momentaneamente nei magazzini comunali e solo due anni dopo, nel 2012,  rimontata al parco Pescheto. Nel 2010 viene bandito un concorso d’idee da cui esce vincitore il «Cubo bianco» o aula studio (con un premio di 12.000 euro all’ideatore, 8.000 al secondo classificato e 6.000 al terzo), ma l’opera, che sarebbe costata 1,4 milioni,  non viene realizzata. Alla fine del 2012 si decide di allestire un teatrino di burattini destinato a spettacoli per bambini, rapidamente abbandonato a se stesso (40.000 euro). 

Foto 5. Il teatrino

(dal Giornale di Brescia online, 30 marzo 2016)

In sintesi: 270.00 euro per fare, oltre 504.000 per disfare, in totale oltre 774.000 euro di denaro pubblico. Nel 2013, con la giunta di Emilio Del Bono, Brescia, dopo la sua unica amministrazione di centrodestra, torna a una di centrosinistra, che, nel dicembre 2013,  smonta il teatrino per far spazio alla pista di ghiaccio per il pattinaggio,  allestita durante il periodo natalizio. 

Foto 6. La pista di pattinaggio

 (dal Giornale di Brescia online, 30 marzo 2016)

Nel gennaio 2014, il Giornale di Brescia, uno dei quotidiani locali propone, consultati i propri lettori, una piazza alberata con tavolini e bancarelle sotto i tigli. Nel 2015 la vicesindaca Laura Castelletti propone di trasformare la facciata spoglia di Largo Formentone in una palestra d’arrampicata, ma non se ne fa nulla. 

In copertina:

Piazza Rovetta alla fine degli anni ‘40




Le Terme di Diocleziano (parte seconda)

Le terme di Diocleziano, costruite in meno di otto anni tra il 298 e il 305 d.C., furono le più grandi tra tutte quelle realizzate a Roma e nel mondo romano (doppia estensione di quelle di Caracalla, costruite tra il 212 e il 217),) e le ultime ad essere costruite per il popolo (le terme di Costantino, più recenti, furono riservate a un pubblico limitato e selezionato).

Diocleziano fu imperatore dal 284 al 305 d.C. Era un illirico, poco colto, ma di grande esperienza militare, ereditò un impero minacciato da orde barbariche; da solo non poteva fronteggiare la situazione e associò al governo un suo generale, Massimiano, proclamato Augusto, affidandogli la difesa dell’Occidente e la sede a Milano, riservando a sé la difesa del fronte orientale. Il 303 Diocleziano e Massimiano fecero il loro ingresso trionfale a Roma su un carro trainato da elefanti, ma Diocleziano rimase a Roma solo 4 settimane, e non fece in tempo a vedere l’apertura delle terme.

Nell’ampia area in cui si estendevano, tra le attuali piazza della Repubblica, piazza dei Cinquecento, via Volturno e via XX Settembre, sono ancora visibili i resti. Per ottenere lo spazio necessario fu smantellato un intero quartiere con numerosi edifici privati e case d’abitazione, e fu utilizzato il lavoro di un enorme numero di cristiani. Tutto il complesso occupava una superficie di oltre tredici ettari; era racchiuso da un recinto rettangolare, e una grande esedra lo chiudeva dal lato opposto, fungendo probabilmente da teatro (da qui il nome della piazza, fino alla proclamazione della Repubblica). Oggi questa esedra è ricalcata dai due palazzi porticati che inquadrano via Nazionale. Poteva accogliere fino a 3000 persone contemporaneamente, e oltre a una piscina di 3500 metri quadrati, e ai classici ambienti delle terme, conteneva palestre, biblioteche, sale di studio, spazi deputati al divertimento e allo spettacolo, piccoli teatri, fontane, mosaici, pitture e gallerie d’arte, addirittura negozi. Assolveva quindi anche alla funzione di luogo di ritrovo e passatempo oltre che essere usato a scopi terapeutici.

Per l’approvvigionamento idrico fu costruita una diramazione dell’Acqua Marcia che faceva capo a un’ampia cisterna, distrutta tra il 1860 e il 1876 per la costruzione della stazione ferroviaria denominata Termini, toponimo derivato proprio dalla parola “terme” (a piazza dei Cinquecento sono ancora visibili grandiosi resti di nudi muri in laterizio).

Figura 1 Pianta delle Terme di Diocleziano

Legenda: 1 Calidarium. 2 Tepidarium. 3 Frigidarium. 4 Natatio. 5 Palaestrae. 6 Entrata. 7 Grande esedra.

Tecnologia degli impianti termali

L’invenzione non è romana, poiché pavimenti con canalizzazioni sotterranee per la circolazione d’aria calda sono noti in Grecia già nel terzo secolo a.C., ma i romani presero spunto anche dalle caratteristiche esalazioni di vapore diffuse nella regione flegrea. Si trattò di sostituire una fonte di calore artificiale a quella naturale delle fumarole e di immettere quel calore sotto i pavimenti degli ambienti balneari. Verso la fine della repubblica fu introdotto il riscaldamento col sistema detto hypocaustum (letteralmente “che scalda o brucia da sotto”): consisteva nella realizzazione di un’intercapedine pavimentale, che rendeva il pavimento sopraelevato (suspensura) su pilastrini di mattoni sovrapposti (pilae). Anche le pareti, attraverso l’utilizzo di particolari tegole o tubuli di terracotta, erano dotate di intercapedine (concameratio) dove circolavano i vapori caldi prodotti dalla fornace (praefurnium).

