Galleria Borghese: La donna oggetto del desiderio maschile, violenza carnale e mito (seconda parte)

Sala III – di Apollo e Dafne 

La sala prende il nome dal celebre gruppo di Apollo e Dafne, realizzato da Gian Lorenzo Bernini tra il 1622 e il 1625, collocato al centro, e strettamente correlato col dipinto centrale della volta, opera del pittore Pietro Angeletti, che rappresenta i diversi momenti del racconto narrato da Ovidio nelle Metamorfosi (I, 555-559).

Foto 1: Apollo e Dafne

Apollo e Dafne: il racconto

Dafne, giovane ninfa, figlia di Gea, la Madre Terra, e del fiume Peneo, viveva serena nella quiete dei boschi, quando la sua vita fu stravolta dal capriccio di due divinità, Apollo ed Eros. La leggenda racconta che un giorno Apollo, vantandosi con Eros delle sue imprese, derideva il dio dell’Amore che invece non aveva mai compiuto delle azioni degne di gloria. Ferito dalle parole di Apollo, Eros preparò la sua vendetta: prese due frecce, una spuntata e di piombo, destinata a respingere l’amore, che lanciò nel cuore di Dafne, e un’altra ben acuminata e dorata, destinata a far nascere la passione, che scagliò nel cuore di Apollo. Da quel giorno Apollo iniziò a vagare disperatamente per i boschi alla ricerca della ninfa, tanta era la passione che ardeva nel suo cuore. Alla fine riuscì a trovarla, ma Dafne, appena lo vide, terrorizzata scappò tra i boschi. Accortasi però che la sua corsa era vana, invocò la Madre Terra di aiutarla e questa, impietosita, trasformò la figlia in albero: i suoi capelli diventarono foglie; le braccia si allungarono in flessibili rami; il corpo si ricoprì di ruvida corteccia e i piedi si tramutarono in robuste radici. La trasformazione era avvenuta sotto gli occhi di Apollo che, disperato, abbracciava il tronco nella speranza di riuscire a ritrovare l’amata. Alla fine il dio, deluso, proclamò a gran voce che quella pianta, l’alloro, sarebbe stata sacra al suo culto e segno di gloria da porsi sul capo dei vincitori. E non è un caso che nel nome della ninfa c’era già una predestinazione: il nome Dafne significa, infatti “lauro”, alloro.

L’epica è piena di miti che riguardano le divinità, i loro amori difficili, e le violenze carnali. Basti pensare alle tante sembianze ingannevoli assunte da Giove per sedurre attraenti fanciulle. Dafne qui è modello di virtù, è una donna che difende fino all’ultimo l’onore che Apollo vorrebbe intaccare, ma rimane vittima del desiderio possessivo del dio, che egoisticamente non tiene in considerazione la contrarietà e la sua sofferenza, arrivando a rovinarle la vita. 

In realtà il vero messaggio di questo gruppo scultoreo del Bernini è l’inutilità dei tentativi di conquistare l’amata, se questa non ricambia gli stessi sentimenti, e il senso del rispetto di una scelta, anche se non condivisa. A conferma di ciò un distico morale, composto in latino dal cardinale Maffeo Barberini (futuro Papa Urbano VIII), è inciso nel cartiglio della base, che dice: chi ama seguire le fuggenti forme dei divertimenti, alla fine si trova foglie e bacche amare nella mano.

Sala IV – Sala degli Imperatori – Il trionfo di Galatea e il Ratto di Proserpina 

La sala è detta “Galleria degli Imperatori” per la presenza di diciassette busti in porfido e alabastro di Imperatori. L’ampia volta è impreziosita dai dipinti ispirati alle vicende della ninfa Galatea, anche queste narrate da Ovidio nelle Metamorfosi. Al centro si colloca Il trionfo di Galatea, figlia di Nereo, desiderata dal ciclope Polifemo (rappresentato sulla sinistra) e amata dal pastore Aci (sulla destra). 

Plafond de la Salle des Empereurs – Le Triomphe de Galatée (de Angelis, XVIIIe)

Foto 2: Il trionfo di Galatea

La leggenda narra di Polifemo, ciclope perdutamente innamorato della giovane Galatea, che a sua volta invece era innamorata di Aci, un bellissimo pastorello, che un giorno, mentre pascolava le sue pecore vicino al mare, vide Galatea e se ne innamorò perdutamente. Una sera, al chiarore della luna, il ciclope vide i due innamorati in riva al mare baciarsi. Accecato dalla gelosia, decise di vendicarsi. Non appena Galatea si tuffò in mare, Polifemo prese un grosso masso e lo scagliò contro il povero pastorello schiacciandolo. Appena Galatea seppe della terribile notizia, accorse subito e pianse tutte le sue lacrime sopra il corpo martoriato di Aci. Giove e gli dei ebbero pietà e trasformarono il sangue del pastorello in un piccolo fiume che nasce dall’Etna e sfocia nel tratto di spiaggia, dove gli amanti usavano incontrarsi. 

Tanti paesini in provincia di Catania ricordano nel nome, composto con Aci, questa bellissima storia di amore negato.

Al centro della sala è collocato Il Ratto di Proserpina di Gian Lorenzo Bernini, realizzato tra il 1621 e il 1622. 

Il grande gruppo marmoreo racconta un’altra violenza, dettata da uno smodato desiderio di possesso amoroso.

Foto 3: Il ratto di Proserpina

Proserpina, figlia di Demetra, fanciulla bionda e soave, sempre sorridente, in compagnia di altre ninfe, si divertiva a correre sui prati. A un tratto un terribile boato lacerò l’aria. La terra si spaccò e dal baratro balzò fuori, su un cocchio trainato da quattro cavalli Plutone, dio degli inferi, che, afferrata Proserpina, la trascinò nel grembo della terra. Il dio si era innamorato perdutamente di Proserpina e aveva chiesto e ottenuto da Giove di poterla sposare, perciò era venuto sulla terra e l’aveva rapita.

La fanciulla, atterrita, levò terribili grida, implorò il padre Giove ma questi, avendo consentito il rapimento, non poté aiutarla.

La madre Demetra udì le grida della figlia dall’Olimpo. Sconvolta scese sulla terra, e per nove giorni e nove notti la cercò disperatamente. Il sole ebbe pietà di lei e volle svelarle la verità.  Allora Demetra, disperata, si allontanò dall’Olimpo e si rifugiò in un tempio a lei consacrato, dimenticandosi della terra. Così a poco a poco i frutti marcirono, le spighe seccarono, i fiori ingiallirono. Alla fine la madre ottenne il permesso di far tornare per metà dell’anno la figlia sulla terra, per poi passare l’altra metà nel regno di Plutone: così ogni anno in primavera la terra si copre di fiori per accoglierla. 

In questo gruppo lo scultore sviluppa il tema della torsione elicoidale dei corpi, contrapponendo l’impeto delle figure (la mano di Proserpina spingendo arriccia la pelle del viso di Plutone, che affonda le sue dita nelle carni della vittima). Mentre il rapitore con passo potente e spedito trionfa fermo con il trofeo in braccio, dall’altro lato si scorge il tentativo disperato di Proserpina di sottrarsi alla violenza, mentre le lacrime le solcano il viso e il vento le sconvolge la chioma. In basso il cane a tre teste, guardiano infernale, abbaia. 

Sala VI – del Gladiatore – La Verità

La Sala prende nome da una scultura antica, il Gladiatore Borghese, già in questa sala e venduta a Napoleone nel 1807. Al centro è collocato il gruppo berniniano di Enea, che fugge dall’incendio di Troia, salvando il vecchio padre Anchise sulle sue spalle e il figlio Ascanio.

 Su un lato è collocata la Verità, un’opera allegorica realizzata dal Bernini per se stesso intorno al 1647-1648.

 Foto 4: La verità svelata dal Tempo 

L’opera nacque in un periodo in cui Bernini era caduto in difficoltà presso la corte papale, per le accuse mossegli dagli avversari contro il suo intervento nella basilica di San Pietro, che avrebbe causato problemi statici. La Verità si incarna in una figura femminile, nuda, come nella solita iconografia, seduta su un masso roccioso, e tiene nella mano destra il sole poggiando la gamba sinistra sul globo terrestre. La raffigurazione del Tempo, che doveva essere posta nella parte alta, non fu mai eseguita. C’è un espresso riferimento a Michelangelo per il voluto contrasto tra parti levigatissime e parti incompiute e alle figure femminili di Rubens per la prorompente fisicità. 

Sala VIII – del Sileno – Caravaggio

L’ultima sala del pianterreno, detta del Sileno, è oggi più nota per la consistente presenza di opere di Caravaggio (Milano 1571 – Porto Ercole, Grosseto 1610).

Sulle pareti, decorate a finto marmo, si trovano, infatti, sei dei dodici dipinti del maestro lombardo posseduti in origine dal cardinale: Giovane con canestra di frutta, Autoritratto in veste di Bacco o Bacchino malato, San Girolamo, Madonna dei Palafrenieri, San Giovanni Battista e David con la testa di Golia

      

 Foto 5: Madonna dei Palafrenieri 

 La Madonna dei Palafrenieri (1605-1606), anche detta Madonna della serpe, offre un’immagine a dir poco insolita della Vergine: una madonna-popolana, con un lembo della gonna arrotolata e i capelli arruffati, colta alla sprovvista, si china mostrando il seno. Ha un volto molto conosciuto a Roma, quello della modella e amica del pittore, Maddalena Antognetti detta Lena; anche l’immagine del Bambino è insolita: completamente nudo e troppo cresciuto; e Sant’Anna, una vecchia dal volto rugoso, ha un atteggiamento distaccato, dimesso. 

Il dipinto fu commissionato dalla Confraternita dei Palafrenieri per il proprio altare, dedicato a Sant’Anna, nella nuova basilica di San Pietro (i Palafrenieri Pontifici sono gli incaricati della gestione delle scuderie del Papa); ma rimase nella sede originaria solo pochi giorni, l’acquistò il cardinale Borghese per una cifra irrisoria. Probabilmente fu rimossa per motivi di decoro, vista la prorompente scollatura della Vergine e la nudità di un bambino, troppo cresciuto per essere mostrato nudo; non piacque alla Confraternita nemmeno la mancata partecipazione all’azione di S. Anna, patrona dei Palafrenieri. O più probabilmente fu il desiderio di possesso del cardinale Borghese a consentire il trasloco.

