Percorso di genere alla Galleria Borghese Da Paolina attraverso Dafne, Proserpina, Danae fino all’Amor Sacro e l’Amor Profano (prima parte)

Un po’ di storia

L’aristocratica famiglia romana dei Borghese raggiunse potere e ricchezza all’inizio del XVII secolo, con l’ascesa al soglio pontificio, nel 1605, del cardinale Camillo Borghese, papa col nome di Paolo V. Protagonista assoluto della corte pontificia fu in quel periodo il nipote prediletto del papa, il cardinale Scipione Borghese (1577-1633), figlio di Ortensia Borghese, sorella del Papa, nominato cardinale all’età di ventisei anni, appena due mesi dopo l’elezione dello zio. Animato da una dispendiosa passione per l’arte, il cardinale nipote affidò la costruzione di una villa “fuori Porta Pinciana” all’architetto Flaminio Ponzi, su un terreno posseduto dalla famiglia. La villa, la cui costruzione iniziò nel 1607, fu poi terminata dall’architetto Giovanni Vasanzio nel 1633. 

Scipione Borghese, contemporaneamente alla costruzione della villa, cominciò a raccogliere opere d’arte e a commissionare a diversi artisti dell’epoca numerosi lavori, dando  l’avvio a quella che doveva essere una delle collezioni private più grandi dell’epoca. Molte opere furono acquisite con estrema spregiudicatezza, come i 100 dipinti sequestrati nello studio del Cavaliere d’Arpino, tra cui alcuni dipinti di Caravaggio, o la Deposizione Baglioni di Raffaello, prelevata dal convento perugino di San Francesco, e fatta calare di notte dalle mura della città. E per aver opposto resistenza a consegnare al cardinale la Caccia di Diana, Domenichino passò alcuni giorni in prigione. Anche la collezione di sculture antiche si arricchiva, spesso con straordinari rinvenimenti occasionali. Non era da meno la statuaria “moderna”: dal 1615 al 1623 il giovane Gian Lorenzo Bernini eseguì per il cardinale cinque celeberrimi gruppi scultorei, ancora oggi conservati nel Museo, la Capra Amaltea, l’Enea e Anchise, il Ratto di Proserpina, il David, l’Apollo e Dafne. Per volere del cardinale, alla sua morte tutti i beni mobili e immobili furono sottoposti a uno strettissimo vincolo fidecommissario, che preservò l’integrità della collezione fino a tutto il XVIII secolo.

Foto 1. La facciata seicentesca

Nel 1766 cominciarono importanti lavori di trasformazione, voluti dal principe Marcantonio IV Borghese, e questa fu la seconda fase, fondamentale per la fisionomia della villa. Architetti, pittori e scultori fecero di Villa Pinciana un modello di stile neoclassico per tutta Europa. Nel nuovo allestimento dell’architetto Antonio Asprucci i capolavori scultorei furono posti al centro di ogni sala e il tema decorativo raccordato al soggetto del gruppo scultoreo. Il piano terra era riservato alle statue, mentre i dipinti furono sistemati nel piano superiore, secondo un concetto di ascesa dalle sculture antiche a forme d’arte più sublimi, come la pittura. 

Agli inizi del XIX secolo la villa venne ulteriormente ampliata da Camillo Borghese, figlio di Marcantonio con l’acquisto di terreni verso Porta del Popolo e Porta Pinciana, che furono integrati alla villa con l’intervento dell’architetto Luigi Canina. A lui si devono i Propilei neoclassici (1827) su Piazzale Flaminio, realizzati su modelli dell’antica Grecia.  Nel 1807 Camillo, marito di Paolina Bonaparte, sorella di Napoleone, fu costretto dal cognato a una vendita forzosa di statue, busti, bassorilievi, e vari vasi che oggi costituiscono il fondo Borghese del Louvre. 

Nel 1902 il principe Paolo Borghese vendette il parco con tutti gli edifici e le opere d’arte allo Stato italiano per 3.600.000 lire. 

La villa

La villa fu costruita per essere un museo, luogo di cultura, ma anche per la contemplazione della natura (con piante e animali rari) e della moderna tecnologia (specchi, lenti, orologi particolari). Doveva anche servire come sede di rappresentanza diplomatica della corte pontificia. Inoltre era un’azienda agricola, con vigne, orti, stalle, piccionaia, una grande uccelliera, un giardino zoologico e perfino un allevamento del baco da seta. 

