Due giorni ad Auckland

Siamo ad Auckland, in Nuova Zelanda, terra di pecore e lana, di giocatori di rugby, di coni vulcanici spenti, su cui sorge la città che è tutto un salire e uno scendere. La guida che ci accompagna si chiama Nadia, è milanese e da otto anni vive qui. Racconta molto bene gli elementi che differenziano questo Paese dall’Italia, fa notare il sentimento forte di democrazia e il rispetto attento delle regole da parte di tutti. Ci sono bei quartieri con costruzioni vittoriane, visitiamo un giardino d’inverno dal sapore antico e dall’esterno ammiriamo il grande Museo che rappresenta tutta la  storia dei neozelandesi, dai colonizzatori Maori a quelli inglesi, fino alla prima guerra mondiale. La città è molto estesa, la baia assai ampia, percorsa da frequentissimi ferry. La gente preferisce vivere lontano dal centro, in case singole, più o meno grandi, con giardino. Estesi e ben tenuti sono i parchi, con vegetazione rigogliosa. I campi da cricket si affittano gratis. Dove c’era acqua, ora ci sono mangrovie, piuttosto invasive. Piccolo quartiere elegante e raffinato è Davenport, con case ben tenute, spiaggia e giardini.

Foto 1. Victoria Street

La strada principale è la Victoria Street, su cui si affaccia una bella biblioteca dalle grandi vetrate e dal tetto in legno. C’è un settore dedicato alle scrittrici, scovo Alcott e Austen, Allende e Bronte. Nessuna scrittrice italiana, credo. Con un atto di grande presunzione, lascio in regalo il mio saggio sulle scrittrici italiane. Mi ringraziano con un dubbio negli occhi: qualcuno lo leggerà?

Foto 2. La biblioteca

Il centro di Auckland è attraversato dalla Queen Street, che noi percorriamo varie volte: ci sono negozi di lusso (Prada Dior Vuitton Gucci) ed empori cinesi; da una via laterale, in salita, si arriva alla Sky Tower, solito gigante in cemento e acciaio, alta 328 metri. Naturalmente ci andiamo, ammiriamo il panorama mare-terra-cielo da tutti i punti e livelli possibili e assistiamo anche al lancio di uno jumper che, percorsa una breve passerella, debitamente attrezzato, si lancia nel vuoto. Che bello essere giovani e che peccato essere stati giovani quando queste emozioni forti non si potevano provare! Una volta tornati a livello strada, ci sediamo a guardare altri ragazzi che si lanciano giù.

Certamente qui la qualità della vita è buona. La guida ci ha detto di non sentire nostalgia per l’Italia, dove vivono i suoi due figli. Torna a Milano una volta all’anno ed è contenta così.

Il giorno successivo, di nuovo, Queen Street.

Foto 3. Queen Street

Mi piacerebbe girare in un supermercato per vedere cosa compra la gente del posto. Entro in uno, decorato con felci, tipica vegetazione del luogo. Vorrei comprare le bustine per fare la bevanda al lime, le ho viste a Tonga, ma siccome erano made in New Zelandnon le ho comprate. E ho fatto male, perché qui non le trovo. Ci sono prodotti di multinazionali, Garnier, Oreal, Nivea, Ferrero, Lindt. I prezzi mi sembrano molto alti, non compro nulla.

Vedo scolaresche in fila, ordinate. Tutte in divisa, senza cellulari in mano. Gli insegnanti accompagnatori li precedono e qualcuno li segue. Nessuno urla, nessuno schiamazza. I maschi hanno i berretti in testa con il coprinuca per evitare i raggi solari. Le femmine hanno capelli lunghi. Tutte e tutti coprono le braccia con giubbini o polo.

All’interno del porto mi fermo per scegliere magneti e altre sciocchezze.

Alle 13.00 si parte. Ciao, Auckland, città di mare e vele!

Foto 4. Volvo Ocean Race in Auckland

 

 

 




Tonga, “Patria dell’amore”

Siamo a Nuku’Alofa, la capitale di questo regno sperduto nel Pacifico. Scendiamo dalla nave e ci accolgono con canti e danze, c’è anche una banda formata da ragazze in divisa. A tutti i passeggeri mettono una collana di piccoli fiori arancioni al collo. Carina, ma punge. Me la metto in testa come una coroncina.

  1. Carta di Tonga

Il nome di questa capitale, che conta meno di duemila abitanti (1000 adulti e 700 bambini) vuol dire “Patria dell’amore”. Io e Piero andiamo verso il centro, troviamo un mercatino per turisti e poi un mercato vero, con frutta verdura e oggetti di paglia che servono ai tongani per la vita quotidiana. Le donne indossano un gonnellino di foglie intrecciate a striscioline: è il segno del rispetto che ci portano, il gonnellino si usa nelle occasioni importanti. Gli uomini usano una gonna nera tipo pareo sulla quale avvolgono una stuoia. Prima di fotografare un bambino che è con la mamma al mercato, chiedo il permesso. La mamma, felice, chiama anche gli altri tre figlioletti, se li stringe e sorride: fotografo il bel gruppo famigliare. L’escursione si fa in scuolabus, un po’ rannicchiati. La guida è una ragazza di 26 anni, si chiama Eunice Pongipongi, ci racconta esprimendosi in un buon italiano di aver studiato in Nuova Zelanda e di vivere ora sull’isola con marito e figlio. Conosciamo il bimbetto perché una sosta si effettua nel luogo dello sbarco di Cook, dove c’è un banchetto con souvenirs: la madre di Eunice è la venditrice, il piccolo Joe si attacca alle gambe della mamma. Nel corso dell’escursione vediamo qualche palazzo reale, anche quello dove abita la regina madre, la Chiesa cattolica di Sant’Antonio, le tombe reali e alcuni cimiteri.