Tre sono i personaggi presenti: Maria, Gesù e Anna, la madre di Maria. Il Bambino è intento, con l’aiuto della madre, a schiacciare con il piede la testa di un serpente, allegoria del diavolo. Nonostante la scena sembri riprodurre un episodio di vita quotidiana (la mamma che corre in aiuto del bambino), simbolicamente raffigura la vittoria del Bene sul male. Anna li guarda, quasi nascosta nell’ombra. Lo sfondo è scuro, non si vede nulla dietro di loro. L’atmosfera cupa, ricca di pathos, tipica dei quadri di Caravaggio, ci fa immergere in una scena di sapore teatrale. 




Percorso di genere alla Galleria Borghese Da Paolina attraverso Dafne, Proserpina, Danae fino all’Amor Sacro e l’Amor Profano (prima parte)

Un po’ di storia

L’aristocratica famiglia romana dei Borghese raggiunse potere e ricchezza all’inizio del XVII secolo, con l’ascesa al soglio pontificio, nel 1605, del cardinale Camillo Borghese, papa col nome di Paolo V. Protagonista assoluto della corte pontificia fu in quel periodo il nipote prediletto del papa, il cardinale Scipione Borghese (1577-1633), figlio di Ortensia Borghese, sorella del Papa, nominato cardinale all’età di ventisei anni, appena due mesi dopo l’elezione dello zio. Animato da una dispendiosa passione per l’arte, il cardinale nipote affidò la costruzione di una villa “fuori Porta Pinciana” all’architetto Flaminio Ponzi, su un terreno posseduto dalla famiglia. La villa, la cui costruzione iniziò nel 1607, fu poi terminata dall’architetto Giovanni Vasanzio nel 1633. 

Scipione Borghese, contemporaneamente alla costruzione della villa, cominciò a raccogliere opere d’arte e a commissionare a diversi artisti dell’epoca numerosi lavori, dando  l’avvio a quella che doveva essere una delle collezioni private più grandi dell’epoca. Molte opere furono acquisite con estrema spregiudicatezza, come i 100 dipinti sequestrati nello studio del Cavaliere d’Arpino, tra cui alcuni dipinti di Caravaggio, o la Deposizione Baglioni di Raffaello, prelevata dal convento perugino di San Francesco, e fatta calare di notte dalle mura della città. E per aver opposto resistenza a consegnare al cardinale la Caccia di Diana, Domenichino passò alcuni giorni in prigione. Anche la collezione di sculture antiche si arricchiva, spesso con straordinari rinvenimenti occasionali. Non era da meno la statuaria “moderna”: dal 1615 al 1623 il giovane Gian Lorenzo Bernini eseguì per il cardinale cinque celeberrimi gruppi scultorei, ancora oggi conservati nel Museo, la Capra Amaltea, l’Enea e Anchise, il Ratto di Proserpina, il David, l’Apollo e Dafne. Per volere del cardinale, alla sua morte tutti i beni mobili e immobili furono sottoposti a uno strettissimo vincolo fidecommissario, che preservò l’integrità della collezione fino a tutto il XVIII secolo.

Foto 1. La facciata seicentesca

Nel 1766 cominciarono importanti lavori di trasformazione, voluti dal principe Marcantonio IV Borghese, e questa fu la seconda fase, fondamentale per la fisionomia della villa. Architetti, pittori e scultori fecero di Villa Pinciana un modello di stile neoclassico per tutta Europa. Nel nuovo allestimento dell’architetto Antonio Asprucci i capolavori scultorei furono posti al centro di ogni sala e il tema decorativo raccordato al soggetto del gruppo scultoreo. Il piano terra era riservato alle statue, mentre i dipinti furono sistemati nel piano superiore, secondo un concetto di ascesa dalle sculture antiche a forme d’arte più sublimi, come la pittura. 

Agli inizi del XIX secolo la villa venne ulteriormente ampliata da Camillo Borghese, figlio di Marcantonio con l’acquisto di terreni verso Porta del Popolo e Porta Pinciana, che furono integrati alla villa con l’intervento dell’architetto Luigi Canina. A lui si devono i Propilei neoclassici (1827) su Piazzale Flaminio, realizzati su modelli dell’antica Grecia.  Nel 1807 Camillo, marito di Paolina Bonaparte, sorella di Napoleone, fu costretto dal cognato a una vendita forzosa di statue, busti, bassorilievi, e vari vasi che oggi costituiscono il fondo Borghese del Louvre. 

Nel 1902 il principe Paolo Borghese vendette il parco con tutti gli edifici e le opere d’arte allo Stato italiano per 3.600.000 lire. 

La villa

La villa fu costruita per essere un museo, luogo di cultura, ma anche per la contemplazione della natura (con piante e animali rari) e della moderna tecnologia (specchi, lenti, orologi particolari). Doveva anche servire come sede di rappresentanza diplomatica della corte pontificia. Inoltre era un’azienda agricola, con vigne, orti, stalle, piccionaia, una grande uccelliera, un giardino zoologico e perfino un allevamento del baco da seta. 

La facciata, articolata in due corpi aggettanti collegati da un portico, leggera e luminosa per il colore chiaro della muratura, era ornata da rilievi e sculture antiche. L’accesso al portico avveniva tramite una scala a due rampe, che alla fine del ‘700 fu smontata per cedimenti del terreno e sostituita da una scala a tronco di piramide. Nel recente restauro, iniziato nel 1983 e durato quattordici anni, la scala di Flaminio Ponzio è stata reintegrata con le sue esatte misure, tramandate nell’Archivio di Casa Borghese. Come pure è stato ripristinato il colore chiaro, e sono state restaurate tutte le statue e i busti della facciata, gravemente danneggiati dagli agenti atmosferici.

L’edificio si ispira allo schema cinquecentesco documentato a Roma da Villa Medici e Villa Farnesina, e riprende anche le ville romane, con avancorpi, portico a cinque arcate e terrazza. All’interno, su due piani, le sale sono disposte intorno a un grande salone centrale.

Foto 2. La facciata della Villa nel 1963

Sala I- Paolina e la bellezza ideale

Dopo aver attraversato il portico, dove sono esposti rilievi antichi, e il salone di ingresso, dominato dal tema della gloria della civiltà romana, entriamo nella prima sala, al centro della quale troviamo una delle sculture più celebri della collezione Borghese, la Statua-ritratto di Paolina Borghese Bonaparte, realizzata tra il 1805 e il 1808 da Antonio Canova (1757-1822).

 

Fig. 3. L’opera di Canova

La statua, considerata un apice dello stile neoclassico, raffigura la sorella di Napoleone, nonché moglie del principe Camillo Borghese, distesa, a busto nudo, su un lettuccio. Scolpita in morbidi e levigati lineamenti e in una posa aggraziata, Paolina regge con la mano sinistra un pomo, evocando così la Venere Vincitrice del giudizio di Paride e fissa un punto indefinito nell’aria, noncurante di tutto ciò che è contingente, terreno, umano.

 Il supporto ligneo, drappeggiato come un catafalco, su cui è distesa Paolina, ospita all’interno un meccanismo che fa ruotare la scultura. S’inverte così il ruolo tra opera e soggetto fruitore: è la scultura a essere in movimento, mentre l’osservatore fermo viene impressionato dalle immagini di una scultura che, ruotando, consente di coglierne lo splendore da tutti i lati. Ad opera finita, Canova passò sul corpo nudo di Paolina un impasto di cera rosata e polvere di marmo, col quale ottenne un effetto di morbidezza e calore, di vera carne. 

Questo ritratto senza veli di una persona di rango era un fatto eccezionale per l’epoca. Ma la persona storica è raffigurata e trasformata in divinità antica in un atteggiamento di classica quiete e nobile semplicità, secondo il concetto di bello ideale di Winckelmann, il massimo teorico dell’estetica neoclassica. 

Antonio Canova è lo scultore più celebre della bellezza ideale, che, secondo lui, si incarnava nelle antiche sculture greche, dove il linguaggio esaltava l’equilibrio, le proporzioni, la semplicità. Nella Grecia classica la grazia era intesa come armonia delle forme, perfezione impossibile da trovare in natura, in quanto imperfetta. E il neoclassicismo, in opposizione e come reazione alla precedente estetica barocca, rifiuta ogni forma di eccesso, ogni espressione di sentimento che stravolge e imbruttisce i lineamenti del volto, che invece devono essere distesi e sereni, ogni virtuosismo o passione incontrollata e travolgente.

Se, a un primo sguardo superficiale, le opere degli artisti neoclassici sono spesso ritenute fredde e inespressive, a causa dell’applicazione di un canone estetico preciso, di principi teoretici imposti all’arte e al processo creativo, la vera grandezza del Canova consiste proprio nel superamento di questi canoni, nell’aver infuso un’anima alle sue figure che ce le rendono umane e vicine.

In copertina. La facciata oggi, dopo l’ultimo restauro




La Lungara (terza parte)

Il piano nobile di Palazzo Corsini alla Lungara ospita una quadreria settecentesca, giunta a noi pressoché intatta, con opere pittoriche per lo più italiane e fiamminghe, raccolte dai diversi rami dell’omonima famiglia.

L’allestimento espositivo tiene conto degli antichi inventari corsiniani del 1771 e del 1784 e propone dunque un’attenta una ricostruzione filologica della quadreria originale.

Oltre alla presenza di Cristina di Svezia, che visse e plasmò questi spazi, l’itinerario di genere percorre le otto sale attraverso le protagoniste di alcuni celebri dipinti che consentono una rilettura storica dell’immaginario femminile e si chiude sui pastelli di Rosalba Carriera.

