La Lungara (terza parte)

Il piano nobile di Palazzo Corsini alla Lungara ospita una quadreria settecentesca, giunta a noi pressoché intatta, con opere pittoriche per lo più italiane e fiamminghe, raccolte dai diversi rami dell’omonima famiglia.

L’allestimento espositivo tiene conto degli antichi inventari corsiniani del 1771 e del 1784 e propone dunque un’attenta una ricostruzione filologica della quadreria originale.

Oltre alla presenza di Cristina di Svezia, che visse e plasmò questi spazi, l’itinerario di genere percorre le otto sale attraverso le protagoniste di alcuni celebri dipinti che consentono una rilettura storica dell’immaginario femminile e si chiude sui pastelli di Rosalba Carriera.

  1. La quadreria Corsini

 

Si inizia, nel vestibolo, con la Cleopatra di Olivieri, esempio di donna coraggiosa che, per non subire umiliazioni, preferì porre fine ad una discussa esistenza con la scelta del suicidio; si continua, nella prima sala, con la Giuditta del Piazzetta, donna eroica, strumento di una volontà superiore, quella divina, che rischia la sua stessa vita per la salvezza del suo popolo e si prosegue nella seconda galleria (la galleria del Cardinale) con gli esempi di Artemisia, simbolo di eterno amore coniugale, e Lucrezia, emblema di pudicizia e virtù, entrambi di Giovan Gioseffo Dal Sole. Incontriamo poi la Andromeda di Furini, figura di esaltata bellezza e sensualità; la Salomè di Reni, protagonista-vittima della vendetta della madre Erodiade,  donna corrotta (opera di Vouet nella sala dei capolavori) e, nello stesso tempo, simbolo della riduzione dell’essere femminile a puro aspetto estetico.

Meritano inoltre una particolare considerazione i ritratti femminili di Faustina come Allegoria della pittura di Maratti e della discussa Fornarina copia da Sebastiano del Piombo, oltre che i saggi di bravura, nella pittura del ritratto a pastello, di Rosalba Carriera, esponente di fama internazionale della pittura femminile del XVIII secolo.

(Arianna Angelelli)

 

Tornati sulla via principale e oltrepassati a sinistra gli edifici della John Cabot University e a destra il palazzo Torlonia, si varca porta Settimiana, con i suoi tipici merli ghibellini.

Il passaggio conserva la capacità di separare due ambienti: alle spalle la Lungara, ricercata e colta nei palazzi d’epoca e le ville affrescate, discreta e ovattata nei giardini appartati e le corti interne, riottosa e sfuggente dietro le vetrate socchiuse e le sbarre dei reclusori; di fronte il cuore vivo di Trastevere, che pulsa nei vicoli mediterranei, sfaccettati, tolleranti, chiassosi, dove tutto è esterno, dai tavolini alle mercanzie, dalle chiacchiere ai panni stesi.

L’attuale porta fu ricostruita da Alessandro VI nel 1498, ma la sua funzione divisoria ha radici ben più antiche: inglobata nelle mura aureliane intorno al III secolo, segnò a lungo i confini della città. Oggi è ancora visibile il punto da cui veniva calata la saracinesca che escludeva dall’urbe la campagna periferica.

  1. Le mura aureliane

A pochi metri dal fornice cinquecentesco s’incontra la prima trasteverina doc, confusa tra storia e leggenda e divisa tra amore e lavoro. Abitava, forse, al numero civico 20 di via di Santa Dorotea, in quella casa d’angolo del’400 che usa colonne di spoglio per sostegno e una finestrella a sesto acuto in ricordo dello sguardo languido di Raffaello. Margherita Luti cuoceva il pane nel cortile dell’attuale ristorante Romolo, quando il pittore, alle prese con gli affreschi di Psiche e Galatea, passando e ripassando sotto quella porta, la vide e se ne innamorò. La Fornarina divenne una leggenda. E forse per dar lustro a qualche vicolo popolare affamato di notorietà, di lei si inventarono troppe case: Santa Dorotea 20, Governo vecchio 48, Cedro 31… E di lei si fecero molti ritratti originali e copie. A pochi metri in linea d’aria, arroccata sulla collina del Gianicolo, la cinquecentesca Villa Lante ospita un’altra Fornarina, disegnata e affrescata da mani anonime, ispirate ai disegni raffaelliti.

Raffaello comunque perse la testa, per il suo corpo, come sostenne il Vasari, o per il suo sguardo, come vuole il racconto popolare. Fatto sta che Agostino Chigi acconsentì a ospitarla in villa pur di veder progredire i suoi affreschi arenati per troppo amore. Forse, come sostengono alcuni, l’innamorata fedele che alla morte dell’artista si rinchiuse nel convento di Sant’Apollonia non è mai esistita e la modella altri non era che una cortigiana affacciata alla finestra per adescare i clienti; in ogni caso Raffaello ne immortalò quell’espressione intensa e la diffuse, nelle sue molteplici forme, tra Firenze, Foligno, Bologna, Roma, a suggerire la complessa poliedricità della bellezza femminile.

  1. La Fornarina di Raffaello alla Galleria Borghese di Roma

Prima di risalire la via Garibaldi alla volta del Gianicolo, vale la pena affacciarsi su via della Scala, naturale estensione della Lungara, e visitare l’omonima farmacia: il piano superiore, risparmiato dal trascorrere dei secoli, conserva l’antica spezieria papale, con i laboratori e gli arredi originari. L’attigua chiesa, Santa Maria della Scala, fu trasformata in ambulanza ai tempi della repubblica romana e vide all’opera le tante infermiere laiche e patriottiche che, a disprezzo delle critiche, continuarono a offrire i loro preziosi servigi.

  1. La spezieria papale

Voltato l’angolo destro, si risale la viuzza fino al primo incrocio, che immette su via del Mattonato dove, al numero 17 ha trovato i natali “la donna più bella del mondo”: Lina Cavalieri.

 

Estratto da: Maria Pia Ercolini, Roma. Percorsi di genere femminile. Volume 1. Iacobelli edizioni (2011)

 

 




La Lungara (seconda parte)

Di fronte alla villa che ospita l’Accademia dei Lincei, al numero civico 10 di via della Lungara, si entra al palazzo Corsini, la cui struttura originaria risale al primo ventennio del 1500, quando il cardinale Raffaele Riario acquistò una vigna fuori Porta Settimiana facendovi costruire la sua abitazione.

FOTO 1. Palazzo Corsini. Esterno

Il palazzo fu scelto come residenza romana, tra il 1659 e il 1689, dalla regina Cristina di Svezia, giunta a Roma dopo la sua abdicazione al trono e la conversione al cattolicesimo.Con Cristina la villa ebbe il suo massimo splendore: dal parco, dove fece piantare un numero straordinario di piante, edificare terrazze e fontane, fino al palazzo, il cui arredamento fu degno di una sovrana.

Ad abbellire la nuova dimora vi erano, al pianterreno, un susseguirsi di statue e busti antichi e una straordinaria Sala delle Colonne con le statue di Apolloe delle Nove Musee, al centro, una poltrona sotto un baldacchino, dove Cristina riceveva in solenne udienza. Il primo piano era impreziosito da ricchi fregi e tappezzerie; una sala del trono con accessori dorati e arazzi; una galleria di quadri di Correggio, Tiziano, Raffaello, Dürer; un gabinetto delle medaglie, la biblioteca e, in ultimo, l’appartamento privato di Cristina.

Attorno alla regina gravitava un ambiente cosmopolita che faceva del palazzo una reggia capace di competere con qualsiasi corte europea e un centro propulsore di spettacoli, concerti, dibattiti sull’arte e la letteratura, la scienza e la politica.

FOTO 2. Galleria Corsini

La sovrana svedese fu indubbiamente una delle donne più colte, indipendenti e spregiudicate del suo tempo. Ebbe la fortuna di essere educata come un uomo e di avere fra i suoi insegnantiil grande filosofo René Descartes, che era anche matematico e fisico e che probabilmente instillò nella sua allieva un profondo
desiderio di conoscenza e ladotò di una grande apertura
mentale. Certo è che il suo
spirito ribelle e la sua smania
di sapere vennero visti con
grande simpatia dalle menti
più progressiste dell’epoca. La
curiosità che destava Cristina nei suoi contemporanei è testimoniata anche dai pettegolezzi che circolavano circa
la sua vita privata. Si vociferò
di diverse storie d’amore, ma
quella che fece più scalpore fu
la presunta relazione con una
delle più belle dame di corte, Ebba Sparre. Oltre agli amati libri, Cristina apprezzava la vita errabonda all’aria aperta, la musica, la pittura, la botanica e l’alchimia. Non è un caso che a via della Lungara avesse messo su un laboratorio alchemico nel quale trascorreva lunghe ore intenta a rimescolare polveri di piombo, mer- curio, zolfo, antimonio e forse anche diamante alla ricerca della pietra filosofale, e che avessescelto una residenza dotata di un già all’epoca importante orto botanico dove ancora oggi troviamo un albero, il fagus sylvatica, che fu intro- dotto dalla regina insieme ad altre specie e due vasche di marmo a lei appartenute e sistemate all’interno della “serra tropicale”.Essendo una donna forte e volitiva, Cristina temeva solamente una cosa: perdere la libertà. Probabilmente il motivo che la portò nel 1654 ad abdicare al trono in favore del cugino Carlo Gustavo e
ad abbracciare la fede cattolica fu proprio determinato dalla pressione esercitata su
di lei affinché si sposasse per esigenze dinastiche. La scelta religiosa fu poi decisamente arguta. Ben conoscendo lo scenario politico europeo, avendo percorso il continente in lungo e in largo, vedeva nella città eterna il luogo ideale per stabilirvi la sua corte ed esercitare il proprio mecenatismo in ambito artistico-musicale.

(Leila Zammar)

 

Nel 1736, dopo l’elezione al soglio pontificio di Lorenzo Corsini con il nome di Clemente XII, il palazzo venne acquistato dal cardinale Neri Corsini e da suo fratello Bartolomeo che commissionarono il progetto di ristrutturazione all’architetto fiorentino Ferdinando Fuga. Il corpo settentrionale fu destinato ad accogliere nuovi appartamenti e la biblioteca Corsiniana, aperta al pubblico fin dal 1754; alla sezione affacciata sulla Lungara fu aggiunto un corpo centrale destinato a contenere la scenografica scala a doppia rampa e, per ampliare i locali, venne realizzata una seconda ala sul lato destro, speculare a quella cinquecentesca a cui si raccordava sul retro tramite portici terrazzati.

Nuovo fu anche l’assetto conferito al giardino che si estendeva, senza soluzione di continuità, sino alle pendici del Gianicolo. In basso si apriva un giardino all’italiana e la Scalinata delle Undici Fontanedisegnata dal Fuga, in alto un bosco selvaggio, con esedre e fontane ricoperte di edera, e infine orti e vigne. Alla sommità, da un magnifico Casino sempre di proprietà Corsini, oggi perduto, era possibile godere della vista su Roma e sulla vicina campagna.

