Brisbane

Altra città australiana, ricca di verde e di strade ampie e ben tenute, con un’aria un po’ retrò, palazzi vittoriani da un lato e grattacieli modernissimi dall’altro. Vi abitano due milioni di persone e la rendono la terza città più popolosa dell’Australia; è dalla metà del 1800 la capitale del Queensland, attraversata dal fiume Brisbane, un fiume ampio e calmo, percorso da battelli. Questo nome comune alla città e al suo fiume ricorda Sir Thomas Brisbane, il governatore del Galles del sud dal 1821 al 1825. In quegli anni fu anche una colonia penale. In tempi più recenti, cioè durante la seconda guerra mondiale, fu il quartiere generale del Pacifico sud occidentale, retto dal generale Mac Arthur.

 Foto 1. Gallery of Modern Art

Dal terminal abbiamo raggiunto il centro con lo shuttle bus. In realtà ci aspettiamo una città un po’ campagnola perché abbiamo letto che i primi immigrati non reclusi erano contadini, ma ci rendiamo subito conto che politici e industriali non gradivano una immagine “paesana”. Dopo una passeggiata gradevole, tra bei negozi e gente tranquilla, visitiamo la ricca Gallery of Modern Art, dicono che sia la più importante del Paese sia per la gran quantità di opere d’arte internazionali, sia per la presenza massiccia di opere degli artisti indigeni;  facciamo una sosta veloce ai Colective Markets dove si trova proprio tutto, dai vestiti ai gioielli di artigianato artistico locale fino ai pezzi di antiquariato che una volta arredavano le case dei ricchi europei. Un gustoso momento lo dedichiamo al cioccolato…veramente squisito!

Foto 2. Mercato a Brisbane

Altro giorno di sosta, altro tipo di escursione: ce ne andiamo a Lone Pine, il cosiddetto santuario dei koala. Ce ne sono tanti, morbidi come un peluche, distesi pigramente sui rami di eucalipto. Sembrano piccoli uomini stremati falla fatica.

Foto 3. Koala a Lone Pine

Sostiamo sotto un tetto di paglia per la foto di rito: mi mettono un koala fra le braccia ed io sono colpita dalla lunghezza delle sue unghie. Dunque la foto, scattata velocemente, rivela la mia preoccupazione, anche perché indosso un vestito di cotone leggerissimo e senza maniche. Non succede nulla, restituisco il koala e procedo nel parco, dove incontriamo il dingo, il diavolo di Tasmania dagli occhi cattivi, gli emu, qualche serpente e tanti tanti canguri, alcuni alti quasi due metri, che saltano come se danzassero. I più carini sono i wallabies, piccoli e teneri, che accettano volentieri il cibo dalle mani dei visitatori. 

 Foto 4 e 5. Dingo e Diavolo di Tasmania

E’ un parco, non uno zoo, gli animali sono liberi (tranne quelli pericolosi come dingo e diavolo di Tasmania) e abituati al contatto con gli umani. Si dice che in Australia ci siano più canguri che australiani. La nostra guida ci dice che ne viene abbattuto un buon numero, secondo criteri – poco condivisi dalla gente – di eliminazione controllata. Usciti dal parco, ne vediamo alcuni morti per strada, perché investiti da auto e bus.

In genere Brisbane ha un buon clima; noi però sentiamo tanto caldo, un caldo umido e fastidioso. Al ritorno in città, altra passeggiata, degustazione di birre locali e poi…tutti a bordo.




La Gallura che non ti aspetti. Percorsi alternativi fra mare e monti Itinerario costiero. Da Porto Liscia a Vignola

La Gallura (Gaddura in gallurese, Caddura in sardo) è la parte all’estremo nord della Sardegna e costituisce una regione storica e geografica comprendente 23 comuni in provincia di Sassari, dopo che la LR 2/ 2016 ha abolito le province nate nel 2001. Il nome ha una origine incerta; secondo alcune teorie deriverebbe da una popolazione seminomade preromana, per altre dal gallo sullo stemma pisano dei giudici Visconti, oppure sembra significhi “rocciosa, sassosa” e in effetti – sia nella parte propriamente costiera sia nell’interno ricco di rilievi montuosi –  le conformazioni bizzarre delle rocce rendono questa area straordinariamente pittoresca. Una terra aspra, spesso battuta dal maestrale, come la vicinissima Corsica con cui ha molte somiglianze (anche linguisti-che), ma piena di colori e profumi, specie durante la primavera. 

La storia ha lasciato profonde tracce che precedono la civiltà nuragica: questa terra fu abitata dall’uomo fin dal neolitico e la sua posizione certamente favorì gli scambi con il continente, passando attraverso l’arcipelago toscano: doveva essere infatti il corridoio dell’ossidiana e della ceramica, l’oro nero e l’oro bianco dell’antichità. Qui si trovano nuraghi importanti, tombe, siti in parte ancora da studiare; i Romani – mai del tutto tranquilli in Sardegna e circondati dal pericolo costante di rivolte – trovarono il modo di sfruttarne l’abbondanza di granito. I Pisani lasciarono evidenti impronte nell’architettura religiosa e gli Aragonesi nelle imponenti strutture difensive. I Piemontesi – con i loro ingegneri militari – hanno tracciato l’urbanistica di alcune cittadine, come Santa Teresa, costruite a scacchiera con le strade perfettamente rettilinee che si incrociano, mentre le case talvolta mantengono la tipica struttura gallurese a un solo piano, come a San Pantaleo. Oggi è una delle aree con il più alto reddito pro-capite della Sardegna grazie a una florida economia in parte ancora agro-pastorale e all’importante risorsa del turismo.

Proprio di questo vogliamo parlare, e in modo alternativo, visto che spesso – quando inizia la stagione delle vacanze – la Sardegna del nord viene identificata solo con le località alla moda, visitate dai personaggi che affollano le pagine dei rotocalchi. Saltiamo dunque tutta la fascia costiera da Olbia fino a Isola dei Gabbiani, nonostante ambienti magnifici e panorami mozzafiato non manchino certo, per approdare su una spiaggia lunghissima e poco frequentata, anche in pieno agosto. Si tratta di Porto Liscia a cui si arriva con una strada asfaltata, circondata da arbusti e vegetazione mediterranea; il parcheggio è grande e gratuito.

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Foto 1. Porto Liscia

Lo sguardo si posa su una sorta di immenso lago visto che di fronte abbiamo le isolette dell’arcipelago Spargi e Spargiotto e ai lati due promontori. Passeggiare è una bellezza, fra mare piatto e bassi cespugli. 

Proseguendo in direzione di Santa Teresa – lungo la strada 133 bis – si trovano le deviazioni verso altre spiagge; curioso a Conca Verde il richiamo nell’odonomastica  ai personaggi dell’Odissea. Porto Pozzo, qui vicino, sarebbe infatti il mitico paese dei Lestrigoni, giganti antropofagi che distrussero la flotta di Ulisse e uccisero tutti gli uomini, eccetto quelli della sua nave, rimasta fuori dal porto. Ancora più bella e ampia è la valle dell’Erica, una sorta di baia ben protetta circondata da scogli. Affacciato sulle Bocche di Bonifacio, il capoluogo Santa Teresa di Gallura – che proprio in pieno centro ha la rinomata Rena Bianca (sempre affollata) – merita una sosta  per ammirare la bella torre spagnola di Longonsardo, i resti dell’antico mulino, la chiesetta di Santa Lucia, i giardini ben curati, le piazze accoglienti, il porticciolo turistico. Da qui non si può non raggiungere Capo Testa che offre molteplici motivi di interesse: percorsi naturalistici, il sito archeologico Lu Brandali, calette nascoste e un imponente faro; in questo luogo le stupefacenti conformazioni di granito modellate dal vento fecero esclamare al celebre scultore Henry Moore: «Ho trovato chi sa scolpire meglio di me!» Lungo l’istmo, sulla spiaggia delle Colonne (o di zia Colomba), sono ancora ben visibili gli abbozzi di quelle abbandonate dall’epoca romana, là dove ora giocano i bambini in acque calme e limpide come meravigliose piscine naturali.