  1. La quadreria Corsini

 

Si inizia, nel vestibolo, con la Cleopatra di Olivieri, esempio di donna coraggiosa che, per non subire umiliazioni, preferì porre fine ad una discussa esistenza con la scelta del suicidio; si continua, nella prima sala, con la Giuditta del Piazzetta, donna eroica, strumento di una volontà superiore, quella divina, che rischia la sua stessa vita per la salvezza del suo popolo e si prosegue nella seconda galleria (la galleria del Cardinale) con gli esempi di Artemisia, simbolo di eterno amore coniugale, e Lucrezia, emblema di pudicizia e virtù, entrambi di Giovan Gioseffo Dal Sole. Incontriamo poi la Andromeda di Furini, figura di esaltata bellezza e sensualità; la Salomè di Reni, protagonista-vittima della vendetta della madre Erodiade,  donna corrotta (opera di Vouet nella sala dei capolavori) e, nello stesso tempo, simbolo della riduzione dell’essere femminile a puro aspetto estetico.

Meritano inoltre una particolare considerazione i ritratti femminili di Faustina come Allegoria della pittura di Maratti e della discussa Fornarina copia da Sebastiano del Piombo, oltre che i saggi di bravura, nella pittura del ritratto a pastello, di Rosalba Carriera, esponente di fama internazionale della pittura femminile del XVIII secolo.

(Arianna Angelelli)

 

Tornati sulla via principale e oltrepassati a sinistra gli edifici della John Cabot University e a destra il palazzo Torlonia, si varca porta Settimiana, con i suoi tipici merli ghibellini.

Il passaggio conserva la capacità di separare due ambienti: alle spalle la Lungara, ricercata e colta nei palazzi d’epoca e le ville affrescate, discreta e ovattata nei giardini appartati e le corti interne, riottosa e sfuggente dietro le vetrate socchiuse e le sbarre dei reclusori; di fronte il cuore vivo di Trastevere, che pulsa nei vicoli mediterranei, sfaccettati, tolleranti, chiassosi, dove tutto è esterno, dai tavolini alle mercanzie, dalle chiacchiere ai panni stesi.

L’attuale porta fu ricostruita da Alessandro VI nel 1498, ma la sua funzione divisoria ha radici ben più antiche: inglobata nelle mura aureliane intorno al III secolo, segnò a lungo i confini della città. Oggi è ancora visibile il punto da cui veniva calata la saracinesca che escludeva dall’urbe la campagna periferica.

  1. Le mura aureliane

A pochi metri dal fornice cinquecentesco s’incontra la prima trasteverina doc, confusa tra storia e leggenda e divisa tra amore e lavoro. Abitava, forse, al numero civico 20 di via di Santa Dorotea, in quella casa d’angolo del’400 che usa colonne di spoglio per sostegno e una finestrella a sesto acuto in ricordo dello sguardo languido di Raffaello. Margherita Luti cuoceva il pane nel cortile dell’attuale ristorante Romolo, quando il pittore, alle prese con gli affreschi di Psiche e Galatea, passando e ripassando sotto quella porta, la vide e se ne innamorò. La Fornarina divenne una leggenda. E forse per dar lustro a qualche vicolo popolare affamato di notorietà, di lei si inventarono troppe case: Santa Dorotea 20, Governo vecchio 48, Cedro 31… E di lei si fecero molti ritratti originali e copie. A pochi metri in linea d’aria, arroccata sulla collina del Gianicolo, la cinquecentesca Villa Lante ospita un’altra Fornarina, disegnata e affrescata da mani anonime, ispirate ai disegni raffaelliti.

Raffaello comunque perse la testa, per il suo corpo, come sostenne il Vasari, o per il suo sguardo, come vuole il racconto popolare. Fatto sta che Agostino Chigi acconsentì a ospitarla in villa pur di veder progredire i suoi affreschi arenati per troppo amore. Forse, come sostengono alcuni, l’innamorata fedele che alla morte dell’artista si rinchiuse nel convento di Sant’Apollonia non è mai esistita e la modella altri non era che una cortigiana affacciata alla finestra per adescare i clienti; in ogni caso Raffaello ne immortalò quell’espressione intensa e la diffuse, nelle sue molteplici forme, tra Firenze, Foligno, Bologna, Roma, a suggerire la complessa poliedricità della bellezza femminile.

  1. La Fornarina di Raffaello alla Galleria Borghese di Roma

Prima di risalire la via Garibaldi alla volta del Gianicolo, vale la pena affacciarsi su via della Scala, naturale estensione della Lungara, e visitare l’omonima farmacia: il piano superiore, risparmiato dal trascorrere dei secoli, conserva l’antica spezieria papale, con i laboratori e gli arredi originari. L’attigua chiesa, Santa Maria della Scala, fu trasformata in ambulanza ai tempi della repubblica romana e vide all’opera le tante infermiere laiche e patriottiche che, a disprezzo delle critiche, continuarono a offrire i loro preziosi servigi.

  1. La spezieria papale

Voltato l’angolo destro, si risale la viuzza fino al primo incrocio, che immette su via del Mattonato dove, al numero 17 ha trovato i natali “la donna più bella del mondo”: Lina Cavalieri.

 

Estratto da: Maria Pia Ercolini, Roma. Percorsi di genere femminile. Volume 1. Iacobelli edizioni (2011)

 

 




La Lungara (seconda parte)

Di fronte alla villa che ospita l’Accademia dei Lincei, al numero civico 10 di via della Lungara, si entra al palazzo Corsini, la cui struttura originaria risale al primo ventennio del 1500, quando il cardinale Raffaele Riario acquistò una vigna fuori Porta Settimiana facendovi costruire la sua abitazione.

FOTO 1. Palazzo Corsini. Esterno

Il palazzo fu scelto come residenza romana, tra il 1659 e il 1689, dalla regina Cristina di Svezia, giunta a Roma dopo la sua abdicazione al trono e la conversione al cattolicesimo.Con Cristina la villa ebbe il suo massimo splendore: dal parco, dove fece piantare un numero straordinario di piante, edificare terrazze e fontane, fino al palazzo, il cui arredamento fu degno di una sovrana.

Ad abbellire la nuova dimora vi erano, al pianterreno, un susseguirsi di statue e busti antichi e una straordinaria Sala delle Colonne con le statue di Apolloe delle Nove Musee, al centro, una poltrona sotto un baldacchino, dove Cristina riceveva in solenne udienza. Il primo piano era impreziosito da ricchi fregi e tappezzerie; una sala del trono con accessori dorati e arazzi; una galleria di quadri di Correggio, Tiziano, Raffaello, Dürer; un gabinetto delle medaglie, la biblioteca e, in ultimo, l’appartamento privato di Cristina.

Attorno alla regina gravitava un ambiente cosmopolita che faceva del palazzo una reggia capace di competere con qualsiasi corte europea e un centro propulsore di spettacoli, concerti, dibattiti sull’arte e la letteratura, la scienza e la politica.

FOTO 2. Galleria Corsini

La sovrana svedese fu indubbiamente una delle donne più colte, indipendenti e spregiudicate del suo tempo. Ebbe la fortuna di essere educata come un uomo e di avere fra i suoi insegnantiil grande filosofo René Descartes, che era anche matematico e fisico e che probabilmente instillò nella sua allieva un profondo
desiderio di conoscenza e ladotò di una grande apertura
mentale. Certo è che il suo
spirito ribelle e la sua smania
di sapere vennero visti con
grande simpatia dalle menti
più progressiste dell’epoca. La
curiosità che destava Cristina nei suoi contemporanei è testimoniata anche dai pettegolezzi che circolavano circa
la sua vita privata. Si vociferò
di diverse storie d’amore, ma
quella che fece più scalpore fu
la presunta relazione con una
delle più belle dame di corte, Ebba Sparre. Oltre agli amati libri, Cristina apprezzava la vita errabonda all’aria aperta, la musica, la pittura, la botanica e l’alchimia. Non è un caso che a via della Lungara avesse messo su un laboratorio alchemico nel quale trascorreva lunghe ore intenta a rimescolare polveri di piombo, mer- curio, zolfo, antimonio e forse anche diamante alla ricerca della pietra filosofale, e che avessescelto una residenza dotata di un già all’epoca importante orto botanico dove ancora oggi troviamo un albero, il fagus sylvatica, che fu intro- dotto dalla regina insieme ad altre specie e due vasche di marmo a lei appartenute e sistemate all’interno della “serra tropicale”.Essendo una donna forte e volitiva, Cristina temeva solamente una cosa: perdere la libertà. Probabilmente il motivo che la portò nel 1654 ad abdicare al trono in favore del cugino Carlo Gustavo e
ad abbracciare la fede cattolica fu proprio determinato dalla pressione esercitata su
di lei affinché si sposasse per esigenze dinastiche. La scelta religiosa fu poi decisamente arguta. Ben conoscendo lo scenario politico europeo, avendo percorso il continente in lungo e in largo, vedeva nella città eterna il luogo ideale per stabilirvi la sua corte ed esercitare il proprio mecenatismo in ambito artistico-musicale.

(Leila Zammar)

 

Nel 1736, dopo l’elezione al soglio pontificio di Lorenzo Corsini con il nome di Clemente XII, il palazzo venne acquistato dal cardinale Neri Corsini e da suo fratello Bartolomeo che commissionarono il progetto di ristrutturazione all’architetto fiorentino Ferdinando Fuga. Il corpo settentrionale fu destinato ad accogliere nuovi appartamenti e la biblioteca Corsiniana, aperta al pubblico fin dal 1754; alla sezione affacciata sulla Lungara fu aggiunto un corpo centrale destinato a contenere la scenografica scala a doppia rampa e, per ampliare i locali, venne realizzata una seconda ala sul lato destro, speculare a quella cinquecentesca a cui si raccordava sul retro tramite portici terrazzati.

Nuovo fu anche l’assetto conferito al giardino che si estendeva, senza soluzione di continuità, sino alle pendici del Gianicolo. In basso si apriva un giardino all’italiana e la Scalinata delle Undici Fontanedisegnata dal Fuga, in alto un bosco selvaggio, con esedre e fontane ricoperte di edera, e infine orti e vigne. Alla sommità, da un magnifico Casino sempre di proprietà Corsini, oggi perduto, era possibile godere della vista su Roma e sulla vicina campagna.

