Due giorni ad Auckland

Siamo ad Auckland, in Nuova Zelanda, terra di pecore e lana, di giocatori di rugby, di coni vulcanici spenti, su cui sorge la città che è tutto un salire e uno scendere. La guida che ci accompagna si chiama Nadia, è milanese e da otto anni vive qui. Racconta molto bene gli elementi che differenziano questo Paese dall’Italia, fa notare il sentimento forte di democrazia e il rispetto attento delle regole da parte di tutti. Ci sono bei quartieri con costruzioni vittoriane, visitiamo un giardino d’inverno dal sapore antico e dall’esterno ammiriamo il grande Museo che rappresenta tutta la  storia dei neozelandesi, dai colonizzatori Maori a quelli inglesi, fino alla prima guerra mondiale. La città è molto estesa, la baia assai ampia, percorsa da frequentissimi ferry. La gente preferisce vivere lontano dal centro, in case singole, più o meno grandi, con giardino. Estesi e ben tenuti sono i parchi, con vegetazione rigogliosa. I campi da cricket si affittano gratis. Dove c’era acqua, ora ci sono mangrovie, piuttosto invasive. Piccolo quartiere elegante e raffinato è Davenport, con case ben tenute, spiaggia e giardini.

Foto 1. Victoria Street

La strada principale è la Victoria Street, su cui si affaccia una bella biblioteca dalle grandi vetrate e dal tetto in legno. C’è un settore dedicato alle scrittrici, scovo Alcott e Austen, Allende e Bronte. Nessuna scrittrice italiana, credo. Con un atto di grande presunzione, lascio in regalo il mio saggio sulle scrittrici italiane. Mi ringraziano con un dubbio negli occhi: qualcuno lo leggerà?

Foto 2. La biblioteca

Il centro di Auckland è attraversato dalla Queen Street, che noi percorriamo varie volte: ci sono negozi di lusso (Prada Dior Vuitton Gucci) ed empori cinesi; da una via laterale, in salita, si arriva alla Sky Tower, solito gigante in cemento e acciaio, alta 328 metri. Naturalmente ci andiamo, ammiriamo il panorama mare-terra-cielo da tutti i punti e livelli possibili e assistiamo anche al lancio di uno jumper che, percorsa una breve passerella, debitamente attrezzato, si lancia nel vuoto. Che bello essere giovani e che peccato essere stati giovani quando queste emozioni forti non si potevano provare! Una volta tornati a livello strada, ci sediamo a guardare altri ragazzi che si lanciano giù.

Certamente qui la qualità della vita è buona. La guida ci ha detto di non sentire nostalgia per l’Italia, dove vivono i suoi due figli. Torna a Milano una volta all’anno ed è contenta così.

Il giorno successivo, di nuovo, Queen Street.

Foto 3. Queen Street

Mi piacerebbe girare in un supermercato per vedere cosa compra la gente del posto. Entro in uno, decorato con felci, tipica vegetazione del luogo. Vorrei comprare le bustine per fare la bevanda al lime, le ho viste a Tonga, ma siccome erano made in New Zelandnon le ho comprate. E ho fatto male, perché qui non le trovo. Ci sono prodotti di multinazionali, Garnier, Oreal, Nivea, Ferrero, Lindt. I prezzi mi sembrano molto alti, non compro nulla.

Vedo scolaresche in fila, ordinate. Tutte in divisa, senza cellulari in mano. Gli insegnanti accompagnatori li precedono e qualcuno li segue. Nessuno urla, nessuno schiamazza. I maschi hanno i berretti in testa con il coprinuca per evitare i raggi solari. Le femmine hanno capelli lunghi. Tutte e tutti coprono le braccia con giubbini o polo.

All’interno del porto mi fermo per scegliere magneti e altre sciocchezze.

Alle 13.00 si parte. Ciao, Auckland, città di mare e vele!

Foto 4. Volvo Ocean Race in Auckland

 

 

 




Brisbane

Altra città australiana, ricca di verde e di strade ampie e ben tenute, con un’aria un po’ retrò, palazzi vittoriani da un lato e grattacieli modernissimi dall’altro. Vi abitano due milioni di persone e la rendono la terza città più popolosa dell’Australia; è dalla metà del 1800 la capitale del Queensland, attraversata dal fiume Brisbane, un fiume ampio e calmo, percorso da battelli. Questo nome comune alla città e al suo fiume ricorda Sir Thomas Brisbane, il governatore del Galles del sud dal 1821 al 1825. In quegli anni fu anche una colonia penale. In tempi più recenti, cioè durante la seconda guerra mondiale, fu il quartiere generale del Pacifico sud occidentale, retto dal generale Mac Arthur.