FOTO 3. Palazzo Corsini nel 1872

Nel 1883 l’intera proprietà venne ceduta allo Stato italiano: la biblioteca e la raccolta di stampe vennero donate all’Accademia dei Lincei, l’antico giardino divenne sede dell’Orto Botanico di Roma e la collezione di dipinti costituì il primissimo nucleo della Galleria Nazionale d’Arte Antica della città di Roma.

La Galleria Corsini offre oggi la possibilità di percorrere le sue sale in ottica di genere, seguendo un itinerario che spazia dalla scultura alla pittura, dalle figure femminili ritratte alle protagoniste dei suoi spazi museali.

FOTO 4. Orto botanico

Per visitare l’Orto botanico, collegato al dipartimento di Biologia Vegetale della Sapienza, si prende a destra su via Corsini e si percorre l’intera strada che va a chiudersi sullo slargo dedicato alla regina svedese.

Foto 5. Largo Cristina di Svezia

Nelle mattinate di sole, è il regno delle mamme e delle baby sitterstraniere, che sembrano apprezzare più delle giovani nostrane il giardino mediterraneo, il roseto storico, il viale delle palme, le specie montane, la foresta di bambù e soprattutto il silenzio, interrotto soltanto a mezzogiorno, quando dall’alto del paradiso giapponese riecheggia il colpo di cannone del Gianicolo.

FOTO 6. Foresta di bambù all’interno dell’Orto botanico

 

Estratto da: Maria Pia Ercolini, Roma. Percorsi di genere femminile. Volume 1.Iacobelli edizioni (2011)

 

 




Roma. La Lungara (prima parte)

MAPPA LUNGARA

Dalla doppia rampa che dà il nome a Santa Croce alle Scaletta e consente l’accesso alla Casa internazionale delle donne, lo sguardo domina il lungo rettifilo chiuso a destra da porta Settimiana e a sinistra da porta Santo Spirito.

Il tracciato ricalca in parte l’antica via Sub Ianiculensis, detta ancheSantaper il continuo passaggio dei pellegrini, che dal porto fluviale s’apprestavano a raggiungere la basilica di San Pietro.

La strada, voluta da Alessandro VI ma portata a compimento da Giulio II, rientra in un sistema viario doppio, progettato dal Bramante, che corre quasi parallelo sulle due sponde del fiume: sulla riva destra la Lungara, sulla sinistra via Giulia. Prima che l’innalzamento dei muraglioni ne stravolgesse l’intero assetto, ville, chiese, palazzi e giardini adiacenti s’affacciavano direttamente sul Tevere, dove le barche navigavano costeggiando il piano stradale.

Santa Croce è una chiesetta seicentesca conosciuta anche con il nome di complesso Buon Pastore, perché parte integrante di un conservatorio, nato “per togliere dal peccato le donne di vita disonesta” e diretto dalle Dame di Carità del Buon Pastore d’Angers. Il monastero mantenne un ruolo di reclusione e recupero per oltre tre secoli e, prima di ospitare l’attuale Casa internazionale delle donne, fu utilizzato per un trentennio come carcere femminile per reati minori.

CASA INTERNAZIONALE DELLE DONNE

La chiesa, ad unica navata, conserva un’Annunciazionedi Francesco Troppa, e una Maddalenadi Ciccio da Napoli: due modelli femminili che assumono, in questo luogo particolare, valore simbolico.

Sul lato opposto, superato il basamento delle demolite scuderie Chigi, attribuite a Raffaello, s’aprono i giardini della Farnesina. La villa fu realizzata dall’architetto Baldassarre Peruzzi su commissione del ricco mecenate senese Agostino Chigi e affrescata da grandi artisti del ‘500: Raffaello, Sebastiano del Piombo, Sodoma. Scegliendo quest’area periferica Agostino Chigi aveva voluto raggiungere un preciso scopo: la villa suburbanasi trovava di fatto in un luogo isolato, volutamente ispirato agli ideali di vita agreste dei latini, ma nello stesso tempo vicino alla sede dei papi, fra i massimi interlocutori d’affari del banchiere. Gli ospiti, oltrepassato l’ingresso principale, si trovavano davanti un’armonia perfetta tra esterno e interno: le storie affrescate di Amore e Psiche sono inserite in un lussureggiante motivo ornamentale, composto da festoni di fiori e frutti, in un giocoso rimando tra reali pergolati, logge del giardino e la raffinatissima “architettura vegetale” dipinta.

VILLA FARNESINA

Dopo lo scempio compiuto dai Lanzichenecchi durante il sacco di Roma, la villa venne ceduta ad Alessandro Farnese, che le dette l’attuale nome femminile per distinguerla dal palazzo di famiglia sull’altra sponda, al quale avrebbe dovuto collegarsi tramite un ponte progettato da Michelangelo e mai realizzato.

Due dei personaggi mirabilmente ritratti meritano particolare attenzione in un’ottica di genere: Psiche, nel suo sofferto percorso alla ricerca della verità e di se stessa, e Galatea, che solo col pianto ha potuto sfuggire l’aggressività di un amore non corrisposto.

La favola di Psiche, dalla trama drammatica ma dalla conclusione lieta, può essere letta come il racconto della curiositas di Psiche, del suo desiderio di far luce e di vedere la verità. La giovane si trasforma da oggetto passivo di volontà superiori, che ubbidisce alla famiglia, accetta il terribile responso dell’oracolo, subisce il divieto di vedere in volto l’amato, in soggetto attivo. Illuminare il viso di Amore corrisponde a un passaggio che la porta ad affrontare le vicende che la riguardano. La ricerca del dio scomparso la conduce verso abissi di disperazione, in cui cerca la morte, e verso le punizioni di Venere. Le prove impossibili che le impone la dea sono ogni volta superate e indicano la volontà di un riscatto che la porterà al raggiungimento della felicità e dell’immortalità. Psiche per due volte guarda ciò che le è stato proibito, per due volte oppone ad atteggiamenti di umiltà, obbedienza e fede il proprio sguardo, la propria curiosità.

[…]

In Galatea si apre lo scenario di un triangolo d’amore che presto si trasforma in gelosia cieca e in follia omicida. Rivivono nella storia di Ovidio gli orrori nati dall’incapacità di molti uomini di riconoscere e comprendere la volontà dell’altro, di accettare il rifiuto, la delusione amorosa. Sembra di assistere a uno dei tanti racconti di crudeltà contro le donne da parte di uomini respinti. Polifemo incarna il senso primitivo del possesso maschile sulle donne. Galatea è bella e giovane, la sua bellezza lo ha incantato. Il ciclope non comprende perché la ninfa si permetta di ignorarlo, perché voglia rimanere indipendente e libera di amare chi desidera, di non corrispondere il suo desiderio maschile, preferendo scegliere e vivere un altro amore. Vuole appropriarsi di lei, tutto il resto non conta. Ogni desiderio della ninfa è annullato, lei non esiste più, la sua volontà di amare Aci scompare. Il desiderio maschile appare più forte di qualsiasi cosa, incapace di guardare e comprendere la felicità, la passione per un altro. Fino alla distruzione di tutto.

(Barbara Belotti[1]).

La villa, acquistata dallo stato italiano nel 1927, è oggi sede di rappresentanza dell’Accademia dei Lincei, la più antica accademia scientifica del mondo che oppone al suo enorme prestigio, una scarsa considerazione per i talenti femminili.

 

[1]Estratto da: Maria Pia Ercolini, Roma. Percorsi di genere femminile. Volume 1.Iacobelli edizioni (2011)

 




Brescia. Memorie e memoria dal basso (parte terza)

In copertina. Brescia. Pietre d’inciampo

In ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico, dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti e di coloro che si sono opposti al progetto di sterminio, salvando, a rischio della propria vita, altre vite e proteggendo i perseguitati, la legge n. 211 del 20 luglio 2000 istituisce come “Giorno della Memoria” il 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz. L’approvazione della legge è stata preceduta da una lunga discussione sulla data simbolica di riferimento, che ha visto emergere come principali opzioni il 16 ottobre, anniversario del rastrellamento del ghetto di Roma, con maggiore enfasi sulla Shoah, e il 5 maggio, anniversario della liberazione di Mauthausen, a sottolineare la centralità dell’antifascismo e delle deportazioni politiche. Con la risoluzione 60/7 dell’Assemblea generale dell’ONU del 1° novembre 2005, il Giorno della Memoria (27 gennaio) diviene una ricorrenza internazionale per commemorare le vittime della Shoah.

Nel 2012, su iniziativa della Cooperativa Cattolico Democratica di Cultura, vengono posate a Brescia le prime “pietre d’inciampo” (Stolpersteine), un monumento diffuso e partecipato ideato e realizzato dall’artista tedesco Gunter Demnig, a partire dal 1997, per ricordare le singole vittime della deportazione nazista e fascista. L’artista produce piccole targhe di ottone poste su cubetti della dimensione dei porfidi delle pavimentazioni stradali, che sono poi incastonati nel selciato davanti all’ultima abitazione scelta liberamente dalla vittima. Stolpersteineè il monumento dal basso più diffuso a livello europeo: sono state posate fino ad ora oltre 55.000 pietre in tutta Europa; in Italia sono presenti oltre che a Brescia, in diverse città fra cui Roma, Viterbo, Siena, Reggio Emilia, Meina, Padova, Venezia, Livorno, Prato, Ravenna, Torino, Genova, L’Aquila, Bolzano, Ostuni, Chieti, Casale Monferrato, Teramo. Le loro dimensioni, i materiali di cui sono fatte e la loro stessa collocazione rimandano alle storie della “piccola gente”, spesso calpestata, umiliata e dimenticata dalla grande Storia; quelle “piccole persone ” come le definisce Svetlana Aleksievic nel suo discorso pronunciato al conferimento del Nobel, nel 2015; anzi “Le piccole grandi persone […] perché la sofferenza le ingrandisce. Nei miei libri le persone raccontano le loro piccole storie, e allo stesso tempo raccontano la grande storia”. I nazisti hanno ucciso attraverso uno sterminio di massa, mentre le Stolpersteinevogliono ridare a ogni vittima il suo nome e farci ricordare ogni singolo destino, analogamente al Libro della memoria di Liliana Picciotto, e perciò ogni pietra è realizzata manualmente, come pure manualmente è collocata là dove viveva la persona ricordata. “Volutamente ci rifiutiamo di realizzare la posa come azione di massa, perché così vogliamo contrapporre la nostra opera allo sterminio di massa” dichiara l’artista. Secondo Gunter Demnig “Le Pietre d’inciampo devono far inciampare la testa e il cuore delle persone”e l’artista sceglie di riportare sulle incisioni il termine “assassinato” anziché “morto” a sottolineare che tutte le morti neiLager sono la conseguenza delle vessazioni inflitte ai prigionieri, frutto di una precisa e deliberata volontà assassina. A Brescia leStolpersteineportano a un appuntamento con un passato scomodo e ingombrante, quello della “guerra civile” del 1943-1945 e della Repubblica Sociale Italiana, uno stato che sancisce l’antisemitismo come una delle proprie basi ideologiche nel proprio atto fondante, il Manifesto di Verona, dichiarando all’articolo 7: «Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica». La persecuzione antiebraica, iniziata con le leggi razziste del 1938, prosegue nello stato fantoccio di Salò con rinnovato vigore; secondo i dati di Liliana Picciotto più di un terzo degli ebrei italiani deportati sarebbe stato catturato da funzionari o militari italiani della RSI. Il 3 novembre 1943 la Prefettura di Brescia della RSI trasmette ai tedeschi un elenco di novanta persone: sono gli ebrei residenti nella provincia. Benché la presenza ebraica a Brescia risalga all’epoca romana, vi si consolida solo a partire dal XV secolo grazie all’apporto degli askenaziti, e riveste durante il periodo rinascimentale un ruolo culturale di primo piano, in particolare nell’editoria, fino all’espulsione definitiva dalla città, nel 1572. A partire da quella data la comunità ebraica locale si dissolve e negli anni Trenta del secolo scorso gli ebrei residenti nell’intera provincia sono 118, perfettamente integrati, alcuni anche nel regime fascista; molti appartengono a famiglie “miste” e diversi sono convertiti e battezzati. Esemplare il caso della famiglia Orefici, di cui fa parte Gerolamo, sindaco di Brescia dal 1906 al 1912, che aderisce poi nel 1924 al “listone” del Blocco nazionale, e viene eletto deputato nello stesso anno. Secondo i dati di Marino Ruzzenenti (La capitale della RSI e la Shoah. La persecuzione degli ebrei nel bresciano 1938-1945, Rudiano, BS, GAM Editrice, 2006), integrati con quelli di Liliana Picciotto, fra gli ebrei residenti nella provincia di Brescia ne sarebbero stati deportati nei campi di concentramento, fra il 1943 e il 1945, complessivamente ventisei, di cui ben venticinque a opera delle autorità della RSI.