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Foto 2. Spiaggia delle Colonne

Lungo la strada costiera, in direzione Castelsardo, si incontra una breve deviazione per raggiungere una spiaggetta suggestiva e poco frequentata, anche perché spesso ricoperta di alghe (ma va ricordato che la posidonia non è un rifiuto: è infatti  una protezione naturale dall’erosione costiera): Lu Pultiddholu. Grazie a sentieri non difficili, si possono fare, da entrambi i lati della baia, passeggiate in cui si ammirano scoglietti, minuscole insenature, mille sfumature di azzurro.

Ma da ora in poi inizia la vera meraviglia: il sito di importanza comunitaria “Monte Russu” di 1.989 ettari di cui circa 300 ancora nel comune di Santa Teresa e 1.000 nel comune di Aglientu, mentre  il resto è  lo spazio marino antistante. 

Foto 3. Monte Russu

Quel tratto di costa incontaminata, fra baie, scogliere e lunghe spiagge orlate da dune – dove non esistono costruzioni nella fascia fra strada e mare – ha fatto affermare al giornalista Beppe Severgnini, abituale frequentatore: «ancora oggi penso che i venti chilometri tra Santa Teresa e Vignola siano il tratto di mare più spettacolare, affascinante –  e rispettato –  del Mediterraneo». Ecco allora il susseguirsi della Liccia, di Rena Majore, della spiaggia di Matteu, e poi: cala Pischina, Monte Russu, Naracu Nieddu, Riu Li Saldi. Tutto il percorso si può fare a piedi, interamente o a tratti, grazie ad un sentiero che si snoda fra ginepri e corbezzoli, fra cespugli di mirto e di lentisco, fra fiori profumati e dai colori più vari: il bianco del giglio marino, il giallo del papavero delle spiagge, il rosa acceso del cisto, il fucsia del  fico degli ottentotti, il verde intenso della palma nana.

Foto 4. Rena di Matteu

La baia sabbiosa di Vignola si annuncia di lontano con la chiesetta di San Silverio e la torre, in posizione dominante, preceduta dalla spiaggia detta Saragosa (o Chisgjnaggju) e seguita dalla spiaggetta sul versante opposto, meno frequentata, vicina al nuraghe Tuttusoni; anche qui sono possibili vari percorsi pedonali, senza difficoltà e affascinanti. Salire verso la possente torre di avvistamento – in copertina – realizzata in blocchi di granito, costituisce un’ulteriore esperienza: il silenzio è totale, anche se i bagnanti sono a pochi passi; si cammina fra farfalle e lucertole, nel ronzio degli insetti e il frinire delle cicale, e intorno ancora vegetazione spontanea, mentre il gabbiano corso e i cormorani  volano alla ricerca di cibo, pronti a tuffarsi. Il nostro percorso costiero si conclude in bellezza e armonia, anche se continua sulla carta geografica fino ai confini della Gallura e oltre. 




Melbourne

Nel 2013 arrivammo a Melbourne dopo un volo faticoso; che fosse lungo, lo sapevamo… ma ignoravamo che nella fila davanti a noi avremmo trovato una giovanissima mamma con una bimba di pochi mesi. Pianse per tutta la durata del viaggio, benché la mamma cercasse di cullarla, di darle il biberon, di farla “camminare” nei corridoi… Dunque, scesi dall’aereo, avremmo solo voluto dormire, invece la città ci accolse all’alba: l’aria era così tersa e luminosa che la stanchezza (con il nervosismo) sparì. Eravamo preparati a trovarci in una città grande – ma non come Sidney – e vivace, attraversata da un lungo fiume, abitata da genti provenienti dai Paesi più diversi, attenta alle politiche giovanili, ricca di verde e di attività culturali. Tutto vero, ma “di più”. Ci piacquero le strade e le piazze che conservavano – più di Sidney – elementi europei; ci affascinarono i bianchi discendenti dei britannici, i gialli, i neri, tutti ugualmente sorridenti e cortesi, pronti a cedere il posto in tram, a indicarci la direzione ecc. ecc. Quando partimmo, dicemmo che saremmo ritornati. Promessa mantenuta!

Quattro milioni di abitanti convivono civilmente, accolgono gli studenti che arrivano da tutto il mondo nella “città letteraria” dell’Unesco, una delle città più vivibili del mondo. Il fiume Yarra è percorribile con battelli, i vari quartieri sono ben collegati con il centro, con la grande Federation Square, dominata dalla Stazione, dalla Cattedrale e dal grande Centro Visitatori.

FOTO 1. Melbourne Museum

Prima tappa è il Melbourne Museum, ricca collezione di manufatti che raccontano la storia dello Stato di Victoria, di cui Melbourne è la capitale. L’esposizione è ricca e ben organizzata, si vedono gli animali, le piante, le abitazioni, le armi, gli utensili del passato più lontano, e si può approfondire ogni aspetto della civiltà aborigena con strumenti moderni, adatti soprattutto alle numerose scolaresche che incontriamo. Ma noi abbiamo l’appuntamento con Francesca e Virginia, due giovani giornaliste italiane che ho conosciuto per motivi di lavoro, quindi, dopo una visita piuttosto breve, ci precipitiamo a prendere il mitico tram 35, quello che attraversa il centro città ad uso dei turisti e dei residenti. È un tram “storico”, la corsa è gratuita. Arriva, saliamo contenti, una signora ci fa posto, ci sediamo e poi… rumori sinistri, il tram non parte e noi scendiamo. Vorremmo prenderne un altro, che è già arrivato, ma è bloccato dal nostro. Quindi, a piedi – anche a Melbourne ci sentiamo di casa – raggiungiamo Federation Square, incontriamo le due amiche, pranziamo insieme al ristorante giapponese che è sulla piazza, nel cuore della città, nello stesso modernissimo fabbricato in cui ha sede la radio per cui Francesca e Virginia lavorano, la SBS. Queste due giovani donne dall’Italia sono arrivate quaggiù, all’altro capo del mondo: sono serene, lavorano bene, rispettate e adeguatamente retribuite. Virginia ha due bimbi, ma gli asili funzionano e lei non ha problemi; la radio per cui lavora le consente di utilizzare orari flessibili. E così anche suo marito, che lavora altrove, ma trova nella sua azienda uguale comprensione. Ci raccontano che si trovano bene e non hanno intenzione di tornare. In Italia si recano una volta all’anno, in genere tra luglio e agosto. Qui la vita a loro sembra più “facile”, i mezzi pubblici circolano regolarmente rispettando gli orari; dalle 5 p.m. sono libere, incontrano gli amici in un clima familiare e informale. Alla loro radio, lavorano tanti giovani che arrivano dai luoghi più disparati, si sentono come in famiglia. La gente è serena, non c’è disoccupazione e lo stato sociale esiste davvero. Io e Piero le ascoltiamo molto volentieri, mangiamo il gyu tataki nigiri, ma rifiutiamo decisamente le bacchette. Intorno a noi, tante persone che vanno e vengono, gruppi di studenti che si fermano sul muretto che circonda il centro visitatori, bambini che giocano… voci sommesse, nessuno disturba.

Famous Landmark of Architectural Building Design at Australian Federation Square in Melbourne.

FOTO 2. Federation Square

Dopo pranzo Francesca ci fa salire alla radio: è un insieme di “isole”, da ciascuna delle quali si trasmette in una lingua. Le “isole” sono 74, quanto le lingue. Dunque, c’è il mondo. Questa è secondo me la dimensione di Melbourne, una città dal sapore europeo, aperta a tutti.

Salutate le amiche, il nostro giro continua; ogni tanto bisogna pure dedicarsi allo shopping: compriamo quattro bottiglie di vino e, passeggiando nel verde, troviamo il bus che ci porta a bordo.