2-3 Al mercato

Qui al cimitero sono sepolti i poveri, i ricchi hanno nei loro giardini più degna sepoltura. I tumuli di terra sono addobbati con fiori e teli colorati, più o meno preziosi. Uno è abbellito con un copriletto damascato bianco. Eunice ci dice che quando muore qualcuno, i parenti meno vicini provvedono al pranzo dei parenti stretti. Se non c’è il tempo, ci si rivolge a un’impresa di catering che pensa a tutto e che mette a disposizione anche ampi spazi. Insomma, il funerale diventa occasione di incontro per persone che magari non si vedono da molto tempo (anche se su un’isola così piccola mi pare strano…) o che invece tornano dalla Nuova Zelanda o dall’Australia.

  1. Cimitero

Le case sono di proprietà di chi le abita, i tetti sono coperti di foglie dell’albero del pane. I giardini sono curatissimi. Il re regna, con un parlamento formato (ci avrei scommesso!) da soli uomini. Regime assoluto. Le donne ballano con il corpo unto di olio di cocco. Se si tratta di ragazze, si attende che l’olio goccioli insieme al sudore: sarebbe la prova della verginità della ballerina. Io ho l’impressione che in questo regno gli unici a non avere problemi siano i reali e i loro adepti. Intorno mi sembra di vedere una dignitosa povertà, per nascondere la quale uomini e donne ostentano denti d’oro, anche da giovani.

L’isola è piatta, niente colline e piccole valli verdi come in Polinesia. Però c’è un trilite, una porta in pietra costituita da tre massi. Forse è uno strumento per misurare il tempo o i solstizi, evoca Stonehenge. È del 1200 circa.

  1. Trilite

Dopo essere stata a Papeete, Moorea e Bora Bora, questa impronunciabile capitale mi lascia indifferente, o forse no, è un mondo ancora primitivo che cerca di attirare turisti… e non sa che, dove arrivano i turisti, muore l’autenticità, almeno un po’.

 

 

 

 




Polinesia francese: Bora Bora

Bora Bora – a parte il nome che ricorda Trieste e il suo vento – ci appare come un miraggio. Azzurrissimo. Dal mare emerge un arcobaleno insperato. L’escursione è programmata alle 11.15 e siccome siamo in rada non è possibile scendere prima dalla nave. Mi sento un ostaggio.

Mappa dell’isola

Saliamo sul truck, un camion con pianale attrezzato con sedili, addobbato con fiori e foglie, e facciamo il giro dell’isola, che è più grande di Moorea, più turistica, con alberghi per vip direttamente sul mare, nel senso che i bungalows sono poggiati su palafitte. Qualcuno ha il pavimento trasparente per vedere i pesci. Non mi attira dormire sull’acqua. Né mi piacerebbe essere a Bora Bora e vivere rinchiusa in un “ghetto”, sia pure di gran lusso, lontana dal mondo vero. Anche qui, colori da cartolina.

Foto 1. Paradiso subacqueo

Visitiamo una “fabbrica” di parei e una ragazza ci offre frutta e acqua, oltre a spiegarci la tecnica dei colori e dei disegni ottenuti giocando con foglie che danno il colore e figurine ritagliate da vecchi copertoni (tartarughe delfini sole luna felci ecc.). Immersi nell’acqua colorata, poi stesi su graticci al sole, con i pezzi di copertone che poggiati sulla stoffa creano ombre e disegni: una volta asciutti, i parei rivelano il loro fascino!

Ne compro alcuni, non so più quanti parei siano già accantonati in valigia…ma dall’Italia fioccano le richieste!

Comprare un pareo che ha i colori e i disegni tipici di questi luoghi non vuol dire soltanto avere in valigia qualcosa da regalare, ma aiutare queste ragazze che vivono insieme, nelle casette dove lavorano e vendono. Mi sussurrano che sono ragazze-madri o giovani vedove. Intorno qualche bambino, nessun uomo adulto. Sono dignitose, allevano i loro figli, lavorano onestamente e, sempre, sorridono, anche con gli occhi.

Foto 2. I colorati parei

Prima che finisca il giro ufficiale, ho il tempo di ferirmi al braccio destro sfregandolo con forza sul finestrino del truck. Il ragazzo che ci accompagna mi disinfetta, ma il bagno che andiamo a fare su una bella spiaggia è limitato per me: sembro una rotonda veterocomunista che si immerge con braccio levato e pugno chiuso! Il mare è molto calmo, meno caldo di ieri, popolato da tanti pesci, anche abbastanza grandi e colorati. E chiaro, trasparente fino alla barriera corallina. Poi diventa di un blu intenso.

