Brescia – Memorie verticali (terza parte)

L’ancora incompiuta Piazza Rovetta continua a essere un nervo scoperto nel cuore della città e delle memorie divise, a causa della sua caotica origine e per essere stata teatro della prima, tremenda, rappresaglia della RSI a Brescia.

Alle 22 del 13 novembre 1943 viene lanciata contro la caserma della GNR (Guardia Nazionale Repubblicana) di via Milano una bomba che esplode, uccidendo il caposquadra Luigi Bertazzoli e ferendo il milite Paolo Tosoni. La rappresaglia è immediata; una squadra delle Brigate Nere va verso Piazza Rovetta, guidata da un comandante che ha in mano l’elenco delle persone da eliminare, attinto da quello, ben più numeroso, di sovversivi e antifascisti da incarcerare in occasione di eventuali visite in città di Benito Mussolini, affinché si svolgano indisturbate, senza alcuna esplicita manifestazione di dissenso.

Foto 1. La targa a memoria delle vittime di rappresaglia

La prima vittima della rappresaglia è Arnaldo Dall’Angelo, che, nato in Svizzera nel 1905, si trasferisce con la famiglia prima ad Artogne, in Valcamonica, poi nel 1913 a Brescia e proprio in città inizia successivamente a lavorare come operaio alla Radiatori, grande fabbrica locale. Iscritto al partito comunista clandestino, viene bastonato più volte, nel 1932 condannato al confino a Ponza e al carcere a Poggioreale. Ritornato a Brescia, dal 1936-1937, accanto a Italo Nicoletto, è uno dei riorganizzatori della Federazione Comunista bresciana. Durante i primi mesi di occupazione nazifascista diffonde la stampa comunista clandestina.  Secondo le note redatte su di lui e riportate nella scheda di Prefettura: “È di carattere impulsivo e capace di provocare disordini. Ha poca educazione, poca cultura e discreta intelligenza. Ha frequentato le scuole fino alla III (sic) elementare. Non ha beni di fortuna e vive del proprio lavoro cui si dedica volentieri. Frequenta compagnie di sovversivi e di pregiudicati con i quali si accompagna spesso in osterie di infimo ordine dedicandosi ai piaceri del vino”[1]. Viene portato fuori con la violenza dalla sua casa tra Corso  Mameli e l’attuale Rua Sovera, nel centrale quartiere popolare del Carmine, per essere tradotto in Questura, e ucciso da una serie di pugnalate e da una raffica di mitra alla schiena, presso l’edicola di piazza Rovetta, e il suo corpo viene esposto sulla strada, senza che i parenti possano intervenire.

Foto 2. Arnaldo Dall’Angelo

I fascisti continuano la loro spedizione al Carmine e vanno a cercare Giuseppe Andrini, operaio, dirigente della Federazione Giovanile Socialista durante la prima guerra mondiale, passato al PCI nel 1921, più volte arrestato e confinato dal 1926 al 1935, e successivamente membro attivo della Resistenza. Le Brigate Nere però sbagliano casa e persona e, al posto di Giuseppe Andrini, catturano brutalmente sulla soglia di casa, in via F.lli Bandiera, Guglielmo Perinelli, di sessantuno anni, fresatore alla OM, che freddano con una raffica di mitra, senza neppure dargli il tempo di declinare le proprie generalità.

La terza vittima è Rolando Ettore Pezzagno, natoBrescia nel 1886, che, a causa del suo carattere ribelle e impulsivo, unito alle convinzioni anarchiche, da giovane finisce in riformatorio. Successivamente incarcerato per reati minori, nel 1915 è condannato per insubordinazione e diserzione. Ha una bancarella di merceria in Piazza Mercato e, in seguito alla sua partecipazione alle prime azioni contro i fascisti bresciani che vedono come epicentro proprio il popolare quartiere del Carmine, viene nuovamente arrestato e inviato al confino a Ustica. Liberato, dopo il 25 luglio 1943 torna a Brescia.  Viene trascinato fuori dalla sua abitazione in via Maraffio, oggi Rua Sovera, e massacrato in mezzo alla strada, in via San Faustino.  I cadaveri di Arnaldo Dall’Angelo, Guglielmo Perinelli e Rolando Ettore Pezzagno sono lasciati diversi giorni sul selciato della centrale Piazza Rovetta; a Brescia sono loro i primi tre “monumenti di una diffusa pedagogia funeraria”[2], che segnano in città “il passaggio dalla morte celata alla morte ostentata”[3]. Lo stato fantoccio della RSI “è costretto dalla sua debolezza a regredire verso queste antiche forme di ostentazione della propria capacità di punire”[4]  e “i cadaveri dei fucilati tenuti esposti per giorni nei luoghi della socialità cittadina sono il nuovo modo di tenere la piazza: i discorsisenza più parole”[5]. Risponde invece con parole durissime un volantino circolante in città il giorno successivo: “Bresciani, l’infame rappresaglia effettuata dai fascisti sui poveri innocenti deve essere inesorabilmente punita. Il sangue di queste vittime della feroce bestialità fascista chiede vendetta. Ogni cittadino scolpisca nella mente questi delitti” [6]. Mentre la lapide dei “martiri di Piazza Rovetta” viene collocata a cura dell’ANPI e del Comune nel 1988, quarantacinque anni dopo l’eccidio, i venditori ambulanti di Brescia e provincia ne collocano una nella vicina via San Faustino, già nel secondo anniversario della rappresaglia, il 13 novembre 1945, per ricordare Rolando Pezzagno.

Foto 3. In memoria di Rolando Pezzagno

L’ultimo dell’elenco di quella sera è Mario Donegani, operaio alla Togni; nato nel 1900, inizia a partecipare alla vita politica e sindacale come socialista e nel 1920 prende parte all’occupazione delle fabbriche. Entrato nel PCI nel 1921, nel 1925 viene condannato per reati politici a tre anni di carcere; subito dopo la scarcerazione è nuovamente arrestato e confinato a Lipari, da cui torna nel 1933, per essere poco dopo arrestato e incarcerato per tre mesi a Brescia, a causa della sua militanza antifascista clandestina. La notte tra il 13 e il 14 novembre del ’43 le Brigate Nere lo feriscono al torace e al braccio sinistro; credendolo morto, prima lo prendono  a calci e poi lo abbandonano sul selciato, come le altre loro tre vittime. Svenuto per il dolore, dopo un’ora Mario Donegani rinviene e riesce a trascinarsi e nascondersi sui Ronchi, zona collinare della città, per poi recarsi in ospedale a farsi curare. Denunciato durante la degenza, una volta guarito viene spedito in un campo di transito a Oneglia per quattro mesi, ma riesce a fuggire durante il trasferimento in Germania e si unisce alle formazioni partigiane in Valle Sabbia. Il 26 ottobre 1944 è gravemente ferito durante un rastrellamento; le Brigate Nere lo portano in un fienile e lo ardono vivo. Il suo nome compare nell’elenco dei 186 caduti bresciani per la libertà, riportati su una grande lapide posta in Largo Formentone sul lato destro di Palazzo Loggia, poco lontana da quella che ricorda le vittime dell’eccidio del 13 novembre 1943. I caduti per la libertà sono suddivisi in differenti categorie: caduti nella Resistenza, ovvero partigiani, patrioti e antifascisti (94), internati militari (IMI) che comprendono caduti nei lager e dispersi (65), deportati politici e civili (10), appartenenti al Corpo italiano di liberazione (CIL), il contingente di truppe italiane regolari, costituito il 18 aprile 1944, cobelligerante con gli Alleati contro i Tedeschi (6), militari della Divisione Acqui caduti a Cefalonia (9) ed ebrei (2).

Foto 4. La grande lapide di Largo Formentone

In termini percentuali i caduti nella Resistenza costituiscono il 51% dei caduti per la libertà, gli IMI il 35%, i deportati politici e civili il 5%, gli appartenenti al CIL il 3%, i militari della Divisione Acqui caduti a Cefalonia il 5% e gli ebrei l’1%; un dato, quest’ultimo, coerente con la limitatissima presenza ebraica che, secondo l’elenco trasmesso dalla Prefettura di Brescia della RSI ai Tedeschi il3 novembre del 1943, sarebbe costituita da novanta persone in tutta la provincia. I caduti nella Resistenza e gli IMI insieme costituiscono ben l’86% del totale e confermano, anche a livello locale, l’importanza decisiva, anche sul piano militare, della scelta controil fascismo, comune a chi ha preso le armi e a chi si è rifiutato di prenderle nell’esercito di Salò giurando fedeltà a Mussolini, in tutto oltre 600.000 militari italiani, che, a costo di marcire o addirittura morire nei lager, privano la RSI della possibilità di avere un vero e proprio esercito. In termini di generazioni, fra gli uomini, è quella fra i ventuno e i trenta anni la più colpita: ottantasei caduti su un totale di 186, di cui sei uomini di età ignota, dunque ottantasei su 180, ovvero una percentuale media del 47,7%, che sale al 49,6% se si escludono le donne dal computo del totale, con picchi che vanno dal 55,6% dei deportati politici e civili, al 70,4% degli IMI, fino a raggiungere il 75% dei militari della Divisione Acqui caduti a Cefalonia. Le donne sono pochissime, sei, ovvero poco più del 3% più o meno come gli appartenenti al CIL, e tutte cadute nella Resistenza; se però si considera che per ragioni di genere non possono essere parte degli IMI, del CIL e neppure della Divisione Acqui trucidata a Cefalonia, e si somma ai caduti nella Resistenza il numero dei deportati politici e civili e degli ebrei, fra i quali ci potrebbero potenzialmente essere donne, si ottiene la percentuale più realistica di quasi il 6% sul totale e di oltre il 6% fra i caduti nella Resistenza. La classe di età più colpita fra le donne è quella fra i quarantuno e i cinquanta anni, che costituisce l’1,2% sul totale, ma ben il 33,6% delle donne, il che si spiega, probabilmente, col fatto che sono vittime di rappresaglie o proiettili che hanno sbagliato bersaglio durante scontri a fuoco. In realtà l’esiguo numero di “cadute per la libertà”, che non erano peraltro partigiane, non dà conto della significativa partecipazione delle donne alla guerra civile contro la RSI e i Tedeschi; esiste infatti “la difficoltà di rendere completa giustizia alle donne che hanno partecipato alla Resistenza bresciana”,[7]  a causa di un diffuso atteggiamento di antiretorica autosvalutazione che emerge dalle testimonianze raccolte fra le resistenti bresciane. Carla Leali, attiva collaboratrice, insieme alla madre e ad altre donne della Valsabbia, della brigata “Perlasca” dichiara: “non abbiam fatto la guerra noi; no, abbiam fatto le donne, …abbiam fatto solo le donne […] Assistevamo i vivi, onoravamo i morti, cercavamo di lavare i feriti, si curavano gli ammalati, si dava da dormire e da mangiare ai rifugiati e poi ci si trovava […] e si facevano anche le nostre riunioni… più o meno intellettuali”[8]e secondo Maria Pippan “Gli uomini racconteranno delle grandi imprese, opere, non so, che hanno fatto, e noi […] Voi volevate delle grandi cose, ma son tutte cose…; va beh che con le piccole cose si fanno le grandi”.[9]Le “piccole cose” non sono poi così piccole; basti solamente pensare al ruolo fondamentale delle staffette, che, affr0ntando grandi rischi, garantiscono il collegamento fra la città e le formazioni partigiane nelle valli e “Che lo sapessero o no, che in seguito lo abbiano o no raccontato, i partigiani dipendevano da loro, per il cibo e per il vestiario”.[10]Poi, finita la guerra, le partigiane tornano alla solita vita “da donne”, e quando si costituiscono le commissioni, tutte maschili, per il riconoscimento, molte di loro neppure si presentano, non solo a Brescia, anche in tutte le regioni italiane coinvolte nel movimento resistenziale. Non solo, il loro “desiderio di raccontare fu bloccato immediatamente, capirono benissimo, le donne, che le loro “avventure”, trascorse in mezzo a giovani maschi, non erano gradite; cosa avevano veramente fatto? Le donne sono sempre sospette”.[11]