FOTO 3. Palazzo Corsini nel 1872

Nel 1883 l’intera proprietà venne ceduta allo Stato italiano: la biblioteca e la raccolta di stampe vennero donate all’Accademia dei Lincei, l’antico giardino divenne sede dell’Orto Botanico di Roma e la collezione di dipinti costituì il primissimo nucleo della Galleria Nazionale d’Arte Antica della città di Roma.

La Galleria Corsini offre oggi la possibilità di percorrere le sue sale in ottica di genere, seguendo un itinerario che spazia dalla scultura alla pittura, dalle figure femminili ritratte alle protagoniste dei suoi spazi museali.

FOTO 4. Orto botanico

Per visitare l’Orto botanico, collegato al dipartimento di Biologia Vegetale della Sapienza, si prende a destra su via Corsini e si percorre l’intera strada che va a chiudersi sullo slargo dedicato alla regina svedese.

Foto 5. Largo Cristina di Svezia

Nelle mattinate di sole, è il regno delle mamme e delle baby sitterstraniere, che sembrano apprezzare più delle giovani nostrane il giardino mediterraneo, il roseto storico, il viale delle palme, le specie montane, la foresta di bambù e soprattutto il silenzio, interrotto soltanto a mezzogiorno, quando dall’alto del paradiso giapponese riecheggia il colpo di cannone del Gianicolo.

FOTO 6. Foresta di bambù all’interno dell’Orto botanico

 

Estratto da: Maria Pia Ercolini, Roma. Percorsi di genere femminile. Volume 1.Iacobelli edizioni (2011)

 

 




Roma. La Lungara (prima parte)

MAPPA LUNGARA

Dalla doppia rampa che dà il nome a Santa Croce alle Scaletta e consente l’accesso alla Casa internazionale delle donne, lo sguardo domina il lungo rettifilo chiuso a destra da porta Settimiana e a sinistra da porta Santo Spirito.

Il tracciato ricalca in parte l’antica via Sub Ianiculensis, detta ancheSantaper il continuo passaggio dei pellegrini, che dal porto fluviale s’apprestavano a raggiungere la basilica di San Pietro.

La strada, voluta da Alessandro VI ma portata a compimento da Giulio II, rientra in un sistema viario doppio, progettato dal Bramante, che corre quasi parallelo sulle due sponde del fiume: sulla riva destra la Lungara, sulla sinistra via Giulia. Prima che l’innalzamento dei muraglioni ne stravolgesse l’intero assetto, ville, chiese, palazzi e giardini adiacenti s’affacciavano direttamente sul Tevere, dove le barche navigavano costeggiando il piano stradale.

Santa Croce è una chiesetta seicentesca conosciuta anche con il nome di complesso Buon Pastore, perché parte integrante di un conservatorio, nato “per togliere dal peccato le donne di vita disonesta” e diretto dalle Dame di Carità del Buon Pastore d’Angers. Il monastero mantenne un ruolo di reclusione e recupero per oltre tre secoli e, prima di ospitare l’attuale Casa internazionale delle donne, fu utilizzato per un trentennio come carcere femminile per reati minori.

CASA INTERNAZIONALE DELLE DONNE

La chiesa, ad unica navata, conserva un’Annunciazionedi Francesco Troppa, e una Maddalenadi Ciccio da Napoli: due modelli femminili che assumono, in questo luogo particolare, valore simbolico.

Sul lato opposto, superato il basamento delle demolite scuderie Chigi, attribuite a Raffaello, s’aprono i giardini della Farnesina. La villa fu realizzata dall’architetto Baldassarre Peruzzi su commissione del ricco mecenate senese Agostino Chigi e affrescata da grandi artisti del ‘500: Raffaello, Sebastiano del Piombo, Sodoma. Scegliendo quest’area periferica Agostino Chigi aveva voluto raggiungere un preciso scopo: la villa suburbanasi trovava di fatto in un luogo isolato, volutamente ispirato agli ideali di vita agreste dei latini, ma nello stesso tempo vicino alla sede dei papi, fra i massimi interlocutori d’affari del banchiere. Gli ospiti, oltrepassato l’ingresso principale, si trovavano davanti un’armonia perfetta tra esterno e interno: le storie affrescate di Amore e Psiche sono inserite in un lussureggiante motivo ornamentale, composto da festoni di fiori e frutti, in un giocoso rimando tra reali pergolati, logge del giardino e la raffinatissima “architettura vegetale” dipinta.

VILLA FARNESINA

Dopo lo scempio compiuto dai Lanzichenecchi durante il sacco di Roma, la villa venne ceduta ad Alessandro Farnese, che le dette l’attuale nome femminile per distinguerla dal palazzo di famiglia sull’altra sponda, al quale avrebbe dovuto collegarsi tramite un ponte progettato da Michelangelo e mai realizzato.

Due dei personaggi mirabilmente ritratti meritano particolare attenzione in un’ottica di genere: Psiche, nel suo sofferto percorso alla ricerca della verità e di se stessa, e Galatea, che solo col pianto ha potuto sfuggire l’aggressività di un amore non corrisposto.

La favola di Psiche, dalla trama drammatica ma dalla conclusione lieta, può essere letta come il racconto della curiositas di Psiche, del suo desiderio di far luce e di vedere la verità. La giovane si trasforma da oggetto passivo di volontà superiori, che ubbidisce alla famiglia, accetta il terribile responso dell’oracolo, subisce il divieto di vedere in volto l’amato, in soggetto attivo. Illuminare il viso di Amore corrisponde a un passaggio che la porta ad affrontare le vicende che la riguardano. La ricerca del dio scomparso la conduce verso abissi di disperazione, in cui cerca la morte, e verso le punizioni di Venere. Le prove impossibili che le impone la dea sono ogni volta superate e indicano la volontà di un riscatto che la porterà al raggiungimento della felicità e dell’immortalità. Psiche per due volte guarda ciò che le è stato proibito, per due volte oppone ad atteggiamenti di umiltà, obbedienza e fede il proprio sguardo, la propria curiosità.

[…]

In Galatea si apre lo scenario di un triangolo d’amore che presto si trasforma in gelosia cieca e in follia omicida. Rivivono nella storia di Ovidio gli orrori nati dall’incapacità di molti uomini di riconoscere e comprendere la volontà dell’altro, di accettare il rifiuto, la delusione amorosa. Sembra di assistere a uno dei tanti racconti di crudeltà contro le donne da parte di uomini respinti. Polifemo incarna il senso primitivo del possesso maschile sulle donne. Galatea è bella e giovane, la sua bellezza lo ha incantato. Il ciclope non comprende perché la ninfa si permetta di ignorarlo, perché voglia rimanere indipendente e libera di amare chi desidera, di non corrispondere il suo desiderio maschile, preferendo scegliere e vivere un altro amore. Vuole appropriarsi di lei, tutto il resto non conta. Ogni desiderio della ninfa è annullato, lei non esiste più, la sua volontà di amare Aci scompare. Il desiderio maschile appare più forte di qualsiasi cosa, incapace di guardare e comprendere la felicità, la passione per un altro. Fino alla distruzione di tutto.

(Barbara Belotti[1]).

La villa, acquistata dallo stato italiano nel 1927, è oggi sede di rappresentanza dell’Accademia dei Lincei, la più antica accademia scientifica del mondo che oppone al suo enorme prestigio, una scarsa considerazione per i talenti femminili.

 

[1]Estratto da: Maria Pia Ercolini, Roma. Percorsi di genere femminile. Volume 1.Iacobelli edizioni (2011)

 




Roma – Le Terme di Diocleziano. Palazzo Massimo

L’idea di utilizzare a scopo museale il complesso delle Terme di Diocleziano, che versava in uno stato di totale abbandono, cominciò a farsi spazio verso la fine dell’800, ma la monumentalità del contenitore era un vincolo e il progetto fu più volte abbandonato. Si poté realizzare solo in occasione della grande esposizione archeologica del 1911, per il cinquantenario dell’Unità d’Italia; da allora più volte il complesso è stato ristrutturato, fino alla ricorrenza del Giubileo 2000, quando è stato aperto l’ingresso nel giardino verso piazza dei Cinquecento e sono stati recuperati i chiostri maggiore, minore e l’antico monastero dei Certosini.

Oggi le Terme di Diocleziano fanno parte del Museo Nazionale Romano, che si articola in altre tre sedi espositive: Palazzo Massimo, Crypta Balbi e Palazzo Altemps.

Il progetto di recupero delle Terme, dell’architetto Giovanni Bulian, ha previsto più livelli: la Sezione Epigrafica, sulla comunicazione scritta nel mondo romano; la Sezione Protostorica, che illustra lo sviluppo della cultura laziale dei popoli latini della tarda età del bronzo e dell’età del ferro (negli ambienti del chiostro); nella sontuosa e imponente Aula Decima sono esposte la grande tomba dei Platorini (rinvenuta a Trastevere), la tomba dei dipinti e la tomba degli stucchi, ambedue provenienti dalla Necropoli della via Portuense; nel grande Chiostro Michelangiolesco della Certosa, infine, sono esposte più di 400 opere tra statue, rilievi, altari, sarcofagi provenienti dal territorio romano.

Palazzo Massimo

L’edificio fu costruito tra il 1883 e il 1887, per volontà del padre gesuita Massimiliano Massimo, in stile neorinascimentale dall’architetto Camillo Pistrucci, nell’area dove sorgeva la cinquecentesca villa Montalto-Peretti, passata poi di proprietà ai principi Massimo. Il palazzo, che svolse la funzione di collegio d’istruzione fino al 1960, è stato acquistato e restaurato dallo Stato italiano e inaugurato come sede museale nel 1998.

L’esposizione si articola nei quattro piani del palazzo. Nel piano interrato si trovano la Sezione Oreficeria e la Sezione Numismatica, dove è esposta una collezione, che va dalle origini nel VII secolo a.C., al conio della moneta fino ai prototipi dell’Euro. Oltre 20.000 pezzi testimoniano i sistemi di pagamento dall’età romana e alto-medievale, alle monete dei pontefici romani, a quelle dei Signori del Rinascimento, fino alla lira italiana nel secolo XIX, alla comparsa delle banconote e all’euro.