 

 




Sydney

Entrare nella baia di Sidney è un’emozione che ho già provato, eppure sono sul ponte a prua per accostarmi a questa grande città rivedendo le sue baie, il grande ponte – Harbour bridge – su cui sportive e sportivi salgono e l’Operahouse, quel meraviglioso insieme di gusci bianchi opalescenti che sembrano conchiglie o vele, che si riflettono nel mare e si moltiplicano…

  1. Harbour Bridge

Purtroppo non attracchiamo in porto, perché ci sono altre grandi navi; dunque ci ancoriamo in rada e, per scendere a terra, dobbiamo aspettare in fila che ci sia posto sul tender. Una volta arrivato il nostro turno, ce ne andiamo in centro, percorriamo come due vecchi residenti George Street e ritroviamo prima le Arcades e poi lo spettacolare Victoria Building: entrambe sono strutture vittoriane restaurate splendidamente e diventate raffinati centri commerciali. Ci sono bar e cioccolaterie, negozi di abbigliamento e antiquariato, di giocattoli e accessori, wifi free. Perciò ci fermiamo a lungo per comunicare con il nostro mondo degli affetti e delle amicizie. Nelle Arcades il wc è così raffinato che lo fotografo! Il Victoria Building è più grande, con ampi spazi e scale armoniose, vetrate colorate e grandi orologi. Non mi interessano i negozi, mi piace il riutilizzo intelligente di un vecchio mercato e la gente che va e viene, prende il the, conversa pacatamente.

  1. Victoria Building

Usciamo dopo cena, solita difficoltà di tender e tempo perso. Questa volta ci sbarcano ai Rocks, un porto vicino al centro, sul quale si affacciano bar e ristoranti affollati, sorvegliato dall’alto dal famoso ponte di ferro. Passeggiamo e arriviamo di fronte al Luna Park. Quelli che una volta erano magazzini del porto, sono diventati locali di tendenza, c’è tanta gente che mangia. Dalle sale interne di uno di questi, si sente musica e scopriamo che si festeggia una coppia di sposi. Vediamo anche alcuni invitati ballare. Poi, infreddoliti, torniamo in nave. Il tender è affollato, ci tocca andare al piano superiore coperto, ma aperto ai lati.

Il secondo giorno, da soli, ci muoviamo per le strade di Sydney con grande disinvoltura.

Arriviamo fino alla grande chiesa che sembra chiudere la parte occidentale della città, entriamo e ci sediamo: sotto l’altare un gruppo di giovani studentesse in divisa scolastica suona e canta; nel primo banco alcune mamme osservano felici e compiaciute. Noi chiediamo il permesso di fermarci. Arrivano le classi, ragazzi e ragazze si dispongono nei banchi, seguono lo spettacolo, cantano anche loro sottovoce, applaudono. Niente chiasso o gomitate né cellulari fra le mani.

Raggiungiamo il quartiere cinese, dotato di grandi porte e ricchissimo di negozi a prezzi convenienti, ristoranti e uffici di cambio. Visitiamo anche il mercato Paddy, struttura esterna in mattoni rossi, bella e suggestiva; all’interno è un modernissimo centro commerciale cinese. Guardo un po’ di merce ma sinceramente mi sembra scadente, soprattutto l’abbigliamento.

  1. Chinatown

L’idea che mi sono fatta di Sidney è che si tratta di una meravigliosa grande città dove la qualità della vita è sicuramente buona: non c’è il traffico caotico delle nostre città, mi dicono che chi vive fuori  e vuole andare in centro, si muove velocemente con i battelli che collegano le varie baie. Per le strade non si vedono mendicanti, ma qualche aborigeno che suona il didgeridoo, una specie di lunga “tromba” ricavata da un ramo di eucaliptos già scavato dalle termiti e ritenuto sacro dai residenti.

Proseguiamo poi per Bondi Beach, a pochi chilometri da Sidney, oggi luogo del surf, un villaggio costiero con lunga spiaggia ventosa, una volta abitato da immigrati europei. Dobbiamo ripararci nella casa dei surfisti per evitare che la sabbia, oltre a entrarci in bocca, negli occhi e nelle orecchie, rovini gli obiettivi di Piero. Pare che la parola Bondi sia di origine aborigena e indichi l’acqua che arriva sulla sabbia. A volte le onde sono altissime e pericolose; si racconta che negli anni ’30 del secolo scorso in un sol giorno morirono cinque bagnanti e altri duecento furono miracolosamente strappati alla furia del mare.

  1. Bondi Beach

La permanenza a Sidney volge al termine: questa città mi affascina con le sue tante baie, i grattacieli che si inseriscono “naturalmente” fra palazzi liberty, quell’insieme di gusci perlacei che è l’Operahouse, la gente che si muove con ordine, le razze che si incrociano in una convivenza ovvia, naturale, civile. E pensare che i primi abitanti deportati sulla grande isola dall’Inghilterra erano dei galeotti!

 

 

 

 




La musealizzazione degli spazi urbani

Roma è un grande arcipelago, di cui ogni unità ha connotazione sua propria, correlata alle altre tramite una fitta rete di flussi, funzioni e servizi. 

Residenti e ospiti, oggi entrambi multietnici, ne attraversano i nodi e ne percorrono le maglie modificando aspettative e domande culturali.

Se da un lato l’espansione residenziale converte in viaggiatore/viaggiatrice ogni cittadino/a che quotidianamente attraversa lo spazio urbano, dall’altro il/la gitante propriamente detto/a non si limita a visitare le mete classiche della città, ma insegue emozioni anche in luoghi solitamente estranei al fenomeno turistico.

Le singole isole reagiscono riorganizzando gli spazi e diversificando le offerte: il grande cinema si scompone in multisala, le pareti dei bar si foderano di libri, gli internet caffè sostituiscono le cabine telefoniche, l’hinterland accende i riflettori.

I luoghi della cultura dismettono gli abiti classici adottando un nuovo look formale, moltiplicano le funzioni dilatando gli orari di apertura e generano nuovi nuclei periferici, spesso legati a manufatti in disuso. Il museo, coinvolto in un nuovo gioco di relazioni tra struttura, collezioni e pubblico, si fa errante e vaga alla ricerca di sedi alternative, invadendo le piazze, le strade, i giardini e i grandi templi dell’archeologia industriale. 

Zaha Hadid ha destrutturato e ampliato una caserma del quartiere Flaminio per realizzare il MAXXI (Museo Nazionale delle Arti del XXI secolo), un ‘campus urbano aperto alla circolazione pubblica’, dove la piazza esterna, integrata nel quartiere, sovrappone spazi espositivi e luoghi di distensione; l’affascinante contesto espositivo della Centrale Montemartini (in copertina) è nato dalla riconversione di una centrale elettrica ottocentesca sita sulla via Ostiense e nei vecchi mattatoi di Testaccio ha trovato ambientazione l’arte contemporanea del MACRO (Museo d’Arte Contemporanea di Roma).

Al crescere del livello culturale medio, non solo Roma, ma ogni metropoli occidentale ha sentito il bisogno di musealizzarsi.

Foto 1. MAXXI

Foto 2. MACRO Testaccio

Parigi ha osato per prima, nel 1976, erigendo il Centre George Pompidou sulle ceneri dei maleodoranti mercati del Beaubourg, e ha continuato, dieci anni più tardi, riconvertendo un’antica stazione ferroviaria nel Musée d’Orsay e gli antichi mattatoi de La Villette in centro culturale polifunzionale e polimorfico, con annessi musei della scienza e della musica; a seguire, sono stati i depositi portuali di Bercy a permearsi di cultura, per essere emulati, di lì a poco, dai malfamati docklands londinesi. Anche la storia sociale si fa largo tra le strade parigine e porta allo scoperto le tradizioni artigianali, sotto le volte ristrutturate del Viaduc des Arts, che ribadisce l’identità artigiana del dodicesimo arrondissément.