 Foto 1. Gallery of Modern Art

Dal terminal abbiamo raggiunto il centro con lo shuttle bus. In realtà ci aspettiamo una città un po’ campagnola perché abbiamo letto che i primi immigrati non reclusi erano contadini, ma ci rendiamo subito conto che politici e industriali non gradivano una immagine “paesana”. Dopo una passeggiata gradevole, tra bei negozi e gente tranquilla, visitiamo la ricca Gallery of Modern Art, dicono che sia la più importante del Paese sia per la gran quantità di opere d’arte internazionali, sia per la presenza massiccia di opere degli artisti indigeni;  facciamo una sosta veloce ai Colective Markets dove si trova proprio tutto, dai vestiti ai gioielli di artigianato artistico locale fino ai pezzi di antiquariato che una volta arredavano le case dei ricchi europei. Un gustoso momento lo dedichiamo al cioccolato…veramente squisito!

Foto 2. Mercato a Brisbane

Altro giorno di sosta, altro tipo di escursione: ce ne andiamo a Lone Pine, il cosiddetto santuario dei koala. Ce ne sono tanti, morbidi come un peluche, distesi pigramente sui rami di eucalipto. Sembrano piccoli uomini stremati falla fatica.

Foto 3. Koala a Lone Pine

Sostiamo sotto un tetto di paglia per la foto di rito: mi mettono un koala fra le braccia ed io sono colpita dalla lunghezza delle sue unghie. Dunque la foto, scattata velocemente, rivela la mia preoccupazione, anche perché indosso un vestito di cotone leggerissimo e senza maniche. Non succede nulla, restituisco il koala e procedo nel parco, dove incontriamo il dingo, il diavolo di Tasmania dagli occhi cattivi, gli emu, qualche serpente e tanti tanti canguri, alcuni alti quasi due metri, che saltano come se danzassero. I più carini sono i wallabies, piccoli e teneri, che accettano volentieri il cibo dalle mani dei visitatori. 

 Foto 4 e 5. Dingo e Diavolo di Tasmania

E’ un parco, non uno zoo, gli animali sono liberi (tranne quelli pericolosi come dingo e diavolo di Tasmania) e abituati al contatto con gli umani. Si dice che in Australia ci siano più canguri che australiani. La nostra guida ci dice che ne viene abbattuto un buon numero, secondo criteri – poco condivisi dalla gente – di eliminazione controllata. Usciti dal parco, ne vediamo alcuni morti per strada, perché investiti da auto e bus.

In genere Brisbane ha un buon clima; noi però sentiamo tanto caldo, un caldo umido e fastidioso. Al ritorno in città, altra passeggiata, degustazione di birre locali e poi…tutti a bordo.




Polinesia francese: Moorea

Qui arrivò capitan Cook nel 1867, nella baia di Opinoho dove è ancorata la nave. Questo è un luogo magico: la natura è rigogliosa, selvaggia e incontaminata, ma non aggressiva. Solo prepotente. Ci sono picchi molto alti (2000 metri) e vallate verdi che si tingono di blu quando toccano il mare. I colori sono quelli delle cartoline che ho spedito (solo due!), i fiori sono dovunque, le casette hanno giardini curati e ridenti. 

Foto 1. Panoramica della baia di Cook

Moorea è un’isola fascinosa, meta di turismo ricco e internazionale, con alberghi di lusso, resort che si sporgono sull’acqua, spiagge da sogno, bianche lunghe luminose, ma nulla è ostentato, c’è una discrezione palese. 

Vediamo i misteriosi marae, templi o altari di pietre. Si sa poco della loro storia. A me viene spontaneo pensare che i romani  gli altari li chiamavano arae, ma non oso fare alcun collegamento.

Foto 2. La spiaggia

Nel pomeriggio, con una coppia appena conosciuta, ce ne andiamo alla spiaggia dell’Hotel Hybiscus, non si può venire in Polinesia senza fare un bagno! La spiaggia è libera, l’albergo è pronto a offrirla, ma non dispone di sedie lettini ombrelloni. A noi va bene così, siamo dentro il sogno. E dentro le cartoline, con palme e sabbia dorata. L’acqua è calda, io non uscirei più. La nuova amica non ha indossato o portato il costume, questa gita in spiaggia non era prevista. Si toglie la tshirt, rimane in reggiseno e pantaloncini e fa il bagno lo stesso. Ci accampiamo presso una scaletta, dove c’è un po’ d’ombra e dove Piero può sedersi tranquillamente. Il mare è sempre più blu… come dice una vecchia canzoncina. 