Nella sala intitolata “Il lusso a Roma” è offerta una panoramica delle ricchezze dei Romani, attraverso sfarzosi corredi funerari o preziosi gioielli rinvenuti nel Tevere e nel sottosuolo urbano.

Eccezionale interesse, fra gli altri, riveste il corredo funerario della bambina di Grottarossa, esposto integralmente assieme alla piccola mummia e alla sua bambola. Il rito dell’imbalsamazione, sebbene conosciuto a Roma, trova qui l’unica documentazione nota: è la mummia di una bambina di circa otto anni, risalente al II secolo d.C. circa, ritrovata sulla via Cassia all’interno del suo sarcofago. La fanciulla romana era probabilmente originaria dell’Italia settentrionale o centrale, di famiglia agiata. Le analisi hanno messo in evidenza che la fanciulla aveva sofferto di infezioni e carenze nutrizionali, ma la causa della morte dovette essere una fibrosi pleurica. Il corpo fu mummificato, senza asportare cervello e viscere, e avvolto in bende di lino impregnate di sostanze odorose e resinose. Una pregiata tunica di seta cinese la ricopriva e la pietà dei genitori volle ornarla con una collana in oro e zaffiri, due orecchini d’oro e un anello con castone aureo sul quale era incisa una vittoria alata.  Nel sarcofago a farle compagnia è stata trovata una bambola in avorio alta 16,5 cm con braccia e gambe articolate, e ancora vasetti di ambra e amuleti. Il sarcofago che la racchiudeva, in marmo bianco, presenta scene di caccia al cervo.

Nelle sale del piano terra sono esposti splendidi originali greci rinvenuti a Roma, capolavori della statuaria antica dall’età repubblicana all’epoca della dinastia Giulio-Claudia e la ritrattistica coeva.

Niobide morente (originale greco, 440-430 a.C.) di autore sconosciuto

La statua, trovata negli Horti Sallustiani, raffigura una giovane donna che, colpita a morte alle spalle da una freccia, cade in ginocchio tentando di estrarla. Vi si può identificare una delle figlie di Niobe, la mitica regina madre di sette figli che osò vantarsi di essere più prolifica di Latona e per questo fu punita da Apollo e Artemide con l’uccisione dei suoi figli e delle sue figlie. La fanciulla morente ha la testa rovesciata all’indietro, con gli occhi spalancati rivolti verso l’alto e la bocca dischiusa ad emettere un gemito di sofferenza. I capelli sono divisi in due bande da una discriminatura centrale e trattenuti da una fascia. L’opera è originale e ed è ritenuta appartenente alle figure del frontone del tempio di Apollo a Eretria; sarebbe dunque una delle numerosissime opere portate a Roma dalla Grecia come bottino di guerra e che tanta parte ebbero nel diffondere a Roma la cultura e lo stile greco.

Foto 1. Bambolina di avorio – Niobide morente- Ritratto di Saffo

Tra le opere esposte a Palazzo Massimo spiccano la statua di Augusto Pontefice Massimo, in piedi intento a celebrare un sacrificio col capo velato; la statua bronzea del Pugile in riposo, scultura greca datata alla seconda metà del IV secolo a.C. e attribuita a Lisippo o alla sua immediata cerchia, e quella di un Principe ellenistico, del II secolo A.C.

Interessantissima a Palazzo Massimo è la ritrattistica, i numerosissimi esemplari, anche originali, che ci sono giunti, hanno permesso una valutazione molto approfondita di questo genere artistico. Volti di uomini e donne sbucano dal passato: persone comuni, imperatori, atleti, soldati, divinità.

Il ritratto greco ellenistico, per realismo e introspezione psicologica, fu sicuramente il modello; ma anche le immagini degli antenati in cera, che i patrizi solevano esporre nell’atrio della propria casa, furono determinanti. Il ritratto romano prevedeva raffigurazioni anche dei soli busti e di sole teste, a differenza dell’arte greca dove il corpo era concepito come qualcosa di inscindibile.

Il periodo repubblicano fu caratterizzato da una esasperazione della realtà; con l’età augustea invece si diffuse lo stile classico e i ritratti vennero improntati ad una maggiore idealizzazione, pur non mancando di spunti realistici.

Nella galleria di ritratti femminili troviamo donne ignote, anziane o giovani, un ritratto di Saffo, due dell’imperatrice Livia, uno di Agrippina minore, uno di una principessa Giulio-Claudia, altri personaggi femminili dell’età degli imperatori Flavi e Antonini, (Crispina, Plotina, Faustina minore ..) e infine personaggi femminili del II-IV sec. d.C.

In base a numerose repliche che ritraggono la celebre poetessa di Lesbo con la stessa pettinatura, si crede che questo splendido ritratto immortali le sembianze di Saffo (612- 580 a.C.). Questa testa, in marmo bigio morato, proveniente dal Museo Kircheriano (Wunderkammer)  è forse una replica moderna del XVI o XVIII secolo, ma potrebbe anche essere una scultura antica  rilavorata e rilucidata: la poetessa, dai lineamenti regolari e la bocca carnosa, ha i capelli raccolti in un’elaborata acconciatura, quasi una cuffia, mentre due boccoli le pendono ai lati del volto.

La grande varietà di ritratti femminili presenti ci permette di approfondire la nostra conoscenza sulla moda femminile di acconciare i capelli. Le donne romane in epoca repubblicana coprivano il capo con veli o mantelli, quando uscivano di casa; ma in epoca imperiale tolsero il velo e adornarono le chiome in vario modo: acconciavano i capelli in complicatissimi riccioli, o in lunghe trecce innalzate sulla sommità della testa come delle torri, il tutto ornato con diademi, coroncine e spilloni, o rinforzato da capelli posticci.

Foto 2. Ritratto di Livia- Afrodite accovacciata- Fanciulla d’Anzio

L’imperatrice Livia, in questo ritratto, si concede un grosso boccolo sulla fronte, poche onde sui lati e trecce raccolte dietro la nuca. Niente di troppo elaborato, quindi. Le donne dell’epoca si adeguarono, ma alla sua morte si scatenarono: ricciolini a ciocche pendenti, o che incorniciano il viso, anellini e fasce che spuntano tra le onde, rotoli di trecce che scendono sul collo, o trecce avvolte dietro la nuca e tanti riccioli inamidati davanti a mo’ di cappello, o ancora boccoli allineati perfettamente con giri precisi.

Livia Drusilla Claudia (Roma, 58 a.C. –  29 d.C.), fu la seconda moglie dell’Imperatore Augusto e visse negli anni della trasformazione di Roma da Repubblica a Impero. Rappresentò per le matrone romane un modello di dedizione ai valori tradizionali. Certamente fu una grande figura storica. In una società conservatrice e maschilista, Livia seppe affermarsi come personaggio pubblico, gestendo una propria sfera d’influenza riconosciuta e pretendendo il riconoscimento della sua presenza imperiale accanto al consorte. Per mezzo secolo recitò la parte della sposa perfetta: sobria, austera, nemica del lusso e dei vizi, secondo i dettami moralistici della restaurazione augustea. Obbediva ciecamente a tutti i desideri del marito, affiancandolo e sostenendolo in ogni momento. Col tempo prese anche l’abitudine di accompagnarlo nelle varie parti dell’impero, sempre presente in momenti di grande responsabilità. Ciononostante, alcuni storici, come Tacito e Svetonio, ci hanno restituito un’immagine di donna maligna e prepotente, intrigante e senza scrupoli, pronta a uccidere anche i suoi stessi familiari pur di spianare la strada verso il trono al figlio Tiberio. Certamente fu molto scaltra, una “Ulisse in gonnella”, come la definì il nipote Caligola, ma fu anche una donna colta, perfino naturalista e salutista. Con le sue erbe continuò a mantenersi in buona salute fino a ottantasei anni.

La sua personalità cambiò per sempre la concezione della donna romana, assumendo una funzione sacra, di divinità benefica e salutare, protettrice dell’impero. Livia Drusilla fu dunque, la prima imperatrice di Roma e, certamente un esempio dell’avanzata delle donne nella storia del genere umano.

Al primo piano sono esposti altri celebri capolavori della statuaria, tutti di età imperiale e Flavia, tra i quali Il Discobolo Lancellotti. Di notevole importanza sono anche le sculture in bronzo che decoravano le navi di Nemi.

Afrodite accovacciata  era una scultura bronzea di Doidalsa, databile al 250 a.C. circa e oggi nota solo da copie di epoca romana, tra cui la migliore è considerata quella marmorea senza braccia nel Museo di Palazzo Massimo. Altre copie sono al Louvre, al British Museum e agli Uffizi. Doidalsa rappresentò Afrodite in una posa originalissima, accovacciata sulle ginocchia, mentre si prepara a ricevere l’acqua del bagno sacro, sviluppando l’idea dell’Afrodite Cnidia di Prassitele. La diversa inclinazione delle gambe, la schiena piegata, la testa ruotata con grazia verso sinistra, mostrano la dea in un atteggiamento umanizzato, lontano dalle atmosfere di idealizzazione ultraterrena delle opere del precedente periodo classico,  e più rispondente al clima culturale dell’Ellenismo.

La Fanciulla di Anzio è stata rinvenuta nella Villa Imperiale, detta di Nerone, ad Anzio, a seguito di una mareggiata, nel 1878. Acquistata dallo stato italiano nel 1907, è esposta dal 1998 nella sede museale di Palazzo Massimo. La statua è composta di due blocchi di marmo greco e raffigura una fanciulla rivolta verso sinistra, mentre avanza vestita di chitone e imation, che porta arrotolato, per non inciampare. Appoggiandosi sulla gamba sinistra, sostiene un vassoio, verso il quale tende lo sguardo, contenente degli oggetti votivi: un rotolo semiaperto, un ramo d’alloro e un oggetto del quale rimangono solo due piedi a forma di zampa di leone. Alcuni studiosi ritengono che si tratti di una copia romana di un perduto originale ellenistico in bronzo, mentre altri (e questa oggi è la tesi prevalente) ritengono che si tratti di un pregevole originale ellenistico del III secolo a.C. Un’ipotesi che sarebbe provata dall’altissimo livello qualitativo della resa, soprattutto dalla scioltezza del panneggio e dalla naturalezza della posa. Per quanto riguarda l’identificazione potrebbe trattarsi di una sacerdotessa, ma è più probabile che si tratti di una giovane fanciulla che si appresta a partecipare a un rito sacro.