Dopo, giro nei negozietti del molo e nuovi acquisti: monoi (olio per il corpo), saponi al tiarè, un bel tessuto bianco con disegni geometrici neri. Ne farò fare un tubino.

Anche qui, donne-uomo o uomini-donna e sempre l’interrogativo: sono condizionati dalla famiglia e dalla tradizione? Sono bisessuali? Hanno voce maschile e garbo femminile, capelli spesso raccolti in uno chignon e abiti colorati. Sono truccati/e con discrezione.

Queste isole da favola mi hanno fatto pensare ai francesi che le hanno colonizzate: sono stati bravi, le popolazioni sono tranquille e serene, sembrano ospitali e solidali, vivono in luoghi curati e rispettano i vecchi, i bambini e l’ambiente. A proposito, siccome la sepoltura dei morti in cimitero è costosa, molti seppelliscono i loro cari in giardino. Abbiamo visto parecchi esempi.

Foto 3. Cani in spiaggia

Altra cosa sono i grossi cani che circolano in libertà e fanno un po’ paura e i granchi robusti che scavano in terra le loro tane, da cui escono velocissimi per catturare fiori freschi (non per abbellire le tane ma per mangiarli). Dal truck abbiamo gettato fiori e foglie e subito sono emersi dal buio e hanno trascinato dentro il profumato bottino.

Foto 4. Granchi all’opera

La tappa polinesiana è finita: dei luoghi, delle persone, del truck e dei granchi rimane un ricordo luminoso e sereno.

 

 




Polinesia francese: Moorea

Qui arrivò capitan Cook nel 1867, nella baia di Opinoho dove è ancorata la nave. Questo è un luogo magico: la natura è rigogliosa, selvaggia e incontaminata, ma non aggressiva. Solo prepotente. Ci sono picchi molto alti (2000 metri) e vallate verdi che si tingono di blu quando toccano il mare. I colori sono quelli delle cartoline che ho spedito (solo due!), i fiori sono dovunque, le casette hanno giardini curati e ridenti. 

Foto 1. Panoramica della baia di Cook

Moorea è un’isola fascinosa, meta di turismo ricco e internazionale, con alberghi di lusso, resort che si sporgono sull’acqua, spiagge da sogno, bianche lunghe luminose, ma nulla è ostentato, c’è una discrezione palese. 

Vediamo i misteriosi marae, templi o altari di pietre. Si sa poco della loro storia. A me viene spontaneo pensare che i romani  gli altari li chiamavano arae, ma non oso fare alcun collegamento.

Foto 2. La spiaggia

Nel pomeriggio, con una coppia appena conosciuta, ce ne andiamo alla spiaggia dell’Hotel Hybiscus, non si può venire in Polinesia senza fare un bagno! La spiaggia è libera, l’albergo è pronto a offrirla, ma non dispone di sedie lettini ombrelloni. A noi va bene così, siamo dentro il sogno. E dentro le cartoline, con palme e sabbia dorata. L’acqua è calda, io non uscirei più. La nuova amica non ha indossato o portato il costume, questa gita in spiaggia non era prevista. Si toglie la tshirt, rimane in reggiseno e pantaloncini e fa il bagno lo stesso. Ci accampiamo presso una scaletta, dove c’è un po’ d’ombra e dove Piero può sedersi tranquillamente. Il mare è sempre più blu… come dice una vecchia canzoncina. 

Anche qui, andando via, ispeziono il w.c. per togliermi il costume bagnato: la receptionist mi accompagna in una stanzetta e mi indica il bagno: pulizia, profumo di fiori e petali sul lavandino. E infinita spontanea cortesia.

Foto 3. La cortesia polinesiana

Sono emozionata, mi sembra di non aver visto mai un posto così assolutamente bello e di non aver mai vissuto un pomeriggio così dolce.

Foto 4. Polinesia francese

In copertina. veduta aerea di Moorea 




Papeete

Dalle sei del mattino mi metto in vedetta. L’ingresso del porto è bello, c’è tanto verde, la città conta quasi 200.000 abitanti. Questa isola ha una penisola, Tahiti. Il solo nome evoca Gauguin e le sue donne con fiori nei capelli. Scendiamo alle nove, accolti con danze canti e fiori da un gruppo allegro e colorato. Il fiore che ci offrono è il tiare, sembra un mughetto più grande dei nostri, è bianco e profumatissimo. Troviamo subito il Mercato comunale, una costruzione luminosa e moderna dove sono esposti a piano terra generi alimentari e souvenir di paglia, al primo piano tessuti, perle e oggetti vari. La perla nera o grigia con venature argentee o verdastre è la regina.

Nel pomeriggio andiamo verso la costa orientale, piccole spiagge, mare aperto molto mosso. Vediamo l’approdo dei primi navigatori, la spiaggetta dei soffioni, senza sabbia, coperta da coralli e madrepore, luoghi panoramici, chioschetti dove le donne vendono banane mignon. La guida ci dice che le genti polinesiane amano il passato, rispettano anziani e anziane, vivono serenamente. Sanno non pensare, è questo forse che ha incantato Gauguin?