Lidia Boccacci di diciassette anni, sua madre Emma Ceretti di quarantanove e Teresa Gnutti, sarta di cinquantatré anni, sono vittime civili di una rappresaglia. Il 25 aprile 1945 un milite tedesco è ucciso dai partigiani nel quartiere cittadino di Mompiano, in cui ha sede la sezione di Brescia del Poligono di tiro a segno nazionale, presso la quale lavora come custode, risiedendovi con la moglie Emma e Lidia, l’unica figlia, in un alloggio di servizio, Giuseppe Boccacci. L’uomo, artigiano armaiolo, opera in collegamento con il gruppo dei partigiani dell’OM, cui fornisce munizioni e informazioni. Il giorno successivo i Tedeschi tornano per compiere una rappresaglia; i partigiani sono già partiti e la famiglia Boccacci, insieme a altre persone, è asserragliata al primo piano della propria abitazione. Lidia, molto esperta di armi, vorrebbe lasciar salire i Tedeschi dalle scale per accoglierli con una raffica di fuoco a distanza ravvicinata, ma ne viene dissuasa. L’intera famiglia Boccacci, una coppia di loro parenti, Teresa Gnutti e Valerio Mazzoleni, e altri quattro uomini rifugiatisi presso la loro abitazione (Aldo Bonincontri, Franco Omassi, Leonardo Più e Ugo Zagato) sono condotti tutti in cortile, fucilati nel Poligono di tiro e poi barbaramente finiti con il calcio dei fucili. Solo Valerio Mazzoleni, creduto morto e confuso tra i cadaveri, riesce a sopravvivere. Lidia Boccacci, Emma Ceretti e Teresa Gnutti sono ricordate, insieme alle altre vittime dell’eccidio, anche in una lapide posta sul piazzale del Poligono di tiro in località Mompiano.

Foto 5. La targa al Poligono di tiro

Altra vittima di una rappresaglia è Teresa Braga, casalinga di trentasette anni, colpita a morte da una scarica di arma automatica sparatale da un fascista, il 26 aprile 1945.  Il 25 aprile 1945 la dattilografa Lucrezia Girelli di quarantatré anni viene uccisa nel corso di uno scontro tra partigiani e militari tedeschi in piazzale Cremona. Fine analoga tocca il 26 aprile 1945 a Maria Bonassi, una casalinga di non ancora ventitré anni residente nella frazione cittadina di Sant’Eufemia della Fonte, colpita a morte nel suo quartiere durante uno scontro a fuoco tra un reparto alleato e truppe tedesche in ritirata.

 

[1]Scheda Prefettura di Brescia su Arnaldo Dall’Angelo in http://www.qui.bg.it/vedit/15/img_eventi/Anpi_Cpr_ArnaldoDallAngelo_Scheda_PrefetturaBs_1938-1943.pdfconsultato 10.04.2018

[2]Mario Isnenghi, L’esposizione della morte in Gabriele Ranzato (a cura di), Guerre fratricide. Le guerre civili in età contemporanea, Torino, Bollati Boringhieri, 1994, p. 337

[3]Giovanni De Luna, Il corpo del nemico ucciso. Violenza e morte nella guerra contemporanea, Torino, Einaudi, 2006, p. 153

[4]Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1991, pp. 436-437

[5]Mario Isnenghi, Ibidem, pp. 336-337

[6]In http://www.cgilbrescia.org/sito_cgil/public/file/101118piazza%20rovetta.pdfconsultato 26.04.2018

[7]Luisa Passerini, Introduzione. La molteplicità dell’universo femminile nella Resistenza: fatti, simboli, enigmi, in Rolando Anni, Delfina Lusiardi, Gianni Sciola, Maria Rosa Zamboni, I gesti e i sentimenti: le donne nella Resistenza bresciana, Brescia, Comune di Brescia, Assessorato alla Cultura, 1990, p. 11

[8]Gianni Sciola, Società rurale e Resistenza nelle vallate bresciane, in Rolando Anni, Delfina Lusiardi, Gianni Sciola, Maria Rosa Zamboni, I gesti e i sentimenti: le donne nella Resistenza bresciana, Brescia, Comune di Brescia, Assessorato alla Cultura, 1990, p. 48

[9]Mariarosa Zamboni, Il linguaggio della violenza,in Rolando Anni, Delfina Lusiardi, Gianni Sciola, Maria Rosa Zamboni, I gesti e i sentimenti: le donne nella Resistenza bresciana, Brescia, Comune di Brescia, Assessorato alla Cultura, 1990, p. 159

[10]Marina Addis Saba, La scelta. Ragazze partigiane, ragazze di Salò, Roma, Editori Riuniti, 2005, p. 128

[11]Ibidem,pp. 132-133




Galleria Borghese: Le artiste presenti nella collezione (quarta e ultima parte)

Purtroppo sono solo tre le artiste presenti in galleria e le loro opere sono esposte nei depositi, concepiti come una vera quadreria. Nel 2005, grazie al contributo di Credit Suisse, al terzo piano della palazzina si è concluso l’allestimento di una “seconda pinacoteca”, uno spazio aperto regolarmente al pubblico (per un’ora e in alcuni giorni della settimana), dove è conservata quella parte della collezione che non trova posto nei piani sottostanti. Nel grande ambiente dei depositi sono esposti, su due livelli, circa 260 dipinti. 

Lavinia Fontana – “Minerva nell’atto di abbigliarsi” (1613) 

ll salone centrale è dominato dalla grande tela di Lavinia Fontana raffigurante Minerva in atto di abbigliarsi. Della stessa autrice altre due opere.

Fig.1: Lavinia Fontana, Minerva nell’atto di abbigliarsi

E’ l’ultima opera della pittrice bolognese e fu eseguita per il cardinale Scipione Borghese, che l’acquistò direttamente dall’artista o dai suoi eredi. La dea, longilinea e casta, è rappresentata in piedi, in atto di abbigliarsi con un vestito di foggia femminile, per lei inusuale, dopo aver dismesso le armi, mentre un puttino le tiene l’elmo, suo inconfondibile attributo iconografico. Un morbido colore accarezza le forme del corpo contribuendo alla sua sensualità. Da notare la preziosità delle stoffe, e uno squarcio di paesaggio che si intravede sul fondo, al di là di una balaustra, su cui poggia una civetta, animale sacro alla dea.

Lavinia Fontana – Il sonno di Gesù, 1591

Fig.2: Lavinia Fontana – Il sonno di Gesù

E’ una delicata rappresentazione della Sacra Famiglia, a cui l’artista ha aggiunto Sant’Elisabetta, nell’atto di reggere san Giovannino, il quale, con l’indice sulla bocca, ci invita al silenzio. Il Bambino dorme, vegliato dalla Vergine e da San Giuseppe. E’ proprio la sensibilità femminile dell’autrice che riesce a rendere una versione intima e familiare di un tema più che abusato in arte.

Lavinia Fontana – Ritratto di giovane

Fig.3: Lavinia Fontana – Ritratto di giovane

Colpisce l’espressività dello sguardo del giovane che, girando di scatto la testa, assume una posa vivace e spontanea. Una massa di capelli riccioluti e liberi incornicia un viso paffuto.

Lavinia Fontana (Bologna, 1552 – Roma, 1614), figlia del pittore manierista Prospero Fontana, venne avviata alla pittura dal padre nella sua bottega, dove conobbe grandi artisti come i Carracci e Giambologna. Si è formata sullo studio delle opere di Raffaello e Michelangelo, con influssi della scuola fiamminga, soprattutto nell’interesse per il paesaggio. Tutto suo è invece il colore morbido e sensuale. Ci ha lasciato l’immagine di una donna onesta, moglie e madre, istruita alla luce del sapere umanistico, che si dedica alla pittura, alla musica e alla lettura.

Lavinia si sposò a venticinque anni, ma una delle condizioni poste dalla ragazza fu di poter continuare a dipingere anche da sposata; il marito, anch’egli pittore ma poco dotato, abbandonò la sua carriera per supportare la moglie diventandone l’assistente. Nonostante la professione, ebbe ben undici figli, di cui solo tre sopravvissero. 

Famosa come ritrattista, cercava di sondare la psicologia dei personaggi attraverso la fisionomia. Si cimentò anche in pale d’altare e soggetti mitologici.

Tra il 1603 e 1604 si trasferì a Roma, dove lavorò per le famiglie nobiliari più in vista della città ed ebbe la protezione del papa Gregorio XIII che la nominò La Pontificia Pittrice.

Nel 1613 venne colta da una crisi mistica che le fece decidere di ritirarsi, assieme al marito, in un monastero, dove morì l’anno seguente.

Fig. 4: Fede Galizia – “Giuditta con la testa di Oloferne” 

Fede Galizia – “Giuditta con la testa di Oloferne” (1601)

Il soggetto è tratto dalla vicenda che narra dell’assedio della città di Betulia da parte del re Nabucodonosor, sovrano di Babilonia dal 604 al 562 a.C. Giuditta, giovane vedova ebrea, s’introduce nel campo nemico e dopo aver avvicinato e sedotto con la sua bellezza il comandante Oloferne, lo decapita nel sonno, preservando la propria virtù. Il mattino, alla scoperta del corpo decapitato del comandante, i nemici scappano in disordine e lasciano libera Betulia. Giuditta diventa l’eroina che salva la patria, è la donna, simbolo di debolezza, che vince il nemico forte, violento. 

L’attenzione della pittrice non cade sulle potenzialità drammatiche della scena, come succederà nella Giuditta di Artemisia Gentileschi, da lì a qualche anno, piuttosto sulla perfetta resa delle vesti e dei gioielli, trattati con cura meticolosa, derivata dalla sua attività miniaturistica. La pittrice si è interessata di questo soggetto più volte, esistono, infatti, quattro esemplari simili, gli altri tre sono nel Ringling Museum of Art, di Sarasota in Florida, nella Galleria Sabauda di Torino e in una collezione privata milanese. L’artista fece tesoro degli insegnamenti del padre costumista, aggiungendovi una sbrigliata fantasia personale di creatrice di stoffe e gioie: ogni singola immagine “prova” un diverso modello di sartoria e una diversa acconciatura. E’ probabile che aiutasse il genitore nella creazione di modelli per feste e nella produzione di abiti. La Giuditta della Galleria Borghese è la seconda versione del tema, sicuramente autografa (la firma è sulla spada). Rispetto alla versione americana la Giuditta Borghese volge lo sguardo a sinistra, anziché verso lo spettatore, che è quindi meno coinvolto. Si ritiene che Giuditta sia un autoritratto della giovane pittrice. Le artiste amavano presentarsi nelle vesti dell’eroina biblica per sottolineare la propria forza e la propria autonomia rispetto al mondo maschile. 