Al secondo piano, pareti affrescate e mosaici pavimentali documentano la decorazione domestica di prestigiose residenze romane.

Foto 3. Villa di Livia

Il giardino dipinto della Villa di Livia a Prima Porta, databile intorno al 30-20 a.C. ricopriva le pareti di una sala semi-sotterranea, per questo protetta per duemila anni dalle ingiurie del tempo e degli uomini, probabilmente un fresco triclinio per banchetti estivi, nella Villa suburbana dell’imperatrice Livia. Il grande sito archeologico fu rinvenuto nel 1863 sulla via Flaminia, nei pressi del Tevere (all’altezza di Prima Porta), insieme a una grandiosa statua di Augusto loricato. La villa è chiamata ad gallinas albas. perché qui Livia vi allevava delle bianche galline: una curiosa  leggenda vuole che un’aquila abbia fatto cadere sul grembo di Livia, al tempo delle sue nozze con Augusto, una gallina bianca con un rametto di alloro nel becco. Consigliata dagli aruspici, Livia allevò la gallina e la sua discendenza e piantò il rametto che generò un boschetto di alloro. L’affresco, appartenente al secondo stile, presenta con colori e dettagli straordinari una varietà di piante e di uccelli naturalisticamente riprodotti. Numerose sono le specie botaniche individuate: in primo piano, il pino domestico, la quercia, l’abete rosso; oltre un recinto marmoreo crescono meli cotogni, melograni, mirti, oleandri, palme da datteri, corbezzoli, allori, viburni, lecci, bossi, cipressi, edera e acanto. Nel prato, sotto agli alberi fioriscono rose, papaveri, crisantemi e camomilla, mentre nei vialetti in primo piano si alternano felci, violette e iris. Le specie vegetali sono 23 e quelle avicole ben 69. Ma la verosimiglianza dei dettagli non deve trarci in inganno, questo non è un giardino reale, bensì un luogo incantato: infatti vi si possono trovare specie che non fioriscono nello stesso periodo dell’anno. In seguito ai danni della seconda guerra mondiale si decise per il distacco degli affreschi, un’operazione che fu eseguita, nel 1951-1952, a cura dell’Istituto superiore per la conservazione e il restauro (ICR); da allora sono conservati nel Museo nazionale romano, oggi nella sezione di palazzo Massimo alle Terme.

 

 

 




Le terme di Diocleziano: metamorfosi di un monumento

La terza parte dell’itinerario racconta il diverso riutilizzo che i romani hanno fatto di ciò che restava del complesso termale, e in questa storia spicca una figura femminile: quella di Caterina Sforza di Santafiora, che ha voluto la costruzione della chiesa di S. Bernardo, dedicandola al santo borgognone Bernardo da Chiaravalle (1090-1153), fondatore dell’Ordine dei Cistercensi, al quale la nobildonna era particolarmente devota.

Figlia di Vincenzo Nobili, nipote di Giulio II della Rovere, e moglie del Conte Nobili Sforza di Santa Fiora, acquistò il terreno degli Orti del cardinale Bellay nel 1593 con i resti dell’ambiente termale, finanziò i lavori di trasformazione, affidando la chiesa ai francesi dell’ordine dei Cistercensi Riformati di san Bernardo, i Foglianti.

I granai

In occasione del Giubileo del 1575 il papa Gregorio XIII ordinò la realizzazione del primo granaio pubblico della capitale, che doveva servire da deposito delle scorte alimentari della città per un intero anno. Fu scelta l’area delle antiche terme, perché era spaziosa, ventilata e riparata dalle inondazioni del Tevere; gli antichi muri perimetrali vennero riadattati alle nuove esigenze con l’inserimento di tre diversi livelli, dove il grano veniva prima rivoltato, poi asciugato e infine conservato. Si aprirono delle finestre sfondando in più punti il muro e l’ingresso al granaro fu aperto sul fronte dell’odierna piazza Termini. Gli ambienti erano tra di loro comunicanti, successivamente furono sventrati dall’apertura di via Cernaia.

In copertina. Resti dei granai gregoriani

Sotto il pontificato di Paolo V, tra il 1609 e il 1612, fu creato un nuovo granaio che si aggiunse a quello gregoriano. Urbano VIII (1623-1644) realizzò un ulteriore ampliamento dei granai, e l’ultimo granaio fu realizzato da Clemente XI nel 1705 su progetto dell’architetto Fontana.

Benedetto XIV (1740-1758) fece costruire in un’aula delle Terme, già facente parte del granaio paolino, la piccola chiesa di S. Isidoro, la cui facciata è tuttora visibile su via Parigi.

FOTO 1. Chiesa di Sant’Isidoro alle Terme

Tra il 1763 e il 1764, sotto Clemente XIII, altri locali termali furono adibiti alla conservazione dell’olio: ancora oggi il portale dell’Annona olearia, restaurato nel 1999, è riconoscibile tra il granaio gregoriano e l’ingresso alla chiesa di S. Maria degli Angeli.

FOTO 2.  Portale Annona olearia e chiesa di Santa Maria degli Angeli

Successivamente, diventata ormai inutile la funzione dell’Annona, tutta la zona fu destinata a opere assistenziali: ospizio per i poveri, carceri, con sezioni maschili e femminili, ospizio per sordomuti, orfanotrofio, Scuola Normale Femminile, ospizio dei ciechi. Intanto alcuni ambienti, rimasti in abbandono, erano stati utilizzati come botteghe di maniscalchi, carbonari, deposito di vetture o trattoria. Furono tutti abbattuti a partire dai primi del Novecento, mentre già nel 1894 era stato inaugurato il Grand Hotel, sorto in seguito alla demolizione dell’ospizio dei sordomuti. Agli inizi del ‘900 si cominciò a profilare per tutta quest’area un intento di musealizzazione, che si realizzò pienamente solo nel 1936. Furono abbattuti i vecchi granai, l’area di fronte al Grand Hotel fu adibita a zona commerciale con l’apertura della Galleria Esedra, e furono aperte nuove strade, come via Parigi, che consentiva un collegamento col palazzo del Ministero delle Finanze.

La scuola normale femminilepreparava le donne alla prima professione “intellettuale” cui loro potessero accedere e che rappresentava anche l’opportunità di procurarsi un’autonomia economica, spesso necessaria alternativa al matrimonio. Si trasformerà poi, con la legge Baccelli n. 896 del 25 giugno 1882, nell’istituto superiore di magistero Femminile, con sede a Roma e a Firenze.

Aula ottagona

L’aula ottagona era l’ambiente posto all’angolo sud-ovest del complesso delle Terme di Diocleziano, corrispondente a un ambiente simile all’angolo opposto, ora distrutto. La costruzione, in pietra cementizia e laterizio, era rivestita di lastre marmoree ed era decorata nelle parti alte con stucchi, ormai perduti. L’assenza di sistemi di riscaldamento, l’estesa luminosità, le porte di comunicazione fanno pensare a una funzione di passaggio. L’esistenza di una vasca, testimoniataci da un disegno di Baldassarre Peruzzi, della prima metà del Cinquecento, rimanda a una sorta di frigidario minore per abluzioni.

La pianta dell’aula è quadrata all’esterno, ottagona all’interno, e il raccordo è realizzato con quattro grandi nicchie semicircolari negli angoli. La copertura è a cupola a ombrello; il piano del pavimento attuale non corrisponde a quello antico, che si trovava a un livello più basso. Verso la fine del Cinquecento anche questa aula fu adibita a granaio (detto granaro tondo), e fu modificata con l’inserimento di tre livelli. Nell’Ottocento i granai furono trasformati nel Pio Istituto Giovanile di Carità e l’ambiente era utilizzato a livello terreno per le cucine, e ai due livelli superiori come cappella rispettivamente per gli uomini e per le donne.

Nel 1878 con l’apertura di via Cernaia l’aula ottagona ebbe vita autonoma, diventando dapprima la sede della Scuola Normale di Ginnastica, poi la sala per proiezioni cinematografiche Minerva, infine nel 1928 la sede del Planetario, per proiezioni astronomiche. Di quest’ultima funzione si è voluto conservare l’elegante intelaiatura in reticolo geometrico poggiato su colonnine metalliche con capitelli di ghisa. L’esterno dell’edificio fu ripristinato secondo i canoni dell’architettura fascista: due colonne doriche sostengono una trabeazione dominata dalle aquile imperiali. Dal 1979 la Soprintendenza archeologica ha iniziato un progetto di musealizzazione.

FOTO 3. Aula ottagona

Santa Maria degli Angeli

Nel 1561 le rovine delle grandiose Terme di Diocleziano furono consacrate da Pio IV e si avviò la costruzione di una chiesa dedicata a Santa Maria degli Angeli, ricavata nel grandioso corpo centrale delle distrutte terme; in questo, che era stato uno dei più maestosi edifici pubblici della Roma di Diocleziano, il grande persecutore dei cristiani, abbandonato e trasformato dall’incuria del tempo in ruderi imponenti, sorse una delle più belle creazioni del tardo rinascimento romano, quasi una rivincita della cristianità sul paganesimo. I primi progetti di riutilizzazione di quest’area risalgono al 1516 e portano i nomi di Giovanni da Sangallo e Baldassarre Peruzzi. Ma solo più tardi il grande Michelangelo, ormai ultraottantenne, ebbe l’incarico di costruire la chiesa.

Il grosso problema fu di trasformare le terme in chiesa ricorrendo il meno possibile a nuove costruzioni, dato anche l’esiguo impegno economico disposto dal Pontefice. Si scelse la soluzione di utilizzare la pianta centrale a forma di croce greca in cui la grande aula del tepidarium fosse una lunga e unica navata, e l’edificio fu assegnato ai Certosini, per cui fu necessario costruire un monastero e un chiostro, collocati nell’antico frigidarium.