FOTO 1

Nel pomeriggio usciamo da soli, entriamo nella piccola e semplice cattedrale di Notre Dame impreziosita da una Via Crucis naive e da un ostensorio di legno. Efficaci.

Dopo cena, nuova passeggiata: non c’è una movida in senso italiano o europeo. È venerdì, a pochi metri dalla nave ci sono le “roulottes”, camioncini attrezzati che diventano ristoranti: in un momento dal cassone escono tavoli sedie tovaglie di plastica fornelli stoviglie. L’aspetto igienico mi sembra trascurato, ma la gente che mangia, le famigliole con i bambini sono allegre e in salute. Cerchiamo qualche bar, qualche posto da giovani, non per noi ovviamente, ma per vedere e capire: un bar schiera all’ingresso due pirati di cartapesta, ci sono ragazze, ragazzi e musica live; un altro mi sembra dedicato alle coppie omosessuali. In diretta assisto a un appassionato abbraccio lesbico. Piove a scrosci brevi ma violenti. Vorremmo ripararci da qualche parte, mi affaccio nel secondo bar ma l’invito pressante di una ragazza a sedermi accanto a lei non mi convince. Preferiamo i portici, finché non smette di piovere. Donne che sembrano vecchie intrecciano profumate corone di fiori freschi da vendere. Ma io non ne compro perché non sono tahitiana e soprattutto… perché non c’è Gauguin!

Quando leggemmo l’itinerario, ci chiedemmo che necessità ci fosse di stare due giorni a Papeete. Ora lo sappiamo, e se invece di due i giorni fossero stati tre o quattro, ne saremmo stati ancora più felici.

Usciamo presto, liberi da vincoli ed escursioni organizzate: passeggiata serena, altre sorprese ci attendono. Il Parco Bouganville è un piccolo giardino pieno di fiori e piante in centro, dietro l’ufficio postale (ormai mi sento una papeetese!). 

Ci sono, sul limite che affaccia verso il mare, delle bancarelle con parei perle magneti e monoi. Ma ci sono anche uomini colorati che suonano e cantano, accompagnando una fanciulla (di Gauguin ?) che danza dolcemente, avvolgendo intorno al corpo i suoi parei. Ci sediamo e subito arriva una persona che ci offre degli spicchi di frutta. Non sappiamo se sia uomo o donna. È vestita truccata e pettinata da donna, ma ha i lineamenti maschili, la voce baritonale, la barba rasata ma visibile. Ci ricordiamo quello che ci ha raccontato la guida Gerald: in famiglia il terzo figlio, se maschio, deve essere educato come una femmina perché dovrà curarsi dei genitori. Lo vestono lo educano lo abituano gli parlano come a una bambina. In qualche modo, sono i genitori a indicargli (indicarle) la strada. Alcuni poi si sposano, hanno figli, ma quella preparazione alla vita nel sesso diverso li condiziona per sempre. Gerald ha detto che sono tanti, che non dobbiamo giudicarli o condannarli… sono il frutto di una tradizione antica.

Che lunga digressione, torno alla danzatrice che noi guardiamo rapiti.

Come tutte le donne, ha un fiore fra i capelli. Dicono che se è messo a destra, vuol dire che la ragazza è libera, se è a sinistra, che è impegnata. E se i fiori sono due? Forse la donna vuol far sapere che è impegnata, ma potrebbe liberarsi.

Finita la danza, mi si avvicina e mi chiede di danzare con lei. Le dico di no in modo deciso, ma lei insiste, insiste molto e non sono capace di resistere. Mi sembrerebbe di offenderla. Vado con lei al centro della piazza, mi mette sui fianchi un pareo e mi invita a seguire i suoi movimenti, un leggero ancheggiare, un movimento morbido delle braccia e delle mani, un girare ora a destra ora a sinistra ora su me stessa. Piero fotografa. Io sono felice, anche se so che non sono giovane e magra come lei, né so ballare come lei.

Nel pomeriggio, nuova passeggiata, dopo l’acquisto di una camicia per Piero: non è la tahitiana blu a fiori gialli o rossi, ma una raffinata chemise (qui parliamo in francese da mattino a sera!) bianca con disegni geometrici grigi sul lato destro. Ottimo il cotone, liscio e leggero come seta. La proprietaria dell’elegante boutique mi ha venduto anche alcune deliziose donnine polinesiane magnetiche di legno, fatte palesemente a mano. Mi ha fatto notare che alcune avevano il reggiseno a triangolo, altre due noci di cocco, le coconettes. Naturalmente ho scelto queste ultime e la signora gentilmente, pur in presenza di altri clienti, le ha cercate in un mucchio, indicandomi anche i colori dei costumi. Insomma, mi ha dedicato un bel po’ di tempo per oggettini che costano meno di un euro!

FOTO 2 

Altro parco, lato mare, già visto dalla nave. Aiuole, fontane, ninfee, prati verdi, canoe sovrapposte sulla spiaggia. Sotto ampi padiglioni ricoperti di foglie di un albero tipo palma ci sono persone che leggono, una festa di bambine e bambini con palloncini e senza schiamazzi, amiche e amici che parlano pacatamente. C’è gente che si riposa o legge sul prato. Tutto è silenzio e serenità. Ci sono anche tanti “monumenti”, semplici maestose pietre che ricordano la conquista dell’autonomia, gli esperimenti nucleari (e le vittime), i governanti saggi.