Le terme romane: usi e costumi

L’uso delle terme si ritrova già nell’antica Grecia, ma furono i romani a sviluppare un vero e proprio tipo di architettura, che diventò sempre più diffuso man mano che i costumi si allentavano: meno ci si dedicava all’impegno militare e a quello politico e più si andava alle terme.

Di solito ci si andava nel pomeriggio, alla fine di una giornata di lavoro. Le donne invece preferivano andarci di mattina. Ci si svestiva nello spogliatoio (apoditerium), si faceva un po’ di ginnastica nel cortile riservato (palestra), o nel gymnasium coperto e, dopo una buona sudata, si tornava nello spogliatoio, dove ci si faceva detergere il corpo con lo strigile, un raschiatoio ricurvo in metallo o avorio, e massaggiare con oli e unguenti profumati. C’era poi chi continuava con una nuotata in piscina (natatio), chi preferiva invece una sosta nel tepidarium, un’ampia sala dalla temperatura costante che immetteva nel calidarium, dove si trovavano la vasca con l’acqua calda e il bacile per le abluzioni. Adiacenti al calidarium erano il laconicum e il sudatorium, ambienti che possiamo paragonare alle attuali saune. Un tuffo nella piscina fredda, il frigidarium, concludeva il bagno. In questo modo, sudando, ungendosi e raschiando via le impurità dalla pelle, i romani, che non conoscevano il sapone, facevano un vero e proprio trattamento di pulizia, non solo, ma, alternando bagni caldi e freddi, provocavano nel corpo una reazione benefica.

Le terme divennero un appuntamento quotidiano: l’esiguo costo d’ingresso e in molti casi la completa gratuità ne consentivano l’accesso a tutti gli strati sociali: i meno abbienti trovavano qui sollievo alla loro vita di stenti, mentre i ricchi, pur disponendo spesso di terme private nelle loro case, non rinunciavano al piacere di condividere il momento del bagno con altri. Le terme divennero quindi col tempo un luogo di incontro, dove recarsi per curare il proprio corpo, ma anche semplicemente per conversare, conoscere gente: talvolta l’appuntamento alle terme costituiva addirittura un’occasione per sbrigare gli affari.

La clientela femminile

Tra i frequentatori delle terme non mancavano le donne, di tutte le classi sociali: le proprietà benefiche delle acque, la cura del corpo, i trattamenti di bellezza, divennero passatempo prediletto anche nel mondo femminile. In un primo momento, nell’osservanza del buon costume, gli impianti termali prevedevano una sezione maschile e una femminile, costruite a specchio, con un’unica fornace, o la regolamentazione dell’orario con turni diversi per uomini e donne; queste precauzioni però vennero meno con il tempo, suscitando talvolta l’indignazione degli scrittori, turbati da questa promiscuità.

La donna a Roma ha sempre occupato una posizione inferiore rispetto a quella dell’uomo; più libera di quella greca, era comunque sottomessa prima al pater familias e poi al proprio marito, doveva accudire i figli e mantenere la casa ed era totalmente esclusa dall’accesso alle istituzioni pubbliche. Nell’età imperiale, però, le romane cominciarono a fare meno figli e ad appropriarsi di tutte quelle occupazioni che in età repubblicana erano riservate agli uomini. In parecchie circostanze le donne dell’epoca imperiale proclamarono la loro parità di diritti, ma lotte e proteste femminili non ebbero, difatti, effetti rilevanti, dal momento che non miravano ad un’emancipazione in senso moderno: erano solo manifestazioni di donne ricche, dell’élite dominante, che si prendevano la libertà di gestire il proprio denaro, che osavano fare letteratura o esprimere pareri politici, giuridici o filosofici.  Le donne umili difficilmente ebbero modo di fare sentire la propria voce. Ma nell’ambiente termale tutte, ricche, potenti e serve, si illudevano di godere pari diritti rispetto all’altro genere e si comportavano come se quella parità fosse stata raggiunta. Accompagnandosi a donne del loro stesso ceto sociale, si dedicavano all’igiene personale e parlavano di trucchi, abbigliamento, o si confidavano pensieri nascosti.

Le terme di Diocleziano nella storia

Le terme di Diocleziano subirono il destino di tantissimi monumenti romani, spogliati per essere utilizzati nei secoli come cava di materiali edili per altre costruzioni, mentre le aule venivano adibite ai più svariati usi. Nell’età di Teodorico (493-526) le terme erano ancora in funzione. Un primo restauro fu condotto dopo l’invasione di Alarico, intorno al 470. Ma dopo la distruzione della città da parte di Totila, furono chiusi gli acquedotti (537) e cominciò per il complesso termale una lenta, ma inesorabile decadenza. Alcuni ambienti erano già stati cristianizzati: nel 499 veniva registrato un titulus, una primitiva ecclesia domestica, nella casa di Ciriaco, definita iunxta thermas.

Nel Medioevo le rovine diventarono meta di pellegrini che scrissero il loro entusiasmo al cospetto dell’antichità, come l’inglese Magister Gregory o il Petrarca, che all’amico Colonna descrive un luogo spazioso e silenzioso.

Dal Rinascimento in poi tornarono a nuova vita: alcune aule termali furono trasformate nella chiesa di S. Maria degli Angeli. Altre parti superstiti diedero vita alla chiesa di San Bernardo, il vasto complesso dell’ex convento dei Certosini occupato dal Museo Nazionale Romano, i vecchi Granai Clementini, l’ex Planetario, una facoltà universitaria e altro ancora.