Con l’ingresso all’estremità dell’attuale braccio destro del transetto, entrando, si aveva la straordinaria ed emozionante visione della sala centrale delle terme, lunga più di 90 metri, trasformata in chiesa. Dell’antica costruzione romana furono usate le colossali colonne granitiche. Non è più visibile quasi nulla della sistemazione michelangiolesca, i rifacimenti settecenteschi rivestirono completamente l’edificio originario salvando solo le colonne e le volte.

Infatti, a partire dal 1700 i Certosini operarono delle grandi trasformazioni che stravolsero il progetto originario di Michelangelo, chiudendo l’ingresso previsto dal Buonarroti sull’attuale via Cernaia, realizzando una grande meridiana sul pavimento chiamata “Linea Clementina” in onore del pontefice Clemente XI e adornandola di un rilevante numero di tele donate in più riprese dai pontefici che resero la chiesa simile a una pinacoteca. Nel 1749 i Certosini invitarono il Vanvitelli a restaurare il complesso. A lui si deve anche la facciata, molto sobria, verso piazza della Repubblica e il raccordo tra la pavimentazione della chiesa e quella della piazza che era più alta.

FOTO 4. Facciata vanvitelliana

Nel 1800 Santa Maria degli Angeli fu requisita dalle truppe francesi e adibita a caserma. Nel 1896, vi si celebrò il matrimonio di Vittorio Emanuele III con Elena di Montenegro e con questa cerimonia la chiesa assunse un ruolo di rappresentanza nazionale, ospitando tutte le cerimonie ufficiali dello Stato italiano. Nel 1910 fu smantellata la facciata del Vanvitelli e si ripristinò la facciata disadorna, in cotto, quale doveva essere quella del calidarium delle terme di Diocleziano.

Elena di Montenegro, seconda regina d’Italia, fu una figura completamente diversa dalla suocera, prima regina d’Italia. Mentre Margherita amava la vita di corte, i balli, il lusso, i gioielli, Elena era schiva, riservata e amava la sua privacy.

Jelena Petrovic era chiamata la pastora, perché era nata nel 1873 a Cettigne, un grosso borgo fra le montagne montenegrine abitato per lo più da pastori, figlia del futuro re del piccolo regno del Montenegro, Nicola I. Aveva studiato in un collegio di Pietroburgo. Fu la regina Margherita ad appoggiare la sua candidatura a sposa del figlio. Il matrimonio, celebrato il 24 ottobre 1896 in Santa Maria degli Angeli, fu una cerimonia ricca, ma non sfarzosa. Elena assisteva il marito in tutto, gli faceva da traduttrice per il russo, il serbo e il greco moderno; aveva anche imparato il piemontese, per capire il marito quando le si rivolgeva in dialetto. La sua semplicità e il poco interesse che nutriva per i fasti del regno lasciavano perplessa la regina Margherita che, invece, aveva dedicato tutta la sua vita alla regalità. Dal matrimonio nacquero cinque figli: Jolanda, poi la sfortunata Mafalda, quindi l’erede Umberto, infine Giovanna e Maria. Elena, cosa riprovevole per la suocera, si dedicava alla cura del marito, dei figli e della casa. Preferiva gli arredi moderni, semplici e funzionali, ai mobili antichi e austeri che riempivano i palazzi di famiglia. Chiamava ad alta voce il personale da una camera all’altra, indossava il grembiule per dirigere le cameriere; insegnava alle figlie a cucire, a lavorare a maglia, a fare i dolci. Faceva venire regolarmente una sartina a palazzo per riadattare i vestiti suoi e quelli delle figlie.

La coppia reale fu sempre oggetto di critiche e pettegolezzi. Elena era più alta di Vittorio Emanuele e le gravidanze l’avevano resa matronale. Per il tragico terremoto di Messina del 1908, si dedicò personalmente ai soccorsi; durante la prima guerra mondiale Elena fece l’infermiera a tempo pieno e trasformò il Quirinale in un ospedale. Finanziò opere benefiche a favore degli encefalitici, per madri povere, per i tubercolotici, per gli ex combattenti ecc. Sembra che sia intervenuta presso il re anche a favore degli ebrei ai tempi delle leggi razziali. Terminata la guerra, il 9 maggio del 1946, Vittorio Emanuele III abdicò a favore del figlio Umberto e andò in esilio con Elena ad Alessandria d’Egitto, ospite di re Farouk. Elena rimase in Egitto fino alla morte del marito, avvenuta il 28 dicembre del 1947, dopo diciannove mesi d’esilio, poi si trasferì a Montpellier, dove morì di cancro il 28 novembre del 1952.

FOTO 5. Elena di Montenegro

La chiesa di san Bernardo

Alla fine di via Torino si erge il profilo curvo della chiesa di S. Bernardo, la cui costruzione faceva parte del recinto esterno delle terme, nel lato di sud ovest, opposta a un’altra rotonda, in parte ancora visibile in via del Viminale. Nelle terme l’aula circolare aveva quattro ingressi disposti a croce e durante i lavori di costruzione della chiesa vennero rinvenute grandi quantità di piombo. Questo fece pensare che l’ambiente fosse probabilmente un deposito d’acqua rivestito di piombo; secondo altri invece doveva essere uno spheristerium, sala per i giochi con la palla, delle terme.

I lavori, iniziati nel 1598, furono terminati nel 1600, anno giubilare. Per costruire la chiesa fu necessario apportare molti cambiamenti: dei quattro ingressi, uno fu ampliato per accogliere il coro, i due laterali furono utilizzati per collocarvi due altari, e l’ultimo rimase aperto per fungere da entrata. Le quattro nicchie che si aprivano lungo il perimetro interno della rotonda furono raddoppiate affinché potessero accogliere le otto statue di Mariani. E’ conosciuta come la “chiesa senza finestre”, perché prende luce solamente dall’impluvium, il grande foro circolare (oggi chiuso da un lanternino) posto al centro della grande cupola del diametro di 22 metri, ornata di file concentriche di cassettoni ottagonali decrescenti verso la sommità.

FOTO 6. Chiesa di San Bernardo alle terme

Camillo Mariani (1567-1611), scultore vicentino, è l’autore delle otto statue disposte nei nicchioni, realizzate in stucco. Esse rappresentano Sant’Agostino, S. Monica, S. Maria Maddalena, S. Francesco, S. Bernardo, S. Caterina da Siena, S. Girolamo e S. Caterina d’Alessandria. Sono rivolte alternativamente a destra e a sinistra e creano, nell’andamento curvo della Chiesa, quasi un dialogo binario.

Santa Monica(Tagaste, 331 – Ostia, 387), nata in un’agiata famiglia cristiana, poté studiare e meditare sulla Bibbia. Convertì al cristianesimo il marito Patrizio, che la lasciò vedova a trentanove anni. Ebbe tre figli, e seguì a Roma il primogenito Agostino, che, convertitosi anche lui al cristianesimo, fu filosofo, teologo e vescovo. Monica, anche se all’epoca alle donne non era permesso prendere la parola, partecipava con sapienza ai discorsi del figlio, che volle trascrivere nei suoi scritti le parole della madre.

Santa Caterina da Siena, nata Caterina Benincasa (Siena, 1347 – Roma, 1380), è stata proclamata patrona d’Italia nel 1939 da Papa Pio XII (assieme a San Francesco D’Assisi) e compatrona d’Europa da Papa Giovanni Paolo II nel 1999.

Figlia di un tintore di panni, ventiquattresima di venticinque figli, votatasi al Signore, rifiutò il matrimonio, e a sedici anni entrò a far parte delle Terziarie Domenicane, che a Siena si chiamavano Mantellate per il mantello nero che copriva la loro veste bianca. Non sapendo né leggere né scrivere, più che alle preghiere, allora recitate in latino, si dedicò all’assistenza di malati e bisognosi, e fu attiva soprattutto presso l’ospedale di Santa Maria della Scala, assistendo soprattutto quei malati che nessuno assisteva, o perché non avevano parenti, o perché erano afflitti da malattie contagiose.

Iniziò poi a essere accompagnata dalla “Bella brigata”, un gruppo di uomini e donne che la seguivano, la sorvegliavano nelle sue lunghe estasi, la aiutavano in ogni modo nelle attività caritative. Scrisse tante lettere, anche a personalità importanti dell’epoca, nelle quali affrontava problemi religiosi, ma anche morali e politici.

Secondo la leggenda, nell’aprile 1375 Caterina ricevette le stimmate nella chiesa di Santa Cristina a Pisa, stimmate che solo lei poteva vedere, e che furono rese visibili poco prima della sua morte. Al Papa, trasferitosi ad Avignone, chiese insistentemente di tornare a Roma e il 18 giugno 1376 ad Avignone fu ricevuta dal Papa.

Caterina era una visionaria. La notte di carnevale del 1367 le apparve Cristo accompagnato dalla Vergine e da una folla di santi, donandole un anello visibile solo a lei, e sposandola misticamente. Dopo essere stata accolta dalle Mantellate, frequenti furono le sue estasi, continui i colloqui con Gesù Cristo suo Sposo.

Fu sepolta a Roma, nel cimitero di Santa Maria sopra Minerva, dove il suo corpo è ancora conservato. Ma l’anno successivo, nel 1381, le fu staccata la testa per portarla a Siena come reliquia.

Santa Caterina d’Alessandriaè venerata come santa dalla Chiesa cattolica, e da tutte le Chiese Cristiane che ammettono la venerazione dei Santi. Incerta è la sua data di nascita (probabilmente il 287), e altrettanto poco si sa della sua vita, tanto che è difficile distinguere la realtà storica dalle leggende popolari e addirittura si dubita della reale esistenza di una santa Caterina d’Alessandria d’Egitto.  Secondo la Leggenda Aurea, che risale al XIII, Caterina sarebbe stata una bella giovane egiziana, orfana del re Costa, e educata nelle arti liberali. Nonostante fosse stata chiesta in sposa da molti uomini importanti, non volle sposarsi, avendo avuto la visione della Madonna con il Bambino che le infilava l’anello al dito facendola suora.