Le Stolpersteineci fanno inciampare sulla soglia di persone semplici, che, quasi tutte, al di fuori della loro stretta cerchia di familiari e amici hanno lasciato poche tracce, e sono accomunate dalla loro deportazione e morte nei campi nazisti come gli internati militari Mario Ballerio(1918-1944), Angelo Cottinelli(1909-1944), ed Emilio Falconi(1911-1945); gli oppositori politici Alessandro Gentilini(1916-1944) e Ubaldo Migliorati(1923-1945); i partigiani Roberto Carrara(1915-1944), Severino Fratus(1891-1945), Domenico Pertica(1923-1945), Rolando Petrini(1921-1945), Pietro Piastra(1891-1945), Federico Rinaldini(1923-1945), Silvestro Romani(1923-1945), e Andrea Trebeschi(1887-1945); gli ebrei Guido (1894-1944) e Alberto Dalla Volta(1922-1945), padre e figlio. Quest’ultimo, compagno di prigionia e amico di Primo Levi, al quale ha salvato la vita, prima che nelle pietre d’inciampo, lascia le sue tracce in Se questo è un uomo, nel quale è presentato semplicemente come Alberto, che “è entrato nel Lager a testa alta, e vive in Lager illeso e incorrotto. Ha capito prima di tutti che questa vita è guerra; non si è concesso indulgenze, non ha perso tempo a recriminare e a commiserare sé e gli altri, ma fin dal primo giorno è sceso in campo”.Con una cerimonia pubblica il 26 gennaio 2008 il Liceo Scientifico Calini di Brescia, che nel 1940 lo aveva accettato come allievo, dopo la sua espulsione, in quanto ebreo, dal Liceo Classico Arnaldo della stessa città, intitola l’aula magna ad Alberto Dalla Volta, “la rara figura dell’uomo forte e mite, contro cui si spuntano le armi della notte”.

Le persone ricordate dal basso nel Percorso della Memoriae nelle Stolpersteine sono sia vittime innocenti e inconsapevoli della violenza, sia caduti a causa di una propria precisa scelta contro quella stessa violenza; differenti sono le loro scelte di vita, uguale la violenza che annienta le loro vite. Importante è ricordare sia ciò che le accomuna, sia ciò che le distingue; solamente in questo modo, forse, si riuscirà a far passare, una volta per tutte, il passato che non passa.

 




Brescia – Memorie e memoria dal basso (Seconda parte)

La Casa della Memoria è motore di molteplici iniziative e attività, orientate all’apertura verso l’esterno, alla collaborazione con la società civile, allo sviluppo del processo democratico e alla diffusione di una memoria condivisa, favorita dallaconoscenza e dalla rielaborazione.

Già nel 2012,rifacendosi alla legge del 2007 che dichiara quale “Giorno della memoria” il 9 maggio, propone un itinerario urbano, il Percorso della Memoria, che partendo da Piazza Loggia arrivi in Castello, individuato da una sequenza di formelle di granito, su ognuna delle quali incidere il nome di una vittima del terrorismo e della violenza politica. Il progetto viene elaborato da diverse istituzioni (Assessorati alla Cultura, Urbanistica e dei Lavori Pubblici del Comune di Brescia e la Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio di Brescia e Mantova) che si coordinano all’interno della Casa della Memoria, e il Consiglio comunale vi aderisce all’unanimità. Il 9 maggio 2012 viene consegnata al Presidente della Repubblica la prima formella come segno di avvio alla realizzazione del progetto e il percorso è inaugurato sotto l’Alto Patrocinio del Presidente della Repubblica il 28 maggio, con la posa delle prime formelle dedicate alle vittime bresciane, i cui nomi saranno successivamente seguiti da altri. In totale saranno oltre 400, individuati fra quelli citati dalla pubblicazione del Quirinale Per le vittime del terrorismo nell’Italia repubblicana e fra i caduti in altri episodi di violenza politica fondamentali della nostra storia (da Piazza Fontana, a Peteano, all’assassinio di Marco Biagi, ecc.) e della storia di altri Paesi (dagli Stati Uniti, alla Spagna, all’Inghilterra, alla Germania).

Viene scelto un percorso in salita, a simbolo della “necessità dell’impegno per il ricordo individuale e cosciente di chi intraprenda questo cammino e […] l’elevazione civile che la memoria di quelle vittime riconsegna alla coscienza”. Si vuole in questo modo confermare “una sorta di patto civile, inciso nella realtà urbana”, non con un monumento, che potrebbe confinare la memoria delle vittime in un singolo manufatto o luogo della città, bensì con un percorso “che coinvolga la città e la cittadinanza nel suo vivere quotidiano, senza enfasi eroiche” e renda Brescia “memoriale vivente ed universale, accessibile a chiunque, in Italia e nel mondo intero, si riconosca in questa condivisione di valori”.

Le spese per la realizzazione del progetto sono coperte in parte dai contributi dei promotori e da quelli di singoli/e cittadini e cittadine, versati in un apposito conto corrente presso la Casa della Memoria.

Nel 2014, con il progetto Una formella per ogni vittima, parte una sottoscrizione alla quale la cittadinanza può contribuire attraverso l’acquisto di una cartolina dedicata, messa a disposizione dalla Casa della Memoriaalle varie associazioni culturali, artistiche, sportive, alle librerie e ai punti vendita associati all’iniziativa. Il 28 maggio 2014, nella ricorrenza del 40° anniversario della strage di Piazza Loggia, la cartolina viene spedita dalla Casa della Memoria a tutte/i coloro che hanno dato il proprio contributo alla sottoscrizione.

Il Percorso della Memoria è dunque un work in progress che riesce a coinvolgere attivamente non solo le istituzioni, ma anche la cittadinanza e a superare la dimensione municipale, per assume rilevanza nazionale, riscuotendo fra gli altri il plauso di Agnese Moro, figlia dell’importante uomo politico assassinato dalle Brigate Rosse, e internazionale, con la consegna, nel settembre 2017, al Consolato generale d’Italia a New York e al museo del Memoriale dell’11 settembre, di una targa che accomuna le vittime dell’attentato alle Twin Towers con i caduti di Piazza Loggia.

In ambito locale, tuttavia, le critiche, benché minoritarie, non mancano; la Rete Antifascista, vicina agli ambienti della sinistra antagonista, per esempio, in un dossier autoprodotto, critica il desiderio di pacificazione e omologazione delle memorie sotteso all’iniziativa, insieme alla scelta di fare riferimento alla pubblicazione del Quirinale Per le vittime del terrorismo nell’Italia repubblicana e di assumere come data di inizio il 1962 per l’individuazione dei nominativi da incidere sulle formelle, espungendo di conseguenza dalle vittime “i proletari, gente che lottava per i propri diritti: la strage di Portella delle Ginestre (1947), l’eccidio delle Fonderie Riunite di Modena (1950), gli undici morti ammazzati durante le manifestazioni antifasciste di Reggio Emilia, Licata, Palermo, Catania (1960) e l’assassinio di Giovanni Ardizzone (1962)”. Il dossier sottolinea inoltre “l’esclusione di Luca Rossi, studente assassinato dai fascisti nel 1986, o quella di Tito Tobegia, mitico capo partigiano bresciano, morto in seguito a un’aggressione fascista nel 1968. E ancora tanti altri, perché di sangue proletario e rivoluzionario ne è corso a fiumi, fino a Carlo Giuliani o a Samb Modou e Diop Mor, i due lavoratori assassinati a Firenze il 13 dicembre 2011 da un cecchino di Casa Pound e il bresciano di nascita Davide “Dax” Cesare nel 2003”.

 

 

 




Roma – Le Terme di Diocleziano. Palazzo Massimo

L’idea di utilizzare a scopo museale il complesso delle Terme di Diocleziano, che versava in uno stato di totale abbandono, cominciò a farsi spazio verso la fine dell’800, ma la monumentalità del contenitore era un vincolo e il progetto fu più volte abbandonato. Si poté realizzare solo in occasione della grande esposizione archeologica del 1911, per il cinquantenario dell’Unità d’Italia; da allora più volte il complesso è stato ristrutturato, fino alla ricorrenza del Giubileo 2000, quando è stato aperto l’ingresso nel giardino verso piazza dei Cinquecento e sono stati recuperati i chiostri maggiore, minore e l’antico monastero dei Certosini.

Oggi le Terme di Diocleziano fanno parte del Museo Nazionale Romano, che si articola in altre tre sedi espositive: Palazzo Massimo, Crypta Balbi e Palazzo Altemps.

Il progetto di recupero delle Terme, dell’architetto Giovanni Bulian, ha previsto più livelli: la Sezione Epigrafica, sulla comunicazione scritta nel mondo romano; la Sezione Protostorica, che illustra lo sviluppo della cultura laziale dei popoli latini della tarda età del bronzo e dell’età del ferro (negli ambienti del chiostro); nella sontuosa e imponente Aula Decima sono esposte la grande tomba dei Platorini (rinvenuta a Trastevere), la tomba dei dipinti e la tomba degli stucchi, ambedue provenienti dalla Necropoli della via Portuense; nel grande Chiostro Michelangiolesco della Certosa, infine, sono esposte più di 400 opere tra statue, rilievi, altari, sarcofagi provenienti dal territorio romano.