Foto 3. Bercy

Foto 4. Viaduc des Arts

La capitale britannica ha raccolto la sfida inaugurando la Tate Modern, sulle rive del Tamigi, ove reimpiega la vecchia centrale elettrica. Nel frattempo, a Berlino, un’altra stazione (l’Hamburger Bahnhof) diventa spazio espositivo, ma la città tedesca è già musealizzata in una forma sua propria e atipica, in cui la storia e l’arte, fuse un un’unica musa ispiratrice, hanno suggerito la più lunga galleria a cielo aperto mai esistita: nella East Side Gallery, lungo il corso della Sprea, oltre cento murales di artisti d’ogni dove raccontano un trentennio di ossessiva presenza del Muro, trasformandone i tronconi in un colorato memoriale alla libertà.

Foto 5. Tate Modern

Foto 6. Hamburger Bahnhof

Il fenomeno del graffitismo si rivela particolarmente interessante nell’esplosione urbana delle forme espressive, perché rimette in discussione le linee di confine tra cultura e sottocultura, arte, storia, sociologia e vandalismo grafico.

Se le pennellate di Berlino raccontano la guerra fredda, vista dagli anni Ottanta e Novanta, i primi tags delle metropolitane newyorkesi, vent’anni prima, rivendicavano il diritto alla parola e il disagio dei quartieri degradati del South Bronx e di Harlem e accompagnavano il sottoproletariato nero in una delle più grandi rivolte dell’ultimo secolo. Nati per sfidare la legalità e l’ordine di una società intrisa di falsi valori e opulenze inique, i graffiti invadono le città del mondo e travalicano, per loro natura, gli spazi concessi, portando alla schizofrenia le amministrazioni metropolitane che destinano miliardi a cancellare, e contemporaneamente a esporre, le opere di nuovi e vecchi ribelli . Ancora oggi i writers esprimono per lo più un malcontento e lanciano un messaggio personale e sociale nella complessità urbana che, indipendentemente dall’indice di gradimento, appartiene alla cultura collettiva.

In Italia, gran parte delle città protagoniste dello sviluppo industriale ha optato per la riconversione polifunzionale delle aree in disuso. 

Il porto antico di Genova è oggi un enorme spazio culturale ad altissima frequentazione, dove convivono collezioni permanenti a carattere scientifico (l’Acquario, il museo dell’Antartide, la Biosfera), artistico (Museo Luzzati) e storico (museo marittimo Galata), ambienti interni ed esterni destinati a esposizioni temporanee, eventi e congressi, impianti sportivi, ricreativi e commerciali. Simili, per molti versi, le trasformazioni del Lingotto, a Torino, considerato uno dei centri polifunzionali più grandi d’Europa, dove la cultura si impone in varie forme , la riqualificazione della zona industriale di Bagnoli , ad Ovest di Napoli, e i progetti di riconversione milanese dell’ex area Ansaldo, in zona Tortona, e della Fiera Campionaria . 

Foto 7. Il porto antico di Genova

Foto 8. Il Lingotto a Torino

Non mancano esempi d’oltreoceano di strutture diffuse e periferiche: il Museum of Modern Art di New York, ha aperto una seconda sede nel Queen, spostando le rotte turistiche al di fuori di Manhattan, mentre il Contemporary Museum di Baltimora si è spinto ben oltre, rinunciando alla stabilità di una sede per votarsi al nomadismo espositivo, tra hangar, sale da ballo, garage e conventi…

Da qui alla musealizzazione totale dello spazio urbano il passo è breve e vi convergono espressioni e teorie totalmente diverse.

Da un lato incontriamo forme trasversali di arte e cultura sociale (Public art, Land Art, Earth art, Urban art and design), che scelgono location esterne e pubbliche per riqualificare gli spazi e valorizzarne storia e memoria, mediando tra i canoni classici dell’apprendimento e i bisogni della cultura popolare.

Dall’altro, nel nostro Paese più che altrove, emerge la necessità di approfondire e contestualizzare le specificità culturali del territorio, tramite la moltiplicazione di piccoli musei locali e percorsi culturali open air.

Nascono spazi espositivi diffusi, che integrano contenitori stabili e luoghi di memoria racchiusi nel tessuto urbano e rurale. 

A Torino, protagonista ne è la storia: il museo diffuso della Resistenza, della deportazione, della guerra, dei diritti e della libertà , tra itinerari reali e virtuali ripercorre i luoghi della seconda guerra mondiale. 

Foto 9. Museo diffuso della Resistenza

Foto 10. Pietre d’inciampo a Roma

Nelle Marche, arte, storia e paesaggio creano molteplici esperienze  di museo diffuso, a sottolineare lo stretto rapporto tra cultura e territorio. 

Anche nel Lazio partono analoghi progetti pilota per valorizzare tesori  meno noti, soffocati dal protagonismo della capitale, che la storia stessa ha reso città-museo.

Eppure, è proprio il peso di tanta ricchezza a nasconderne talvolta i segni della memoria. 

La riconversione di edifici, il sovrapporsi di interventi urbanistici, la trasformazione delle funzioni e il quotidiano ‘inciampare’ nei gioielli archeologici, porta spesso romani e romane ad attraversarne i luoghi senza alcuna consapevolezza. La città si attrezza di pannelli esplicativi e alcuni rioni  espongono dei veri e propri itinerari per vincere l’indifferenza autoctona e soddisfare la crescente curiosità alloctona, che esce dal centro storico e percorre capillarmente lo spazio cittadino. 

Foto 11. Murales al Pigneto (Roma)

 




Due giorni ad Auckland

Siamo ad Auckland, in Nuova Zelanda, terra di pecore e lana, di giocatori di rugby, di coni vulcanici spenti, su cui sorge la città che è tutto un salire e uno scendere. La guida che ci accompagna si chiama Nadia, è milanese e da otto anni vive qui. Racconta molto bene gli elementi che differenziano questo Paese dall’Italia, fa notare il sentimento forte di democrazia e il rispetto attento delle regole da parte di tutti. Ci sono bei quartieri con costruzioni vittoriane, visitiamo un giardino d’inverno dal sapore antico e dall’esterno ammiriamo il grande Museo che rappresenta tutta la  storia dei neozelandesi, dai colonizzatori Maori a quelli inglesi, fino alla prima guerra mondiale. La città è molto estesa, la baia assai ampia, percorsa da frequentissimi ferry. La gente preferisce vivere lontano dal centro, in case singole, più o meno grandi, con giardino. Estesi e ben tenuti sono i parchi, con vegetazione rigogliosa. I campi da cricket si affittano gratis. Dove c’era acqua, ora ci sono mangrovie, piuttosto invasive. Piccolo quartiere elegante e raffinato è Davenport, con case ben tenute, spiaggia e giardini.

Foto 1. Victoria Street

La strada principale è la Victoria Street, su cui si affaccia una bella biblioteca dalle grandi vetrate e dal tetto in legno. C’è un settore dedicato alle scrittrici, scovo Alcott e Austen, Allende e Bronte. Nessuna scrittrice italiana, credo. Con un atto di grande presunzione, lascio in regalo il mio saggio sulle scrittrici italiane. Mi ringraziano con un dubbio negli occhi: qualcuno lo leggerà?

Foto 2. La biblioteca

Il centro di Auckland è attraversato dalla Queen Street, che noi percorriamo varie volte: ci sono negozi di lusso (Prada Dior Vuitton Gucci) ed empori cinesi; da una via laterale, in salita, si arriva alla Sky Tower, solito gigante in cemento e acciaio, alta 328 metri. Naturalmente ci andiamo, ammiriamo il panorama mare-terra-cielo da tutti i punti e livelli possibili e assistiamo anche al lancio di uno jumper che, percorsa una breve passerella, debitamente attrezzato, si lancia nel vuoto. Che bello essere giovani e che peccato essere stati giovani quando queste emozioni forti non si potevano provare! Una volta tornati a livello strada, ci sediamo a guardare altri ragazzi che si lanciano giù.