Fede Galizia (Milano/Trento, 1574/78 – Milano, 1630)

Figlia di un pittore di miniature, Nunzio, originario del Trentino, sin da piccola si trasferì a Milano, tanto che alcuni la danno nata a Milano. Apprese dal padre l’arte pittorica, protetta nella sua bottega. Le figlie d’arte avevano scarse possibilità di movimento poiché il loro onore era considerato più importante dell’abilità pittorica. Le difficoltà per le artiste non erano poche. Vivevano all’interno degli spazi dello studio, avevano una scarsissima mobilità, non partecipavano mai, nel caso il padre o i fratelli lavorassero anche nell’ambito della pittura murale, a cantieri. Fede fu precocissima, già all’età di dodici anni era considerata un’artista formata. Realizzò alcune pale d’altare, ritratti, ma fu soprattutto considerata per il genere della natura morta autonoma, cioè come soggetto non inserito in altre composizioni. Le sue still life sono caratterizzate generalmente da eleganti alzate con frutta, resa con straordinario realismo e morbidezza. Se ne conoscono una dozzina realizzate dall’artista, nella maggior parte delle quali, accanto ai frutti, figurano animali vivi o morti, per lo più uccelli.  Hanno un’impostazione seriale: un piano d’appoggio inquadrato da vicino, quasi sempre frontale, su sfondo cupo; frutti e fiori – pesche, pere e gelsomini, per lo più – trattati con un gusto geometrico della forma. Nature morte “attente, ma come contristate”, le definì lo storico dell’arte Roberto Longhi. 

Il genere della natura morta era molto diffuso tra fine cinquecento e inizio seicento. Fede conosceva le opere di Arcimboldi, ma anche la Canestra di frutta di Caravaggio (all’epoca a Milano) dalla quale verrà molto influenzata. Le nature morte non sono decisive o preponderanti nella sua produzione in realtà molto varia, sebbene i critici abbiano puntato molto su questa parte delle sue opere. 

L’artista preferì la pittura al matrimonio, che l’avrebbe sicuramente allontanata dall’attività, e rimase pertanto nubile. Morì nel 1630, durante l’epidemia di peste, quella raccontata da Manzoni nei Promessi sposi. 

Elisabetta Sirani – Lucrezia

Fig. 5: Elisabetta Sirani – Lucrezia

In questo dipinto è rappresentata l’eroina romana Lucrezia, moglie di Lucio Tarquinio Collatino. La donna, famosa per la sua bellezza e le sue virtù, secondo un racconto di Tito Livio, durante l’assedio della città di Ardea, fu stuprata dal figlio del re etrusco, Tarquinio il Superbo. Non potendo sopportare la vergogna, si uccise con un pugnale. La figura di Lucrezia è stata un soggetto molto diffuso nell’arte tra ‘500 e ‘600, dove veniva considerata come simbolo di forza, valore e fedeltà.

In questo dipinto della Sirani, su un fondo scuro emerge il bellissimo busto di Lucrezia, seminuda, con un lenzuolo bianco che le copre le spalle e i fianchi, lasciandole scoperto il seno. Rivolgendo gli occhi al cielo, sta per afferrare il pugnale con cui si darà la morte. L’espressione è estatica, rassegnata.

È la storia di un ennesimo stupro, e Lucrezia nei secoli è additata a esempio per le donne: meglio morte che disonorate. Il messaggio che si trasmette è sempre lo stesso: le donne virtuose sanno difendere il proprio onore, anche a costo della vita, e nella castità consiste tutto il loro valore. 

Elisabetta Sirani (Bologna, 1638 – Bologna, 1665) 

(Foto di copertina)

Anche lei figlia d’arte: il padre, Giovanni Andrea Sirani, era un affermato pittore bolognese, primo assistente di Guido Reni. Elisabetta studiò con le due sorelle alla scuola paterna, dove già all’età di diciassette anni dimostrò grande talento realizzando alcuni ritratti. A ventiquattro anni era alla guida della bottega del padre, impossibilitato a proseguire l’attività, perché gravemente malato.

Nonostante la morte prematura, a ventisette anni, ha lasciato circa duecento opere, realizzate nell’arco di dieci anni. Era nota per la velocità del suo pennello: tratteggiava i soggetti con schizzi veloci e poi li perfezionava con l’acquarello; specializzata in rappresentazioni  sacre (in particolare Madonne) o di natura allegorica, nonché in ritratti di eroine bibliche o letterarie, realizzò anche apprezzate incisioni all’acquaforte ricavate in genere dai suoi quadri. Con l’attenuarsi delle influenze dei suoi maestri, Elisabetta sviluppò progressivamente uno stile proprio, più naturalistico e realistico.

In un ambiente dove il predominio maschile mal tollerava la presenza di protagoniste femminili, Elisabetta eseguì in pubblico una parte delle proprie opere, soprattutto per allontanare qualsiasi sospetto sull’autenticità delle stesse. Brillante “manager” di se stessa, firmava sempre i suoi dipinti, quando ancora firmare le proprie opere non era una consuetudine diffusa. Tra i suoi estimatori figuravano nobili e artistocratici, ecclesiastici, alcuni membri della famiglia Medici, la duchessa di Parma e quella di Baviera.

Elisabetta divenne una delle figure principali di quel movimento pittorico seicentesco noto come Scuola Bolognese, o scuola delle donne, che faceva capo a Lavinia Fontana. La sua bottega aveva solo allieve, e oltre alle pittrici vantava personalità come Lucrezia Vizzana, cantante, organista e compositrice di musica sacra.

Bologna fu nel ‘600 la più prolifica officina italiana di artiste donne, che poterono esprimersi così efficacemente anche grazie alla protezione dei rispettivi padri. Vi si respirava un clima culturale e sociale aperto e vivace, anche economicamente era una città florida, sede di lavorazioni che la resero famosa in tutta Europa. Fra i prodotti principali, spiccavano i filati di seta prodotti da un mercato interno. Per questo, nel grigio panorama degli Stati della Chiesa negli anni della Controriforma, la città rappresentava una straordinaria eccezione. Le donne vi godevano di una particolare considerazione, e ricoprivano cariche importanti sia in ambito civile che in quello religioso, e ricevevano adeguato sostegno tutte quelle artiste che avessero dimostrato talento. 

Elisabetta dedicò tutta la sua breve vita al lavoro. E forse fu lo stress da superlavoro a causarne la morte prematura. Per lungo tempo dopo la sua scomparsa circolò la voce che fosse stata avvelenata dall’allieva Ginevra Cantofoli, gelosa della sua bellezza e sua rivale in amore. Furono sospettati della sua morte anche il padre, forse mosso da invidia nei confronti della figlia, e la domestica.  Nessuno dei tre indagati fu però accusato formalmente e la pittrice fu dichiarata morta a causa di un’ulcera perforante. 




Polinesia francese: Bora Bora

Bora Bora – a parte il nome che ricorda Trieste e il suo vento – ci appare come un miraggio. Azzurrissimo. Dal mare emerge un arcobaleno insperato. L’escursione è programmata alle 11.15 e siccome siamo in rada non è possibile scendere prima dalla nave. Mi sento un ostaggio.

Mappa dell’isola

Saliamo sul truck, un camion con pianale attrezzato con sedili, addobbato con fiori e foglie, e facciamo il giro dell’isola, che è più grande di Moorea, più turistica, con alberghi per vip direttamente sul mare, nel senso che i bungalows sono poggiati su palafitte. Qualcuno ha il pavimento trasparente per vedere i pesci. Non mi attira dormire sull’acqua. Né mi piacerebbe essere a Bora Bora e vivere rinchiusa in un “ghetto”, sia pure di gran lusso, lontana dal mondo vero. Anche qui, colori da cartolina.

Foto 1. Paradiso subacqueo

Visitiamo una “fabbrica” di parei e una ragazza ci offre frutta e acqua, oltre a spiegarci la tecnica dei colori e dei disegni ottenuti giocando con foglie che danno il colore e figurine ritagliate da vecchi copertoni (tartarughe delfini sole luna felci ecc.). Immersi nell’acqua colorata, poi stesi su graticci al sole, con i pezzi di copertone che poggiati sulla stoffa creano ombre e disegni: una volta asciutti, i parei rivelano il loro fascino!

Ne compro alcuni, non so più quanti parei siano già accantonati in valigia…ma dall’Italia fioccano le richieste!

Comprare un pareo che ha i colori e i disegni tipici di questi luoghi non vuol dire soltanto avere in valigia qualcosa da regalare, ma aiutare queste ragazze che vivono insieme, nelle casette dove lavorano e vendono. Mi sussurrano che sono ragazze-madri o giovani vedove. Intorno qualche bambino, nessun uomo adulto. Sono dignitose, allevano i loro figli, lavorano onestamente e, sempre, sorridono, anche con gli occhi.

Foto 2. I colorati parei

Prima che finisca il giro ufficiale, ho il tempo di ferirmi al braccio destro sfregandolo con forza sul finestrino del truck. Il ragazzo che ci accompagna mi disinfetta, ma il bagno che andiamo a fare su una bella spiaggia è limitato per me: sembro una rotonda veterocomunista che si immerge con braccio levato e pugno chiuso! Il mare è molto calmo, meno caldo di ieri, popolato da tanti pesci, anche abbastanza grandi e colorati. E chiaro, trasparente fino alla barriera corallina. Poi diventa di un blu intenso.

Dopo, giro nei negozietti del molo e nuovi acquisti: monoi (olio per il corpo), saponi al tiarè, un bel tessuto bianco con disegni geometrici neri. Ne farò fare un tubino.

Anche qui, donne-uomo o uomini-donna e sempre l’interrogativo: sono condizionati dalla famiglia e dalla tradizione? Sono bisessuali? Hanno voce maschile e garbo femminile, capelli spesso raccolti in uno chignon e abiti colorati. Sono truccati/e con discrezione.

Queste isole da favola mi hanno fatto pensare ai francesi che le hanno colonizzate: sono stati bravi, le popolazioni sono tranquille e serene, sembrano ospitali e solidali, vivono in luoghi curati e rispettano i vecchi, i bambini e l’ambiente. A proposito, siccome la sepoltura dei morti in cimitero è costosa, molti seppelliscono i loro cari in giardino. Abbiamo visto parecchi esempi.

Foto 3. Cani in spiaggia

Altra cosa sono i grossi cani che circolano in libertà e fanno un po’ paura e i granchi robusti che scavano in terra le loro tane, da cui escono velocissimi per catturare fiori freschi (non per abbellire le tane ma per mangiarli). Dal truck abbiamo gettato fiori e foglie e subito sono emersi dal buio e hanno trascinato dentro il profumato bottino.