Anche qui, andando via, ispeziono il w.c. per togliermi il costume bagnato: la receptionist mi accompagna in una stanzetta e mi indica il bagno: pulizia, profumo di fiori e petali sul lavandino. E infinita spontanea cortesia.

Foto 3. La cortesia polinesiana

Sono emozionata, mi sembra di non aver visto mai un posto così assolutamente bello e di non aver mai vissuto un pomeriggio così dolce.

Foto 4. Polinesia francese

In copertina. veduta aerea di Moorea 




Papeete

Dalle sei del mattino mi metto in vedetta. L’ingresso del porto è bello, c’è tanto verde, la città conta quasi 200.000 abitanti. Questa isola ha una penisola, Tahiti. Il solo nome evoca Gauguin e le sue donne con fiori nei capelli. Scendiamo alle nove, accolti con danze canti e fiori da un gruppo allegro e colorato. Il fiore che ci offrono è il tiare, sembra un mughetto più grande dei nostri, è bianco e profumatissimo. Troviamo subito il Mercato comunale, una costruzione luminosa e moderna dove sono esposti a piano terra generi alimentari e souvenir di paglia, al primo piano tessuti, perle e oggetti vari. La perla nera o grigia con venature argentee o verdastre è la regina.

Nel pomeriggio andiamo verso la costa orientale, piccole spiagge, mare aperto molto mosso. Vediamo l’approdo dei primi navigatori, la spiaggetta dei soffioni, senza sabbia, coperta da coralli e madrepore, luoghi panoramici, chioschetti dove le donne vendono banane mignon. La guida ci dice che le genti polinesiane amano il passato, rispettano anziani e anziane, vivono serenamente. Sanno non pensare, è questo forse che ha incantato Gauguin?

FOTO 1

Nel pomeriggio usciamo da soli, entriamo nella piccola e semplice cattedrale di Notre Dame impreziosita da una Via Crucis naive e da un ostensorio di legno. Efficaci.

Dopo cena, nuova passeggiata: non c’è una movida in senso italiano o europeo. È venerdì, a pochi metri dalla nave ci sono le “roulottes”, camioncini attrezzati che diventano ristoranti: in un momento dal cassone escono tavoli sedie tovaglie di plastica fornelli stoviglie. L’aspetto igienico mi sembra trascurato, ma la gente che mangia, le famigliole con i bambini sono allegre e in salute. Cerchiamo qualche bar, qualche posto da giovani, non per noi ovviamente, ma per vedere e capire: un bar schiera all’ingresso due pirati di cartapesta, ci sono ragazze, ragazzi e musica live; un altro mi sembra dedicato alle coppie omosessuali. In diretta assisto a un appassionato abbraccio lesbico. Piove a scrosci brevi ma violenti. Vorremmo ripararci da qualche parte, mi affaccio nel secondo bar ma l’invito pressante di una ragazza a sedermi accanto a lei non mi convince. Preferiamo i portici, finché non smette di piovere. Donne che sembrano vecchie intrecciano profumate corone di fiori freschi da vendere. Ma io non ne compro perché non sono tahitiana e soprattutto… perché non c’è Gauguin!

Quando leggemmo l’itinerario, ci chiedemmo che necessità ci fosse di stare due giorni a Papeete. Ora lo sappiamo, e se invece di due i giorni fossero stati tre o quattro, ne saremmo stati ancora più felici.

Usciamo presto, liberi da vincoli ed escursioni organizzate: passeggiata serena, altre sorprese ci attendono. Il Parco Bouganville è un piccolo giardino pieno di fiori e piante in centro, dietro l’ufficio postale (ormai mi sento una papeetese!). 