Certamente qui la qualità della vita è buona. La guida ci ha detto di non sentire nostalgia per l’Italia, dove vivono i suoi due figli. Torna a Milano una volta all’anno ed è contenta così.

Il giorno successivo, di nuovo, Queen Street.

Foto 3. Queen Street

Mi piacerebbe girare in un supermercato per vedere cosa compra la gente del posto. Entro in uno, decorato con felci, tipica vegetazione del luogo. Vorrei comprare le bustine per fare la bevanda al lime, le ho viste a Tonga, ma siccome erano made in New Zelandnon le ho comprate. E ho fatto male, perché qui non le trovo. Ci sono prodotti di multinazionali, Garnier, Oreal, Nivea, Ferrero, Lindt. I prezzi mi sembrano molto alti, non compro nulla.

Vedo scolaresche in fila, ordinate. Tutte in divisa, senza cellulari in mano. Gli insegnanti accompagnatori li precedono e qualcuno li segue. Nessuno urla, nessuno schiamazza. I maschi hanno i berretti in testa con il coprinuca per evitare i raggi solari. Le femmine hanno capelli lunghi. Tutte e tutti coprono le braccia con giubbini o polo.

All’interno del porto mi fermo per scegliere magneti e altre sciocchezze.

Alle 13.00 si parte. Ciao, Auckland, città di mare e vele!

Foto 4. Volvo Ocean Race in Auckland

 

 

 




La Valdinievole. Bice Bisordi, l’arte del ritratto nel XX secolo

La Valdinievole, incuneata nel cuore della Toscana, occupa un terzo del territorio pistoiese, lambendo a est i luoghi leonardiani dell’area fiorentina e a ovest la piana di Lucca. La valle appartiene al bacino laterale dell’Arno e vede scorrere nella parte centro-orientale la Nievole, che le dà il nome, e nella sezione occidentale la Pescia Maggiore e la Pescia Minore, che attraversano l’omonima cittadina dirette verso la splendida conca del Padule.

Alle spalle delle località di pianura, sorte in epoca relativamente moderna, si staglia una corona di suggestivi borghi collinari che meritano una visita: Larciano Castello, Montevettolini, Monsummano Alto, Montecatini Alto, Massa, Cozzile, Buggiano Castello, Uzzano. Anche Pescia, che costituisce il centro più esteso e popolato dell’area, dispone di un contorno di particolare fascino: le Dieci Castella che formano la Valleriana, detta anche “Svizzera pesciatina”. 

È proprio a Pescia che nasce e muore Bice Bisordi, una delle più importanti scultrici italiane del XX secolo, specializzata nell’arte nobilissima del ritratto, eseguito di preferenza in bronzo o in terracotta.  

Fino al 3 giugno scorso, il Comune ha ospitato nel Palazzo del Podestà, la mostra “La Scultura incontra la Scultura. Un omaggio a Bice Bisordi nel ventesimo anniversario della sua morte”, 

Finalmente Pescia si è ricordata della sua illustre concittadina, cui in vita fece una consistente donazione delle proprie opere (27 ritratti), al momento dislocate in varie sedi.

Foto 1.  Pescia, Palazzo del Podestà, o Palagio.

Ma chi era Bice Bisordi?  

Lo racconta Laura Candiani, nella sua guida di genere della Valdinievole, presentata all’Archivio di Stato pesciatino il  7 aprile, e alla Grotta Giusti di Monsummano Terme,  il 25 maggio (Le guide di Toponomastica femminile. La Valdinievole. Tracce, storie e percorsi di donne, Universitalia, 2018, pp. 163-167). 

Sicuramente – come scrive l’artista nelle memorie – Bice fu influenzata dall’attività del padre che aveva un laboratorio dove scolpiva il marmo e lavorava la creta; i tre fratelli (Carlo, Enzo e Tito) presto entrarono nell’azienda di famiglia, mentre la sorella Nella si occupava della casa e faceva la sarta; le due maggiori (Norina e Teresa) si erano diplomate maestre. Quest’ultima, sposandosi, andò a vivere a Montecatini dove la giovanissima Bice la seguì e aprì un piccolo studio in cui faceva ritratti a matita e iniziava a utilizzare la creta. La sua abilità non passò inosservata: i turisti, i villeggianti, specie americani, e alcune personalità di spicco (come la marchesa Ines Mauri Badò di Roma e Carla Balduzzi di Milano) cominciarono a credere in lei e a incoraggiarla. Fu così che Bice s’impegnò per essere ammessa alla prestigiosa Accademia di belle arti di Firenze, che raggiungeva ogni giorno con il treno. Si diplomò nel 1932 e nel 1935 poté esporre nella città natale, in una saletta presso il Caffè Pult, dove all’epoca si tenevano tre concerti al giorno. Il giornalista Vittorio Taddei fu il primo a scoprire ufficialmente il talento della scultrice e ne scrisse sul “Telegrafo”. Già si delineavano le caratteristiche che emergeranno e matureranno in seguito: la finezza psicologica (come nel ritratto La nipotina Licia), la fusione fra aspetto fisico e spiritualità (Adolescente), il gusto per il minimo dettaglio (Dorso di donna), la sensibilità nel tratteggiare i volti dei bambini (Putto, La Vita, Primi vagiti, Sorriso di bimba, Il Poema), la delicatezza nei ritratti di madri, il realismo non disgiunto dalla poesia (Scugnizzo in cui è evidente il richiamo all’arte di Vincenzo Gemito). 

Iniziò quindi una carriera prestigiosa, fitta di mostre, concorsi, riconoscimenti in Italia e all’estero; intanto Bice aveva allestito il suo studio all’interno dello stabilimento termale Torretta nel cui parco, durante la stagione estiva, suonava il pomeriggio un’orchestra e si esibivano i più noti cantanti. Qui ebbe l’occasione di conoscere e ritrarre Angelo Motta (l’industriale del panettone), Eduardo De Filippo, Angelo Borghi (proprietario dell’azienda di lane B.B.B.), il console generale Shard di Zurigo, mentre proseguiva l’attività dei ritratti “a memoria”, come il busto di J. F. Kennedy e i bassorilievi dei papi Giovanni XXIII e Paolo VI, oggi in Vaticano, per cui ottenne la medaglia d’argento del Pontificato. Critici, esperti, artisti parlano di lei e acquistano sue opere: Italo Griselli, Edgardo Mannucci, Pietro Annigoni, Piero Scarpa, Valerio Mariani, Gino Valori; anche personaggi dello spettacolo come Renato Rascel e Walter Chiari, di passaggio a Montecatini, le rivolgono apprezzamenti lusinghieri. 

Bice in seguito – sempre a Montecatini – aprì un nuovo studio sotto i portici del cinema-teatro Kursaal dove, passando, la si poteva vedere all’opera attraverso i vetri, spesso davanti a qualche modello in posa per un ritratto, mentre indossava il camice e un caratteristico basco sulle ventitré; intanto collezionava nuove mostre (Bologna, Roma, Milano, Forte dei Marmi, Lucca, Lugano), era ammessa in prestigiose accademie: Internazionale “Leonardo da Vinci”, ”Artes Templum”, ”Tiberina”, veniva segnalata nel catalogo Bolaffi ed era iscritta all’Album Europeo (1977). Il suo nome uscì dai confini italiani grazie al premio francese S. Raphael (medaglia d’oro per un ritratto di padre Pio nel 1973) e al riconoscimento del Parlamento Usa (1974). Bice realizzò opere di varia ispirazione, anche per farne dono a istituzioni; due ritratti di vescovi (Angelo Simonetti e Dino Luigi Romoli) si trovano nel Duomo di Pescia, mentre un bassorilievo che raffigura i coniugi e benefattori Alcide e Matilde Nucci venne donato all’ospedale cittadino.                                