FOTO 3

 




Buenos Aires

Diluvia, ma non ci spaventiamo, quindi usciamo con i nostri ponchos dell’Ikea. Inarrestabili, raggiungiamo a piedi il centro percorrendo la strada diritta che dal Terminal passa davanti alla stazione ferroviaria e alla torre. Percorriamo anche una rotatoria pedonale aerea. Entriamo fradici nelle Galerias Pacifico, gigantesco e splendido centro commerciale che non avevamo mai visitato. Eppure è all’angolo con Florida ed è la quarta volta che siamo in questa città! È una bellissima struttura liberty, con grande cupola affrescata da artisti molto noti (qui), tre di origine italiana, uno spagnolo. Dobbiamo cambiare i dollari in pesos, sappiamo che un euro vale otto pesos. A un banchetto “ufficiale” non cambiano perché non abbiamo con noi i passaporti.  Chiediamo a un commesso che vende macchine fotografiche. Ci guarda in modo strano, poi a bassissima voce ci dice che può cambiare, ma “solo” uno a dieci. Ci sembra una proposta conveniente e allettante: ci guida in un corridoio, lontano da sguardi indiscreti, e ci porge i pesos. Lo ringraziamo di cuore, è stato veramente gentile e generoso! Continua a diluviare.

Foto 1. Galerias Pacífico.

Immagine di  Véronique Debord, tratta da Wikimedia Commons

Dopo cena decidiamo di andare in taxi da Maipù, che non è un locale dove si fa spettacolo, ma una sala dove gli argentini che amano il tango vanno a ballare. Con noi Rosanna, Zoran, il tedesco “che l’anno scorso ballava con la bionda” e una tedesca. Maipù si trova in Alsina, nella sede dell’Associazione Italiana.

Serata emozionante: i ballerini ballano con il cuore, con gli occhi, con le gambe che si allungano si girano si torcono si attorcigliano… scivolano con leggerezza e con intensità, regna l’armonia assoluta sul pavimento di legno. C’è una coppia giovane, lei con gonna rosso scuro, sono incantevoli, non distogliamo lo sguardo dalle loro teste accostate. Quelli che sembrano i “padroni di casa” ci accolgono baciandoci, vengono al nostro tavolo a farci compagnia, ci fanno sentire a casa. È questo il vero tango argentino, un ballo malinconico, teste vicine e corpi che non si sfiorano; nulla a che vedere con gli spettacoli dei professionisti per i turisti.

Foto 2. Cimitero di Recoleta. Evita Peron

Il giorno successivo ci aspetta la Buenos Aires ufficiale: Palermo, Recoleta (e il cimitero dove è sepolta Evita), Avenida 9 de Julio (ventidue corsie), Teatro Colòn (in platea duemila spettatori, tre sottopiani che ospitano camerini, magazzini ecc), Corrientes – la via che non dorme mai perché ricca di teatri e locali – Casa Rosada (da quando ho letto la biografia di Evita capisco molto di più!), Cabildo, Cattedrale e ricordo di Papa Francisco, Boca vivace e colorata, Puerto Madero con ponte di Calatrava (in copertina) – Ponte delle donne – e con tutte le strade dedicate alle donne (incredibile!).

Per l’elenco delle strade femminili di Puerto Madero consultare la pagina

http://www.nuevopuertomadero.com/?page=Vivir%3A%3ACalles&pagina=1&_s

Davanti alla Casa Rosada ci sono croci e manifestanti tranquilli: vogliono solo far sapere che sono i reduci della guerra delle isole Malvinas – o Falkland – o i figli dei militari morti. Per loro non è stato previsto nessun riconoscimento. Molte sono le donne rimaste sole, sempre pronte a combattere, come le madri e le nonne dei desaparecidos.

Buenos Aires è una grande e bella città europea: qui non c’è la confusione colorata del Brasile, né la signorilità tranquilla dell’Uruguay, ma si percepisce un senso di disagio, i portenostemono un colpo di stato, non si fidano della loro presidente, si parla del magistrato “suicidato” misteriosamente… in strada tanta polizia, centinaia di persone – soprattutto giovani – che offrono il cambio dei pesos. Ufficialmente, a un dollaro corrispondono 8.6 pesos; a noi l’impiegato delle Galerias Pacifico ha cambiato 1 a 10; altri ottengono 1 a 14, persino 1 a 16. Nel 1989, quando visitammo l’America latina con i nostri figli, più o meno la situazione era simile; l’inflazione correva così tanto che nei negozi cambiavano continuamente i prezzi. Facendo la fila al supermarket, il prezzo di un oggetto cambiava nel tragitto dallo scaffale alla cassa. Ci dicono che chi è figlio di italiani, chiede la doppia cittadinanza per sé e per i figli, per scappare in caso di necessità.

Foto 3. Casa Rosada.

Immagine di Lars Curfs, tratta da Wikimedia Commons

Se si prende un taxi, il taxista chiede ai passeggeri da dove arrivino: abbiamo l’aspetto straniero… Appena sentono “Italia”, si commuovono, raccontano di nonni partiti dai paesi poveri per la Merica, raccontano che tutto è cambiato, che ciò che producono viene esportato, che non mangiano più parrillada e bife de lomo, ma pollo, perché è più economico e si alleva in spazi ristretti.