Foto 4. Granchi all’opera

La tappa polinesiana è finita: dei luoghi, delle persone, del truck e dei granchi rimane un ricordo luminoso e sereno.

 

 




Galleria Borghese: Amore, donne e dee (terza parte)

Piano Primo – Pinacoteca

Sala IX, di Didone – le donne di Raffaello

La sala deve la sua denominazione ai dipinti che decorano la volta, raffiguranti episodi della storia di Enea e Didone.

Fig. 1: Dama con liocorno, Raffaello 

L’opera raffigura una delle tante donne effigiate dall’artista urbinate, notoriamente grande ritrattista, e risale al 1505/1507, cioè al periodo fiorentino di Raffaello, prima del suo trasferimento a Roma. Rappresenta una fanciulla fiorentina, che indossa un prezioso abito alla moda dei primi anni del Cinquecento, con le ampie maniche di velluto rosso e il corpetto di seta marezzata (una seta cioè con venature, linee sinuose come onde del mare). Probabilmente era un dono di nozze. Le pietre del pendente alluderebbero al candore virginale, la collana annodata al collo richiamerebbe il vincolo matrimoniale, anche l’unicorno che giace in grembo alla fanciulla, animale fantastico, potrebbe essere un attributo simbolico della verginità. 

Nonostante la posa monumentale, la donna, col busto di tre quarti e lo sguardo rivolto verso lo spettatore, appare spontanea, mantenendo una sciolta naturalezza. E dall’acutezza dello sguardo si percepisce una profonda introspezione psicologica.  La ricercatezza dell’abito, i gioielli, testimoniano la sua appartenenza alla ricca borghesia. Sullo sfondo un dolce paesaggio collinare.

Nella sala è esposta anche una copia da Raffaello de La Fornarina (di Raffaellino del Colle).

Fig. 2: La Fornarina, Raffaello

Non è un mistero la passione amorosa di Raffaello per le donne. Sarà proprio la sua libertà  sessuale a farlo ammalare di sifilide e a portarlo alla morte a soli trentasei anni. L’originale, del 1518/19, è conservato a Palazzo Barberini a Roma. Anche qui una donna è la protagonista del quadro. Ora però la seduzione raggiunge il suo massimo livello. La ragazza, ritratta a seno nudo, coperta appena da un velo trasparente, col quale cerca inutilmente di coprirsi, guarda a destra, oltre lo spettatore. In testa ha un turbante di seta dorata a righe verdi e azzurre annodata tra i capelli, con una spilla composta di due pietre incastonate e una perla pendente.

Il quadro è noto come La Fornarina, perché, secondo l’ipotesi più accreditata, si tratterebbe di Margherita Luti, figlia di un fornaio di Trastevere, amatissima da Raffaello, durante il periodo in cui l’artista lavorava a Villa Farnesina.

Gran parte della critica è concorde sul fatto che la giovane donna sia stata presa come modello anche per altre opere, che raffiguravano Madonne o figure del mito. Ma questa è una donna reale, resa unica e seducente dal pennello dell’artista, un’allegoria di tutti gli amori del pittore.

 Sala X – di Ercole o del Sonno – gli amori degli dei

 La stanza fu chiamata nel ‘600 del Sonno, perché ospitava un letto a baldacchino e un gruppo scultoreo con l’Allegoria del sonno. Nel soffitto episodi relativi a Ercole e al centro la sua Apoteosi. Vi sono esposte a confronto due Veneri, una di Cranach, (Kronach 1472/Weimar 1553), del 1531, e l’altra del Brescianino, del 1525. 

Fig. 3: Venere e Cupido, Lucas Cranach

La prima, nuda, coperta solo da un sottilissimo velo trasparente, fissa l’osservatore; è sensuale, corpo affusolato e seni piccoli, sul capo porta un ampio e lussuoso cappello ornato di piume, mentre una reticella dorata raccoglie i capelli e una preziosa collana orna il collo sottile. Alcuni versi scritti in alto, in latino, tratti da un inno di Teocrito, ricordano che il piacere è caduco e porta tristezza e dolore, come capita al piccolo Cupido che, dopo aver rubato il miele dall’alveare, viene punto sul dito da un’ape: la dea dell’Amore si trasforma così in ammonimento di carattere morale sulle conseguenze dolorose della voluptas. 

L’interesse del cardinale Borghese per questo dipinto potrebbe essere stato suscitato proprio dall’interpretazione in chiave moraleggiante dei versi latini. Lo stesso che caratterizza la favola mitologica di Apollo e Dafne di Bernini, scolpita sul basamento dai distici di Maffeo Barberini. 

Le Veneri di Cranach hanno la pelle d’avorio, gli occhi allungati, il corpo morbido, il sorriso malizioso: nude o abbigliate sono sempre seducenti, inquietanti.

Fig. 4: Venere con due Amorini, Brescianino

L’altra Venere, quella di Andrea Piccinelli detto il Brescianino (Brescia 1486 circa – Firenze, 1525 circa), da sempre fa da pendant a quella di Cranach. Si tratta però di una Venere mediterranea, dalla bellezza classica, scultorea, di chiaro influsso michelangiolesco. Non c’è ombra di moralismo, né di peccato, o di dolorosi presentimenti. Sicura di sé, si guarda allo specchio in una conchiglia, e i due Amorini ai lati le fanno da corteo.

Ma il vero e proprio gioiello della sala è la Danae del Correggio (1489-1534).

Fig. 5: Danae, Correggio

Dipinta nel 1530/1 da Antonio Allegri, meglio conosciuto come Correggio (Correggio, Reggio Emilia 1489-1534), l’opera raffigura l’istante in cui Danae si congiunge a Giove, trasformato in pioggia d’oro, aiutata da Amore. Dalla loro unione nascerà Perseo.

Fa parte della serie degli Amori di Giove che Correggio dipinse per Federico II Gonzaga allo scopo di farne dono a Carlo V in occasione della sua incoronazione a Bologna nel 1530. Danae viveva imprigionata in una torre, perché un oracolo aveva predetto al padre che sarebbe stato ucciso da un figlio di lei. La precauzione fu resa vana dall’intervento di Giove, che sedusse Danae tramutato in pioggia d’oro. Nel dipinto Danae giace su un letto a baldacchino splendidamente ampio, con vista fuori dalla finestra su una splendida distesa di cielo azzurro. Cupido siede familiarmente all’estremità del letto, guardando in su verso la nube, da dove scende la pioggia d’oro, e con la mano sinistra aiuta Danae a sollevare il lenzuolo bianco che è la sua ultima difesa. Danae stessa, sorridente, non sembra rifiutarsi all’amplesso, anzi con le gambe aperte favorisce l’unione. 

L’atmosfera intima e serena dell’ambiente domestico è accresciuta dalla presenza dei due amorini che, indifferenti all’evento miracoloso che si svolge alle loro spalle, testano su una pietra di paragone il metallo della punta della freccia amorosa.

Sala XII – delle Baccanti 

Chiamata così per l’affresco nella volta che riproduce un Ballo di Baccanti, ospita pittori del primo ‘500 di area leonardesca. La Leda, creduta fino alla fine dell’800 opera di Leonardo, è probabilmente un rimaneggiamento su un dipinto incompiuto di Leonardo operato da un suo allievo. Leda abbracciata al cigno-Giove e inserita nel paesaggio è certamente, però, invenzione leonardesca.

Fig.6: Leda e il cigno

Il mito di Leda e il cigno rappresenta l’intraprendenza sessuale maschile, in base alla quale anche l’inganno risulta lecito per giungere all’unione sessuale. E nulla potrebbe essere più lontano da uno stupro: Leda, come Danae, gode in questo amplesso.

Leda, regina di Sparta e madre di Clitennestra ed Elena, dormiva sulle sponde di un laghetto, quando fu posseduta da un candido cigno, l’animale nel quale Zeus si era tramutato per possederla. Concluso il rapporto sessuale, Zeus annunciò che dalla loro unione sarebbero nati due gemelli, i Diòscuri, Càstore e Pollùce. 

Sala XIX – di Paride ed Elena – La caccia di Diana

La decorazione della volta s’ispira all’Iliade, al centro della volta è la Morte di Paride. 

Fig. 7: La caccia di Diana, Domenichino

Dipinta nel 1616/17 da Domenico Zampieri, detto il Domenichino (Bologna 1581 – Napoli 1641), l’opera rielabora il tema dei celebri Baccanali tizianeschi nella più sensuale delle battute di caccia. Diana è al centro tra le sue ninfe e solleva con le mani frecce e arco; sullo sfondo alcune ninfe tornano con la cacciagione, altre tengono a bada i cani, che si lanciano verso i profanatori, nascosti tra i cespugli, altre sono al bagno, immerse nell’acqua. Perni della composizione sono le due ninfe in primo piano: una delle due rivolge lo sguardo allo spettatore invitandolo quasi a entrare nel quadro. Le altre vergini sono articolate ritmicamente intorno a Diana, rappresentata al culmine di una gara con l’arco. L’atmosfera festosa è accresciuta dai colori chiari e dalla luce diffusa.

La Caccia di Diana era stata commissionata dal cardinale Pietro Aldobrandini per la sua villa di Frascati, ma Scipione Borghese, per la sua nota spietatezza collezionistica, volle il dipinto per sé e lo fece prelevare con la forza dallo studio del pittore, che fu trattenuto per alcuni giorni in prigione. A parziale risarcimento del singolare espediente a Domenichino venne saldato un pagamento di 150 scudi riferito a La caccia di Diana e a un altro dipinto, La Sibilla, presente anch’esso nella collezione Borghese. 

Sala XX – di Psiche

La sala è decorata nella volta con tele raffiguranti i momenti salienti della favola di Amore e Psiche, così com’è narrata nell’Asino d’oro di Apuleio. 

Sulle pareti si trovano alcune delle opere più famose della collezione e, tra queste la Madonna col Bambino di Giovanni Bellini (Venezia 1433 ca.-1516) e quattro tele di Tiziano (Pieve di Cadore, Belluno, 1480/85 – Venezia 1576): Amor Sacro e Amor Profano, San Domenico, Cristo alla colonna e Venere che benda Amore. 

Tra le quattro tele di Tiziano Vecellio spicca “ Amor Sacro e Amor Profano” (1514).