Ci sono, sul limite che affaccia verso il mare, delle bancarelle con parei perle magneti e monoi. Ma ci sono anche uomini colorati che suonano e cantano, accompagnando una fanciulla (di Gauguin ?) che danza dolcemente, avvolgendo intorno al corpo i suoi parei. Ci sediamo e subito arriva una persona che ci offre degli spicchi di frutta. Non sappiamo se sia uomo o donna. È vestita truccata e pettinata da donna, ma ha i lineamenti maschili, la voce baritonale, la barba rasata ma visibile. Ci ricordiamo quello che ci ha raccontato la guida Gerald: in famiglia il terzo figlio, se maschio, deve essere educato come una femmina perché dovrà curarsi dei genitori. Lo vestono lo educano lo abituano gli parlano come a una bambina. In qualche modo, sono i genitori a indicargli (indicarle) la strada. Alcuni poi si sposano, hanno figli, ma quella preparazione alla vita nel sesso diverso li condiziona per sempre. Gerald ha detto che sono tanti, che non dobbiamo giudicarli o condannarli… sono il frutto di una tradizione antica.

Che lunga digressione, torno alla danzatrice che noi guardiamo rapiti.

Come tutte le donne, ha un fiore fra i capelli. Dicono che se è messo a destra, vuol dire che la ragazza è libera, se è a sinistra, che è impegnata. E se i fiori sono due? Forse la donna vuol far sapere che è impegnata, ma potrebbe liberarsi.

Finita la danza, mi si avvicina e mi chiede di danzare con lei. Le dico di no in modo deciso, ma lei insiste, insiste molto e non sono capace di resistere. Mi sembrerebbe di offenderla. Vado con lei al centro della piazza, mi mette sui fianchi un pareo e mi invita a seguire i suoi movimenti, un leggero ancheggiare, un movimento morbido delle braccia e delle mani, un girare ora a destra ora a sinistra ora su me stessa. Piero fotografa. Io sono felice, anche se so che non sono giovane e magra come lei, né so ballare come lei.

Nel pomeriggio, nuova passeggiata, dopo l’acquisto di una camicia per Piero: non è la tahitiana blu a fiori gialli o rossi, ma una raffinata chemise (qui parliamo in francese da mattino a sera!) bianca con disegni geometrici grigi sul lato destro. Ottimo il cotone, liscio e leggero come seta. La proprietaria dell’elegante boutique mi ha venduto anche alcune deliziose donnine polinesiane magnetiche di legno, fatte palesemente a mano. Mi ha fatto notare che alcune avevano il reggiseno a triangolo, altre due noci di cocco, le coconettes. Naturalmente ho scelto queste ultime e la signora gentilmente, pur in presenza di altri clienti, le ha cercate in un mucchio, indicandomi anche i colori dei costumi. Insomma, mi ha dedicato un bel po’ di tempo per oggettini che costano meno di un euro!

FOTO 2 

Altro parco, lato mare, già visto dalla nave. Aiuole, fontane, ninfee, prati verdi, canoe sovrapposte sulla spiaggia. Sotto ampi padiglioni ricoperti di foglie di un albero tipo palma ci sono persone che leggono, una festa di bambine e bambini con palloncini e senza schiamazzi, amiche e amici che parlano pacatamente. C’è gente che si riposa o legge sul prato. Tutto è silenzio e serenità. Ci sono anche tanti “monumenti”, semplici maestose pietre che ricordano la conquista dell’autonomia, gli esperimenti nucleari (e le vittime), i governanti saggi.

FOTO 3

 




Sydney

Entrare nella baia di Sidney è un’emozione che ho già provato, eppure sono sul ponte a prua per accostarmi a questa grande città rivedendo le sue baie, il grande ponte – Harbour bridge – su cui sportive e sportivi salgono e l’Operahouse, quel meraviglioso insieme di gusci bianchi opalescenti che sembrano conchiglie o vele, che si riflettono nel mare e si moltiplicano…

  1. Harbour Bridge

Purtroppo non attracchiamo in porto, perché ci sono altre grandi navi; dunque ci ancoriamo in rada e, per scendere a terra, dobbiamo aspettare in fila che ci sia posto sul tender. Una volta arrivato il nostro turno, ce ne andiamo in centro, percorriamo come due vecchi residenti George Street e ritroviamo prima le Arcades e poi lo spettacolare Victoria Building: entrambe sono strutture vittoriane restaurate splendidamente e diventate raffinati centri commerciali. Ci sono bar e cioccolaterie, negozi di abbigliamento e antiquariato, di giocattoli e accessori, wifi free. Perciò ci fermiamo a lungo per comunicare con il nostro mondo degli affetti e delle amicizie. Nelle Arcades il wc è così raffinato che lo fotografo! Il Victoria Building è più grande, con ampi spazi e scale armoniose, vetrate colorate e grandi orologi. Non mi interessano i negozi, mi piace il riutilizzo intelligente di un vecchio mercato e la gente che va e viene, prende il the, conversa pacatamente.