Palazzo Massimo

L’edificio fu costruito tra il 1883 e il 1887, per volontà del padre gesuita Massimiliano Massimo, in stile neorinascimentale dall’architetto Camillo Pistrucci, nell’area dove sorgeva la cinquecentesca villa Montalto-Peretti, passata poi di proprietà ai principi Massimo. Il palazzo, che svolse la funzione di collegio d’istruzione fino al 1960, è stato acquistato e restaurato dallo Stato italiano e inaugurato come sede museale nel 1998.

L’esposizione si articola nei quattro piani del palazzo. Nel piano interrato si trovano la Sezione Oreficeria e la Sezione Numismatica, dove è esposta una collezione, che va dalle origini nel VII secolo a.C., al conio della moneta fino ai prototipi dell’Euro. Oltre 20.000 pezzi testimoniano i sistemi di pagamento dall’età romana e alto-medievale, alle monete dei pontefici romani, a quelle dei Signori del Rinascimento, fino alla lira italiana nel secolo XIX, alla comparsa delle banconote e all’euro.

Nella sala intitolata “Il lusso a Roma” è offerta una panoramica delle ricchezze dei Romani, attraverso sfarzosi corredi funerari o preziosi gioielli rinvenuti nel Tevere e nel sottosuolo urbano.

Eccezionale interesse, fra gli altri, riveste il corredo funerario della bambina di Grottarossa, esposto integralmente assieme alla piccola mummia e alla sua bambola. Il rito dell’imbalsamazione, sebbene conosciuto a Roma, trova qui l’unica documentazione nota: è la mummia di una bambina di circa otto anni, risalente al II secolo d.C. circa, ritrovata sulla via Cassia all’interno del suo sarcofago. La fanciulla romana era probabilmente originaria dell’Italia settentrionale o centrale, di famiglia agiata. Le analisi hanno messo in evidenza che la fanciulla aveva sofferto di infezioni e carenze nutrizionali, ma la causa della morte dovette essere una fibrosi pleurica. Il corpo fu mummificato, senza asportare cervello e viscere, e avvolto in bende di lino impregnate di sostanze odorose e resinose. Una pregiata tunica di seta cinese la ricopriva e la pietà dei genitori volle ornarla con una collana in oro e zaffiri, due orecchini d’oro e un anello con castone aureo sul quale era incisa una vittoria alata.  Nel sarcofago a farle compagnia è stata trovata una bambola in avorio alta 16,5 cm con braccia e gambe articolate, e ancora vasetti di ambra e amuleti. Il sarcofago che la racchiudeva, in marmo bianco, presenta scene di caccia al cervo.

Nelle sale del piano terra sono esposti splendidi originali greci rinvenuti a Roma, capolavori della statuaria antica dall’età repubblicana all’epoca della dinastia Giulio-Claudia e la ritrattistica coeva.

Niobide morente (originale greco, 440-430 a.C.) di autore sconosciuto

La statua, trovata negli Horti Sallustiani, raffigura una giovane donna che, colpita a morte alle spalle da una freccia, cade in ginocchio tentando di estrarla. Vi si può identificare una delle figlie di Niobe, la mitica regina madre di sette figli che osò vantarsi di essere più prolifica di Latona e per questo fu punita da Apollo e Artemide con l’uccisione dei suoi figli e delle sue figlie. La fanciulla morente ha la testa rovesciata all’indietro, con gli occhi spalancati rivolti verso l’alto e la bocca dischiusa ad emettere un gemito di sofferenza. I capelli sono divisi in due bande da una discriminatura centrale e trattenuti da una fascia. L’opera è originale e ed è ritenuta appartenente alle figure del frontone del tempio di Apollo a Eretria; sarebbe dunque una delle numerosissime opere portate a Roma dalla Grecia come bottino di guerra e che tanta parte ebbero nel diffondere a Roma la cultura e lo stile greco.

Foto 1. Bambolina di avorio – Niobide morente- Ritratto di Saffo

Tra le opere esposte a Palazzo Massimo spiccano la statua di Augusto Pontefice Massimo, in piedi intento a celebrare un sacrificio col capo velato; la statua bronzea del Pugile in riposo, scultura greca datata alla seconda metà del IV secolo a.C. e attribuita a Lisippo o alla sua immediata cerchia, e quella di un Principe ellenistico, del II secolo A.C.

Interessantissima a Palazzo Massimo è la ritrattistica, i numerosissimi esemplari, anche originali, che ci sono giunti, hanno permesso una valutazione molto approfondita di questo genere artistico. Volti di uomini e donne sbucano dal passato: persone comuni, imperatori, atleti, soldati, divinità.

Il ritratto greco ellenistico, per realismo e introspezione psicologica, fu sicuramente il modello; ma anche le immagini degli antenati in cera, che i patrizi solevano esporre nell’atrio della propria casa, furono determinanti. Il ritratto romano prevedeva raffigurazioni anche dei soli busti e di sole teste, a differenza dell’arte greca dove il corpo era concepito come qualcosa di inscindibile.

Il periodo repubblicano fu caratterizzato da una esasperazione della realtà; con l’età augustea invece si diffuse lo stile classico e i ritratti vennero improntati ad una maggiore idealizzazione, pur non mancando di spunti realistici.

Nella galleria di ritratti femminili troviamo donne ignote, anziane o giovani, un ritratto di Saffo, due dell’imperatrice Livia, uno di Agrippina minore, uno di una principessa Giulio-Claudia, altri personaggi femminili dell’età degli imperatori Flavi e Antonini, (Crispina, Plotina, Faustina minore ..) e infine personaggi femminili del II-IV sec. d.C.

In base a numerose repliche che ritraggono la celebre poetessa di Lesbo con la stessa pettinatura, si crede che questo splendido ritratto immortali le sembianze di Saffo (612- 580 a.C.). Questa testa, in marmo bigio morato, proveniente dal Museo Kircheriano (Wunderkammer)  è forse una replica moderna del XVI o XVIII secolo, ma potrebbe anche essere una scultura antica  rilavorata e rilucidata: la poetessa, dai lineamenti regolari e la bocca carnosa, ha i capelli raccolti in un’elaborata acconciatura, quasi una cuffia, mentre due boccoli le pendono ai lati del volto.

La grande varietà di ritratti femminili presenti ci permette di approfondire la nostra conoscenza sulla moda femminile di acconciare i capelli. Le donne romane in epoca repubblicana coprivano il capo con veli o mantelli, quando uscivano di casa; ma in epoca imperiale tolsero il velo e adornarono le chiome in vario modo: acconciavano i capelli in complicatissimi riccioli, o in lunghe trecce innalzate sulla sommità della testa come delle torri, il tutto ornato con diademi, coroncine e spilloni, o rinforzato da capelli posticci.

Foto 2. Ritratto di Livia- Afrodite accovacciata- Fanciulla d’Anzio

L’imperatrice Livia, in questo ritratto, si concede un grosso boccolo sulla fronte, poche onde sui lati e trecce raccolte dietro la nuca. Niente di troppo elaborato, quindi. Le donne dell’epoca si adeguarono, ma alla sua morte si scatenarono: ricciolini a ciocche pendenti, o che incorniciano il viso, anellini e fasce che spuntano tra le onde, rotoli di trecce che scendono sul collo, o trecce avvolte dietro la nuca e tanti riccioli inamidati davanti a mo’ di cappello, o ancora boccoli allineati perfettamente con giri precisi.

Livia Drusilla Claudia (Roma, 58 a.C. –  29 d.C.), fu la seconda moglie dell’Imperatore Augusto e visse negli anni della trasformazione di Roma da Repubblica a Impero. Rappresentò per le matrone romane un modello di dedizione ai valori tradizionali. Certamente fu una grande figura storica. In una società conservatrice e maschilista, Livia seppe affermarsi come personaggio pubblico, gestendo una propria sfera d’influenza riconosciuta e pretendendo il riconoscimento della sua presenza imperiale accanto al consorte. Per mezzo secolo recitò la parte della sposa perfetta: sobria, austera, nemica del lusso e dei vizi, secondo i dettami moralistici della restaurazione augustea. Obbediva ciecamente a tutti i desideri del marito, affiancandolo e sostenendolo in ogni momento. Col tempo prese anche l’abitudine di accompagnarlo nelle varie parti dell’impero, sempre presente in momenti di grande responsabilità. Ciononostante, alcuni storici, come Tacito e Svetonio, ci hanno restituito un’immagine di donna maligna e prepotente, intrigante e senza scrupoli, pronta a uccidere anche i suoi stessi familiari pur di spianare la strada verso il trono al figlio Tiberio. Certamente fu molto scaltra, una “Ulisse in gonnella”, come la definì il nipote Caligola, ma fu anche una donna colta, perfino naturalista e salutista. Con le sue erbe continuò a mantenersi in buona salute fino a ottantasei anni.

La sua personalità cambiò per sempre la concezione della donna romana, assumendo una funzione sacra, di divinità benefica e salutare, protettrice dell’impero. Livia Drusilla fu dunque, la prima imperatrice di Roma e, certamente un esempio dell’avanzata delle donne nella storia del genere umano.

Al primo piano sono esposti altri celebri capolavori della statuaria, tutti di età imperiale e Flavia, tra i quali Il Discobolo Lancellotti. Di notevole importanza sono anche le sculture in bronzo che decoravano le navi di Nemi.

Afrodite accovacciata  era una scultura bronzea di Doidalsa, databile al 250 a.C. circa e oggi nota solo da copie di epoca romana, tra cui la migliore è considerata quella marmorea senza braccia nel Museo di Palazzo Massimo. Altre copie sono al Louvre, al British Museum e agli Uffizi. Doidalsa rappresentò Afrodite in una posa originalissima, accovacciata sulle ginocchia, mentre si prepara a ricevere l’acqua del bagno sacro, sviluppando l’idea dell’Afrodite Cnidia di Prassitele. La diversa inclinazione delle gambe, la schiena piegata, la testa ruotata con grazia verso sinistra, mostrano la dea in un atteggiamento umanizzato, lontano dalle atmosfere di idealizzazione ultraterrena delle opere del precedente periodo classico,  e più rispondente al clima culturale dell’Ellenismo.

La Fanciulla di Anzio è stata rinvenuta nella Villa Imperiale, detta di Nerone, ad Anzio, a seguito di una mareggiata, nel 1878. Acquistata dallo stato italiano nel 1907, è esposta dal 1998 nella sede museale di Palazzo Massimo. La statua è composta di due blocchi di marmo greco e raffigura una fanciulla rivolta verso sinistra, mentre avanza vestita di chitone e imation, che porta arrotolato, per non inciampare. Appoggiandosi sulla gamba sinistra, sostiene un vassoio, verso il quale tende lo sguardo, contenente degli oggetti votivi: un rotolo semiaperto, un ramo d’alloro e un oggetto del quale rimangono solo due piedi a forma di zampa di leone. Alcuni studiosi ritengono che si tratti di una copia romana di un perduto originale ellenistico in bronzo, mentre altri (e questa oggi è la tesi prevalente) ritengono che si tratti di un pregevole originale ellenistico del III secolo a.C. Un’ipotesi che sarebbe provata dall’altissimo livello qualitativo della resa, soprattutto dalla scioltezza del panneggio e dalla naturalezza della posa. Per quanto riguarda l’identificazione potrebbe trattarsi di una sacerdotessa, ma è più probabile che si tratti di una giovane fanciulla che si appresta a partecipare a un rito sacro.