 

In copertina. Donne romane nel frigidarium delle terme, da un dipinto di Lawrence Alma-Tadema

 




Polinesia francese: Bora Bora

Bora Bora – a parte il nome che ricorda Trieste e il suo vento – ci appare come un miraggio. Azzurrissimo. Dal mare emerge un arcobaleno insperato. L’escursione è programmata alle 11.15 e siccome siamo in rada non è possibile scendere prima dalla nave. Mi sento un ostaggio.

Mappa dell’isola

Saliamo sul truck, un camion con pianale attrezzato con sedili, addobbato con fiori e foglie, e facciamo il giro dell’isola, che è più grande di Moorea, più turistica, con alberghi per vip direttamente sul mare, nel senso che i bungalows sono poggiati su palafitte. Qualcuno ha il pavimento trasparente per vedere i pesci. Non mi attira dormire sull’acqua. Né mi piacerebbe essere a Bora Bora e vivere rinchiusa in un “ghetto”, sia pure di gran lusso, lontana dal mondo vero. Anche qui, colori da cartolina.

Foto 1. Paradiso subacqueo

Visitiamo una “fabbrica” di parei e una ragazza ci offre frutta e acqua, oltre a spiegarci la tecnica dei colori e dei disegni ottenuti giocando con foglie che danno il colore e figurine ritagliate da vecchi copertoni (tartarughe delfini sole luna felci ecc.). Immersi nell’acqua colorata, poi stesi su graticci al sole, con i pezzi di copertone che poggiati sulla stoffa creano ombre e disegni: una volta asciutti, i parei rivelano il loro fascino!

Ne compro alcuni, non so più quanti parei siano già accantonati in valigia…ma dall’Italia fioccano le richieste!

Comprare un pareo che ha i colori e i disegni tipici di questi luoghi non vuol dire soltanto avere in valigia qualcosa da regalare, ma aiutare queste ragazze che vivono insieme, nelle casette dove lavorano e vendono. Mi sussurrano che sono ragazze-madri o giovani vedove. Intorno qualche bambino, nessun uomo adulto. Sono dignitose, allevano i loro figli, lavorano onestamente e, sempre, sorridono, anche con gli occhi.

Foto 2. I colorati parei

Prima che finisca il giro ufficiale, ho il tempo di ferirmi al braccio destro sfregandolo con forza sul finestrino del truck. Il ragazzo che ci accompagna mi disinfetta, ma il bagno che andiamo a fare su una bella spiaggia è limitato per me: sembro una rotonda veterocomunista che si immerge con braccio levato e pugno chiuso! Il mare è molto calmo, meno caldo di ieri, popolato da tanti pesci, anche abbastanza grandi e colorati. E chiaro, trasparente fino alla barriera corallina. Poi diventa di un blu intenso.

Dopo, giro nei negozietti del molo e nuovi acquisti: monoi (olio per il corpo), saponi al tiarè, un bel tessuto bianco con disegni geometrici neri. Ne farò fare un tubino.

Anche qui, donne-uomo o uomini-donna e sempre l’interrogativo: sono condizionati dalla famiglia e dalla tradizione? Sono bisessuali? Hanno voce maschile e garbo femminile, capelli spesso raccolti in uno chignon e abiti colorati. Sono truccati/e con discrezione.

Queste isole da favola mi hanno fatto pensare ai francesi che le hanno colonizzate: sono stati bravi, le popolazioni sono tranquille e serene, sembrano ospitali e solidali, vivono in luoghi curati e rispettano i vecchi, i bambini e l’ambiente. A proposito, siccome la sepoltura dei morti in cimitero è costosa, molti seppelliscono i loro cari in giardino. Abbiamo visto parecchi esempi.

Foto 3. Cani in spiaggia

Altra cosa sono i grossi cani che circolano in libertà e fanno un po’ paura e i granchi robusti che scavano in terra le loro tane, da cui escono velocissimi per catturare fiori freschi (non per abbellire le tane ma per mangiarli). Dal truck abbiamo gettato fiori e foglie e subito sono emersi dal buio e hanno trascinato dentro il profumato bottino.

Foto 4. Granchi all’opera

La tappa polinesiana è finita: dei luoghi, delle persone, del truck e dei granchi rimane un ricordo luminoso e sereno.

 

 




Buenos Aires

Diluvia, ma non ci spaventiamo, quindi usciamo con i nostri ponchos dell’Ikea. Inarrestabili, raggiungiamo a piedi il centro percorrendo la strada diritta che dal Terminal passa davanti alla stazione ferroviaria e alla torre. Percorriamo anche una rotatoria pedonale aerea. Entriamo fradici nelle Galerias Pacifico, gigantesco e splendido centro commerciale che non avevamo mai visitato. Eppure è all’angolo con Florida ed è la quarta volta che siamo in questa città! È una bellissima struttura liberty, con grande cupola affrescata da artisti molto noti (qui), tre di origine italiana, uno spagnolo. Dobbiamo cambiare i dollari in pesos, sappiamo che un euro vale otto pesos. A un banchetto “ufficiale” non cambiano perché non abbiamo con noi i passaporti.  Chiediamo a un commesso che vende macchine fotografiche. Ci guarda in modo strano, poi a bassissima voce ci dice che può cambiare, ma “solo” uno a dieci. Ci sembra una proposta conveniente e allettante: ci guida in un corridoio, lontano da sguardi indiscreti, e ci porge i pesos. Lo ringraziamo di cuore, è stato veramente gentile e generoso! Continua a diluviare.