Cammino per le strade e penso a Evita e al suo sogno, a Victoria Ocampo, intellettuale e viaggiatrice, che volle abitare non più in una grande casa simile a quelle europee, ma in una che fosse tipicamente argentina, circondata dal prato, dove i suoi ospiti potessero passeggiare e meditare.

 

 

 




Isola di Pasqua

Sbarchiamo in lancia ad Hanga Roa, saliamo su un minibus con accompagnatore locale – Jorge – e partiamo alla scoperta dei moai. Ce ne sono 887 sull’isola abitata da poco più di cinquemila persone, patrimonio dell’Unesco dal 1996. Ne vediamo subito uno non lontano dal porticciolo. Ma l’emozione è palpabile quando ci fermiamo sul bordo di una vallata e vediamo il moai con gli occhi e l’acconciatura. Poco distante, altra piattaforma (ahu in lingua locale) e quindici giganti senza occhi, imponenti solenni silenziosi giganteschi custodi di… ma cosa dovevano proteggere? Nelle piattaforme (sono nel complesso 270 sparse sul territorio dell’isola) che li sorreggono forse c’erano sepolture di uomini illustri che vivevano lungo la costa; nell’interno invece abitavano i poveri. L’80% dei moai è stato ricavato dalla caldera del vulcano Ranu Ranaku: noi ci andiamo arrampicandoci lungo la collina, accompagnati da moai di varie dimensioni, finché arriviamo all’imboccatura della cava, dove scorgiamo il moai non-finito, volto abbozzato e corpo saldamente ancorato alla pietra. Come un nonfinito michelangiolesco. Forse non è stato scolpito per intero perché gli abitanti sono fuggiti (per andare dove? erano in pericolo? chi li minacciava?). Scendendo verso la pianura vediamo ancora la piattaforma dei quindici, lontani e soli. Incontriamo un moai particolare, forse è inginocchiato: prega? si nasconde? Jorge ci dice che non si sa se sia il primo o l’ultimo… Aggiunge che i moai potrebbero essere espressione di culti religiosi, di luoghi di cerimonie, di allineamenti astronomici, di potere politico. Potrebbero essere semplicemente dei monumenti nei cimiteri. In realtà davanti alle piattaforme ci sono pietre in fila. L’unica cosa certa è che gli abitanti cominciarono a scolpire i moai nel 600 d.C. e si estinsero nel 1630, forse vinti in guerre tribali o vittime di fame e sete. Si dice che per far arrivare i moai vicino al mare li facessero scivolare su tronchi, quindi dalla distruzione della flora deriverebbe anche quella della fauna e della popolazione stessa. I 1000 anni di storia sarebbero rappresentati dai 15 moai, dunque la piattaforma sarebbe cresciuta secolo dopo secolo. Dopo un pranzetto nella trattoria “Tia Berta” a base di empanadas di tonno e formaggio, serviti da una giovane e gentile cameriera dalla pelle ambrata e dagli occhi espressivi, scuri, leggermente a mandorla, camminiamo lungo la strada che porta al molo, intorno alla quale vediamo pochi negozi e qualche bar. La vita è semplice, ragazze e ragazzi, studenti, il lunedì mattina partono per Santiago (5 ore di volo) e il venerdì tornano a casa; le donne forse sono alle prese con i lavori dell’orto o in casa a preparare il pranzo; i turisti vengono qui per amore dell’archeologia o della natura, quindi niente vip da strapazzo. Trascorriamo un po’ di tempo in un bar per connetterci e recuperare il rapporto con il mondo; vado in bagno uscendo dalla porta posteriore del locale e vedo un portico, fiori bellissimi, piccole curatissime case che creano una specie di quadrato verde al loro interno. Fotografo un ibiscus gigantesco. Il w. c. è pulito, pareti dipinte a colori vivaci: pesci coralli fiori. Lungo il mare ci sono piscine naturali dove sguazzano i bambini con le loro tavole. Il mare, appena mosso da un vento leggero e costante, ha un colore intenso, i moai sono lontani, eppure presenti con le loro suggestioni.  Il ricordo un po’ malinconico dei misteriosi custodi del nulla mi fa compagnia. Intorno, silenzio.

 

 

 




Viaggiatrici. Le tournée di Clara Schumann Wieck

Di Federica Chmielewski

 

In un contesto culturale e sociale come quello del XIX secolo dove l’ambito della musica era prevalentemente riservato agli uomini, sono riuscite a distinguersi grandi esecutrici e compositrici, tra le quali emerge la figura di Clara Wieck.

Clara è una donna determinata: pianista, compositrice, manager di se stessa e del marito Robert, insegnante, madre di otto figli e artista completa che riesce a calcare con successo i più grandi palcoscenici d’Europa per sessant’anni.

Figlia di un musicista, comincia molto presto la sua carriera di pianista, tanto da essere considerata “Wunderkind”, una bambina prodigio, e, successivamente, la più grande pianista dell’Ottocento.