Al secondo piano, pareti affrescate e mosaici pavimentali documentano la decorazione domestica di prestigiose residenze romane.

Foto 3. Villa di Livia

Il giardino dipinto della Villa di Livia a Prima Porta, databile intorno al 30-20 a.C. ricopriva le pareti di una sala semi-sotterranea, per questo protetta per duemila anni dalle ingiurie del tempo e degli uomini, probabilmente un fresco triclinio per banchetti estivi, nella Villa suburbana dell’imperatrice Livia. Il grande sito archeologico fu rinvenuto nel 1863 sulla via Flaminia, nei pressi del Tevere (all’altezza di Prima Porta), insieme a una grandiosa statua di Augusto loricato. La villa è chiamata ad gallinas albas. perché qui Livia vi allevava delle bianche galline: una curiosa  leggenda vuole che un’aquila abbia fatto cadere sul grembo di Livia, al tempo delle sue nozze con Augusto, una gallina bianca con un rametto di alloro nel becco. Consigliata dagli aruspici, Livia allevò la gallina e la sua discendenza e piantò il rametto che generò un boschetto di alloro. L’affresco, appartenente al secondo stile, presenta con colori e dettagli straordinari una varietà di piante e di uccelli naturalisticamente riprodotti. Numerose sono le specie botaniche individuate: in primo piano, il pino domestico, la quercia, l’abete rosso; oltre un recinto marmoreo crescono meli cotogni, melograni, mirti, oleandri, palme da datteri, corbezzoli, allori, viburni, lecci, bossi, cipressi, edera e acanto. Nel prato, sotto agli alberi fioriscono rose, papaveri, crisantemi e camomilla, mentre nei vialetti in primo piano si alternano felci, violette e iris. Le specie vegetali sono 23 e quelle avicole ben 69. Ma la verosimiglianza dei dettagli non deve trarci in inganno, questo non è un giardino reale, bensì un luogo incantato: infatti vi si possono trovare specie che non fioriscono nello stesso periodo dell’anno. In seguito ai danni della seconda guerra mondiale si decise per il distacco degli affreschi, un’operazione che fu eseguita, nel 1951-1952, a cura dell’Istituto superiore per la conservazione e il restauro (ICR); da allora sono conservati nel Museo nazionale romano, oggi nella sezione di palazzo Massimo alle Terme.

 

 

 




Le terme di Diocleziano: metamorfosi di un monumento

La terza parte dell’itinerario racconta il diverso riutilizzo che i romani hanno fatto di ciò che restava del complesso termale, e in questa storia spicca una figura femminile: quella di Caterina Sforza di Santafiora, che ha voluto la costruzione della chiesa di S. Bernardo, dedicandola al santo borgognone Bernardo da Chiaravalle (1090-1153), fondatore dell’Ordine dei Cistercensi, al quale la nobildonna era particolarmente devota.

Figlia di Vincenzo Nobili, nipote di Giulio II della Rovere, e moglie del Conte Nobili Sforza di Santa Fiora, acquistò il terreno degli Orti del cardinale Bellay nel 1593 con i resti dell’ambiente termale, finanziò i lavori di trasformazione, affidando la chiesa ai francesi dell’ordine dei Cistercensi Riformati di san Bernardo, i Foglianti.

I granai

In occasione del Giubileo del 1575 il papa Gregorio XIII ordinò la realizzazione del primo granaio pubblico della capitale, che doveva servire da deposito delle scorte alimentari della città per un intero anno. Fu scelta l’area delle antiche terme, perché era spaziosa, ventilata e riparata dalle inondazioni del Tevere; gli antichi muri perimetrali vennero riadattati alle nuove esigenze con l’inserimento di tre diversi livelli, dove il grano veniva prima rivoltato, poi asciugato e infine conservato. Si aprirono delle finestre sfondando in più punti il muro e l’ingresso al granaro fu aperto sul fronte dell’odierna piazza Termini. Gli ambienti erano tra di loro comunicanti, successivamente furono sventrati dall’apertura di via Cernaia.

In copertina. Resti dei granai gregoriani

Sotto il pontificato di Paolo V, tra il 1609 e il 1612, fu creato un nuovo granaio che si aggiunse a quello gregoriano. Urbano VIII (1623-1644) realizzò un ulteriore ampliamento dei granai, e l’ultimo granaio fu realizzato da Clemente XI nel 1705 su progetto dell’architetto Fontana.

Benedetto XIV (1740-1758) fece costruire in un’aula delle Terme, già facente parte del granaio paolino, la piccola chiesa di S. Isidoro, la cui facciata è tuttora visibile su via Parigi.

FOTO 1. Chiesa di Sant’Isidoro alle Terme

Tra il 1763 e il 1764, sotto Clemente XIII, altri locali termali furono adibiti alla conservazione dell’olio: ancora oggi il portale dell’Annona olearia, restaurato nel 1999, è riconoscibile tra il granaio gregoriano e l’ingresso alla chiesa di S. Maria degli Angeli.

FOTO 2.  Portale Annona olearia e chiesa di Santa Maria degli Angeli

Successivamente, diventata ormai inutile la funzione dell’Annona, tutta la zona fu destinata a opere assistenziali: ospizio per i poveri, carceri, con sezioni maschili e femminili, ospizio per sordomuti, orfanotrofio, Scuola Normale Femminile, ospizio dei ciechi. Intanto alcuni ambienti, rimasti in abbandono, erano stati utilizzati come botteghe di maniscalchi, carbonari, deposito di vetture o trattoria. Furono tutti abbattuti a partire dai primi del Novecento, mentre già nel 1894 era stato inaugurato il Grand Hotel, sorto in seguito alla demolizione dell’ospizio dei sordomuti. Agli inizi del ‘900 si cominciò a profilare per tutta quest’area un intento di musealizzazione, che si realizzò pienamente solo nel 1936. Furono abbattuti i vecchi granai, l’area di fronte al Grand Hotel fu adibita a zona commerciale con l’apertura della Galleria Esedra, e furono aperte nuove strade, come via Parigi, che consentiva un collegamento col palazzo del Ministero delle Finanze.

La scuola normale femminilepreparava le donne alla prima professione “intellettuale” cui loro potessero accedere e che rappresentava anche l’opportunità di procurarsi un’autonomia economica, spesso necessaria alternativa al matrimonio. Si trasformerà poi, con la legge Baccelli n. 896 del 25 giugno 1882, nell’istituto superiore di magistero Femminile, con sede a Roma e a Firenze.

Aula ottagona

L’aula ottagona era l’ambiente posto all’angolo sud-ovest del complesso delle Terme di Diocleziano, corrispondente a un ambiente simile all’angolo opposto, ora distrutto. La costruzione, in pietra cementizia e laterizio, era rivestita di lastre marmoree ed era decorata nelle parti alte con stucchi, ormai perduti. L’assenza di sistemi di riscaldamento, l’estesa luminosità, le porte di comunicazione fanno pensare a una funzione di passaggio. L’esistenza di una vasca, testimoniataci da un disegno di Baldassarre Peruzzi, della prima metà del Cinquecento, rimanda a una sorta di frigidario minore per abluzioni.

La pianta dell’aula è quadrata all’esterno, ottagona all’interno, e il raccordo è realizzato con quattro grandi nicchie semicircolari negli angoli. La copertura è a cupola a ombrello; il piano del pavimento attuale non corrisponde a quello antico, che si trovava a un livello più basso. Verso la fine del Cinquecento anche questa aula fu adibita a granaio (detto granaro tondo), e fu modificata con l’inserimento di tre livelli. Nell’Ottocento i granai furono trasformati nel Pio Istituto Giovanile di Carità e l’ambiente era utilizzato a livello terreno per le cucine, e ai due livelli superiori come cappella rispettivamente per gli uomini e per le donne.

Nel 1878 con l’apertura di via Cernaia l’aula ottagona ebbe vita autonoma, diventando dapprima la sede della Scuola Normale di Ginnastica, poi la sala per proiezioni cinematografiche Minerva, infine nel 1928 la sede del Planetario, per proiezioni astronomiche. Di quest’ultima funzione si è voluto conservare l’elegante intelaiatura in reticolo geometrico poggiato su colonnine metalliche con capitelli di ghisa. L’esterno dell’edificio fu ripristinato secondo i canoni dell’architettura fascista: due colonne doriche sostengono una trabeazione dominata dalle aquile imperiali. Dal 1979 la Soprintendenza archeologica ha iniziato un progetto di musealizzazione.

FOTO 3. Aula ottagona

Santa Maria degli Angeli

Nel 1561 le rovine delle grandiose Terme di Diocleziano furono consacrate da Pio IV e si avviò la costruzione di una chiesa dedicata a Santa Maria degli Angeli, ricavata nel grandioso corpo centrale delle distrutte terme; in questo, che era stato uno dei più maestosi edifici pubblici della Roma di Diocleziano, il grande persecutore dei cristiani, abbandonato e trasformato dall’incuria del tempo in ruderi imponenti, sorse una delle più belle creazioni del tardo rinascimento romano, quasi una rivincita della cristianità sul paganesimo. I primi progetti di riutilizzazione di quest’area risalgono al 1516 e portano i nomi di Giovanni da Sangallo e Baldassarre Peruzzi. Ma solo più tardi il grande Michelangelo, ormai ultraottantenne, ebbe l’incarico di costruire la chiesa.

Il grosso problema fu di trasformare le terme in chiesa ricorrendo il meno possibile a nuove costruzioni, dato anche l’esiguo impegno economico disposto dal Pontefice. Si scelse la soluzione di utilizzare la pianta centrale a forma di croce greca in cui la grande aula del tepidarium fosse una lunga e unica navata, e l’edificio fu assegnato ai Certosini, per cui fu necessario costruire un monastero e un chiostro, collocati nell’antico frigidarium.

Con l’ingresso all’estremità dell’attuale braccio destro del transetto, entrando, si aveva la straordinaria ed emozionante visione della sala centrale delle terme, lunga più di 90 metri, trasformata in chiesa. Dell’antica costruzione romana furono usate le colossali colonne granitiche. Non è più visibile quasi nulla della sistemazione michelangiolesca, i rifacimenti settecenteschi rivestirono completamente l’edificio originario salvando solo le colonne e le volte.