  1. Victoria Building

Usciamo dopo cena, solita difficoltà di tender e tempo perso. Questa volta ci sbarcano ai Rocks, un porto vicino al centro, sul quale si affacciano bar e ristoranti affollati, sorvegliato dall’alto dal famoso ponte di ferro. Passeggiamo e arriviamo di fronte al Luna Park. Quelli che una volta erano magazzini del porto, sono diventati locali di tendenza, c’è tanta gente che mangia. Dalle sale interne di uno di questi, si sente musica e scopriamo che si festeggia una coppia di sposi. Vediamo anche alcuni invitati ballare. Poi, infreddoliti, torniamo in nave. Il tender è affollato, ci tocca andare al piano superiore coperto, ma aperto ai lati.

Il secondo giorno, da soli, ci muoviamo per le strade di Sydney con grande disinvoltura.

Arriviamo fino alla grande chiesa che sembra chiudere la parte occidentale della città, entriamo e ci sediamo: sotto l’altare un gruppo di giovani studentesse in divisa scolastica suona e canta; nel primo banco alcune mamme osservano felici e compiaciute. Noi chiediamo il permesso di fermarci. Arrivano le classi, ragazzi e ragazze si dispongono nei banchi, seguono lo spettacolo, cantano anche loro sottovoce, applaudono. Niente chiasso o gomitate né cellulari fra le mani.

Raggiungiamo il quartiere cinese, dotato di grandi porte e ricchissimo di negozi a prezzi convenienti, ristoranti e uffici di cambio. Visitiamo anche il mercato Paddy, struttura esterna in mattoni rossi, bella e suggestiva; all’interno è un modernissimo centro commerciale cinese. Guardo un po’ di merce ma sinceramente mi sembra scadente, soprattutto l’abbigliamento.

  1. Chinatown

L’idea che mi sono fatta di Sidney è che si tratta di una meravigliosa grande città dove la qualità della vita è sicuramente buona: non c’è il traffico caotico delle nostre città, mi dicono che chi vive fuori  e vuole andare in centro, si muove velocemente con i battelli che collegano le varie baie. Per le strade non si vedono mendicanti, ma qualche aborigeno che suona il didgeridoo, una specie di lunga “tromba” ricavata da un ramo di eucaliptos già scavato dalle termiti e ritenuto sacro dai residenti.

Proseguiamo poi per Bondi Beach, a pochi chilometri da Sidney, oggi luogo del surf, un villaggio costiero con lunga spiaggia ventosa, una volta abitato da immigrati europei. Dobbiamo ripararci nella casa dei surfisti per evitare che la sabbia, oltre a entrarci in bocca, negli occhi e nelle orecchie, rovini gli obiettivi di Piero. Pare che la parola Bondi sia di origine aborigena e indichi l’acqua che arriva sulla sabbia. A volte le onde sono altissime e pericolose; si racconta che negli anni ’30 del secolo scorso in un sol giorno morirono cinque bagnanti e altri duecento furono miracolosamente strappati alla furia del mare.

  1. Bondi Beach

La permanenza a Sidney volge al termine: questa città mi affascina con le sue tante baie, i grattacieli che si inseriscono “naturalmente” fra palazzi liberty, quell’insieme di gusci perlacei che è l’Operahouse, la gente che si muove con ordine, le razze che si incrociano in una convivenza ovvia, naturale, civile. E pensare che i primi abitanti deportati sulla grande isola dall’Inghilterra erano dei galeotti!

 

 

 

 




Melbourne

Nel 2013 arrivammo a Melbourne dopo un volo faticoso; che fosse lungo, lo sapevamo… ma ignoravamo che nella fila davanti a noi avremmo trovato una giovanissima mamma con una bimba di pochi mesi. Pianse per tutta la durata del viaggio, benché la mamma cercasse di cullarla, di darle il biberon, di farla “camminare” nei corridoi… Dunque, scesi dall’aereo, avremmo solo voluto dormire, invece la città ci accolse all’alba: l’aria era così tersa e luminosa che la stanchezza (con il nervosismo) sparì. Eravamo preparati a trovarci in una città grande – ma non come Sidney – e vivace, attraversata da un lungo fiume, abitata da genti provenienti dai Paesi più diversi, attenta alle politiche giovanili, ricca di verde e di attività culturali. Tutto vero, ma “di più”. Ci piacquero le strade e le piazze che conservavano – più di Sidney – elementi europei; ci affascinarono i bianchi discendenti dei britannici, i gialli, i neri, tutti ugualmente sorridenti e cortesi, pronti a cedere il posto in tram, a indicarci la direzione ecc. ecc. Quando partimmo, dicemmo che saremmo ritornati. Promessa mantenuta!