Copertina: Amor sacro e Amor profano, Tiziano

Capolavoro di Tiziano venticinquenne, raffigura due donne, una vestita e una seminuda, nei pressi di un sarcofago, nel quale un amorino alato sta rimestando le acque. Sullo sfondo si vedono, a sinistra, una città all’alba, contrapposta ad un villaggio al tramonto, sulla destra. Lo stemma sulla fronte del sarcofago ha permesso di legare l’opera alle nozze della figlia di un noto giurista padovano con un veneziano della famiglia degli Aureli, celebrate nel 1514. La donna seduta indossa in effetti tutti gli ornamenti abituali di una sposa: l’abito candido, bianco dai riflessi argentei, i guanti, la cintura e la corona di mirto, simbolo di amore coniugale. La sposa è assistita da Venere in persona, nuda, avvolta parzialmente in un manto rosso, con in mano la fiamma dell’amore; il bacile sul bordo della fontana, parte integrante del corredo perché utilizzato dopo il parto, e la coppia di conigli sullo sfondo sono un augurio di unione feconda. Ispirato agli ideali della dottrina neoplatonica, il soggetto si presta a molteplici livelli di lettura. Una delle principali interpretazioni identifica nella donna con in mano la fiamma ardente dell’amore di Dio la Venere Celeste, e in quella riccamente vestita, col vaso di gioie, la Venere Volgare, la felicità terrena, simbolo della forza generatrice della natura. Il titolo rivela invece una lettura in chiave moralistica del tardo ‘700 della donna svestita, l’Amore profano, contrapposto alla donna vestita, l’Amore sacro. Per quanto errato, però, il titolo tradizionale continua a esercitare fascino e a essere usato, poiché mette bene in evidenza l’armonico dualismo che è alla base dell’incanto del dipinto: alba-tramonto, sarcofago/morte-acqua/vita, bianco-rosso, donna nuda-donna vestita.




Brescia – Memorie verticali (seconda parte)

Proseguendo lungo via Sant’Urbano si trovano altre lapidi, fra cui una, collocata in occasione del centenario delle Dieci Giornate che ne ricorda con fierezza i combattimenti che hanno visto protagonisti gli abitanti dello storico rione, e un’altra apposta nel decimo anniversario della Liberazione, sull’edificio nel quale il CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) locale emana il 26 aprile 1945 il suo primo atto ufficiale.

Foto 1. Targa nel centenario delle Dieci Giornate

Ridiscendendo lungo la strada tracciata dalle formelle delle vittime del terrorismo, si raggiunge nuovamente Piazza della Loggia, punto d’inizio del Percorso della Memoria. Esattamente di fronte al punto in cui è esplosa la bomba il 28 maggio 1974 si trova il Palazzo Comunale, sotto il cui ampio portico una serie di lapidi, risalenti a epoche differenti, celebra i caduti per la libertà nel Risorgimento e nella Resistenza, intrecciando memorie diverse. 

Foto 2. Palazzo Loggia

In Largo Formentone, su un lato del Palazzo della Loggia, in ideale continuità con il portico del palazzo, nel 1988 viene collocata una lapide in marmo per ricordare i caduti del primo eccidio che si consuma a Brescia per mano fascista, proprio in quella piazza. 

La lapide è censita nell’ambito del progetto nazionale Pietre della Memoria, messo a punto dal Comitato regionale umbro dell’ANMIG (Associazione Nazionale dei Mutilati e Invalidi di Guerra), che appunto censisce, cataloga, fotografa e rende pubblici i dati e le iscrizioni relative a monumenti, lapidi, steli, cippi commemorativi delle due guerre mondiali e della guerra civile del ’43-‘45. L’ANMIG, sorta già durante la prima guerra mondiale, a Milano nell’aprile 1917 e a settembre dello stesso anno a Brescia, inizialmente con fini solidaristici e assistenziali, nel febbraio 2002 costituisce una propria fondazione per “conservare la memoria storica di lotte, di sacrifici e di conquiste che hanno consentito all’Italia di crescere nella libertà, nella democrazia e nella giustizia sociale”. 

Foto 3. Lapide di Largo Formentone ai Caduti per la libertà

Piazza Rovetta, cuore popolare della Brescia storica situata a nord di piazza della Loggia, è il risultato di una serie di diversi sventramenti tra la fine dell’Ottocento e gli anni Trenta del Novecento. Nelle piante di Brescia del 1826 e del 1852 la zona tra piazza della Loggia e via S. Faustino è occupata da una serie di fabbricati che si affacciano direttamente sul corso del fiume Garza. Fino al 1865 esiste una contrada Ruetta che trasferisce il nome a una piazzetta Ruetta ricavata dalle demolizioni degli edifici posti lungo l’attuale via S. Faustino. Il nome deriva dal diffuso toponimo rua (strada) poi rova e quindi Rovetta (piccola strada). In conseguenza della completa apertura del tratto sud di via San Faustino, la piazzetta scompare e si apre invece un primo slargo a nord della Loggia che assume il vecchio toponimo di piazza Rovetta. Ulteriori interventi demolitori si verificano nel 1904, con l’abbattimento del caseggiato su vicolo Cogome (caffettiere nel dialetto locale, dal latino cucuma), nel 1906 e nel 1939. Con quest’ultimo sventramento si libera completamente il lato nord del palazzo della Loggia, sfrattandone gli abitanti e relegandoli nelle periferie, per procurare la superficie necessaria alla costruzione di un edificio che ospiti gli uffici comunali, finalizzata alla ridefinizione della morfologia di buona parte del quartiere e al completamento della nuova immagine della città, iniziata con la realizzazione di piazza Vittoria. In questo modo scompare definitivamente la suggestiva gola urbana, al cui fondo scorre, scoperto, tra antiche case, il torrente Garza. Le progettate costruzioni non vengono realizzate poiché nel 1940 l’Italia entra in guerra e la realizzazione dei progetti urbanistici cede il passo alle esigenze belliche e piazza Rovetta mostra ancora oggi la sua origine caotica con la parete cieca a nord e l’informe quadro urbano sul quale continuano a esercitarsi numerosi progettisti. 

Nel 2001, durante l’amministrazione di centrosinistra guidata da Paolo Corsini, vengono installate nel lato sud una serie di panchine in pietra  bianca sui sedimi delle epoche precedenti e, sul lato nord, tra via Rua Sovera e via San Faustino, una struttura metallica, sotto la cui copertura, sorretta da colonne alte 8,42 metri, trovano posto le bancarelle degli ambulanti. 

Foto 4. La pensilina

(dal Giornale di Brescia online, 30 marzo 2016)

Si vuole in questo modo ricreare il profilo dei volumi degli edifici demoliti, limitandosi a suggerirne il volume e lasciando libero spazio alle tradizionali attività della piazza. Il costo dell’intervento ammonta a 270.000 euro e la pensilina suscita una serie di polemiche. Nel 2008 si insedia in città la nuova amministrazione di centrodestra di Adriano Paroli , la quale subito  propone di eliminare da piazza Rovetta, ribattezzata piazza Kabul, le panchine in pietra bianca,  “diventate un bivacco di perdigiorno”, frequentato soprattutto da cittadini extracomunitari,  suscitando non poche reazioni e polemiche da parte di diverse associazioni di supporto agli immigrati, sindacati e forze politiche,  che organizzano iniziative di protesta contro la decisione della Loggia. A dicembre, dopo che le panchine “contestate” sono state rimosse, durante una manifestazione di protesta alcuni attivisti del Magazzino 47, espressione della “sinistra antagonista”, sfidando la decisione di Palazzo Loggia, fissano al terreno tre panche in legno e ferro, che vengono però prontamente rimosse. L’anno successivo, il 2009, dall’altro lato della piazza spariscono prima i banchi dei commercianti, destinatari di un contributo comunale di oltre 100.000 euro, e poi, nel 2010, la pensilina. Smontare la copertura metallica e rimontarla al parco Pescheto comporta un pesante onere per le casse comunali: per smontarla e trasferirla nei magazzini comunali vengono spesi 80.000 euro; 22.000 euro per studiarne la ricollocazione al Pescheto; 51.000 euro per le opere di carpenteria necessarie a erigerla nel parco di via Corsica; 185.000 per le opere edili richieste dal progetto;  complessivamente 338.000 euro, che, sommati al contributo agli ambulanti, diventano oltre 438.000. La pensilina viene prima trasferita momentaneamente nei magazzini comunali e solo due anni dopo, nel 2012,  rimontata al parco Pescheto. Nel 2010 viene bandito un concorso d’idee da cui esce vincitore il «Cubo bianco» o aula studio (con un premio di 12.000 euro all’ideatore, 8.000 al secondo classificato e 6.000 al terzo), ma l’opera, che sarebbe costata 1,4 milioni,  non viene realizzata. Alla fine del 2012 si decide di allestire un teatrino di burattini destinato a spettacoli per bambini, rapidamente abbandonato a se stesso (40.000 euro). 

Foto 5. Il teatrino

(dal Giornale di Brescia online, 30 marzo 2016)

In sintesi: 270.00 euro per fare, oltre 504.000 per disfare, in totale oltre 774.000 euro di denaro pubblico. Nel 2013, con la giunta di Emilio Del Bono, Brescia, dopo la sua unica amministrazione di centrodestra, torna a una di centrosinistra, che, nel dicembre 2013,  smonta il teatrino per far spazio alla pista di ghiaccio per il pattinaggio,  allestita durante il periodo natalizio. 

Foto 6. La pista di pattinaggio

 (dal Giornale di Brescia online, 30 marzo 2016)

Nel gennaio 2014, il Giornale di Brescia, uno dei quotidiani locali propone, consultati i propri lettori, una piazza alberata con tavolini e bancarelle sotto i tigli. Nel 2015 la vicesindaca Laura Castelletti propone di trasformare la facciata spoglia di Largo Formentone in una palestra d’arrampicata, ma non se ne fa nulla. 

In copertina:

Piazza Rovetta alla fine degli anni ‘40




Polinesia francese: Moorea

Qui arrivò capitan Cook nel 1867, nella baia di Opinoho dove è ancorata la nave. Questo è un luogo magico: la natura è rigogliosa, selvaggia e incontaminata, ma non aggressiva. Solo prepotente. Ci sono picchi molto alti (2000 metri) e vallate verdi che si tingono di blu quando toccano il mare. I colori sono quelli delle cartoline che ho spedito (solo due!), i fiori sono dovunque, le casette hanno giardini curati e ridenti. 

Foto 1. Panoramica della baia di Cook

Moorea è un’isola fascinosa, meta di turismo ricco e internazionale, con alberghi di lusso, resort che si sporgono sull’acqua, spiagge da sogno, bianche lunghe luminose, ma nulla è ostentato, c’è una discrezione palese. 

Vediamo i misteriosi marae, templi o altari di pietre. Si sa poco della loro storia. A me viene spontaneo pensare che i romani  gli altari li chiamavano arae, ma non oso fare alcun collegamento.

Foto 2. La spiaggia

Nel pomeriggio, con una coppia appena conosciuta, ce ne andiamo alla spiaggia dell’Hotel Hybiscus, non si può venire in Polinesia senza fare un bagno! La spiaggia è libera, l’albergo è pronto a offrirla, ma non dispone di sedie lettini ombrelloni. A noi va bene così, siamo dentro il sogno. E dentro le cartoline, con palme e sabbia dorata. L’acqua è calda, io non uscirei più. La nuova amica non ha indossato o portato il costume, questa gita in spiaggia non era prevista. Si toglie la tshirt, rimane in reggiseno e pantaloncini e fa il bagno lo stesso. Ci accampiamo presso una scaletta, dove c’è un po’ d’ombra e dove Piero può sedersi tranquillamente. Il mare è sempre più blu… come dice una vecchia canzoncina. 

Anche qui, andando via, ispeziono il w.c. per togliermi il costume bagnato: la receptionist mi accompagna in una stanzetta e mi indica il bagno: pulizia, profumo di fiori e petali sul lavandino. E infinita spontanea cortesia.