Infatti, a partire dal 1700 i Certosini operarono delle grandi trasformazioni che stravolsero il progetto originario di Michelangelo, chiudendo l’ingresso previsto dal Buonarroti sull’attuale via Cernaia, realizzando una grande meridiana sul pavimento chiamata “Linea Clementina” in onore del pontefice Clemente XI e adornandola di un rilevante numero di tele donate in più riprese dai pontefici che resero la chiesa simile a una pinacoteca. Nel 1749 i Certosini invitarono il Vanvitelli a restaurare il complesso. A lui si deve anche la facciata, molto sobria, verso piazza della Repubblica e il raccordo tra la pavimentazione della chiesa e quella della piazza che era più alta.

FOTO 4. Facciata vanvitelliana

Nel 1800 Santa Maria degli Angeli fu requisita dalle truppe francesi e adibita a caserma. Nel 1896, vi si celebrò il matrimonio di Vittorio Emanuele III con Elena di Montenegro e con questa cerimonia la chiesa assunse un ruolo di rappresentanza nazionale, ospitando tutte le cerimonie ufficiali dello Stato italiano. Nel 1910 fu smantellata la facciata del Vanvitelli e si ripristinò la facciata disadorna, in cotto, quale doveva essere quella del calidarium delle terme di Diocleziano.

Elena di Montenegro, seconda regina d’Italia, fu una figura completamente diversa dalla suocera, prima regina d’Italia. Mentre Margherita amava la vita di corte, i balli, il lusso, i gioielli, Elena era schiva, riservata e amava la sua privacy.

Jelena Petrovic era chiamata la pastora, perché era nata nel 1873 a Cettigne, un grosso borgo fra le montagne montenegrine abitato per lo più da pastori, figlia del futuro re del piccolo regno del Montenegro, Nicola I. Aveva studiato in un collegio di Pietroburgo. Fu la regina Margherita ad appoggiare la sua candidatura a sposa del figlio. Il matrimonio, celebrato il 24 ottobre 1896 in Santa Maria degli Angeli, fu una cerimonia ricca, ma non sfarzosa. Elena assisteva il marito in tutto, gli faceva da traduttrice per il russo, il serbo e il greco moderno; aveva anche imparato il piemontese, per capire il marito quando le si rivolgeva in dialetto. La sua semplicità e il poco interesse che nutriva per i fasti del regno lasciavano perplessa la regina Margherita che, invece, aveva dedicato tutta la sua vita alla regalità. Dal matrimonio nacquero cinque figli: Jolanda, poi la sfortunata Mafalda, quindi l’erede Umberto, infine Giovanna e Maria. Elena, cosa riprovevole per la suocera, si dedicava alla cura del marito, dei figli e della casa. Preferiva gli arredi moderni, semplici e funzionali, ai mobili antichi e austeri che riempivano i palazzi di famiglia. Chiamava ad alta voce il personale da una camera all’altra, indossava il grembiule per dirigere le cameriere; insegnava alle figlie a cucire, a lavorare a maglia, a fare i dolci. Faceva venire regolarmente una sartina a palazzo per riadattare i vestiti suoi e quelli delle figlie.

La coppia reale fu sempre oggetto di critiche e pettegolezzi. Elena era più alta di Vittorio Emanuele e le gravidanze l’avevano resa matronale. Per il tragico terremoto di Messina del 1908, si dedicò personalmente ai soccorsi; durante la prima guerra mondiale Elena fece l’infermiera a tempo pieno e trasformò il Quirinale in un ospedale. Finanziò opere benefiche a favore degli encefalitici, per madri povere, per i tubercolotici, per gli ex combattenti ecc. Sembra che sia intervenuta presso il re anche a favore degli ebrei ai tempi delle leggi razziali. Terminata la guerra, il 9 maggio del 1946, Vittorio Emanuele III abdicò a favore del figlio Umberto e andò in esilio con Elena ad Alessandria d’Egitto, ospite di re Farouk. Elena rimase in Egitto fino alla morte del marito, avvenuta il 28 dicembre del 1947, dopo diciannove mesi d’esilio, poi si trasferì a Montpellier, dove morì di cancro il 28 novembre del 1952.

FOTO 5. Elena di Montenegro

La chiesa di san Bernardo

Alla fine di via Torino si erge il profilo curvo della chiesa di S. Bernardo, la cui costruzione faceva parte del recinto esterno delle terme, nel lato di sud ovest, opposta a un’altra rotonda, in parte ancora visibile in via del Viminale. Nelle terme l’aula circolare aveva quattro ingressi disposti a croce e durante i lavori di costruzione della chiesa vennero rinvenute grandi quantità di piombo. Questo fece pensare che l’ambiente fosse probabilmente un deposito d’acqua rivestito di piombo; secondo altri invece doveva essere uno spheristerium, sala per i giochi con la palla, delle terme.

I lavori, iniziati nel 1598, furono terminati nel 1600, anno giubilare. Per costruire la chiesa fu necessario apportare molti cambiamenti: dei quattro ingressi, uno fu ampliato per accogliere il coro, i due laterali furono utilizzati per collocarvi due altari, e l’ultimo rimase aperto per fungere da entrata. Le quattro nicchie che si aprivano lungo il perimetro interno della rotonda furono raddoppiate affinché potessero accogliere le otto statue di Mariani. E’ conosciuta come la “chiesa senza finestre”, perché prende luce solamente dall’impluvium, il grande foro circolare (oggi chiuso da un lanternino) posto al centro della grande cupola del diametro di 22 metri, ornata di file concentriche di cassettoni ottagonali decrescenti verso la sommità.

FOTO 6. Chiesa di San Bernardo alle terme

Camillo Mariani (1567-1611), scultore vicentino, è l’autore delle otto statue disposte nei nicchioni, realizzate in stucco. Esse rappresentano Sant’Agostino, S. Monica, S. Maria Maddalena, S. Francesco, S. Bernardo, S. Caterina da Siena, S. Girolamo e S. Caterina d’Alessandria. Sono rivolte alternativamente a destra e a sinistra e creano, nell’andamento curvo della Chiesa, quasi un dialogo binario.

Santa Monica(Tagaste, 331 – Ostia, 387), nata in un’agiata famiglia cristiana, poté studiare e meditare sulla Bibbia. Convertì al cristianesimo il marito Patrizio, che la lasciò vedova a trentanove anni. Ebbe tre figli, e seguì a Roma il primogenito Agostino, che, convertitosi anche lui al cristianesimo, fu filosofo, teologo e vescovo. Monica, anche se all’epoca alle donne non era permesso prendere la parola, partecipava con sapienza ai discorsi del figlio, che volle trascrivere nei suoi scritti le parole della madre.

Santa Caterina da Siena, nata Caterina Benincasa (Siena, 1347 – Roma, 1380), è stata proclamata patrona d’Italia nel 1939 da Papa Pio XII (assieme a San Francesco D’Assisi) e compatrona d’Europa da Papa Giovanni Paolo II nel 1999.

Figlia di un tintore di panni, ventiquattresima di venticinque figli, votatasi al Signore, rifiutò il matrimonio, e a sedici anni entrò a far parte delle Terziarie Domenicane, che a Siena si chiamavano Mantellate per il mantello nero che copriva la loro veste bianca. Non sapendo né leggere né scrivere, più che alle preghiere, allora recitate in latino, si dedicò all’assistenza di malati e bisognosi, e fu attiva soprattutto presso l’ospedale di Santa Maria della Scala, assistendo soprattutto quei malati che nessuno assisteva, o perché non avevano parenti, o perché erano afflitti da malattie contagiose.

Iniziò poi a essere accompagnata dalla “Bella brigata”, un gruppo di uomini e donne che la seguivano, la sorvegliavano nelle sue lunghe estasi, la aiutavano in ogni modo nelle attività caritative. Scrisse tante lettere, anche a personalità importanti dell’epoca, nelle quali affrontava problemi religiosi, ma anche morali e politici.

Secondo la leggenda, nell’aprile 1375 Caterina ricevette le stimmate nella chiesa di Santa Cristina a Pisa, stimmate che solo lei poteva vedere, e che furono rese visibili poco prima della sua morte. Al Papa, trasferitosi ad Avignone, chiese insistentemente di tornare a Roma e il 18 giugno 1376 ad Avignone fu ricevuta dal Papa.

Caterina era una visionaria. La notte di carnevale del 1367 le apparve Cristo accompagnato dalla Vergine e da una folla di santi, donandole un anello visibile solo a lei, e sposandola misticamente. Dopo essere stata accolta dalle Mantellate, frequenti furono le sue estasi, continui i colloqui con Gesù Cristo suo Sposo.

Fu sepolta a Roma, nel cimitero di Santa Maria sopra Minerva, dove il suo corpo è ancora conservato. Ma l’anno successivo, nel 1381, le fu staccata la testa per portarla a Siena come reliquia.

Santa Caterina d’Alessandriaè venerata come santa dalla Chiesa cattolica, e da tutte le Chiese Cristiane che ammettono la venerazione dei Santi. Incerta è la sua data di nascita (probabilmente il 287), e altrettanto poco si sa della sua vita, tanto che è difficile distinguere la realtà storica dalle leggende popolari e addirittura si dubita della reale esistenza di una santa Caterina d’Alessandria d’Egitto.  Secondo la Leggenda Aurea, che risale al XIII, Caterina sarebbe stata una bella giovane egiziana, orfana del re Costa, e educata nelle arti liberali. Nonostante fosse stata chiesta in sposa da molti uomini importanti, non volle sposarsi, avendo avuto la visione della Madonna con il Bambino che le infilava l’anello al dito facendola suora.

Nel 305 un imperatore romano la condannò al martirio su una ruota dentata, avendo lei rifiutato di onorare gli dei pagani; ma lo strumento di tortura si ruppe e fu necessario decapitarla: dalla sua testa sgorgò latte, simbolo della sua purezza. Nel XIX secolo la studiosa Anna Jameson identificò molte caratteristiche comuni tra santa Caterina d’Alessandria e Ipazia, la matematica e filosofa pagana uccisa proprio ad Alessandria d’Egitto nel 415 da una setta di fanatici cristiani. La stessa Chiesa cattolica ha spesso espresso dei dubbi, resta comunque il permesso di festeggiarla come santa.

 

 




Brescia – Memorie e memoria dal basso (Parte prima)

Passeggiando per Brescia è importante guardare anche per terra per non perdersi l’orizzontale museo diffuso che dal 2012 ha iniziato a dipanarsi per le vie della città con le formelle per le vittime del terrorismo e le pietre di inciampo, realizzate per iniziativa rispettivamente della Casa della Memoriae della Cooperativa Cattolico Democratica di Cultura.

La città, fondata nel IX secolo a.C. sul colle Cidneo, è stata soggetta nel corso della storia a numerosi e differenti dominatori, dai Romani alla Repubblica di Venezia, dai Longobardi ai Visconti, dai Francesi agli Austriaci. A partire dalla dominazione romana, iniziata nel I secolo d.C., il centro urbano inizia a svilupparsi anche nella piana ai piedi del Cidneo, mentre il nucleo primitivo sul colle viene in parte a perdere di importanza, fino a quando, nel XIII secolo, vi si inizia la costruzione di una fortezza, di impianto prevalentemente veneziano-visconteo, comunemente conosciuta come il “Castello”.