La facciata, articolata in due corpi aggettanti collegati da un portico, leggera e luminosa per il colore chiaro della muratura, era ornata da rilievi e sculture antiche. L’accesso al portico avveniva tramite una scala a due rampe, che alla fine del ‘700 fu smontata per cedimenti del terreno e sostituita da una scala a tronco di piramide. Nel recente restauro, iniziato nel 1983 e durato quattordici anni, la scala di Flaminio Ponzio è stata reintegrata con le sue esatte misure, tramandate nell’Archivio di Casa Borghese. Come pure è stato ripristinato il colore chiaro, e sono state restaurate tutte le statue e i busti della facciata, gravemente danneggiati dagli agenti atmosferici.

L’edificio si ispira allo schema cinquecentesco documentato a Roma da Villa Medici e Villa Farnesina, e riprende anche le ville romane, con avancorpi, portico a cinque arcate e terrazza. All’interno, su due piani, le sale sono disposte intorno a un grande salone centrale.

Foto 2. La facciata della Villa nel 1963

Sala I- Paolina e la bellezza ideale

Dopo aver attraversato il portico, dove sono esposti rilievi antichi, e il salone di ingresso, dominato dal tema della gloria della civiltà romana, entriamo nella prima sala, al centro della quale troviamo una delle sculture più celebri della collezione Borghese, la Statua-ritratto di Paolina Borghese Bonaparte, realizzata tra il 1805 e il 1808 da Antonio Canova (1757-1822).

 

Fig. 3. L’opera di Canova

La statua, considerata un apice dello stile neoclassico, raffigura la sorella di Napoleone, nonché moglie del principe Camillo Borghese, distesa, a busto nudo, su un lettuccio. Scolpita in morbidi e levigati lineamenti e in una posa aggraziata, Paolina regge con la mano sinistra un pomo, evocando così la Venere Vincitrice del giudizio di Paride e fissa un punto indefinito nell’aria, noncurante di tutto ciò che è contingente, terreno, umano.

 Il supporto ligneo, drappeggiato come un catafalco, su cui è distesa Paolina, ospita all’interno un meccanismo che fa ruotare la scultura. S’inverte così il ruolo tra opera e soggetto fruitore: è la scultura a essere in movimento, mentre l’osservatore fermo viene impressionato dalle immagini di una scultura che, ruotando, consente di coglierne lo splendore da tutti i lati. Ad opera finita, Canova passò sul corpo nudo di Paolina un impasto di cera rosata e polvere di marmo, col quale ottenne un effetto di morbidezza e calore, di vera carne. 

Questo ritratto senza veli di una persona di rango era un fatto eccezionale per l’epoca. Ma la persona storica è raffigurata e trasformata in divinità antica in un atteggiamento di classica quiete e nobile semplicità, secondo il concetto di bello ideale di Winckelmann, il massimo teorico dell’estetica neoclassica. 

Antonio Canova è lo scultore più celebre della bellezza ideale, che, secondo lui, si incarnava nelle antiche sculture greche, dove il linguaggio esaltava l’equilibrio, le proporzioni, la semplicità. Nella Grecia classica la grazia era intesa come armonia delle forme, perfezione impossibile da trovare in natura, in quanto imperfetta. E il neoclassicismo, in opposizione e come reazione alla precedente estetica barocca, rifiuta ogni forma di eccesso, ogni espressione di sentimento che stravolge e imbruttisce i lineamenti del volto, che invece devono essere distesi e sereni, ogni virtuosismo o passione incontrollata e travolgente.

Se, a un primo sguardo superficiale, le opere degli artisti neoclassici sono spesso ritenute fredde e inespressive, a causa dell’applicazione di un canone estetico preciso, di principi teoretici imposti all’arte e al processo creativo, la vera grandezza del Canova consiste proprio nel superamento di questi canoni, nell’aver infuso un’anima alle sue figure che ce le rendono umane e vicine.