Quattro milioni di abitanti convivono civilmente, accolgono gli studenti che arrivano da tutto il mondo nella “città letteraria” dell’Unesco, una delle città più vivibili del mondo. Il fiume Yarra è percorribile con battelli, i vari quartieri sono ben collegati con il centro, con la grande Federation Square, dominata dalla Stazione, dalla Cattedrale e dal grande Centro Visitatori.

FOTO 1. Melbourne Museum

Prima tappa è il Melbourne Museum, ricca collezione di manufatti che raccontano la storia dello Stato di Victoria, di cui Melbourne è la capitale. L’esposizione è ricca e ben organizzata, si vedono gli animali, le piante, le abitazioni, le armi, gli utensili del passato più lontano, e si può approfondire ogni aspetto della civiltà aborigena con strumenti moderni, adatti soprattutto alle numerose scolaresche che incontriamo. Ma noi abbiamo l’appuntamento con Francesca e Virginia, due giovani giornaliste italiane che ho conosciuto per motivi di lavoro, quindi, dopo una visita piuttosto breve, ci precipitiamo a prendere il mitico tram 35, quello che attraversa il centro città ad uso dei turisti e dei residenti. È un tram “storico”, la corsa è gratuita. Arriva, saliamo contenti, una signora ci fa posto, ci sediamo e poi… rumori sinistri, il tram non parte e noi scendiamo. Vorremmo prenderne un altro, che è già arrivato, ma è bloccato dal nostro. Quindi, a piedi – anche a Melbourne ci sentiamo di casa – raggiungiamo Federation Square, incontriamo le due amiche, pranziamo insieme al ristorante giapponese che è sulla piazza, nel cuore della città, nello stesso modernissimo fabbricato in cui ha sede la radio per cui Francesca e Virginia lavorano, la SBS. Queste due giovani donne dall’Italia sono arrivate quaggiù, all’altro capo del mondo: sono serene, lavorano bene, rispettate e adeguatamente retribuite. Virginia ha due bimbi, ma gli asili funzionano e lei non ha problemi; la radio per cui lavora le consente di utilizzare orari flessibili. E così anche suo marito, che lavora altrove, ma trova nella sua azienda uguale comprensione. Ci raccontano che si trovano bene e non hanno intenzione di tornare. In Italia si recano una volta all’anno, in genere tra luglio e agosto. Qui la vita a loro sembra più “facile”, i mezzi pubblici circolano regolarmente rispettando gli orari; dalle 5 p.m. sono libere, incontrano gli amici in un clima familiare e informale. Alla loro radio, lavorano tanti giovani che arrivano dai luoghi più disparati, si sentono come in famiglia. La gente è serena, non c’è disoccupazione e lo stato sociale esiste davvero. Io e Piero le ascoltiamo molto volentieri, mangiamo il gyu tataki nigiri, ma rifiutiamo decisamente le bacchette. Intorno a noi, tante persone che vanno e vengono, gruppi di studenti che si fermano sul muretto che circonda il centro visitatori, bambini che giocano… voci sommesse, nessuno disturba.

Famous Landmark of Architectural Building Design at Australian Federation Square in Melbourne.

FOTO 2. Federation Square

Dopo pranzo Francesca ci fa salire alla radio: è un insieme di “isole”, da ciascuna delle quali si trasmette in una lingua. Le “isole” sono 74, quanto le lingue. Dunque, c’è il mondo. Questa è secondo me la dimensione di Melbourne, una città dal sapore europeo, aperta a tutti.

Salutate le amiche, il nostro giro continua; ogni tanto bisogna pure dedicarsi allo shopping: compriamo quattro bottiglie di vino e, passeggiando nel verde, troviamo il bus che ci porta a bordo.