Foto 1. Galerias Pacífico.

Immagine di  Véronique Debord, tratta da Wikimedia Commons

Dopo cena decidiamo di andare in taxi da Maipù, che non è un locale dove si fa spettacolo, ma una sala dove gli argentini che amano il tango vanno a ballare. Con noi Rosanna, Zoran, il tedesco “che l’anno scorso ballava con la bionda” e una tedesca. Maipù si trova in Alsina, nella sede dell’Associazione Italiana.

Serata emozionante: i ballerini ballano con il cuore, con gli occhi, con le gambe che si allungano si girano si torcono si attorcigliano… scivolano con leggerezza e con intensità, regna l’armonia assoluta sul pavimento di legno. C’è una coppia giovane, lei con gonna rosso scuro, sono incantevoli, non distogliamo lo sguardo dalle loro teste accostate. Quelli che sembrano i “padroni di casa” ci accolgono baciandoci, vengono al nostro tavolo a farci compagnia, ci fanno sentire a casa. È questo il vero tango argentino, un ballo malinconico, teste vicine e corpi che non si sfiorano; nulla a che vedere con gli spettacoli dei professionisti per i turisti.

Foto 2. Cimitero di Recoleta. Evita Peron

Il giorno successivo ci aspetta la Buenos Aires ufficiale: Palermo, Recoleta (e il cimitero dove è sepolta Evita), Avenida 9 de Julio (ventidue corsie), Teatro Colòn (in platea duemila spettatori, tre sottopiani che ospitano camerini, magazzini ecc), Corrientes – la via che non dorme mai perché ricca di teatri e locali – Casa Rosada (da quando ho letto la biografia di Evita capisco molto di più!), Cabildo, Cattedrale e ricordo di Papa Francisco, Boca vivace e colorata, Puerto Madero con ponte di Calatrava (in copertina) – Ponte delle donne – e con tutte le strade dedicate alle donne (incredibile!).

Per l’elenco delle strade femminili di Puerto Madero consultare la pagina

http://www.nuevopuertomadero.com/?page=Vivir%3A%3ACalles&pagina=1&_s

Davanti alla Casa Rosada ci sono croci e manifestanti tranquilli: vogliono solo far sapere che sono i reduci della guerra delle isole Malvinas – o Falkland – o i figli dei militari morti. Per loro non è stato previsto nessun riconoscimento. Molte sono le donne rimaste sole, sempre pronte a combattere, come le madri e le nonne dei desaparecidos.

Buenos Aires è una grande e bella città europea: qui non c’è la confusione colorata del Brasile, né la signorilità tranquilla dell’Uruguay, ma si percepisce un senso di disagio, i portenostemono un colpo di stato, non si fidano della loro presidente, si parla del magistrato “suicidato” misteriosamente… in strada tanta polizia, centinaia di persone – soprattutto giovani – che offrono il cambio dei pesos. Ufficialmente, a un dollaro corrispondono 8.6 pesos; a noi l’impiegato delle Galerias Pacifico ha cambiato 1 a 10; altri ottengono 1 a 14, persino 1 a 16. Nel 1989, quando visitammo l’America latina con i nostri figli, più o meno la situazione era simile; l’inflazione correva così tanto che nei negozi cambiavano continuamente i prezzi. Facendo la fila al supermarket, il prezzo di un oggetto cambiava nel tragitto dallo scaffale alla cassa. Ci dicono che chi è figlio di italiani, chiede la doppia cittadinanza per sé e per i figli, per scappare in caso di necessità.

Foto 3. Casa Rosada.

Immagine di Lars Curfs, tratta da Wikimedia Commons

Se si prende un taxi, il taxista chiede ai passeggeri da dove arrivino: abbiamo l’aspetto straniero… Appena sentono “Italia”, si commuovono, raccontano di nonni partiti dai paesi poveri per la Merica, raccontano che tutto è cambiato, che ciò che producono viene esportato, che non mangiano più parrillada e bife de lomo, ma pollo, perché è più economico e si alleva in spazi ristretti.

Cammino per le strade e penso a Evita e al suo sogno, a Victoria Ocampo, intellettuale e viaggiatrice, che volle abitare non più in una grande casa simile a quelle europee, ma in una che fosse tipicamente argentina, circondata dal prato, dove i suoi ospiti potessero passeggiare e meditare.

 

 

 




Cagliari. Una guida di parità nasce a scuola

Una guida turistica al femminile colma ovunque un vuoto di oblio e di dimenticanza di tante donne che, con le loro azioni, con le loro scelte politiche, sociali e di vita si sono distinte in molti settori, contribuendo al progresso democratico e civile del nostro Paese. 

A Cagliari ci si è arrivate attraverso un lavoro didattico assolutamente originale. La guida proposta costituisce la sintesi di un percorso realizzato in tre anni dalla classe 5^A della scuola primaria Santa Caterina, che ha partecipato alle diverse edizioni del concorso nazionale Sulle vie della parità indetto da Toponomastica femminile.

Che cos’è la toponomastica? Questo il problema posto alle bambine e ai bambini che frequentavano la seconda classe. Semplici e divertenti le risposte date: è l’onomastico dei topi, è la domestica dei topi, è il topo che va in discoteca, è la città dei topi… Da qui è partita l’avventura nel mondo delle pari opportunità in generale e della toponomastica femminile in particolare e sono state passate al setaccio le vie e le piazze del quartiere per ricostruire la biografia delle donne che hanno avuto l’onore di un’intitolazione. 