I segni di modernità e di indipendenza sono da ricondurre ai suoi genitori: sua madre non rinunciò mai alla sua carriera di insegnante di musica, sebbene dovesse conciliare il suo lavoro con il ruolo di madre e governante di casa; suo padre, Friedrich Wieck, insegnante di musica ambizioso e molto severo, accetta il divorzio dalla moglie ma non vuole rinunciare alla figlia Clara, che nei piani del padre, avrebbe dovuto essere la rappresentazione vivente degli esiti positivi del suo metodo didattico.

Friedrich introduce la sua figlia prediletta allo studio della musica; la sua mente aperta e orientata al successo induce Clara a intraprendere il primo viaggio musicale già nel 1831-32 a Parigi, all’età di 12 anni; pur essendo ancora una bambina, il papà è cosciente che la figlia non deve essere considerata un genio solo perché ancora molto giovane ma ha intenzione di formare una pianista solida, virtuosa e improvvisatrice. A partire dalla sua prima tournée (durata 4 mesi e mezzo) la vita di Clara è scandita da continui viaggi in Germania e all’estero; ciò le permette di visitare città, di esibirsi e di incontrare personalità di spicco come Johann Wolfgang von Goethe, il quale, in occasione di un suo concerto a Weimar, rimane talmente colpito dalla giovane Clara da inviarle un biglietto di ringraziamento e una medaglia di bronzo che lo ritraeva.

Durante il viaggio che l’avrebbe condotta a Parigi, Clara si esibisce non solo a Weimar ma anche a Erfurt, Gotha, Arnstadt, Kassel, Francoforte sul Meno e Darmstadt; malgrado il grande lavoro da impresario e la precisa organizzazione del padre nella prima tournée non sembra aver dato alla famiglia la soddisfazione attesa da un progetto così grande per una musicista così giovane. Ciò non scoraggia Wieck, che tra il 1834 e il 1835 progetta una seconda tournée; nell’inverno del 1835 Clara si esibisce con grande successo ad Hannover con 5 concerti, a Magdeburgo, Schönebeck; Halberstadt, Brunswick, Brema, Amburgo.

Clara Wieck at the age of 16, in Hannover, Germany. On the piano is the solo part of the third movement of her Concerto op. 7. Lithograph by J. Giere, 1835.

FOTO 1. Clara Wieck all’età di 15 anni. Litografia di Julius Giere, 1835 conservata presso la “Robert-Schumann-Haus”, Zwickau

A poco a poco Clara Wieck da promessa della scena musicale europea diventa concertista acclamata e prosegue i suoi viaggi negli anni successivi: nel febbraio del 1837 la sua tournée parte da Berlino, prosegue poi a Praga, dove, alla fine del primo dei 3 concerti in programma, viene chiamata sul palcoscenico ben 13 volte ad accogliere il plauso del pubblico. La sua tournée approda a Vienna, dove rimane 6 mesi.

Il soggiorno viennese la consacra tra i più grandi virtuosi del tempo, Clara regge il confronto con musicisti quali Thalberg, Henselt e Liszt; l’autore Franz Grillparzer, che aveva tenuto l’elogio funebre ai funerali di Beethoven, le dedica un componimento nella Wiener Zeitschrift; a Vienna scoppia una “Clara-Wieck-Fieber” tanto che alcune pasticcerie della città partecipano a un concorso per la creazione della migliore “torte à la Wieck”. In tutto questo l’apoteosi della sua grandezza è data dalla nomina a “Kammervirtuosin” (pianista di corte imperiale) da parte dell’imperatore Ferdinando I.

La scelta da parte dell’imperatore non è scontata poiché Clara è donna, straniera in territorio viennese e protestante in un impero cattolico.

Nel 1839 Clara Wieck affronta uno scontro molto accesso con il padre a causa del suo fidanzamento con Robert Schumann, ex allievo di Friedrich Wieck, e parte per la prima volta da sola per un secondo viaggio a Parigi.

Terminata questa prima fase della sua carriera, il secondo grande periodo di viaggi e tournée coincide con l’inizio della vita matrimoniale con Robert Schumann e con i concerti con lui intrapresi.

Testimonianze dirette sono riscontrabili in un diario che i due coniugi cominciano a scrivere il giorno del loro matrimonio e dove sono annotati momenti quotidiani della loro vita familiare e considerazioni sui luoghi, i concerti, e le personalità conosciute in occasione di alcune tournée.

Sono particolarmente interessanti i racconti dei viaggi che Clara descrive minuziosamente, caratterizzati talvolta da un tono critico e pungente a causa di contrattempi e disagi; la sua narrazione della Svizzera Sassone, ad esempio, con i suoi paesaggi rocciosi e i suoi castelli caratteristici è solo la prima di una lunga serie.

La sua vita quotidiana la pone di fronte alla ricerca continua di un equilibrio tra i suo ruoli di pianista, madre e moglie:

“Vorrei davvero viaggiare, quest’inverno e anche il prossimo, e poi lasciare il pubblico, tornarmene alla mia vita di casa e dare delle lezioni. Potremmo vivere senza problemi – pensaci ancora una volta davvero seriamente, mio caro marito” (Schumann R., Wieck C.; Casa Schumann, Diari 1841-1844, EDT, Torino, 1998, p. 25.).