Foto 3. La cortesia polinesiana

Sono emozionata, mi sembra di non aver visto mai un posto così assolutamente bello e di non aver mai vissuto un pomeriggio così dolce.

Foto 4. Polinesia francese

In copertina. veduta aerea di Moorea 




Papeete

Dalle sei del mattino mi metto in vedetta. L’ingresso del porto è bello, c’è tanto verde, la città conta quasi 200.000 abitanti. Questa isola ha una penisola, Tahiti. Il solo nome evoca Gauguin e le sue donne con fiori nei capelli. Scendiamo alle nove, accolti con danze canti e fiori da un gruppo allegro e colorato. Il fiore che ci offrono è il tiare, sembra un mughetto più grande dei nostri, è bianco e profumatissimo. Troviamo subito il Mercato comunale, una costruzione luminosa e moderna dove sono esposti a piano terra generi alimentari e souvenir di paglia, al primo piano tessuti, perle e oggetti vari. La perla nera o grigia con venature argentee o verdastre è la regina.

Nel pomeriggio andiamo verso la costa orientale, piccole spiagge, mare aperto molto mosso. Vediamo l’approdo dei primi navigatori, la spiaggetta dei soffioni, senza sabbia, coperta da coralli e madrepore, luoghi panoramici, chioschetti dove le donne vendono banane mignon. La guida ci dice che le genti polinesiane amano il passato, rispettano anziani e anziane, vivono serenamente. Sanno non pensare, è questo forse che ha incantato Gauguin?

FOTO 1

Nel pomeriggio usciamo da soli, entriamo nella piccola e semplice cattedrale di Notre Dame impreziosita da una Via Crucis naive e da un ostensorio di legno. Efficaci.

Dopo cena, nuova passeggiata: non c’è una movida in senso italiano o europeo. È venerdì, a pochi metri dalla nave ci sono le “roulottes”, camioncini attrezzati che diventano ristoranti: in un momento dal cassone escono tavoli sedie tovaglie di plastica fornelli stoviglie. L’aspetto igienico mi sembra trascurato, ma la gente che mangia, le famigliole con i bambini sono allegre e in salute. Cerchiamo qualche bar, qualche posto da giovani, non per noi ovviamente, ma per vedere e capire: un bar schiera all’ingresso due pirati di cartapesta, ci sono ragazze, ragazzi e musica live; un altro mi sembra dedicato alle coppie omosessuali. In diretta assisto a un appassionato abbraccio lesbico. Piove a scrosci brevi ma violenti. Vorremmo ripararci da qualche parte, mi affaccio nel secondo bar ma l’invito pressante di una ragazza a sedermi accanto a lei non mi convince. Preferiamo i portici, finché non smette di piovere. Donne che sembrano vecchie intrecciano profumate corone di fiori freschi da vendere. Ma io non ne compro perché non sono tahitiana e soprattutto… perché non c’è Gauguin!

Quando leggemmo l’itinerario, ci chiedemmo che necessità ci fosse di stare due giorni a Papeete. Ora lo sappiamo, e se invece di due i giorni fossero stati tre o quattro, ne saremmo stati ancora più felici.

Usciamo presto, liberi da vincoli ed escursioni organizzate: passeggiata serena, altre sorprese ci attendono. Il Parco Bouganville è un piccolo giardino pieno di fiori e piante in centro, dietro l’ufficio postale (ormai mi sento una papeetese!). 

Ci sono, sul limite che affaccia verso il mare, delle bancarelle con parei perle magneti e monoi. Ma ci sono anche uomini colorati che suonano e cantano, accompagnando una fanciulla (di Gauguin ?) che danza dolcemente, avvolgendo intorno al corpo i suoi parei. Ci sediamo e subito arriva una persona che ci offre degli spicchi di frutta. Non sappiamo se sia uomo o donna. È vestita truccata e pettinata da donna, ma ha i lineamenti maschili, la voce baritonale, la barba rasata ma visibile. Ci ricordiamo quello che ci ha raccontato la guida Gerald: in famiglia il terzo figlio, se maschio, deve essere educato come una femmina perché dovrà curarsi dei genitori. Lo vestono lo educano lo abituano gli parlano come a una bambina. In qualche modo, sono i genitori a indicargli (indicarle) la strada. Alcuni poi si sposano, hanno figli, ma quella preparazione alla vita nel sesso diverso li condiziona per sempre. Gerald ha detto che sono tanti, che non dobbiamo giudicarli o condannarli… sono il frutto di una tradizione antica.

Che lunga digressione, torno alla danzatrice che noi guardiamo rapiti.

Come tutte le donne, ha un fiore fra i capelli. Dicono che se è messo a destra, vuol dire che la ragazza è libera, se è a sinistra, che è impegnata. E se i fiori sono due? Forse la donna vuol far sapere che è impegnata, ma potrebbe liberarsi.

Finita la danza, mi si avvicina e mi chiede di danzare con lei. Le dico di no in modo deciso, ma lei insiste, insiste molto e non sono capace di resistere. Mi sembrerebbe di offenderla. Vado con lei al centro della piazza, mi mette sui fianchi un pareo e mi invita a seguire i suoi movimenti, un leggero ancheggiare, un movimento morbido delle braccia e delle mani, un girare ora a destra ora a sinistra ora su me stessa. Piero fotografa. Io sono felice, anche se so che non sono giovane e magra come lei, né so ballare come lei.

Nel pomeriggio, nuova passeggiata, dopo l’acquisto di una camicia per Piero: non è la tahitiana blu a fiori gialli o rossi, ma una raffinata chemise (qui parliamo in francese da mattino a sera!) bianca con disegni geometrici grigi sul lato destro. Ottimo il cotone, liscio e leggero come seta. La proprietaria dell’elegante boutique mi ha venduto anche alcune deliziose donnine polinesiane magnetiche di legno, fatte palesemente a mano. Mi ha fatto notare che alcune avevano il reggiseno a triangolo, altre due noci di cocco, le coconettes. Naturalmente ho scelto queste ultime e la signora gentilmente, pur in presenza di altri clienti, le ha cercate in un mucchio, indicandomi anche i colori dei costumi. Insomma, mi ha dedicato un bel po’ di tempo per oggettini che costano meno di un euro!

FOTO 2 

Altro parco, lato mare, già visto dalla nave. Aiuole, fontane, ninfee, prati verdi, canoe sovrapposte sulla spiaggia. Sotto ampi padiglioni ricoperti di foglie di un albero tipo palma ci sono persone che leggono, una festa di bambine e bambini con palloncini e senza schiamazzi, amiche e amici che parlano pacatamente. C’è gente che si riposa o legge sul prato. Tutto è silenzio e serenità. Ci sono anche tanti “monumenti”, semplici maestose pietre che ricordano la conquista dell’autonomia, gli esperimenti nucleari (e le vittime), i governanti saggi.

FOTO 3

 




Brescia – Memorie verticali (prima parte)

Le parole sono pietre, secondo il titolo di un libro di Carlo Levi, e Brescia è ricca di lapidi (dal latino lapis) sui suoi muri, ovvero parole incise su pietre; pietre che si fanno parola, parlano, dialogano, confliggono, intrecciando e sedimentando passato e presente, pietre dalla memoria di ferro che si fanno testimonianza plastica di memorie condivise e memorie ancora divise.

Sul lato sud della centrale Piazza della Loggia si trova il cosiddetto Lapidario, voluto nel 1480 dal Consiglio della città, che dà avvio alla tutela dei resti storici, recuperando antiche iscrizioni della città per fare di Piazza Loggia il nuovo foro di Brescia.

FOTO 1. Particolare del lapidario romano

Colti eruditi del tempo sovrintendono alla disposizione delle vecchie pietre, accostandovi nuove iscrizioni a imitazione di quelle di età romana, per  creare un rapporto di emulazione e continuità con l’antica Brixia. Le lapidi sono inserite a vista nella tessitura muraria in pietra di Botticino delle facciate delle Carceri, del Monte Vecchio di Pietà (1489-1491) e del Monte Nuovo di Pietà (1599-1601), a formare un museo pubblico, tra i primi, se non il primo, in Europa.

FOTO 2. Monte vecchio di Pietà. Foto di Lara Trombini

In totale sono murate ventitré pietre di età romana, fra cui numerosi epigrafi, e cinque lapidi del V secolo. Fra le undici epigrafi di età romana, alcune sono decorate a rilievo ma prive di testo, mentre quelle con iscrizione sono prevalentemente dediche; in particolare sono interessanti quella a Lucio Antonio Quadrato, soldato della XX legione, probabilmente di stanza a Brescia, e quella collocata al di sopra dell’arco centrale della facciata, risalente alla seconda metà del 44 a. C, recante un’iscrizione incompleta che riporta come soggetto il giovane Ottaviano, pontefice dal 48 a. C. e futuro Augusto, ovvero C(aius) IVLIVS CAESAR PONTIF(ex). Due iscrizioni quattrocentesche celebrano invece la fedeltà di Brescia alla Repubblica di Venezia durante l’assedio di Niccolò Piccinino (1438), paragonandola a quella degli abitanti di Sagunto, in Spagna, verso Roma durante la seconda guerra punica (218-201 a. C.).

Sempre da Piazza della Loggia, luogo della strage del 28 maggio 1974, partono le formelle che ricordano le vittime del terrorismo e raggiungono il Castello attraverso un percorso che si snoda principalmente lungo Contrada Sant’Urbano, una strada in acciottolato, anticamente nota come Via delle Consolazioni. Nel tratto iniziale la via è contigua alla piazzetta, un tempo detta dell’Albera, successivamente intitolata a uno dei protagonisti dell’insurrezione antiaustriaca, Tito Speri, con al centro una sua statua collocata su un alto piedestallo. A ventisette anni, nel 1853, viene giustiziato, insieme agli altri “martiri di Belfiore”, in totale centodieci patrioti, mandati a morte tra il 1852 e il 1855 per avere cospirato contro l’Austria.

Proprio all’inizio della strada, all’angolo con via dei Musei, l’antico decumano massimo, si trovano alcune lapidi. Nella prima, collocata per decreto municipale nel 1918, si ricordano il “carnevale di sangue” di Gastone di Foix, nel 1512, e le Dieci Giornate del 1849, occasioni durante le quali le truppe francesi prima e quelle austriache poi, irrompono in città dal Castello, riuscendo a stroncare la resistenza della popolazione e facendone strage.

FOTO 3. Targa all’inizio di Contrada Sant’Urbano. Foto di Claudia Speziali

Nella seconda, collocata in occasione del primo centenario della seconda guerra di indipendenza, sono elencati i civili residenti nel rione trucidati dalle truppe asburgiche il 1° aprile 1849, alla fine delle Dieci Giornate, nel momento in cui la soldataglia, fiaccata la resistenza degli insorti, si dà al saccheggio e alla violenza.