Nel 305 un imperatore romano la condannò al martirio su una ruota dentata, avendo lei rifiutato di onorare gli dei pagani; ma lo strumento di tortura si ruppe e fu necessario decapitarla: dalla sua testa sgorgò latte, simbolo della sua purezza. Nel XIX secolo la studiosa Anna Jameson identificò molte caratteristiche comuni tra santa Caterina d’Alessandria e Ipazia, la matematica e filosofa pagana uccisa proprio ad Alessandria d’Egitto nel 415 da una setta di fanatici cristiani. La stessa Chiesa cattolica ha spesso espresso dei dubbi, resta comunque il permesso di festeggiarla come santa.

 

 




Le Terme di Diocleziano (parte seconda)

Le terme di Diocleziano, costruite in meno di otto anni tra il 298 e il 305 d.C., furono le più grandi tra tutte quelle realizzate a Roma e nel mondo romano (doppia estensione di quelle di Caracalla, costruite tra il 212 e il 217),) e le ultime ad essere costruite per il popolo (le terme di Costantino, più recenti, furono riservate a un pubblico limitato e selezionato).

Diocleziano fu imperatore dal 284 al 305 d.C. Era un illirico, poco colto, ma di grande esperienza militare, ereditò un impero minacciato da orde barbariche; da solo non poteva fronteggiare la situazione e associò al governo un suo generale, Massimiano, proclamato Augusto, affidandogli la difesa dell’Occidente e la sede a Milano, riservando a sé la difesa del fronte orientale. Il 303 Diocleziano e Massimiano fecero il loro ingresso trionfale a Roma su un carro trainato da elefanti, ma Diocleziano rimase a Roma solo 4 settimane, e non fece in tempo a vedere l’apertura delle terme.

Nell’ampia area in cui si estendevano, tra le attuali piazza della Repubblica, piazza dei Cinquecento, via Volturno e via XX Settembre, sono ancora visibili i resti. Per ottenere lo spazio necessario fu smantellato un intero quartiere con numerosi edifici privati e case d’abitazione, e fu utilizzato il lavoro di un enorme numero di cristiani. Tutto il complesso occupava una superficie di oltre tredici ettari; era racchiuso da un recinto rettangolare, e una grande esedra lo chiudeva dal lato opposto, fungendo probabilmente da teatro (da qui il nome della piazza, fino alla proclamazione della Repubblica). Oggi questa esedra è ricalcata dai due palazzi porticati che inquadrano via Nazionale. Poteva accogliere fino a 3000 persone contemporaneamente, e oltre a una piscina di 3500 metri quadrati, e ai classici ambienti delle terme, conteneva palestre, biblioteche, sale di studio, spazi deputati al divertimento e allo spettacolo, piccoli teatri, fontane, mosaici, pitture e gallerie d’arte, addirittura negozi. Assolveva quindi anche alla funzione di luogo di ritrovo e passatempo oltre che essere usato a scopi terapeutici.

Per l’approvvigionamento idrico fu costruita una diramazione dell’Acqua Marcia che faceva capo a un’ampia cisterna, distrutta tra il 1860 e il 1876 per la costruzione della stazione ferroviaria denominata Termini, toponimo derivato proprio dalla parola “terme” (a piazza dei Cinquecento sono ancora visibili grandiosi resti di nudi muri in laterizio).

Figura 1 Pianta delle Terme di Diocleziano

Legenda: 1 Calidarium. 2 Tepidarium. 3 Frigidarium. 4 Natatio. 5 Palaestrae. 6 Entrata. 7 Grande esedra.

Tecnologia degli impianti termali

L’invenzione non è romana, poiché pavimenti con canalizzazioni sotterranee per la circolazione d’aria calda sono noti in Grecia già nel terzo secolo a.C., ma i romani presero spunto anche dalle caratteristiche esalazioni di vapore diffuse nella regione flegrea. Si trattò di sostituire una fonte di calore artificiale a quella naturale delle fumarole e di immettere quel calore sotto i pavimenti degli ambienti balneari. Verso la fine della repubblica fu introdotto il riscaldamento col sistema detto hypocaustum (letteralmente “che scalda o brucia da sotto”): consisteva nella realizzazione di un’intercapedine pavimentale, che rendeva il pavimento sopraelevato (suspensura) su pilastrini di mattoni sovrapposti (pilae). Anche le pareti, attraverso l’utilizzo di particolari tegole o tubuli di terracotta, erano dotate di intercapedine (concameratio) dove circolavano i vapori caldi prodotti dalla fornace (praefurnium).

Le terme romane: usi e costumi

L’uso delle terme si ritrova già nell’antica Grecia, ma furono i romani a sviluppare un vero e proprio tipo di architettura, che diventò sempre più diffuso man mano che i costumi si allentavano: meno ci si dedicava all’impegno militare e a quello politico e più si andava alle terme.

Di solito ci si andava nel pomeriggio, alla fine di una giornata di lavoro. Le donne invece preferivano andarci di mattina. Ci si svestiva nello spogliatoio (apoditerium), si faceva un po’ di ginnastica nel cortile riservato (palestra), o nel gymnasium coperto e, dopo una buona sudata, si tornava nello spogliatoio, dove ci si faceva detergere il corpo con lo strigile, un raschiatoio ricurvo in metallo o avorio, e massaggiare con oli e unguenti profumati. C’era poi chi continuava con una nuotata in piscina (natatio), chi preferiva invece una sosta nel tepidarium, un’ampia sala dalla temperatura costante che immetteva nel calidarium, dove si trovavano la vasca con l’acqua calda e il bacile per le abluzioni. Adiacenti al calidarium erano il laconicum e il sudatorium, ambienti che possiamo paragonare alle attuali saune. Un tuffo nella piscina fredda, il frigidarium, concludeva il bagno. In questo modo, sudando, ungendosi e raschiando via le impurità dalla pelle, i romani, che non conoscevano il sapone, facevano un vero e proprio trattamento di pulizia, non solo, ma, alternando bagni caldi e freddi, provocavano nel corpo una reazione benefica.

Le terme divennero un appuntamento quotidiano: l’esiguo costo d’ingresso e in molti casi la completa gratuità ne consentivano l’accesso a tutti gli strati sociali: i meno abbienti trovavano qui sollievo alla loro vita di stenti, mentre i ricchi, pur disponendo spesso di terme private nelle loro case, non rinunciavano al piacere di condividere il momento del bagno con altri. Le terme divennero quindi col tempo un luogo di incontro, dove recarsi per curare il proprio corpo, ma anche semplicemente per conversare, conoscere gente: talvolta l’appuntamento alle terme costituiva addirittura un’occasione per sbrigare gli affari.

La clientela femminile

Tra i frequentatori delle terme non mancavano le donne, di tutte le classi sociali: le proprietà benefiche delle acque, la cura del corpo, i trattamenti di bellezza, divennero passatempo prediletto anche nel mondo femminile. In un primo momento, nell’osservanza del buon costume, gli impianti termali prevedevano una sezione maschile e una femminile, costruite a specchio, con un’unica fornace, o la regolamentazione dell’orario con turni diversi per uomini e donne; queste precauzioni però vennero meno con il tempo, suscitando talvolta l’indignazione degli scrittori, turbati da questa promiscuità.

La donna a Roma ha sempre occupato una posizione inferiore rispetto a quella dell’uomo; più libera di quella greca, era comunque sottomessa prima al pater familias e poi al proprio marito, doveva accudire i figli e mantenere la casa ed era totalmente esclusa dall’accesso alle istituzioni pubbliche. Nell’età imperiale, però, le romane cominciarono a fare meno figli e ad appropriarsi di tutte quelle occupazioni che in età repubblicana erano riservate agli uomini. In parecchie circostanze le donne dell’epoca imperiale proclamarono la loro parità di diritti, ma lotte e proteste femminili non ebbero, difatti, effetti rilevanti, dal momento che non miravano ad un’emancipazione in senso moderno: erano solo manifestazioni di donne ricche, dell’élite dominante, che si prendevano la libertà di gestire il proprio denaro, che osavano fare letteratura o esprimere pareri politici, giuridici o filosofici.  Le donne umili difficilmente ebbero modo di fare sentire la propria voce. Ma nell’ambiente termale tutte, ricche, potenti e serve, si illudevano di godere pari diritti rispetto all’altro genere e si comportavano come se quella parità fosse stata raggiunta. Accompagnandosi a donne del loro stesso ceto sociale, si dedicavano all’igiene personale e parlavano di trucchi, abbigliamento, o si confidavano pensieri nascosti.

Le terme di Diocleziano nella storia

Le terme di Diocleziano subirono il destino di tantissimi monumenti romani, spogliati per essere utilizzati nei secoli come cava di materiali edili per altre costruzioni, mentre le aule venivano adibite ai più svariati usi. Nell’età di Teodorico (493-526) le terme erano ancora in funzione. Un primo restauro fu condotto dopo l’invasione di Alarico, intorno al 470. Ma dopo la distruzione della città da parte di Totila, furono chiusi gli acquedotti (537) e cominciò per il complesso termale una lenta, ma inesorabile decadenza. Alcuni ambienti erano già stati cristianizzati: nel 499 veniva registrato un titulus, una primitiva ecclesia domestica, nella casa di Ciriaco, definita iunxta thermas.

Nel Medioevo le rovine diventarono meta di pellegrini che scrissero il loro entusiasmo al cospetto dell’antichità, come l’inglese Magister Gregory o il Petrarca, che all’amico Colonna descrive un luogo spazioso e silenzioso.

Dal Rinascimento in poi tornarono a nuova vita: alcune aule termali furono trasformate nella chiesa di S. Maria degli Angeli. Altre parti superstiti diedero vita alla chiesa di San Bernardo, il vasto complesso dell’ex convento dei Certosini occupato dal Museo Nazionale Romano, i vecchi Granai Clementini, l’ex Planetario, una facoltà universitaria e altro ancora.

 

In copertina. Donne romane nel frigidarium delle terme, da un dipinto di Lawrence Alma-Tadema