Foto 1. Il castello di Brescia

Questo imponente complesso fortificato, uno dei più vasti in Italia, domina sulla città e perciò è anche noto come il “Falcone d’Italia”. Proprio grazie alla sua posizione e all’evoluzione delle tecniche militari, nel corso dei secoli diventa un sistema difensivo inespugnabile e un perfetto strumento di controllo sulla città da parte dei vari dominatori. Gastone di Foix nel febbraio 1512, dopo avere inutilmente intimato la resa alla città assediata, fedele ai Veneziani, vi fa irrompere dal Castello e da una delle porte cittadine 12.000 soldati francesi, che la mettono a ferro e fuoco per diversi giorni, causando migliaia di vittime in un tragico “carnevale di sangue” ricordato anche come “sacco di Brescia”. Nel 1849, durante l’insurrezione delle Dieci Giornate di Brescia, la guarnigione austriaca del generale Nugent, acquartierata in Castello, spara sulla città, che si arrende solamente il 1° aprile, dopo che il maresciallo Haynau la notte precedente ha raggiunto con le sue truppe la fortezza, attraverso la Strada del Soccorso, un percorso segreto di età viscontea che collega la sommità del Cidneo al centro urbano. La repressione è durissima; gli insorti fatti prigionieri sono rinchiusi in Castello e molti di loro fucilati nei fossati e sugli spalti, fino al 12 agosto, data dell’amnistia voluta da Radetzky. Tra la fine del XIX e l’inizio del secolo, le pendici del colle, fino allora brulle per permettere l’avvistamento di eventuali nemici, cambiano completamente volto; vengono creati viali alberati e collocati monumenti e steli commemorative e il Castello comincia ad assumere una funzione pubblica di carattere ricreativo e culturale-scientifico, a partire dal suo rilancio, che inizia ospitando nel 1904 l’Esposizione Industriale Bresciana e nel 1909 l’Esposizione internazionale di applicazione dell’elettricità. Dal 1943 al 1945 Brescia è parte della Repubblica Sociale Italiana, e nei “600 giorni di Salò” in città hanno sede alcuni ministeri e in Castello le compagnie Lazio, Ausiliaria, Ordine Pubblico, Pronto Intervento, qualche plotone delle SS tedesche, la guardia personale di Graziani, la commissione permanente di disciplina della GNR (Guardia Nazionale Repubblicana). Sempre in Castello sono fucilati numerosi esponenti della Resistenza nella cosiddetta Fossa dei Martiri (foto 2); l’ultima esecuzione ha luogo il 24 marzo 1945 con la fucilazione alla schiena del partigiano Giacomo Cappellini, della quale recano testimonianza una lapide commemorativa e il muro scheggiato dai proiettili.

Foto 2. La fossa dei martiri

Un filo rosso di sangue, dolore e violenza, che intreccia tempi e memorie diverse, si dipana dal Castello, percorre la città e si coagula in alcuni luoghi precisi. Il Salone Vanvitelliano della Loggia, il palazzo comunale di Brescia situato nell’omonima piazza (in copertina), conserva in una parete interna il foro provocato da una granata austriaca durante le Dieci giornate del 1849, mentre una delle colonne dei portici che si affacciano su Piazza Loggia, esattamente di fronte al palazzo, mostra ancora le ferite dell’esplosione del 28 maggio 1974. Quel giorno Brescia è drammaticamente ferita dal terrorismo neofascista, colluso con apparati dello Stato; un ordigno esplosivo, collocato in un cestino portarifiuti sotto i portici che costeggiano Piazza Loggia, provoca una strage. Si contano 102 feriti e otto morti: un pensionato, ex partigiano, Euplo Natali, 69 anni; due operai, Bartolomeo Talenti, 56 anni, e Vittorio Zambarda, 60 anni; e cinque insegnanti, Giulietta Banzi Bazoli, 34 anni, Livia Bottardi Milani, 32 anni, Alberto Trebeschi, 37 anni, Clementina Calzari Trebeschi, 31 anni e Luigi Pinto, 25 anni. Dopo depistaggi nelle indagini e un iter processuale lungo 43 anni si arriva al giudizio definitivo in Cassazione nel giugno 2017, che conferma la condanna all’ergastolo nei confronti di Carlo Maria Maggi, medico, ex ispettore veneto dell’organizzazione neofascista Ordine nuovo, e di Maurizio Tramonte, l’ex fonte ‘Tritone’ dei servizi segreti. Alla lettura del verdetto è presente in aula, tra gli altri, Manlio Milani, presidente dell’Associazione dei familiari dei caduti di Piazza Loggia, e fondatore nel 2000, con il Comune e la Provincia di Brescia, della Casa della Memoria, centro di documentazione sulla strage bresciana e la violenza terroristica, in particolare quella neofascista.

Foto 3. La stele e il manifesto a ricordo della strage

 




Le Terme di Diocleziano (parte seconda)

Le terme di Diocleziano, costruite in meno di otto anni tra il 298 e il 305 d.C., furono le più grandi tra tutte quelle realizzate a Roma e nel mondo romano (doppia estensione di quelle di Caracalla, costruite tra il 212 e il 217),) e le ultime ad essere costruite per il popolo (le terme di Costantino, più recenti, furono riservate a un pubblico limitato e selezionato).

Diocleziano fu imperatore dal 284 al 305 d.C. Era un illirico, poco colto, ma di grande esperienza militare, ereditò un impero minacciato da orde barbariche; da solo non poteva fronteggiare la situazione e associò al governo un suo generale, Massimiano, proclamato Augusto, affidandogli la difesa dell’Occidente e la sede a Milano, riservando a sé la difesa del fronte orientale. Il 303 Diocleziano e Massimiano fecero il loro ingresso trionfale a Roma su un carro trainato da elefanti, ma Diocleziano rimase a Roma solo 4 settimane, e non fece in tempo a vedere l’apertura delle terme.

Nell’ampia area in cui si estendevano, tra le attuali piazza della Repubblica, piazza dei Cinquecento, via Volturno e via XX Settembre, sono ancora visibili i resti. Per ottenere lo spazio necessario fu smantellato un intero quartiere con numerosi edifici privati e case d’abitazione, e fu utilizzato il lavoro di un enorme numero di cristiani. Tutto il complesso occupava una superficie di oltre tredici ettari; era racchiuso da un recinto rettangolare, e una grande esedra lo chiudeva dal lato opposto, fungendo probabilmente da teatro (da qui il nome della piazza, fino alla proclamazione della Repubblica). Oggi questa esedra è ricalcata dai due palazzi porticati che inquadrano via Nazionale. Poteva accogliere fino a 3000 persone contemporaneamente, e oltre a una piscina di 3500 metri quadrati, e ai classici ambienti delle terme, conteneva palestre, biblioteche, sale di studio, spazi deputati al divertimento e allo spettacolo, piccoli teatri, fontane, mosaici, pitture e gallerie d’arte, addirittura negozi. Assolveva quindi anche alla funzione di luogo di ritrovo e passatempo oltre che essere usato a scopi terapeutici.

Per l’approvvigionamento idrico fu costruita una diramazione dell’Acqua Marcia che faceva capo a un’ampia cisterna, distrutta tra il 1860 e il 1876 per la costruzione della stazione ferroviaria denominata Termini, toponimo derivato proprio dalla parola “terme” (a piazza dei Cinquecento sono ancora visibili grandiosi resti di nudi muri in laterizio).

Figura 1 Pianta delle Terme di Diocleziano

Legenda: 1 Calidarium. 2 Tepidarium. 3 Frigidarium. 4 Natatio. 5 Palaestrae. 6 Entrata. 7 Grande esedra.

Tecnologia degli impianti termali

L’invenzione non è romana, poiché pavimenti con canalizzazioni sotterranee per la circolazione d’aria calda sono noti in Grecia già nel terzo secolo a.C., ma i romani presero spunto anche dalle caratteristiche esalazioni di vapore diffuse nella regione flegrea. Si trattò di sostituire una fonte di calore artificiale a quella naturale delle fumarole e di immettere quel calore sotto i pavimenti degli ambienti balneari. Verso la fine della repubblica fu introdotto il riscaldamento col sistema detto hypocaustum (letteralmente “che scalda o brucia da sotto”): consisteva nella realizzazione di un’intercapedine pavimentale, che rendeva il pavimento sopraelevato (suspensura) su pilastrini di mattoni sovrapposti (pilae). Anche le pareti, attraverso l’utilizzo di particolari tegole o tubuli di terracotta, erano dotate di intercapedine (concameratio) dove circolavano i vapori caldi prodotti dalla fornace (praefurnium).

Le terme romane: usi e costumi

L’uso delle terme si ritrova già nell’antica Grecia, ma furono i romani a sviluppare un vero e proprio tipo di architettura, che diventò sempre più diffuso man mano che i costumi si allentavano: meno ci si dedicava all’impegno militare e a quello politico e più si andava alle terme.

Di solito ci si andava nel pomeriggio, alla fine di una giornata di lavoro. Le donne invece preferivano andarci di mattina. Ci si svestiva nello spogliatoio (apoditerium), si faceva un po’ di ginnastica nel cortile riservato (palestra), o nel gymnasium coperto e, dopo una buona sudata, si tornava nello spogliatoio, dove ci si faceva detergere il corpo con lo strigile, un raschiatoio ricurvo in metallo o avorio, e massaggiare con oli e unguenti profumati. C’era poi chi continuava con una nuotata in piscina (natatio), chi preferiva invece una sosta nel tepidarium, un’ampia sala dalla temperatura costante che immetteva nel calidarium, dove si trovavano la vasca con l’acqua calda e il bacile per le abluzioni. Adiacenti al calidarium erano il laconicum e il sudatorium, ambienti che possiamo paragonare alle attuali saune. Un tuffo nella piscina fredda, il frigidarium, concludeva il bagno. In questo modo, sudando, ungendosi e raschiando via le impurità dalla pelle, i romani, che non conoscevano il sapone, facevano un vero e proprio trattamento di pulizia, non solo, ma, alternando bagni caldi e freddi, provocavano nel corpo una reazione benefica.

Le terme divennero un appuntamento quotidiano: l’esiguo costo d’ingresso e in molti casi la completa gratuità ne consentivano l’accesso a tutti gli strati sociali: i meno abbienti trovavano qui sollievo alla loro vita di stenti, mentre i ricchi, pur disponendo spesso di terme private nelle loro case, non rinunciavano al piacere di condividere il momento del bagno con altri. Le terme divennero quindi col tempo un luogo di incontro, dove recarsi per curare il proprio corpo, ma anche semplicemente per conversare, conoscere gente: talvolta l’appuntamento alle terme costituiva addirittura un’occasione per sbrigare gli affari.