Fig. 1. Città toponomastica

In terza il lavoro di ricerca è proseguito con lo studio delle figure femminili di un altro quartiere cittadino: il Villaggio Pescatori.

In quarta il tema delle pari opportunità ha portato la classe a verificare se fossero state rispettate, nel libro di grammatica in uso, le linee guida indicate nel codice di autoregolamentazione Polite, promosso in Italia dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per le pari opportunità. Dalla ricerca, rigorosa e oggettiva, scaturisce una consapevolezza: il genere maschile è maggiormente rappresentato rispetto a quello femminile, i ruoli attribuiti alle donne non corrispondono ai ruoli che oggi svolgono nella realtà, mentre a livello linguistico, l’uso del maschile inclusivo è pervasivo.

Fig. 2. Intitolazione a Joyce Lussu nel Villaggio Pescatori

Queste attività convogliano, nell’ultimo anno, nella produzione della guida. 

A partire dalla toponomastica si è dunque cercato da un lato di ricostruire la biografia di molte figure femminili più o meno note – Santa Caterina e Sant’Eulalia, Mercede Mundula e Grazia Deledda, Anna Marongiu Pernis e Maria Piera Mossa, Joyce Lussu e Rosa Luxemburg, Mafalda di Savoia ed Eva Mameli Calvino – dall’altro di conoscere il contesto storico in cui le strade e le piazze si trovano, per ricostruire la storia della città, del suo passato, dei suoi monumenti, delle donne e degli uomini che le hanno attraversate.  

Fig. 3. Ritratto di Mafalda di Savoia e Maria Piera Mossa

Viene presentato un sistema di itinerari studiati sulla base della specificità di ciascun quartiere e proposti alle viaggiatrici e ai viaggiatori attraverso un incontro dinamico, coinvolgente ed evocativo, in modo tale da tenere sempre desta la loro curiosità e la voglia di conoscere.

La guida presenta al suo interno diversi percorsi, ognuno dei quali, rappresentato da un colore specifico, corrisponde a un quartiere storico della città di Cagliari – Castello, Stampace, Marina, Villanova e Villaggio Pescatori. Bambine e bambini prendono per mano turiste e turisti per accompagnarle/i, passo dopo passo, in scenari ricchi di atmosfere e magie e nella storia millenaria di Cagliari, dalla fondazione da parte dei Fenici agli invasori che si sono succeduti nel corso dei secoli: Cartaginesi, Romani, Vandali, Bizantini, periodo Giudicale, Pisani, Aragonesi, Catalani, Spagnoli, Piemontesi.

Grazie Deledda nel testo poetico Noi siamo sardi, riportato nella guida, ben descrive le conquiste dei vari invasori che si sono avvicendati sul territorio isolano, evidenziando soprattutto la fierezza del popolo sardo.

Fig. 4. Bastione Saint Remy e Torre pisana

Il primo itinerario parte dal quartiere Castello, dove è ubicato l’istituto che le alunne e gli alunni hanno frequentato tutti i giorni da ben cinque anni.

Proprio davanti al piazzale scolastico si trova Via Bastione Santa Caterina, viene pertanto ricostruita la biografia della santa che ha dedicato tutta la sua breve vita ai poveri, agli ammalati e ai carcerati.

Cara e caro turista,

via Bastione Santa Caterina fa angolo con via Canelles. Se proseguiamo in direzione di Piazza Palazzo, arriviamo in una suggestiva piazzetta dedicata a Mercede Mundula, dalla quale si ammira un paesaggio mozzafiato che spazia dal quartiere Villanova, a Monte Urpinu, alla laguna di Molentargius.

Viene così ricostruita la biografia della scrittrice delle donne, Mercede Mundula che, come espressamente dicono bambine e bambini, “si è distinta ed è riuscita a fare cose che a quell’epoca poche donne si sognavano di fare”.

Mercede Mundula scrive articoli sulle figure femminili presenti nelle opere di Grazia Deledda, studia personaggi come Eleonora d’Arborea e Santa Teresa d’Avila, pubblica diverse raccolte di poesie, scrive su riviste per bambine e bambini e romanzi per adulti.

Fig. 5. Intitolazione a Mercede Mundula

Tra le “Curiosità”, che chiudono tutte le biografie, riportiamo ciò che l’artista scrive su Grazia Deledda, con la quale aveva intrecciato un’amicizia ventennale:

Grazia Deledda fu non solo scrittrice originalissima, ma donna singolare, e della specie più insolita, che è poi quella di non aver l’aria di esserlo; il che, per una donna che scrive, è fenomeno assolutamente raro.

La ventennale, fedele amicizia che mi legò a lei è stata anch’essa cosa originale. C’era fra noi come una tacita intesa: parlare poco di letteratura e molto dei fatti veri della vita, tanto che a voler dare un titolo alle nostre lunghe conversazioni sceglierei senz’altro questo: “Meditazioni sulle cose”.

Continua quindi il dialogo con la passeggiata nella rocca di Castello:

Gentile turista,

proseguendo in via Martini, dopo circa cinquanta metri arriviamo nella piazzetta dedicata a Mafalda di Savoia.

Attraverso fonti scritte, visive e iconiche, le scolare e gli scolari hanno ricostruito la biografia di Mafalda di Savoia. Ecco le loro parole:

Mafalda di Savoia era nata principessa con i camerieri e i servitori. Aveva come padre il re d’Italia e come madre Elena di Montenegro. Mafalda aveva un sacco di nomi. Si sposò con un principe tedesco che si chiamava Filippo.