In copertina. La facciata oggi, dopo l’ultimo restauro




Buenos Aires

Diluvia, ma non ci spaventiamo, quindi usciamo con i nostri ponchos dell’Ikea. Inarrestabili, raggiungiamo a piedi il centro percorrendo la strada diritta che dal Terminal passa davanti alla stazione ferroviaria e alla torre. Percorriamo anche una rotatoria pedonale aerea. Entriamo fradici nelle Galerias Pacifico, gigantesco e splendido centro commerciale che non avevamo mai visitato. Eppure è all’angolo con Florida ed è la quarta volta che siamo in questa città! È una bellissima struttura liberty, con grande cupola affrescata da artisti molto noti (qui), tre di origine italiana, uno spagnolo. Dobbiamo cambiare i dollari in pesos, sappiamo che un euro vale otto pesos. A un banchetto “ufficiale” non cambiano perché non abbiamo con noi i passaporti.  Chiediamo a un commesso che vende macchine fotografiche. Ci guarda in modo strano, poi a bassissima voce ci dice che può cambiare, ma “solo” uno a dieci. Ci sembra una proposta conveniente e allettante: ci guida in un corridoio, lontano da sguardi indiscreti, e ci porge i pesos. Lo ringraziamo di cuore, è stato veramente gentile e generoso! Continua a diluviare.

Foto 1. Galerias Pacífico.

Immagine di  Véronique Debord, tratta da Wikimedia Commons

Dopo cena decidiamo di andare in taxi da Maipù, che non è un locale dove si fa spettacolo, ma una sala dove gli argentini che amano il tango vanno a ballare. Con noi Rosanna, Zoran, il tedesco “che l’anno scorso ballava con la bionda” e una tedesca. Maipù si trova in Alsina, nella sede dell’Associazione Italiana.

Serata emozionante: i ballerini ballano con il cuore, con gli occhi, con le gambe che si allungano si girano si torcono si attorcigliano… scivolano con leggerezza e con intensità, regna l’armonia assoluta sul pavimento di legno. C’è una coppia giovane, lei con gonna rosso scuro, sono incantevoli, non distogliamo lo sguardo dalle loro teste accostate. Quelli che sembrano i “padroni di casa” ci accolgono baciandoci, vengono al nostro tavolo a farci compagnia, ci fanno sentire a casa. È questo il vero tango argentino, un ballo malinconico, teste vicine e corpi che non si sfiorano; nulla a che vedere con gli spettacoli dei professionisti per i turisti.

Foto 2. Cimitero di Recoleta. Evita Peron

Il giorno successivo ci aspetta la Buenos Aires ufficiale: Palermo, Recoleta (e il cimitero dove è sepolta Evita), Avenida 9 de Julio (ventidue corsie), Teatro Colòn (in platea duemila spettatori, tre sottopiani che ospitano camerini, magazzini ecc), Corrientes – la via che non dorme mai perché ricca di teatri e locali – Casa Rosada (da quando ho letto la biografia di Evita capisco molto di più!), Cabildo, Cattedrale e ricordo di Papa Francisco, Boca vivace e colorata, Puerto Madero con ponte di Calatrava (in copertina) – Ponte delle donne – e con tutte le strade dedicate alle donne (incredibile!).

Per l’elenco delle strade femminili di Puerto Madero consultare la pagina

http://www.nuevopuertomadero.com/?page=Vivir%3A%3ACalles&pagina=1&_s

Davanti alla Casa Rosada ci sono croci e manifestanti tranquilli: vogliono solo far sapere che sono i reduci della guerra delle isole Malvinas – o Falkland – o i figli dei militari morti. Per loro non è stato previsto nessun riconoscimento. Molte sono le donne rimaste sole, sempre pronte a combattere, come le madri e le nonne dei desaparecidos.

Buenos Aires è una grande e bella città europea: qui non c’è la confusione colorata del Brasile, né la signorilità tranquilla dell’Uruguay, ma si percepisce un senso di disagio, i portenostemono un colpo di stato, non si fidano della loro presidente, si parla del magistrato “suicidato” misteriosamente… in strada tanta polizia, centinaia di persone – soprattutto giovani – che offrono il cambio dei pesos. Ufficialmente, a un dollaro corrispondono 8.6 pesos; a noi l’impiegato delle Galerias Pacifico ha cambiato 1 a 10; altri ottengono 1 a 14, persino 1 a 16. Nel 1989, quando visitammo l’America latina con i nostri figli, più o meno la situazione era simile; l’inflazione correva così tanto che nei negozi cambiavano continuamente i prezzi. Facendo la fila al supermarket, il prezzo di un oggetto cambiava nel tragitto dallo scaffale alla cassa. Ci dicono che chi è figlio di italiani, chiede la doppia cittadinanza per sé e per i figli, per scappare in caso di necessità.