La clientela femminile

Tra i frequentatori delle terme non mancavano le donne, di tutte le classi sociali: le proprietà benefiche delle acque, la cura del corpo, i trattamenti di bellezza, divennero passatempo prediletto anche nel mondo femminile. In un primo momento, nell’osservanza del buon costume, gli impianti termali prevedevano una sezione maschile e una femminile, costruite a specchio, con un’unica fornace, o la regolamentazione dell’orario con turni diversi per uomini e donne; queste precauzioni però vennero meno con il tempo, suscitando talvolta l’indignazione degli scrittori, turbati da questa promiscuità.

La donna a Roma ha sempre occupato una posizione inferiore rispetto a quella dell’uomo; più libera di quella greca, era comunque sottomessa prima al pater familias e poi al proprio marito, doveva accudire i figli e mantenere la casa ed era totalmente esclusa dall’accesso alle istituzioni pubbliche. Nell’età imperiale, però, le romane cominciarono a fare meno figli e ad appropriarsi di tutte quelle occupazioni che in età repubblicana erano riservate agli uomini. In parecchie circostanze le donne dell’epoca imperiale proclamarono la loro parità di diritti, ma lotte e proteste femminili non ebbero, difatti, effetti rilevanti, dal momento che non miravano ad un’emancipazione in senso moderno: erano solo manifestazioni di donne ricche, dell’élite dominante, che si prendevano la libertà di gestire il proprio denaro, che osavano fare letteratura o esprimere pareri politici, giuridici o filosofici.  Le donne umili difficilmente ebbero modo di fare sentire la propria voce. Ma nell’ambiente termale tutte, ricche, potenti e serve, si illudevano di godere pari diritti rispetto all’altro genere e si comportavano come se quella parità fosse stata raggiunta. Accompagnandosi a donne del loro stesso ceto sociale, si dedicavano all’igiene personale e parlavano di trucchi, abbigliamento, o si confidavano pensieri nascosti.

Le terme di Diocleziano nella storia

Le terme di Diocleziano subirono il destino di tantissimi monumenti romani, spogliati per essere utilizzati nei secoli come cava di materiali edili per altre costruzioni, mentre le aule venivano adibite ai più svariati usi. Nell’età di Teodorico (493-526) le terme erano ancora in funzione. Un primo restauro fu condotto dopo l’invasione di Alarico, intorno al 470. Ma dopo la distruzione della città da parte di Totila, furono chiusi gli acquedotti (537) e cominciò per il complesso termale una lenta, ma inesorabile decadenza. Alcuni ambienti erano già stati cristianizzati: nel 499 veniva registrato un titulus, una primitiva ecclesia domestica, nella casa di Ciriaco, definita iunxta thermas.

Nel Medioevo le rovine diventarono meta di pellegrini che scrissero il loro entusiasmo al cospetto dell’antichità, come l’inglese Magister Gregory o il Petrarca, che all’amico Colonna descrive un luogo spazioso e silenzioso.

Dal Rinascimento in poi tornarono a nuova vita: alcune aule termali furono trasformate nella chiesa di S. Maria degli Angeli. Altre parti superstiti diedero vita alla chiesa di San Bernardo, il vasto complesso dell’ex convento dei Certosini occupato dal Museo Nazionale Romano, i vecchi Granai Clementini, l’ex Planetario, una facoltà universitaria e altro ancora.

 

In copertina. Donne romane nel frigidarium delle terme, da un dipinto di Lawrence Alma-Tadema

 




Roma – Le Terme di Diocleziano: dalle Naiadi all’imperatrice Livia

Comincia da questo numero la serie dei percorsi di genere romani, che, attraversando quartieri della città di Roma, o visitando musei e gallerie, o inseguendo un filone tematico, mirano alla  ricerca di figure femminili, personaggi storici, mitologici, sante ed eroine che vi hanno lasciato traccia.

La serie si apre con le Terme di Diocleziano.

Inaugurate nel 306 d.C., si estendevano tra le attuali piazza della Repubblica, piazza dei Cinquecento, via Volturno e via XX Settembre. Furono le più grandi tra quelle realizzate nell’antica Roma (occupavano una superficie di oltre tredici ettari) e nel corso del tempo subirono cospicue distruzioni e trasformazioni. Seguiremo le metamorfosi di questo complesso monumentale, scavando nella sua storia per inseguire ed esaltare le memorie femminili, per la verità scarse, nascoste nelle sue pieghe.

Dalle Naiadi, raffigurate nella fontana al centro di piazza della Repubblica, visiteremo la Chiesa di S. Maria degli Angeli, che si affaccia nella stessa piazza, dalla Fontana dell’Acqua Felice, in piazza San Bernardo, arriveremo al Giardino dell’imperatrice Livia, splendidamente conservato nel museo di Palazzo Massimo alle Terme.

 

Piazza della Repubblica, che ancora oggi qualcuno ricorda come piazza Esedra (il cambio in “piazza della Repubblica” è avvenuto dopo la guerra e la proclamazione della Repubblica), situata a poche centinaia di metri dalla Stazione Termini, sorge nell’area delle antiche Terme di Diocleziano. Nello stesso luogo, alla fine del ‘500, sorgeva la bellissima villa Montalto Peretti, voluta da papa Sisto V, opera dell’architetto Domenico Fontana (1576).

Il precedente nome della piazza trae origine dalla grande esedra (l’esedra in architettura è uno spazio semicircolare) delle terme romane, il cui perimetro è ricalcato oggi dal colonnato semicircolare che chiude la piazza verso via Nazionale. I portici che l’abbelliscono furono edificati proprio in memoria degli antichi edifici che vi sorgevano: i palazzi porticati, risalenti al 1887-1898 sono opera dell’architetto Gaetano Koch (Roma 1849 – 1910), romano nonostante il cognome che gli deriva dall’origine tirolese del nonno, pittore di una certa fama.

Koch ha legato il suo nome anche ad altre opere realizzate nella Roma umbertina: Palazzo Koch, sede della Banca d’Italia, Palazzo Mengarini, residenza romana della famiglia Agnelli, sempre a Roma, e Palazzo Boncompagni Ludovisi o Margherita, attuale sede dell’Ambasciata degli Stati Uniti in Via Veneto.

Con i palazzi porticati a piazza della Repubblica ha creato lo scenario d’ingresso alla nuova via Nazionale, diretta a piazza Venezia, una delle porte di ingresso alla città. Il richiamo al classicismo è evidente nell’ordine gigante delle arcate monumentali che sorreggono i tre piani. Il materiale delle facciate è il caldo travertino romano e gli ornamenti sono di stucco.

FOTO 1. La ninfa dei laghi

La Fontana delle Naiadi, in stile liberty, al centro della piazza è opera del palermitano Mario Rutelli (Palermo, 1859-Roma, 1941) bisnonno dell’ex sindaco di Roma, Francesco Rutelli, realizzata nel 1901. Le quattro naiadi rappresentate sono la Ninfa dei Laghi, riconoscibile dal cigno che tiene a sé, la Ninfa dei Fiumi, sdraiata su un serpente d’acqua, la Ninfa degli Oceani, in sella a un cavallo (sarebbe piuttosto una nereide, in quanto, secondo la mitologia greca, infatti, le “naiadi” sono ninfe delle acque dolci, mentre quelle dei mari erano note appunto come “nereidi”), e la Ninfa delle Acque Sotterranee, poggiata su un drago. Al centro si trova il gruppo del Glauco (1912), divinità protettrice dei porti, un uomo nudo, di struttura atletica, che stringe, tra le braccia vigorose, un guizzante delfino, dalla cui bocca si eleva, altissimo, un getto d’acqua che ricade sui numerosi zampilli laterali: rappresenta l’uomo vittorioso sulla forza ostile della natura.

Foto 2. La ninfa dei fiumi

Nonostante sia stata restaurata nel 1998, la fontana è molto rovinata: gli oggetti di bronzo, e, in modo particolare quelli esposti all’aria e all’acqua, si ossidano e possono anche corrodersi.

Una prima fontana fu inaugurata il 10 settembre 1870, dal papa Pio IX, dieci giorni prima della breccia di Porta Pia e della fine del suo regno temporale (Pasquino commentò: Acqua Pia, oggi tua, domani mia), come mostra dell’Acquedotto dell’Acqua Pia Marcia, che il papa aveva fatto ricostruire, e che allora era il principale rifornimento idrico della città. Era situata un po’ più vicino all’attuale stazione e consisteva in una semplice vasca, circondata da rocce da cui partivano numerosi zampilli verso il centro.

Fu ricostruita nel 1888, su progetto di Alessandro Guerrieri, che la spostò nell’attuale sistemazione, e la modificò in tre tazze circolari concentriche a diversa altezza poste su una base ottagonale con i lati alternativamente retti e concavi. Sui lati retti si aprono quattro vasche semicircolari e l’intera struttura è immersa in un’ampia piscina poco profonda. In occasione della visita dell’imperatore tedesco Guglielmo II, si decise di abbellirla e il Guerrieri pose attorno alla grande vasca circolare quattro leoni accucciati di gesso; questi furono poi sostituiti nel 1901 dai quattro gruppi di bronzo dello scultore Mario Rutelli.

Foto 3. La ninfa degli Oceani

A lavoro terminato, la visione delle quattro naiadi nude distese in pose lascive lasciò perplessi e, in attesa dell’inaugurazione, la fontana fu chiusa da una cancellata: la vecchia Roma papalina mal sopportava che, di fronte alla basilica di S. Maria degli Angeli, fossero mostrate queste bellezze femminili, cui avevano fatto da modelle alcune ragazze di Anticoli Corrado, paesino vicino Roma, famoso per la bellezza delle sue donne.

La sera del 10 febbraio 1901, incuriosita dalle polemiche giornalistiche, una gran folla di gente si era andata ammassando attorno allo steccato: stanchi di curiosare attraverso le fessure, qualcuno cominciò a scavalcare, altri a schiodare, finché lo steccato non fu completamente abbattuto.

Foto 4. La ninfa delle acque sotterranee

Le cronache del tempo però non raccontarono di un popolo scandalizzato, le Naiadi non fecero arrossire nessuno. Nei giorni successivi, tra le visite illustri si registrò anche quella della regina Margherita: l’eco delle polemiche aveva suscitato la sua curiosità. Giunta in carrozza ordinò al cocchiere di fare il giro della fontana ben tre volte e ripartì mostrando un vivo compiacimento. Per il gruppo centrale Rutelli aveva realizzato un primo modello in malta dal soggetto molto contorto: si trattava di tre figure avvinghiate in lotta con un delfino e un polipo. Il “fritto misto”, così fu chiamato dai Romani, fu trasferito ai giardini di piazza Vittorio, e per la fontana Rutelli stesso realizzò un altro gruppo più sobrio, col Glauco che abbraccia un delfino.

A proposito delle Naiadi licenziose il Sor Capanna compose uno stornello:

C’è a piazza delle Terme un funtanone

Che uno scultore celebre ha guarnito

Co’ quattro donne ignude a pecorone

E un omo in mezzo che fa da marito.

Quant’è bello quer gigante

Lì tra in mezzo a tutte quante:

cor pesce in mano

annaffia a tutt’e quattro il deretano.