Durante la seconda guerra mondiale, il re si alleò con i tedeschi che iniziarono a bombardare gli inglesi, allora gli inglesi, insieme agli americani cominciarono a bombardare i tedeschi.

Il re d’Italia, visto che voleva far finire la guerra, firmò un trattato di pace con gli americani, ma i tedeschi non volevano. Mafalda fu catturata dai tedeschi e portata in un campo. 

Gli americani e gli inglesi lanciarono bombe “a manetta”, una sfiorò Mafalda e le bruciò il corpo. Prima di morire disse: Ricordatemi come una donna normale.

Mafalda aveva sofferto molto, ma era molto coraggiosa e generosa e l’ammiriamo tanto. Hanno fatto bene ad intitolarle una piazza.

Fig. 6. Castello

Divertenti e interessanti le notizie inserite nella voce “Curiosità gastronomiche”. Ci sono, infatti, diversi tipi di alimenti che portano il nome di Mafalda: le Mafalde, un tipo di pasta caratteristico della Campania, la Mafalda siciliana, un pane tipico siciliano e la Mafalda di Galatina, un gelato artigianale del Salento (Puglia), a base di cioccolato. 

Ogni itinerario si conclude con la voce “Cos’altro potrete scoprire nel quartiere…”. Ed ecco che bambine e bambini indicano i monumenti e le bellezze artistiche e architettoniche presenti, ad esempio, nella rocca di Castello: torri pisane poste a guardia del quartiere, la monumentale Cattedrale di Santa Maria, il Bastione di Saint Remy dal quale si ammira uno dei paesaggi più suggestivi della città che abbraccia il mare, lo stagno, le montagne e l’entroterra; il tutto reso allegro e accattivante dai disegni realizzati “dal vero” da tutta la classe.

Fig. 7. Cattedrale

Appena superate le bianche mura che circondano il quartiere Castello, entriamo immediatamente nel quartiere Stampace, contraddistinto nella guida dal colore verde, scelto per la collocazione al suo interno dell’Orto Botanico. Qui ha inizio il secondo itinerario. E poi il terzo e il quarto.

All’interno della guida, è possibile rintracciare altri percorsi che arricchiscono le conoscenze: dagli itinerari turistici letterari – con le poesie di Grazia Deledda, Bertolt Brecht, Garcia Lorca, e gli scritti di Joyce Lussu e di Mercede Mundula – agli itinerari turistici storici che ricostruiscono la storia di Cagliari e dei suoi quartieri; dagli itinerari turistici paesaggistici, che spaziano dall’Orto Botanico al Bastione Saint Remy, dalla Laguna di Santa Gilla al Villaggio Pescatori, agli itinerari turistici archeologici e turistici artistici – con l’iconografia di Santa Caterina e di Santa Cecilia, le acqueforti realizzate da Anna Marongiu Pernis, la scultura di Pinuccio Sciola dedicata al grande pensatore Antonio Gramsci.

Fig. 8. Al lavoro

Di grande rilevanza, per la costruzione di un linguaggio di genere, sono gli itinerari turistici linguistici che si ricavano soprattutto dalle professioni svolte dalle donne delle quali è stata ricostruita la biografia: la turista, la visitatrice, la viaggiatrice, la poeta, la santa, la figlia, l’autrice, la scrittrice, la principessa, l’artista, la pittrice, l’arredatrice, la caricaturista, l’illustratrice, l’acquafortista, l’incisora, la botanica, la direttrice, la matematica, la chimica, l’insegnante, la regista, l’operaia, la documentarista, la partigiana, la traduttrice, la rivoluzionaria, la politica, la filosofa, la pacifista, la vergine, la martire. Le bambine e i bambini, applicando le regole della grammatica italiana, che consente sempre la declinazione al femminile di tutte le professioni indicate nella guida, utilizzano un linguaggio rispettoso delle professioni svolte dalle donne oggetto d’indagine, donne che offrono modelli diversi in cui identificarsi per costruire un’immagine positiva di sé e per aspirare a professioni di prestigio. 

Il prezioso lavoro al servizio della comunità, della cittadinanza e delle turiste e dei turisti – on line e sfogliabile – rappresenta un utile strumento per informarsi e orientarsi nei quartieri storici cittadini.

Realizzato dalle alunne e dagli alunni della classe 5^A del plesso di scuola primaria Santa Caterina e dalla classe 1^E della scuola secondaria di I grado di Via Piceno, Cagliari.

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La Valdinievole. Bice Bisordi, l’arte del ritratto nel XX secolo

La Valdinievole, incuneata nel cuore della Toscana, occupa un terzo del territorio pistoiese, lambendo a est i luoghi leonardiani dell’area fiorentina e a ovest la piana di Lucca. La valle appartiene al bacino laterale dell’Arno e vede scorrere nella parte centro-orientale la Nievole, che le dà il nome, e nella sezione occidentale la Pescia Maggiore e la Pescia Minore, che attraversano l’omonima cittadina dirette verso la splendida conca del Padule.

Alle spalle delle località di pianura, sorte in epoca relativamente moderna, si staglia una corona di suggestivi borghi collinari che meritano una visita: Larciano Castello, Montevettolini, Monsummano Alto, Montecatini Alto, Massa, Cozzile, Buggiano Castello, Uzzano. Anche Pescia, che costituisce il centro più esteso e popolato dell’area, dispone di un contorno di particolare fascino: le Dieci Castella che formano la Valleriana, detta anche “Svizzera pesciatina”. 