Nonostante una certa dispersione, inevitabile per una ritrattista che lavora per precisi committenti, un discreto nucleo di ventisette opere fu donato alla città di Pescia per fornire una visione complessiva dell’artista, «libera interprete delle forme moderne, nel suo linguaggio realistico» (A. Corsetti), «una delle poche eredi del purismo e del romanticismo plastico», di «acutezza penetrante» e «spiritualità vibrante» (Gino Valori). Tuttavia le sculture oggi non hanno una collocazione unitaria. 

Quasi novantenne venne convinta a scrivere le sue memorie in cui racconta, con umiltà e gratitudine, la sua lunga carriera e il dono prezioso dell’arte; il piccolo libro – ricco di documentazione fotografica – fu presentato a Pescia nella sala consiliare del Palazzo comunale nell’ottobre del 1993.

Bice Bisordi è morta a Pescia il 5 maggio 1998.

Dopo l’evento appena concluso e la pubblicazione della guida, che restituisce visibilità a Bice Bisordi, alle sue opere e alle molte donne della valle che hanno lasciato un segno nella storia e nella cultura dei luoghi, ci si augura che le opere dell’artista trovino finalmente una collocazione unitaria e degna della loro qualità. 

In copertina. Bice Bisordi, Il Poema, Madonna con il Bambino

l prossimi appuntamenti con la guida La Valdinievole. Tracce, storie e percorsi di donne sono già fissati: il 19 settembre alle ore 10 il libro sarà presentato all’interno del programma “Biblioterme” nello stabilimento termale Tettuccio a Montecatini, mentre il 23 settembre farà parte dei novanta libri protagonisti di una originale tombola presso la Biblioteca Forteguerriana di Pistoia, nell’ambito di una vera e propria festa della storia e della cultura locale.




Tonga, “Patria dell’amore”

Siamo a Nuku’Alofa, la capitale di questo regno sperduto nel Pacifico. Scendiamo dalla nave e ci accolgono con canti e danze, c’è anche una banda formata da ragazze in divisa. A tutti i passeggeri mettono una collana di piccoli fiori arancioni al collo. Carina, ma punge. Me la metto in testa come una coroncina.

  1. Carta di Tonga

Il nome di questa capitale, che conta meno di duemila abitanti (1000 adulti e 700 bambini) vuol dire “Patria dell’amore”. Io e Piero andiamo verso il centro, troviamo un mercatino per turisti e poi un mercato vero, con frutta verdura e oggetti di paglia che servono ai tongani per la vita quotidiana. Le donne indossano un gonnellino di foglie intrecciate a striscioline: è il segno del rispetto che ci portano, il gonnellino si usa nelle occasioni importanti. Gli uomini usano una gonna nera tipo pareo sulla quale avvolgono una stuoia. Prima di fotografare un bambino che è con la mamma al mercato, chiedo il permesso. La mamma, felice, chiama anche gli altri tre figlioletti, se li stringe e sorride: fotografo il bel gruppo famigliare. L’escursione si fa in scuolabus, un po’ rannicchiati. La guida è una ragazza di 26 anni, si chiama Eunice Pongipongi, ci racconta esprimendosi in un buon italiano di aver studiato in Nuova Zelanda e di vivere ora sull’isola con marito e figlio. Conosciamo il bimbetto perché una sosta si effettua nel luogo dello sbarco di Cook, dove c’è un banchetto con souvenirs: la madre di Eunice è la venditrice, il piccolo Joe si attacca alle gambe della mamma. Nel corso dell’escursione vediamo qualche palazzo reale, anche quello dove abita la regina madre, la Chiesa cattolica di Sant’Antonio, le tombe reali e alcuni cimiteri.

2-3 Al mercato

Qui al cimitero sono sepolti i poveri, i ricchi hanno nei loro giardini più degna sepoltura. I tumuli di terra sono addobbati con fiori e teli colorati, più o meno preziosi. Uno è abbellito con un copriletto damascato bianco. Eunice ci dice che quando muore qualcuno, i parenti meno vicini provvedono al pranzo dei parenti stretti. Se non c’è il tempo, ci si rivolge a un’impresa di catering che pensa a tutto e che mette a disposizione anche ampi spazi. Insomma, il funerale diventa occasione di incontro per persone che magari non si vedono da molto tempo (anche se su un’isola così piccola mi pare strano…) o che invece tornano dalla Nuova Zelanda o dall’Australia.

  1. Cimitero

Le case sono di proprietà di chi le abita, i tetti sono coperti di foglie dell’albero del pane. I giardini sono curatissimi. Il re regna, con un parlamento formato (ci avrei scommesso!) da soli uomini. Regime assoluto. Le donne ballano con il corpo unto di olio di cocco. Se si tratta di ragazze, si attende che l’olio goccioli insieme al sudore: sarebbe la prova della verginità della ballerina. Io ho l’impressione che in questo regno gli unici a non avere problemi siano i reali e i loro adepti. Intorno mi sembra di vedere una dignitosa povertà, per nascondere la quale uomini e donne ostentano denti d’oro, anche da giovani.

L’isola è piatta, niente colline e piccole valli verdi come in Polinesia. Però c’è un trilite, una porta in pietra costituita da tre massi. Forse è uno strumento per misurare il tempo o i solstizi, evoca Stonehenge. È del 1200 circa.

  1. Trilite

Dopo essere stata a Papeete, Moorea e Bora Bora, questa impronunciabile capitale mi lascia indifferente, o forse no, è un mondo ancora primitivo che cerca di attirare turisti… e non sa che, dove arrivano i turisti, muore l’autenticità, almeno un po’.

 

 

 

 




Ponza, tra passato e futuro. Percorsi al femminile

Di Silveria Aroma

Lontana dai tempi in cui le donne dell’isola si mettevano in fila aspettando il proprio turno per farsi arricciare la chioma con la “permanente” da un avventuroso parrucchiere di Napoli che bolliva i bigodini in un pentolone, tra una cliente e l’altra. Io me ne sto comodamente seduta in un luminoso, elegante salone; Ersilia prepara il rosso dorato per i miei capelli: lei mescola e io scrivo; due streghe provette dei tempi moderni.

La porta del negozio affaccia sul quel tratto della strada panoramica dove in passato avevano trovato alloggio diversi confinati politici nel periodo fascista.

Quelli appartenenti a famiglie benestanti e non quelli destinati al “camerone comune”. Vale a dire quella parte di confinati che ebbe modo di comunicare e scambiare con i ponzesi. Qualcuno di loro trovò anche l’amore e più di un’isolana divenne combattente della resistenza; mentre Zaniboni barattava le mele del Trentino per il vino di Frontone.

Frontone, all’epoca lavorata a vigne e orti ad occupare terra giù giù fino alla battigia, oggi considerato luogo simbolo del turismo isolano per la balneazione e per la movida. La spiaggia che ora si colora di lettini e ombrelloni nei mesi dell’estate, per secoli aveva conosciuto come unico passo umano quello dei coloni.

Foto 1. La spiaggia d’inverno

Un’unica casa in alto, al centro della spiaggia, e un gruppetto di case sparse sulla destra, guardando dal mare. A completamento del quadro, sul promontorio roccioso, il forte borbonico del XVIII secolo. Poche case ornate di alberi di fico e gelso moro e terrazzamenti di vite e legumi. Nei viottoli che guidavano sino alle porte delle case fiorivano i giaggioli bianchi a filari ordinati ma fitti.

Foto 2. L’interno

Le donne nei giorni di bucato strappavano qualche bulbo alla terra e lo grattugiavano; questa sorta di cipolla tritata veniva adoperata nell’ultimo passaggio della cosiddetta “colatura”, ossia nel fare il bucato e lasciava profumati i tessuti per settimane. Una sorta di ammorbidente a impatto ambientale zero. Per sbiancare lenzuola e altro, invece, utilizzavano la cenere di “zamperervìte” (sempre estivo) il cui fiore è chiamato sull’isola “canna Feola”, conosciuto ai più – e nella lingua italiana – come agave.