 

 




Buenos Aires

Diluvia, ma non ci spaventiamo, quindi usciamo con i nostri ponchos dell’Ikea. Inarrestabili, raggiungiamo a piedi il centro percorrendo la strada diritta che dal Terminal passa davanti alla stazione ferroviaria e alla torre. Percorriamo anche una rotatoria pedonale aerea. Entriamo fradici nelle Galerias Pacifico, gigantesco e splendido centro commerciale che non avevamo mai visitato. Eppure è all’angolo con Florida ed è la quarta volta che siamo in questa città! È una bellissima struttura liberty, con grande cupola affrescata da artisti molto noti (qui), tre di origine italiana, uno spagnolo. Dobbiamo cambiare i dollari in pesos, sappiamo che un euro vale otto pesos. A un banchetto “ufficiale” non cambiano perché non abbiamo con noi i passaporti.  Chiediamo a un commesso che vende macchine fotografiche. Ci guarda in modo strano, poi a bassissima voce ci dice che può cambiare, ma “solo” uno a dieci. Ci sembra una proposta conveniente e allettante: ci guida in un corridoio, lontano da sguardi indiscreti, e ci porge i pesos. Lo ringraziamo di cuore, è stato veramente gentile e generoso! Continua a diluviare.

Foto 1. Galerias Pacífico.

Immagine di  Véronique Debord, tratta da Wikimedia Commons

Dopo cena decidiamo di andare in taxi da Maipù, che non è un locale dove si fa spettacolo, ma una sala dove gli argentini che amano il tango vanno a ballare. Con noi Rosanna, Zoran, il tedesco “che l’anno scorso ballava con la bionda” e una tedesca. Maipù si trova in Alsina, nella sede dell’Associazione Italiana.

Serata emozionante: i ballerini ballano con il cuore, con gli occhi, con le gambe che si allungano si girano si torcono si attorcigliano… scivolano con leggerezza e con intensità, regna l’armonia assoluta sul pavimento di legno. C’è una coppia giovane, lei con gonna rosso scuro, sono incantevoli, non distogliamo lo sguardo dalle loro teste accostate. Quelli che sembrano i “padroni di casa” ci accolgono baciandoci, vengono al nostro tavolo a farci compagnia, ci fanno sentire a casa. È questo il vero tango argentino, un ballo malinconico, teste vicine e corpi che non si sfiorano; nulla a che vedere con gli spettacoli dei professionisti per i turisti.

Foto 2. Cimitero di Recoleta. Evita Peron

Il giorno successivo ci aspetta la Buenos Aires ufficiale: Palermo, Recoleta (e il cimitero dove è sepolta Evita), Avenida 9 de Julio (ventidue corsie), Teatro Colòn (in platea duemila spettatori, tre sottopiani che ospitano camerini, magazzini ecc), Corrientes – la via che non dorme mai perché ricca di teatri e locali – Casa Rosada (da quando ho letto la biografia di Evita capisco molto di più!), Cabildo, Cattedrale e ricordo di Papa Francisco, Boca vivace e colorata, Puerto Madero con ponte di Calatrava (in copertina) – Ponte delle donne – e con tutte le strade dedicate alle donne (incredibile!).

Per l’elenco delle strade femminili di Puerto Madero consultare la pagina

http://www.nuevopuertomadero.com/?page=Vivir%3A%3ACalles&pagina=1&_s

Davanti alla Casa Rosada ci sono croci e manifestanti tranquilli: vogliono solo far sapere che sono i reduci della guerra delle isole Malvinas – o Falkland – o i figli dei militari morti. Per loro non è stato previsto nessun riconoscimento. Molte sono le donne rimaste sole, sempre pronte a combattere, come le madri e le nonne dei desaparecidos.

Buenos Aires è una grande e bella città europea: qui non c’è la confusione colorata del Brasile, né la signorilità tranquilla dell’Uruguay, ma si percepisce un senso di disagio, i portenostemono un colpo di stato, non si fidano della loro presidente, si parla del magistrato “suicidato” misteriosamente… in strada tanta polizia, centinaia di persone – soprattutto giovani – che offrono il cambio dei pesos. Ufficialmente, a un dollaro corrispondono 8.6 pesos; a noi l’impiegato delle Galerias Pacifico ha cambiato 1 a 10; altri ottengono 1 a 14, persino 1 a 16. Nel 1989, quando visitammo l’America latina con i nostri figli, più o meno la situazione era simile; l’inflazione correva così tanto che nei negozi cambiavano continuamente i prezzi. Facendo la fila al supermarket, il prezzo di un oggetto cambiava nel tragitto dallo scaffale alla cassa. Ci dicono che chi è figlio di italiani, chiede la doppia cittadinanza per sé e per i figli, per scappare in caso di necessità.

Foto 3. Casa Rosada.