FOTO 4. Lapide delle vittime del 1849. Foto di Claudia Speziali

Oltre a dare un nome alle ventinove vittime, l’elenco fornisce un interessante spaccato sociale del quartiere. Di queste ventiquatro sono uomini, di cui quattro sotto i vent’anni, undici tra i venti e i cinquant’anni, sette sono ultracinquantenni, e di due non si conosce l’età[1]. I diciannove uomini di cui è indicata la professione, con l’eccezione di un maestro elementare e di uno studente quindicenne, svolgono prevalentemente attività legate all’artigianato, al piccolo commercio, alla produzione manifatturiera in via di sviluppo, alla ristorazione e a quelli che oggi definiremmo servizi, lavorando fino a un’età decisamente avanzata,  considerando anche l’inferiore aspettativa di vita dell’epoca. A sessantasette anni Pietro Carobi e Francesco Locatelli fanno ancora rispettivamente il tornitore e il tagliapietre e a settanta Gio Batta Vicentini il calzolaio. Oltre a loro figurano un pittore, un orefice, due falegnami, un tintore, un sensale, due definiti genericamente “lavoranti”, un armaiolo, un arrotino, un lattaio. Ben tre vittime sono collegate all’Osteria del Frate, ancora oggi esistente;  il proprietario e gestore Bortolo Peroni, di sessantuno anni, e il figlio Pietro, di ventisette, che, martoriati e feriti, sono gettati dalla finestra del quarto piano della propria abitazione dai soldati, i quali prima la saccheggiano e poi la incendiano, e la stessa sorte tocca al loro garzone, lo svizzero Alberto Gherber, diciannovenne. Le donne uccise nel rione il 1° aprile 1849 sono cinque; due hanno tra i venti e i cinquant’anni,  mentre altre tre sono ultracinquantenni. Serena Radici[2], di quanrantadue anni, moglie del direttore del collegio Guidi, sola nell’abitazione con la suocera Teresa Zambelli[3], di settantatre anni, viene con lei massacrata. Anche le donne, come gli uomini, lavorano fino alla terza età; Margherita Anderloni a settant’anni fa ancora la cucitrice. Fra le professioni delle vittime, oltre a quella di cucitrice svolta da due di loro, vengono indicate, per due donne, quella di vedova  e, per un’altra, quella di madre di famiglia.

 

[1]In realtà, Carlo David, una delle vittime prive dell’indicazione della propria età sulla lapide commemorativa, avrebbe avuto, nel 1849, quarantasei anni, secondo l’elenco tratto da Storia della rivoluzione di Brescia dell’ anno 1849.

[2]Cesare Correnti, I dieci giorni di Brescia. Con una introduzione di Luca Beltrami, Milano, Libreria d’Italia, 1928, p. 158

[3]Ibidem, p. 15




Galleria Borghese: La donna oggetto del desiderio maschile, violenza carnale e mito (seconda parte)

Sala III – di Apollo e Dafne 

La sala prende il nome dal celebre gruppo di Apollo e Dafne, realizzato da Gian Lorenzo Bernini tra il 1622 e il 1625, collocato al centro, e strettamente correlato col dipinto centrale della volta, opera del pittore Pietro Angeletti, che rappresenta i diversi momenti del racconto narrato da Ovidio nelle Metamorfosi (I, 555-559).

Foto 1: Apollo e Dafne

Apollo e Dafne: il racconto

Dafne, giovane ninfa, figlia di Gea, la Madre Terra, e del fiume Peneo, viveva serena nella quiete dei boschi, quando la sua vita fu stravolta dal capriccio di due divinità, Apollo ed Eros. La leggenda racconta che un giorno Apollo, vantandosi con Eros delle sue imprese, derideva il dio dell’Amore che invece non aveva mai compiuto delle azioni degne di gloria. Ferito dalle parole di Apollo, Eros preparò la sua vendetta: prese due frecce, una spuntata e di piombo, destinata a respingere l’amore, che lanciò nel cuore di Dafne, e un’altra ben acuminata e dorata, destinata a far nascere la passione, che scagliò nel cuore di Apollo. Da quel giorno Apollo iniziò a vagare disperatamente per i boschi alla ricerca della ninfa, tanta era la passione che ardeva nel suo cuore. Alla fine riuscì a trovarla, ma Dafne, appena lo vide, terrorizzata scappò tra i boschi. Accortasi però che la sua corsa era vana, invocò la Madre Terra di aiutarla e questa, impietosita, trasformò la figlia in albero: i suoi capelli diventarono foglie; le braccia si allungarono in flessibili rami; il corpo si ricoprì di ruvida corteccia e i piedi si tramutarono in robuste radici. La trasformazione era avvenuta sotto gli occhi di Apollo che, disperato, abbracciava il tronco nella speranza di riuscire a ritrovare l’amata. Alla fine il dio, deluso, proclamò a gran voce che quella pianta, l’alloro, sarebbe stata sacra al suo culto e segno di gloria da porsi sul capo dei vincitori. E non è un caso che nel nome della ninfa c’era già una predestinazione: il nome Dafne significa, infatti “lauro”, alloro.

L’epica è piena di miti che riguardano le divinità, i loro amori difficili, e le violenze carnali. Basti pensare alle tante sembianze ingannevoli assunte da Giove per sedurre attraenti fanciulle. Dafne qui è modello di virtù, è una donna che difende fino all’ultimo l’onore che Apollo vorrebbe intaccare, ma rimane vittima del desiderio possessivo del dio, che egoisticamente non tiene in considerazione la contrarietà e la sua sofferenza, arrivando a rovinarle la vita. 

In realtà il vero messaggio di questo gruppo scultoreo del Bernini è l’inutilità dei tentativi di conquistare l’amata, se questa non ricambia gli stessi sentimenti, e il senso del rispetto di una scelta, anche se non condivisa. A conferma di ciò un distico morale, composto in latino dal cardinale Maffeo Barberini (futuro Papa Urbano VIII), è inciso nel cartiglio della base, che dice: chi ama seguire le fuggenti forme dei divertimenti, alla fine si trova foglie e bacche amare nella mano.

Sala IV – Sala degli Imperatori – Il trionfo di Galatea e il Ratto di Proserpina 

La sala è detta “Galleria degli Imperatori” per la presenza di diciassette busti in porfido e alabastro di Imperatori. L’ampia volta è impreziosita dai dipinti ispirati alle vicende della ninfa Galatea, anche queste narrate da Ovidio nelle Metamorfosi. Al centro si colloca Il trionfo di Galatea, figlia di Nereo, desiderata dal ciclope Polifemo (rappresentato sulla sinistra) e amata dal pastore Aci (sulla destra). 

Plafond de la Salle des Empereurs – Le Triomphe de Galatée (de Angelis, XVIIIe)

Foto 2: Il trionfo di Galatea

La leggenda narra di Polifemo, ciclope perdutamente innamorato della giovane Galatea, che a sua volta invece era innamorata di Aci, un bellissimo pastorello, che un giorno, mentre pascolava le sue pecore vicino al mare, vide Galatea e se ne innamorò perdutamente. Una sera, al chiarore della luna, il ciclope vide i due innamorati in riva al mare baciarsi. Accecato dalla gelosia, decise di vendicarsi. Non appena Galatea si tuffò in mare, Polifemo prese un grosso masso e lo scagliò contro il povero pastorello schiacciandolo. Appena Galatea seppe della terribile notizia, accorse subito e pianse tutte le sue lacrime sopra il corpo martoriato di Aci. Giove e gli dei ebbero pietà e trasformarono il sangue del pastorello in un piccolo fiume che nasce dall’Etna e sfocia nel tratto di spiaggia, dove gli amanti usavano incontrarsi. 

Tanti paesini in provincia di Catania ricordano nel nome, composto con Aci, questa bellissima storia di amore negato.

Al centro della sala è collocato Il Ratto di Proserpina di Gian Lorenzo Bernini, realizzato tra il 1621 e il 1622. 

Il grande gruppo marmoreo racconta un’altra violenza, dettata da uno smodato desiderio di possesso amoroso.

Foto 3: Il ratto di Proserpina

Proserpina, figlia di Demetra, fanciulla bionda e soave, sempre sorridente, in compagnia di altre ninfe, si divertiva a correre sui prati. A un tratto un terribile boato lacerò l’aria. La terra si spaccò e dal baratro balzò fuori, su un cocchio trainato da quattro cavalli Plutone, dio degli inferi, che, afferrata Proserpina, la trascinò nel grembo della terra. Il dio si era innamorato perdutamente di Proserpina e aveva chiesto e ottenuto da Giove di poterla sposare, perciò era venuto sulla terra e l’aveva rapita.

La fanciulla, atterrita, levò terribili grida, implorò il padre Giove ma questi, avendo consentito il rapimento, non poté aiutarla.

La madre Demetra udì le grida della figlia dall’Olimpo. Sconvolta scese sulla terra, e per nove giorni e nove notti la cercò disperatamente. Il sole ebbe pietà di lei e volle svelarle la verità.  Allora Demetra, disperata, si allontanò dall’Olimpo e si rifugiò in un tempio a lei consacrato, dimenticandosi della terra. Così a poco a poco i frutti marcirono, le spighe seccarono, i fiori ingiallirono. Alla fine la madre ottenne il permesso di far tornare per metà dell’anno la figlia sulla terra, per poi passare l’altra metà nel regno di Plutone: così ogni anno in primavera la terra si copre di fiori per accoglierla. 

In questo gruppo lo scultore sviluppa il tema della torsione elicoidale dei corpi, contrapponendo l’impeto delle figure (la mano di Proserpina spingendo arriccia la pelle del viso di Plutone, che affonda le sue dita nelle carni della vittima). Mentre il rapitore con passo potente e spedito trionfa fermo con il trofeo in braccio, dall’altro lato si scorge il tentativo disperato di Proserpina di sottrarsi alla violenza, mentre le lacrime le solcano il viso e il vento le sconvolge la chioma. In basso il cane a tre teste, guardiano infernale, abbaia. 

Sala VI – del Gladiatore – La Verità

La Sala prende nome da una scultura antica, il Gladiatore Borghese, già in questa sala e venduta a Napoleone nel 1807. Al centro è collocato il gruppo berniniano di Enea, che fugge dall’incendio di Troia, salvando il vecchio padre Anchise sulle sue spalle e il figlio Ascanio.

 Su un lato è collocata la Verità, un’opera allegorica realizzata dal Bernini per se stesso intorno al 1647-1648.

 Foto 4: La verità svelata dal Tempo 

L’opera nacque in un periodo in cui Bernini era caduto in difficoltà presso la corte papale, per le accuse mossegli dagli avversari contro il suo intervento nella basilica di San Pietro, che avrebbe causato problemi statici. La Verità si incarna in una figura femminile, nuda, come nella solita iconografia, seduta su un masso roccioso, e tiene nella mano destra il sole poggiando la gamba sinistra sul globo terrestre. La raffigurazione del Tempo, che doveva essere posta nella parte alta, non fu mai eseguita. C’è un espresso riferimento a Michelangelo per il voluto contrasto tra parti levigatissime e parti incompiute e alle figure femminili di Rubens per la prorompente fisicità. 

Sala VIII – del Sileno – Caravaggio

L’ultima sala del pianterreno, detta del Sileno, è oggi più nota per la consistente presenza di opere di Caravaggio (Milano 1571 – Porto Ercole, Grosseto 1610).