Negli anni delle due guerre mondiali, nelle notti stellate e senza vento, le donne si recavano in spiaggia. Solo un lume a petrolio a guidarle. Gli uomini; mariti, figli, fratelli, erano stati chiamati alle armi e a loro toccava il compito di badare a vecchi e bambini, alla casa, alla terra e agli animali. Le più scaltre sapevano remare e pescare usando una piccola rete; la sciabica. Il mare dell’isola è da sempre rinomato per la sua pescosità e in quegli anni era talmente ricco che si poteva prendere una mormora (pesce tipico dei suoi fondali sabbiosi) usando semplicemente un amo arrugginito e un pezzo di pane secco. Una volta in spiaggia le donne si sedevano in cerchio e nel buio cominciavano a pregare: nove Padrenostro, nove Ave Maria, e nove Gloria al Padre; questa la sequenza di una ”orazione”; la preveggenza delle nostre antenate.

Una forma divinatoria popolana atta a chiedere un segno o un sogno premonitore, un responso. Madri, mogli, sorelle bramavano conoscere la sorte dei loro cari in guerra. La più esperta, Donna Matilde, interpretava il segno colto. Un movimento di gabbiano, un bagliore improvviso, una sonorità nella notte e lei, da saggia sibilla, divinava.

Foto 3. La spiaggia di Donna Matilde

Nei giorni seguenti le mareggiate, invece, le donne raggiungevano la spiaggia per raccogliere ciò che il mare aveva spinto a riva e che poteva essere di supporto all’economia della famiglia. Con l’ausilio degli uomini rimasti a casa spogliavano anche i cadaveri dei soldati, recuperavano i paracadute, e con la stoffa cucivano sottovesti per i corredi. Erano tempi duri e senza pietà: bisognava sopravvivere.

C’erano giorni di festa, senza predizioni o saccheggi, allora Matilde suonava il mandolino per gli abitanti di tutta la contrada e oggi, risalendo un poco dalla spiaggia verso la macchia mediterranea, nei pressi di quella che fu la sua casa, c’è Cala Frontone, un’associazione culturale adagiata su di un terrazzamento, dove è possibile riscoprire gli antichi sapori dell’isola.

Foto 4. In primavera

Vincenzina prepara le zuppe di lenticchie e cicerchie con mano esperta e paziente perché si sa, le cose buone non spuntano sulle tavole aprendo semplicemente una busta. I legumi cuociono sin dal mattino presto e le marmellate per le crostate vengono rigorosamente preparate in casa. Melagrane e mele cotogne allietano il palato senza lasciare in bocca il gusto edulcorato della modernità. Non provate a chiedere alcuna ricetta, neanche la più semplice. Nessun segreto in merito alle dosi degli ingredienti o ai tempi di cottura vi verrà svelato. Beatevi piuttosto del fresco sotto le fronde, del legno grezzo dei tavoli, dell’aria familiare e dei sapori arricchiti dal senso della tradizione. Nella stessa area troverete anche un minuscolo museo etnografico che conserva ancora, tra i cimeli di famiglia, il mandolino di nonna Matilde.

Da nonna Matilde a nonna Rafaela il passo è breve; pochi metri, infatti, separavano le loro rispettive case. Rafaela, la mia bisnonna, le lenticchie le metteva a cuocere in fretta, prima di andare in campagna. Essendo nata in una famiglia con solo (o ben) otto figlie femmine, aveva imparato a fare tutto al pari di un uomo e di una donna insieme. Terra e mare, casa, figli e investimenti in terreni e case fatti coi proventi del lavoro del marito. Aveva troppo da brigare per separare lenticchie, pula e sassolini. Nel ripartire la zuppa nei piatti dava le prime mestolate, cariche di acqua e pagliuzze, al marito, quelle centrali ai figli e il fondo con le pietruzze lo mangiava lei.

Mia nonna, da nuora giovane e ubbidiente, con lei imparò a pescare e a vendere il pesce. Partiva dalla spiaggia di Frontone con una cesta piena di pesce su una spalla e la bilancia di ottone sull’altra. Risaliva la collina lungo il sentiero e raggiunta la strada principale ancora sterrata, camminava per altri sei chilometri fino all’estremità nord dell’isola, Le Forna, dove vendeva il pescato.

Si fermava in vari punti e, a richiesta, pesava e faceva il prezzo, avendo cura di nascondere sotto un telo i pesci più polposi che sarebbero rimasti invenduti. Li avrebbe poi portati alla madre, facendo una sosta lungo la strada del ritorno, all’insaputa di sua suocera Rafaela. E se uno dei suoi fratelli non le andava incontro per recuperare la cena avrebbe assaggiato il suo zoccolo di legno.

Qualche volta suocera e nuora arrivavano insieme a Santa Maria con la barca a remi. La vecchia usava una delle stanze della casa del figlio maggiore come deposito dei viveri per l’inverno: fichi secchi, fichi d’india essiccati, fave, lenticchie, cicerchie, mostarde.

Le nostre mostarde non hanno nulla in comune con le più note mostarde. Trattasi, infatti, di semola cotta con il succo dei fichi d’india, e profumata con i semi del finocchio selvatico. Spianata, tagliata a losanghe, essiccata e infornata all’ultimo. Le mostarde si preparavano (come ancora oggi) nel periodo della vendemmia, si cominciava a mangiarle per i morti, e dovevano essere centellinate per durare fino all’Epifania.

Subito dopo la guerra, dopo la morte della suocera, mia nonna Silvia lasciò Frontone e si trasferì a Santa Maria in quella stessa casa in cui aveva aiutato la suocera più e più volte a sistemare le provviste. Viveri che un certo giorno erano spariti, rubati forse dai pescatori che lavoravano sui pescherecci tirati in secco davanti alla casa.

Foto 5. La vecchia Santa Maria

 

Quell’inverno fu più duro degli altri.

La casa in questione è un palazzetto giallo a pochi metri dal mare, lo stesso edificio che ospitò Mussolini nella sua settimana di confino ponzese. Otto giorni nell’estate del 1943 ospite, seppur coatto, nella nostra casa.

Nella cucina al primo piano la cuoca gli preparava i pasti, mentre la lavandaia abitava in una casa vicina; a quest’ultima rimasero gli abiti del Duce, portato via in tutta fretta e di notte, così com’era arrivato. Abiti che la donna riadattò per il figlio ancora bambino.

Silvia dapprima prese in affitto uno degli appartamenti della casa gialla a tre piani sulla spiaggia, abitandoci con il marito e le due figlie (mia madre e mia zia). Da donna forte e capace centellinò lo stipendio da insegnante del marito per le spese della famiglia, e proprio lei, Silvia, fu fra le prime ad avere l’intuizione che si sarebbe rivelata in futuro la svolta economica dell’isola: il turismo. Cucinare per i primi visitatori che ebbero la fortuna di conoscere Ponza in tutto il suo incontaminato splendore.

Lavorando sodo e facendo sacrifici, senza rinunciare alla soddisfazione di mandare le figlie a studiare a Roma, nel giro di qualche anno comprò l’intero edificio, creando così la piccola azienda che porta ancora il suo nome: Silvia.

Dieci camere semplici e linde, senza televisore. C’è una piccola libreria tra un piano e l’altro: un invito a bearsi della bellezza circostante riscoprendo il piacere del dialogo, piuttosto che smarrirsi ancora una volta nella scatola magica.

Il ristorante è a pochi metri dall’acqua: atmosfera raccolta e una gestione familiare orgogliosa di mantenere viva una tradizione antica, che privilegia la scelta delle materie prime piuttosto che promuovere piatti sofisticati ed elaborati.