È proprio a Pescia che nasce e muore Bice Bisordi, una delle più importanti scultrici italiane del XX secolo, specializzata nell’arte nobilissima del ritratto, eseguito di preferenza in bronzo o in terracotta.  

Fino al 3 giugno scorso, il Comune ha ospitato nel Palazzo del Podestà, la mostra “La Scultura incontra la Scultura. Un omaggio a Bice Bisordi nel ventesimo anniversario della sua morte”, 

Finalmente Pescia si è ricordata della sua illustre concittadina, cui in vita fece una consistente donazione delle proprie opere (27 ritratti), al momento dislocate in varie sedi.

Foto 1.  Pescia, Palazzo del Podestà, o Palagio.

Ma chi era Bice Bisordi?  

Lo racconta Laura Candiani, nella sua guida di genere della Valdinievole, presentata all’Archivio di Stato pesciatino il  7 aprile, e alla Grotta Giusti di Monsummano Terme,  il 25 maggio (Le guide di Toponomastica femminile. La Valdinievole. Tracce, storie e percorsi di donne, Universitalia, 2018, pp. 163-167). 

Sicuramente – come scrive l’artista nelle memorie – Bice fu influenzata dall’attività del padre che aveva un laboratorio dove scolpiva il marmo e lavorava la creta; i tre fratelli (Carlo, Enzo e Tito) presto entrarono nell’azienda di famiglia, mentre la sorella Nella si occupava della casa e faceva la sarta; le due maggiori (Norina e Teresa) si erano diplomate maestre. Quest’ultima, sposandosi, andò a vivere a Montecatini dove la giovanissima Bice la seguì e aprì un piccolo studio in cui faceva ritratti a matita e iniziava a utilizzare la creta. La sua abilità non passò inosservata: i turisti, i villeggianti, specie americani, e alcune personalità di spicco (come la marchesa Ines Mauri Badò di Roma e Carla Balduzzi di Milano) cominciarono a credere in lei e a incoraggiarla. Fu così che Bice s’impegnò per essere ammessa alla prestigiosa Accademia di belle arti di Firenze, che raggiungeva ogni giorno con il treno. Si diplomò nel 1932 e nel 1935 poté esporre nella città natale, in una saletta presso il Caffè Pult, dove all’epoca si tenevano tre concerti al giorno. Il giornalista Vittorio Taddei fu il primo a scoprire ufficialmente il talento della scultrice e ne scrisse sul “Telegrafo”. Già si delineavano le caratteristiche che emergeranno e matureranno in seguito: la finezza psicologica (come nel ritratto La nipotina Licia), la fusione fra aspetto fisico e spiritualità (Adolescente), il gusto per il minimo dettaglio (Dorso di donna), la sensibilità nel tratteggiare i volti dei bambini (Putto, La Vita, Primi vagiti, Sorriso di bimba, Il Poema), la delicatezza nei ritratti di madri, il realismo non disgiunto dalla poesia (Scugnizzo in cui è evidente il richiamo all’arte di Vincenzo Gemito). 

Iniziò quindi una carriera prestigiosa, fitta di mostre, concorsi, riconoscimenti in Italia e all’estero; intanto Bice aveva allestito il suo studio all’interno dello stabilimento termale Torretta nel cui parco, durante la stagione estiva, suonava il pomeriggio un’orchestra e si esibivano i più noti cantanti. Qui ebbe l’occasione di conoscere e ritrarre Angelo Motta (l’industriale del panettone), Eduardo De Filippo, Angelo Borghi (proprietario dell’azienda di lane B.B.B.), il console generale Shard di Zurigo, mentre proseguiva l’attività dei ritratti “a memoria”, come il busto di J. F. Kennedy e i bassorilievi dei papi Giovanni XXIII e Paolo VI, oggi in Vaticano, per cui ottenne la medaglia d’argento del Pontificato. Critici, esperti, artisti parlano di lei e acquistano sue opere: Italo Griselli, Edgardo Mannucci, Pietro Annigoni, Piero Scarpa, Valerio Mariani, Gino Valori; anche personaggi dello spettacolo come Renato Rascel e Walter Chiari, di passaggio a Montecatini, le rivolgono apprezzamenti lusinghieri. 

Bice in seguito – sempre a Montecatini – aprì un nuovo studio sotto i portici del cinema-teatro Kursaal dove, passando, la si poteva vedere all’opera attraverso i vetri, spesso davanti a qualche modello in posa per un ritratto, mentre indossava il camice e un caratteristico basco sulle ventitré; intanto collezionava nuove mostre (Bologna, Roma, Milano, Forte dei Marmi, Lucca, Lugano), era ammessa in prestigiose accademie: Internazionale “Leonardo da Vinci”, ”Artes Templum”, ”Tiberina”, veniva segnalata nel catalogo Bolaffi ed era iscritta all’Album Europeo (1977). Il suo nome uscì dai confini italiani grazie al premio francese S. Raphael (medaglia d’oro per un ritratto di padre Pio nel 1973) e al riconoscimento del Parlamento Usa (1974). Bice realizzò opere di varia ispirazione, anche per farne dono a istituzioni; due ritratti di vescovi (Angelo Simonetti e Dino Luigi Romoli) si trovano nel Duomo di Pescia, mentre un bassorilievo che raffigura i coniugi e benefattori Alcide e Matilde Nucci venne donato all’ospedale cittadino.                                