Non sempre riesce nell’intento, tanto da scrivere con evidente rammarico che si trova costretta a non poter studiare la mattina per non disturbare l’attività lavorativa del marito.

Schumann, dal canto suo, si rende conto della difficoltà della moglie di conciliare vita privata e carriera musicale, si chiede cosa pensi il mondo di una coppia così anticonformista per il periodo e non vuole che Clara rinunci al proprio talento tanto da pensare a una soluzione estrema:

“E tu dovresti […] lasciare inutilizzato il tuo talento perché io sono incatenato alla mia rivista o al mio pianoforte. Proprio ora che sei giovane, fresca e piena di energia? Abbiamo trovato una soluzione. Tu hai un’accompagnatrice e io sono tornato a casa dalla bambina e al mio lavoro. Ma cosa dirà il mondo? Questi pensieri mi tormentano. Bisogna che troviamo il modo di utilizzare e sviluppare parallelamente i nostri talenti. Sto pensando all’America” (Ivi, p. 94).

In realtà due non andranno mai oltreoceano ma, nonostante le difficoltà, la carriera di Clara prosegue e, oltre alle numerose esibizioni in Germania, la pianista intraprende diversi viaggi all’estero: a Copenaghen, ad esempio, città che entrambi i coniugi descrivono da due punti di vista differenti nel loro diario.

Le narrazioni di Clara dei viaggi sono sentite, particolarmente dettagliate e suggestive, come nel viaggio di ritorno in Germania dalla Danimarca:

“Il viaggio è stato meraviglioso, la nave procedeva quasi immobile. Per dieci ore rimanemmo all’ancora a causa della nebbia, ma la mattina vedemmo l’aurora più incantevole che mai, proprio mentre giungevamo davanti all’isola di Möhen” (Ivi, p. 111).

Nel 1844 Clara si esibisce in una tournée in Estonia, in particolare a Riga, durante la quale non sembra essere particolarmente felice del gusto musicale degli estoni; da Riga la coppia si dirige in Russia.

Nel diario Clara descrive le peripezie del viaggio, i numerosi incontri, i successi dei concerti, i paesaggi innevati e le temperature gelide; lo fa sempre in modo preciso senza risparmiare critiche taglienti nei confronti di alcuni personaggi o episodi piacevoli:

“In Russia, la gente ricca e potente possiede certo una pazienza infinita, se dopo un intero concerto si adatta ad aspettare ancora per ore la propria vettura – a queste condizioni, nessuno mi trascinerebbe ad un concerto”.

Nel Diario si può evincere che Clara entra in contatto con diverse tradizioni, costumi e contraddizioni, scopre così che alcune maniere che considera inizialmente atteggiamenti bruschi sono, in realtà, solo usi a lei sconosciuti:

“Molto sconcertante fu per me il fatto di non ricevere mai, a Mosca, visite di signore della noblesse. […]. Questo mi colpì e mi offese non poco, poiché non ero abituata a un simile comportamento. […] Più tardi, Rheinardt mi spiegò che a Mosca non si usa far visita a donne che esercitino un’arte: non lo si fa mai” (Ivi, p. 208).

Malgrado le difficoltà della vita di tutti giorni con una famiglia numerosa e un marito fragile fisicamente e mentalmente, Clara Wieck Schumann prosegue la sua carriera da concertista; ciò le offre la possibilità di sostenere il bilancio famigliare anche quando la malattia di Robert comincia ad aggravarsi: esegue concerti in tutta la Germania (Francoforte, Amburgo, Altona, Lubecca, Brema, Berlino, Breslavia, Lipsia…) per poi spostarsi in Olanda.

Nel 1856 Clara Schumann, subito dopo la morte di Robert, supera i confini continentali e si esibisce in ventisei concerti in diverse città tra cui Londra, terza capitale musicale europea del XIX secolo, dopo Parigi e Vienna, Manchester, Liverpool, e Dublino. Cominciano gli anni che Berthold Litzmann, biografo della Schumann, definisce “Wanderjahre”, “gli anni di vagabondaggio”, in cui la pianista calca instancabilmente i più importanti palcoscenici d’Europa mantenendo e confermando il suo talento. Seguono poi diversi viaggi in Inghilterra tra il 1857-1859 e il 1866-1888, soprattutto con l’intento di assicurare una vita dignitosa ai suoi figli rimasti in Germania.

In conclusione, la carriera di Clara si è sviluppata in particolare in territorio tedesco, mitteleuropeo, olandese, belga e inglese con alcuni rilevanti episodi in Russia e Danimarca. Benché non ci siano testimonianze dirette della grandezza delle esecuzioni di Clara Schumann Wieck in incisioni sui rulli di cera, la sua figura è rilevante ancora oggi poiché ha contribuito profondamente a scardinare le vecchie tecniche pianistiche, le idee e i preconcetti sulla figura femminile in ambito artistico, realizzando ciò a cui ha sempre aspirato con costante impegno, ostinazione e determinazione.

FOTO 2. In omaggio alla grandezza di Clara Wieck Schumann, la sua immagine fu impressa sulla banconota da 100 marchi tedeschi

FOTO 3. Roma. Un viale a lei dedicato all’interno della Villa Pamphili