Foto 6. Donna Silvia 

Da Santa Maria, come dal Porto, è possibile raggiungere la spiaggia di Frontone in pochi minuti. Partendo dal porto borbonico potreste imbattervi nella mitica Concetta, frizzante sotto il suo ombrellone, altra pioniera del turismo ponzese.

Vi chiederà: “Andiamo a Frontone?”. Giusto! Era proprio lei che un giorno mi raccontava della fila che faceva per farsi i capelli… ed eravamo appunto sedute dalla parrucchiera.

Con una bella passeggiata oppure in barca, andate a Frontone: guardate dal mare verso le colline e liberate la fantasia immaginando le nostre ave con le loro laboriose mani: donne tenaci e coraggiose che hanno saputo consacrare la magica unione dell’uomo col mare.

E non trascurate il piccolo borgo di Santa Maria, eletto da Ottaviano Augusto come sede di una delle sue residenze. Cenate in questo luogo senza tempo, mentre il mare con il suo sciabordio vi canta la più antica delle melodie. Una straordinaria sinergia di ospitalità e bellezza, tra suggestioni lontane e attrattive attuali.

Perdetevi quindi nella bellezza del porto borbonico voluto da Carlo V: guardatelo da lontano prima, per poi camminare su di un lastricato vecchio di tre secoli.

 

Ponza non è semplicemente bella, è anche crocevia di storia e culture, epoche e genti; per millenni punto cruciale nel Mediterraneo, oggi conserva ancora lo splendore e la magia di una terra ove il passato è ancora presente, nella vita di tutti i giorni.

 

Tratto da: Strade maestre. Un cammino di parità.Universitalia, 2015




Brescia – Memorie verticali (quarta parte)

Piazza Rovetta, contigua a Piazza Loggia, è un grande spazio aperto, incompiuto e conteso, nel quale confliggono plasticamente memorie non pacificate, sanguinano ferite ancora non sanate, e sono esposte in piena luce contraddizioni irrisolte, alle quali finora non si è riusciti a dare una forma.

Il lato nord della Loggia, sul quale sono collocate le lapidi in memoria dei “martiri di Piazza Rovetta” (Arnaldo Dall’Angelo, Guglielmo Perinelli, Rolando Ettore Pezzagno) e dei 186 “Caduti della città di Brescia per la libertà”, si rispecchia, tolta la pensilina della discordia, in un muro color sabbia di 280 metri quadrati, il cosiddetto “muro bianco”, collocato al lato opposto della piazza. Nel 2016 l’amministrazione comunale propone la realizzazione di un murale, del costo di 65.000 euro, sulla facciata vuota di Largo Formentone e intende aprire un bando per selezionare il progetto migliore e trovare un writer incaricato di realizzarlo, ma di fatto viene esclusa dall’operazione. I proprietari dell’immobile, non soggetto a vincolo monumentale, decidono infatti di riempire questo vuoto – secondo il progetto dell’architetto Sergio Togni e dell’artista Adriano Grasso Caprioli – con una meridiana, nelle intenzioni controcanto al cinquecentesco orologio astronomico posto sull’omonima torre nella contigua Piazza Loggia, nel quale le ore vengono battute su una campana di bronzo da due automi in rame, dotati di martello, i cosiddeti Macc de le ure (Matti delle ore), popolarmente noti anche come Tone e Batista (Antonio e Battista). 

Foto 1. Torre dell’Orologio a Brescia, i due automi

La Torre dell’Orologio di Brescia si ispira a quella di Piazza San Marco a Venezia, realizzata il secolo precedente, in particolare per la presenza degli automi, i cosiddetti Due Mori. 

Foto 2. Venezia. Torre dell’orologio con i due mori

Nel progetto Togni-Grasso Caprioli la meridiana, elemento centrale, è adorna di una serie di figure: i segni zodiacali, Ercole, gli stemmi delle famiglie bresciane, Giuseppe Garibaldi, la Leonessa, un grifone, le prostituite del Carmine, Niccolò Tartaglia, Tito Speri e Arnaldo da Brescia, oltre a Benito Mussolini che guarda il Bigio, gigantesca statua rimossa da Piazza della Vittoria dopo la Liberazione e, in questi ultimi anni, oggetto di una polemica tanto persistente tra favorevoli e contrari alla sua ricollocazione nel sito originario, che alle elezioni amministrative del 10 giugno 2018 si presenta una lista con il motto PRO BRIXIA IL BIGIO, che riporta nel proprio logo un’effigie della contestata scultura. 

L’artista e il professionista avviano addirittura una raccolta di fondi per circa 200.000 euro, a parziale copertura finanziaria del progetto, e Adriano  Grasso Caprioli, rispondendo alle prime critiche, sottolinea che quelle di Mussolini e del Bigio saranno caricature “innocenti”. SEL, l’ANPI, singoli cittadini e perfino una pagina facebook, noallameridianainlargoformentone, in seguito rimossa, si pronunciano assai duramente e si mobilitano contro il progetto Togni-Grasso Caprioli. 

“Se questo progetto venisse attuato […] Brescia si presenterebbe ai suoi abitanti e ai passanti con la faccia di Mussolini dipinta su di un muro grande 280 metri quadrati nel mezzo della città, in un quartiere come quello del Carmine da sempre riconosciuto per la sua vocazione all’accoglienza e per la composizione sociale meticcia e popolare! […] Basta quindi essere proprietari di un muro per decidere l’immagine che la città vuole comunicare agli abitanti e a tutte le persone che passeggeranno per le vie del centro storico”?  si domandano gli estensori del volantino di invito al dibattito pubblico del 17 giugno 2016, per concludere poi che “è bene ricordarsi che non si tratta solo di un muro. Stiamo parlando di Piazza Rovetta, porta naturale del quartiere del Carmine. […]
Stiamo parlando di un luogo che fu teatro delle terribili e infami fucilazioni fasciste del 13 novembre 1943 […] dunque di un muro […] che di sicuro caratterizza una piazza significativa per la città e per i suoi abitanti che quindi dovrebbero essere coinvolti nella progettazione e rivitalizzazione di questo spazio che è di tutti e non si esaurisce in un muro e nei suoi proprietari”.  Il progetto non viene attuato in conseguenza delle proteste suscitate e, soprattutto, di ragioni economiche. Negli anni successivi, fino a oggi, varie proposte si susseguono sulla stampa locale, restando tuttavia inattuate; da quella di un giardino verticale davanti al grande “muro bianco”, dono di un’azienda della Bassa bresciana, la ItalMesh, alla città, che però dovrebbe sostenerne i costi di manutenzione, passando per quella del pittore bresciano Luca Dall’Olio di un grande dipinto di una Brescia “in sintesi”, fino a quella del fotografo Eros Mauroner di una grande Vittoria alata, simbolo della città, riprodotta utilizzando numerosissime mattonelle collocate sul “muro bianco”.

Foto 3. La Vittoria alata

Questa installazione non effimera si troverebbe in linea con la statua originale di bronzo, una volta effettuata la sua prevista ricollocazione nel Capitolium, il tempio romano che prospetta sull’antico decumano massimo, come Piazza Rovetta. 

La Vittoria alata in piastrelle sarebbe visibile con effetto tridimensionale, se osservata da postazioni fisse collocate nella piazza, apparendo in prospettiva come se fosse collocata nella sala di un museo. Inoltre, a garanzia della sostenibilità economica dell’opera, i cittadini potrebbero acquistare singole piastrelle, recanti in piccolo, a richiesta dell’acquirente, il nome di una persona cara. Si ripropone in questo modo una formula analoga a quella già sperimentata con successo nel 2014 dal progetto Una formella per ogni vittima, caratterizzata dal coinvolgimento attivo, anche attraverso un contributo finanziario, dei cittadini nella realizzazione del Percorso della Memoria, dedicato alle vittime del terrorismo. 

Resta un muro color sabbia, anzi un “muro bianco” che prospetta su una piazza che è una ferita, uno squarcio; un muro senza parole che, nel suo silenzio, racconta tante storie, raccoglie tante memorie.