Nonostante una certa dispersione, inevitabile per una ritrattista che lavora per precisi committenti, un discreto nucleo di ventisette opere fu donato alla città di Pescia per fornire una visione complessiva dell’artista, «libera interprete delle forme moderne, nel suo linguaggio realistico» (A. Corsetti), «una delle poche eredi del purismo e del romanticismo plastico», di «acutezza penetrante» e «spiritualità vibrante» (Gino Valori). Tuttavia le sculture oggi non hanno una collocazione unitaria. 

Quasi novantenne venne convinta a scrivere le sue memorie in cui racconta, con umiltà e gratitudine, la sua lunga carriera e il dono prezioso dell’arte; il piccolo libro – ricco di documentazione fotografica – fu presentato a Pescia nella sala consiliare del Palazzo comunale nell’ottobre del 1993.

Bice Bisordi è morta a Pescia il 5 maggio 1998.

Dopo l’evento appena concluso e la pubblicazione della guida, che restituisce visibilità a Bice Bisordi, alle sue opere e alle molte donne della valle che hanno lasciato un segno nella storia e nella cultura dei luoghi, ci si augura che le opere dell’artista trovino finalmente una collocazione unitaria e degna della loro qualità. 

In copertina. Bice Bisordi, Il Poema, Madonna con il Bambino

l prossimi appuntamenti con la guida La Valdinievole. Tracce, storie e percorsi di donne sono già fissati: il 19 settembre alle ore 10 il libro sarà presentato all’interno del programma “Biblioterme” nello stabilimento termale Tettuccio a Montecatini, mentre il 23 settembre farà parte dei novanta libri protagonisti di una originale tombola presso la Biblioteca Forteguerriana di Pistoia, nell’ambito di una vera e propria festa della storia e della cultura locale.




Tonga, “Patria dell’amore”

Siamo a Nuku’Alofa, la capitale di questo regno sperduto nel Pacifico. Scendiamo dalla nave e ci accolgono con canti e danze, c’è anche una banda formata da ragazze in divisa. A tutti i passeggeri mettono una collana di piccoli fiori arancioni al collo. Carina, ma punge. Me la metto in testa come una coroncina.

  1. Carta di Tonga

Il nome di questa capitale, che conta meno di duemila abitanti (1000 adulti e 700 bambini) vuol dire “Patria dell’amore”. Io e Piero andiamo verso il centro, troviamo un mercatino per turisti e poi un mercato vero, con frutta verdura e oggetti di paglia che servono ai tongani per la vita quotidiana. Le donne indossano un gonnellino di foglie intrecciate a striscioline: è il segno del rispetto che ci portano, il gonnellino si usa nelle occasioni importanti. Gli uomini usano una gonna nera tipo pareo sulla quale avvolgono una stuoia. Prima di fotografare un bambino che è con la mamma al mercato, chiedo il permesso. La mamma, felice, chiama anche gli altri tre figlioletti, se li stringe e sorride: fotografo il bel gruppo famigliare. L’escursione si fa in scuolabus, un po’ rannicchiati. La guida è una ragazza di 26 anni, si chiama Eunice Pongipongi, ci racconta esprimendosi in un buon italiano di aver studiato in Nuova Zelanda e di vivere ora sull’isola con marito e figlio. Conosciamo il bimbetto perché una sosta si effettua nel luogo dello sbarco di Cook, dove c’è un banchetto con souvenirs: la madre di Eunice è la venditrice, il piccolo Joe si attacca alle gambe della mamma. Nel corso dell’escursione vediamo qualche palazzo reale, anche quello dove abita la regina madre, la Chiesa cattolica di Sant’Antonio, le tombe reali e alcuni cimiteri.

2-3 Al mercato

Qui al cimitero sono sepolti i poveri, i ricchi hanno nei loro giardini più degna sepoltura. I tumuli di terra sono addobbati con fiori e teli colorati, più o meno preziosi. Uno è abbellito con un copriletto damascato bianco. Eunice ci dice che quando muore qualcuno, i parenti meno vicini provvedono al pranzo dei parenti stretti. Se non c’è il tempo, ci si rivolge a un’impresa di catering che pensa a tutto e che mette a disposizione anche ampi spazi. Insomma, il funerale diventa occasione di incontro per persone che magari non si vedono da molto tempo (anche se su un’isola così piccola mi pare strano…) o che invece tornano dalla Nuova Zelanda o dall’Australia.

  1. Cimitero

Le case sono di proprietà di chi le abita, i tetti sono coperti di foglie dell’albero del pane. I giardini sono curatissimi. Il re regna, con un parlamento formato (ci avrei scommesso!) da soli uomini. Regime assoluto. Le donne ballano con il corpo unto di olio di cocco. Se si tratta di ragazze, si attende che l’olio goccioli insieme al sudore: sarebbe la prova della verginità della ballerina. Io ho l’impressione che in questo regno gli unici a non avere problemi siano i reali e i loro adepti. Intorno mi sembra di vedere una dignitosa povertà, per nascondere la quale uomini e donne ostentano denti d’oro, anche da giovani.

L’isola è piatta, niente colline e piccole valli verdi come in Polinesia. Però c’è un trilite, una porta in pietra costituita da tre massi. Forse è uno strumento per misurare il tempo o i solstizi, evoca Stonehenge. È del 1200 circa.

  1. Trilite

Dopo essere stata a Papeete, Moorea e Bora Bora, questa impronunciabile capitale mi lascia indifferente, o forse no, è un mondo ancora primitivo che cerca di attirare turisti… e non sa che, dove arrivano i turisti, muore l’autenticità, almeno un po’.