Sulle pareti, decorate a finto marmo, si trovano, infatti, sei dei dodici dipinti del maestro lombardo posseduti in origine dal cardinale: Giovane con canestra di frutta, Autoritratto in veste di Bacco o Bacchino malato, San Girolamo, Madonna dei Palafrenieri, San Giovanni Battista e David con la testa di Golia

      

 Foto 5: Madonna dei Palafrenieri 

 La Madonna dei Palafrenieri (1605-1606), anche detta Madonna della serpe, offre un’immagine a dir poco insolita della Vergine: una madonna-popolana, con un lembo della gonna arrotolata e i capelli arruffati, colta alla sprovvista, si china mostrando il seno. Ha un volto molto conosciuto a Roma, quello della modella e amica del pittore, Maddalena Antognetti detta Lena; anche l’immagine del Bambino è insolita: completamente nudo e troppo cresciuto; e Sant’Anna, una vecchia dal volto rugoso, ha un atteggiamento distaccato, dimesso. 

Il dipinto fu commissionato dalla Confraternita dei Palafrenieri per il proprio altare, dedicato a Sant’Anna, nella nuova basilica di San Pietro (i Palafrenieri Pontifici sono gli incaricati della gestione delle scuderie del Papa); ma rimase nella sede originaria solo pochi giorni, l’acquistò il cardinale Borghese per una cifra irrisoria. Probabilmente fu rimossa per motivi di decoro, vista la prorompente scollatura della Vergine e la nudità di un bambino, troppo cresciuto per essere mostrato nudo; non piacque alla Confraternita nemmeno la mancata partecipazione all’azione di S. Anna, patrona dei Palafrenieri. O più probabilmente fu il desiderio di possesso del cardinale Borghese a consentire il trasloco.

Tre sono i personaggi presenti: Maria, Gesù e Anna, la madre di Maria. Il Bambino è intento, con l’aiuto della madre, a schiacciare con il piede la testa di un serpente, allegoria del diavolo. Nonostante la scena sembri riprodurre un episodio di vita quotidiana (la mamma che corre in aiuto del bambino), simbolicamente raffigura la vittoria del Bene sul male. Anna li guarda, quasi nascosta nell’ombra. Lo sfondo è scuro, non si vede nulla dietro di loro. L’atmosfera cupa, ricca di pathos, tipica dei quadri di Caravaggio, ci fa immergere in una scena di sapore teatrale. 




Brescia – Memorie divise, memorie non dette (parte terza)

Elemento costitutivo e caratterizzante dell’arredo urbano di Piazza della Vittoria, concepita nel progetto di Marcello Piacentini come “foro” dell’era fascista”, è l’installazione, circa a metà del lato ovest della piazza, di un’opera monumentale: una fontana esagonale, dal cui basamento emerge, straripante di vitalismo, un colosso alto circa sette metri scolpito dal carrarese Arturo Dazzi, che raffigura un aitante giovane nudo, leggermente proteso in avanti. La statua, ufficialmente intitolata “L’Era Fascista” e alternativamente “Alla giovinezza d’Italia”, ma popolarmente nota come il “Bigio”, diminutivo dialettale di Luigi, non è unanimemente apprezzata dalla cittadinanza, tanto che il Caffè Impero, cui la scultura dà le terga, è per questo motivo ribattezzato Bar de le ciàpe, mentre il vescovo proibisce al clero di passare davanti all’oscena nudità dell’opera. Piazza della Vittoria “interpreta […] il nuovo ordine fascista” ed esprime “fisicamente la pervasività dello Stato fascista”; viene usata soprattutto per manifestazioni del regime e le sue “adunate oceaniche”, ma, come il Bigio, non incontra il favore della cittadinanza e non riesce a diventare il “foro” dell’era fascista, il nuovo centro alternativo a tutte le altre piazze. 

Al crollo del fascismo, l’amministrazione comunale decide di eliminare dalla piazza bombardata la scultura di Arturo Dazzi, la fontana sulla quale è eretta e gli altri simboli fascisti. La statua è collocata in un magazzino comunale, nel quale rimane per quasi settant’anni, finché l’amministrazione di centro-destra (2009-2013) ne delibera la ricollocazione nella sede originaria. Molte voci di persone di cultura, di esponenti del mondo antifascista e ambientalista si levano contro questa operazione nostalgica, destinataria di un consistente investimento di fondi pubblici, mentre si riducono le risorse a disposizione del welfare per l’assistenza ai cittadini in difficoltà, e divampa una vivace e duratura polemica sulla ricollocazione della statua, che supera gli angusti confini municipali per approdare sulle pagine del Guardian. Di fatto il Bigio/l’Era fascista/Alla giovinezza d’Italia continua a restare in magazzino, poiché l’amministrazione comunale di centro-sinistra, eletta nel 2013, non ha dato seguito alla deliberazione di quella precedente. Alla fine dello stesso anno, in concomitanza con la realizzazione della stazione Vittoria della metropolitana, viene ultimata la generale ristrutturazione della piazza, resa completamente pedonale, con una nuova pavimentazione e la costruzione di una nuova fontana, simile a quella del 1932, al cui centro è posizionato un piedestallo da usare come base di appoggio per opere scultoree. 

Foto 1. La stazione delle metropolitana di piazza Vittoria

Attualmente piazza Vittoria ospita la sede centrale delle Poste, è sede del mercato settimanale del sabato, insieme alle piazze contigue, e del mercato dell’antiquariato ogni seconda domenica del mese, di numerosi eventi pubblici nel corso dell’anno, dalle corse podistiche alle iniziative musicali, dalla fiera del libro alla punzonatura delle auto storiche che partecipano ogni anno alla Mille Miglia storica, dalle estive “cene in bianco” a iniziative di solidarietà come quelle di Viva Vittoria, durante la quale centinaia di donne bresciane hanno rivestito l’omonima piazza con le coperte da loro realizzate per contribuire alla ricostruzione della scuola di Gualdo (MC), danneggiata dal sisma nel 2016. 

Foto 2. Il mercato settimanale 

Foto 3. Viva Vittoria

Nel 2017 l’amministrazione comunale, insieme alla Fondazione Brescia Musei, dà inizio a Brixia Contemporary, un progetto pluriennale che si propone l’ambizioso obiettivo di trasformare la città con uno sguardo, quello di un artista contemporaneo che sveli un nuovo punto di vista sullo spazio urbano del centro storico, mettendo a colloquio Brixia con Brescia, le origini con il tempo presente, attraverso le opere selezionate per l’occasione e i luoghi che le accolgono. L’artista scelto per il 2017 è Mimmo Paladino, le cui opere sono ospitate dal 6 maggio 2017 al 2 settembre 2018 in un percorso che si espande da Piazza della Vittoria al Tempio Capitolino per raggiungere il Museo di Santa Giulia, sito UNESCO.

 

Foto 4. Opere di Mimmo Paladino 

In Piazza della Vittoria sono posizionati ben sei tra i più celebri totem della sua poetica: una riedizione bresciana del Sant’Elmo e lo Scriba, poi il gigantesco Zenith, la scultura equestre in bronzo e alluminio del 1999, alta quasi cinque metri, il grande Anello, la Stella e, a campeggiare sul basamento che fu del contrastato Bigio di Arturo Dazzi, un’imponente figura in marmo nero, realizzata appositamente per l’occasione, che riporta alla tradizione della grande avanguardia del Novecento. Con questa mostra Brescia vuole anche celebrare i novant’anni della Mille Miglia, competizione automobilistica che si svolge dal 1927 e perciò in Piazza della Vittoria i bolidi leggendari sfilano al cospetto proprio delle opere monumentali di Paladino. 

La piazza bresciana è presente anche nella mostra, aperta fino al 25 giugno, Post Zang Tumb Tuuum. Art Life Politics: Italia 1918-1943, curata da Germano Celant, presso la Fondazione Prada di Milano. Il percorso espositivo si snoda in ventiquattro sale, ricostruzioni parziali di sale istituzionali, studi e gallerie private, ottenute dall’ingrandimento in scala reale di immagini storiche, nelle quali le opere d’arte dell’epoca dialogano con progetti architettonici e piani urbanistici coevi. Come esempio degli spazi centrali delle città, ridisegnati dal fascismo a veicolare un’estetica che ne trasmetta il messaggio politico, viene esposto in una delle sale  il modello di Piazza della Vittoria di Brescia nel rifacimento di Marcello Piacentini.

A quasi novant’anni dall’inaugurazione, questa piazza, metafisica come un dipinto di De Chirico, si mostra a pieno nel suo carattere di lenta costruzione collettiva, risultato di differenti apporti individuali e stratificazione di linguaggi diversi, e pare finalmente avviarsi a divenire “il nucleo spaziale ove si realizza l’intersezione di storia civile, movimenti culturali, tendenze artistiche, cultura materiale, immaginazione collettiva, proiezioni simboliche, ritualità consolidate, tradizioni popolari e consuetudini comportamentali”. Paiono esserne inconsapevoli testimoni e attori il costante flusso quotidiano degli utenti della metropolitana, chi sorseggia un caffè o un aperitivo accompagnato da stuzzichini o consuma un pasto veloce in uno dei tanti locali della piazza, le ragazze e i ragazzi che si danno appuntamento in piazza e si siedono sulla scalinata del palazzo delle Poste, accanto a numerosi cittadini di recente immigrazione – il maschile è d’obbligo perché, purtroppo, ancora le donne non compaiono – oppure, ai ritmi emessi da potenti “radioloni” si esibiscono in improvvisate sfide di breakdance nei portici sotto il grattacielo, e chi schizza veloce nella piazza a bordo del proprio skateboard, suscitando talvolta apprensione o fastidio negli umani e spesso uno spaventato abbaiare dei cani al loro guinzaglio. 

Foto 5. Skateboard in piazza della Vittoria

Piazza della Vittoria non è diventata il cuore pulsante di Brescia e, nonostante il masso dell’Adamello in bella vista, labile è il ricordo di una guerra finita cento anni fa; nell’immaginario collettivo locale, sopra tutto di chi è più giovane, Vittoria è semplicemente una stazione della metropolitana, eppure, lentamente, sta trovando posto nel cuore di cittadini e cittadine vecchie e nuove, benché memorie divisive permangano, coesistenti, ma non pacificate, in questa piazza. 

Sotto, insieme al torrente Garza, scorre il fiume carsico di una memoria non detta, ma non per questo meno ingombrante: il ritmo cadenzato dei passi della folla che rimbomba sulla pavimentazione della piazza, i suoi eia eia alalà di dannunziana memoria, il braccio destro teso nel saluto, i suoi applausi ai discorsi retorici degli oratori ufficiali che la arringano dall’arengario in occasione delle “adunate oceaniche”, mentre bandiere e gagliardetti garriscono al vento. Dopo il crollo del fascismo da Piazza della Vittoria la politica e i suoi riti collettivi imposti dall’alto sono rimasti assenti; il luogo della politica come libera partecipazione dal basso, in una parola democrazia, e ritualità civile e civica è Piazza della Loggia, non solo a causa della strage che nel 1974 l’ha, letteralmente, insanguinata.

Foto 6. Festa di laurea in piazza della Loggia