Immagine di Lars Curfs, tratta da Wikimedia Commons

Se si prende un taxi, il taxista chiede ai passeggeri da dove arrivino: abbiamo l’aspetto straniero… Appena sentono “Italia”, si commuovono, raccontano di nonni partiti dai paesi poveri per la Merica, raccontano che tutto è cambiato, che ciò che producono viene esportato, che non mangiano più parrillada e bife de lomo, ma pollo, perché è più economico e si alleva in spazi ristretti.

Cammino per le strade e penso a Evita e al suo sogno, a Victoria Ocampo, intellettuale e viaggiatrice, che volle abitare non più in una grande casa simile a quelle europee, ma in una che fosse tipicamente argentina, circondata dal prato, dove i suoi ospiti potessero passeggiare e meditare.

 

 

 




Isola di Pasqua

Sbarchiamo in lancia ad Hanga Roa, saliamo su un minibus con accompagnatore locale – Jorge – e partiamo alla scoperta dei moai. Ce ne sono 887 sull’isola abitata da poco più di cinquemila persone, patrimonio dell’Unesco dal 1996. Ne vediamo subito uno non lontano dal porticciolo. Ma l’emozione è palpabile quando ci fermiamo sul bordo di una vallata e vediamo il moai con gli occhi e l’acconciatura. Poco distante, altra piattaforma (ahu in lingua locale) e quindici giganti senza occhi, imponenti solenni silenziosi giganteschi custodi di… ma cosa dovevano proteggere? Nelle piattaforme (sono nel complesso 270 sparse sul territorio dell’isola) che li sorreggono forse c’erano sepolture di uomini illustri che vivevano lungo la costa; nell’interno invece abitavano i poveri. L’80% dei moai è stato ricavato dalla caldera del vulcano Ranu Ranaku: noi ci andiamo arrampicandoci lungo la collina, accompagnati da moai di varie dimensioni, finché arriviamo all’imboccatura della cava, dove scorgiamo il moai non-finito, volto abbozzato e corpo saldamente ancorato alla pietra. Come un nonfinito michelangiolesco. Forse non è stato scolpito per intero perché gli abitanti sono fuggiti (per andare dove? erano in pericolo? chi li minacciava?). Scendendo verso la pianura vediamo ancora la piattaforma dei quindici, lontani e soli. Incontriamo un moai particolare, forse è inginocchiato: prega? si nasconde? Jorge ci dice che non si sa se sia il primo o l’ultimo… Aggiunge che i moai potrebbero essere espressione di culti religiosi, di luoghi di cerimonie, di allineamenti astronomici, di potere politico. Potrebbero essere semplicemente dei monumenti nei cimiteri. In realtà davanti alle piattaforme ci sono pietre in fila. L’unica cosa certa è che gli abitanti cominciarono a scolpire i moai nel 600 d.C. e si estinsero nel 1630, forse vinti in guerre tribali o vittime di fame e sete. Si dice che per far arrivare i moai vicino al mare li facessero scivolare su tronchi, quindi dalla distruzione della flora deriverebbe anche quella della fauna e della popolazione stessa. I 1000 anni di storia sarebbero rappresentati dai 15 moai, dunque la piattaforma sarebbe cresciuta secolo dopo secolo. Dopo un pranzetto nella trattoria “Tia Berta” a base di empanadas di tonno e formaggio, serviti da una giovane e gentile cameriera dalla pelle ambrata e dagli occhi espressivi, scuri, leggermente a mandorla, camminiamo lungo la strada che porta al molo, intorno alla quale vediamo pochi negozi e qualche bar. La vita è semplice, ragazze e ragazzi, studenti, il lunedì mattina partono per Santiago (5 ore di volo) e il venerdì tornano a casa; le donne forse sono alle prese con i lavori dell’orto o in casa a preparare il pranzo; i turisti vengono qui per amore dell’archeologia o della natura, quindi niente vip da strapazzo. Trascorriamo un po’ di tempo in un bar per connetterci e recuperare il rapporto con il mondo; vado in bagno uscendo dalla porta posteriore del locale e vedo un portico, fiori bellissimi, piccole curatissime case che creano una specie di quadrato verde al loro interno. Fotografo un ibiscus gigantesco. Il w. c. è pulito, pareti dipinte a colori vivaci: pesci coralli fiori. Lungo il mare ci sono piscine naturali dove sguazzano i bambini con le loro tavole. Il mare, appena mosso da un vento leggero e costante, ha un colore intenso, i moai sono lontani, eppure presenti con le loro suggestioni.  Il ricordo un po’ malinconico dei misteriosi custodi del nulla mi fa compagnia. Intorno, silenzio.