Foto 3. Casa Rosada.

Immagine di Lars Curfs, tratta da Wikimedia Commons

Se si prende un taxi, il taxista chiede ai passeggeri da dove arrivino: abbiamo l’aspetto straniero… Appena sentono “Italia”, si commuovono, raccontano di nonni partiti dai paesi poveri per la Merica, raccontano che tutto è cambiato, che ciò che producono viene esportato, che non mangiano più parrillada e bife de lomo, ma pollo, perché è più economico e si alleva in spazi ristretti.

Cammino per le strade e penso a Evita e al suo sogno, a Victoria Ocampo, intellettuale e viaggiatrice, che volle abitare non più in una grande casa simile a quelle europee, ma in una che fosse tipicamente argentina, circondata dal prato, dove i suoi ospiti potessero passeggiare e meditare.

 

 

 




Passeggiata nel Padule

Il termine “padule”, variante toscana di palude, è presente in senso letterale o figurato negli scritti di alcuni suoi autori – Boccaccio, Carducci, Collodi – e lo si ritrova spesso  tra i toponimi dell’Italia centrale, ove ha dato nome a strade (nel grossetano), frazioni (Sesto Fiorentino e Gubbio) e aree naturali: Pian d’Alma, Trappola, Diaccia Botrona, Scarlino (provincia di Grosseto); Orti-Bottagone, Bolgheri, Suese e Biscottino (provincia di Livorno); Massaciuccoli (LU) e Fucecchio.

Quest’ultima area, seppur ridotta rispetto all’omonimo ambiente che occupava un tempo gran parte della Valdinievole, rappresenta oggi la più estesa palude interna del Paese, condivisa tra le province di Firenze, Prato, Pistoia, Lucca e Pisa: poco meno di 2.000 ettari, in gran parte protetti, ospitano peculiarità floristiche, faunistiche e paesaggistiche di grande interesse.

Vi sopravvivono, infatti, rare piante flottanti – come la carnivora erba vescica, le ninfee dai fiori gialli, le felci natanti (erba pesce o salvinia) – associate a specie di clima caldo-umido (morso di rana e felce reale) e a specie nordiche, come i muschi sfagni e le grandi carici, che formano tipici isolotti di canne, lavorate un tempo dalle donne del luogo.

La raccolta delle erbe palustri, infatti, per tutta la prima metà del Novecento è stata una delle principali attività delle donne locali. Tra le piante più ambite c’erano la sala,che andava a ricoprire i fiaschi di vetro, e il sarello, destinato all’impagliatura delle sedie.

Foto 1.  Monsummano Terme – Lavorazione del sarello, 1920 – A.F.F.

Scrive Laura Candiani nel volume Tracce, storie e percorsi di donne.La Valdinievole  (Universitalia, 2018).

Quest’area – attraversata da numerosi corsi d’acqua – punto di passaggio ma anche di sosta e ripopolamento per tante specie di uccelli, fino agli anni Cinquanta del XX secolo era soprattutto una fonte inesauribile di cibo e di lavoro per le popolazioni di “padulini” (o padulani), sia mezzadri sia povere genti contadine costrette alla sussistenza.  Grazie al Padule si poteva sopravvivere e molti compiti erano riservati alle donne, talvolta anche ai bambini. Alcune anziane raccontano ancora di materassi imbottiti con cartocci di mais, di tetti così sguarniti per cui si vedevano le stelle (o si dovevano mettere secchi per terra, se pioveva) e di famiglie così povere per cui le poche paia di zoccoli disponibili toccavano a chi si alzava prima. Ma per fortuna – qualcuno ancora ricorda – «il Padule era la nostra fabbrica…».

[…]

Dopo la raccolta, l’erba veniva fatta seccare, quindi lavorata a forma di lunghe trecce (da lavoranti dette appunto trecciaiole) che servivano anche per realizzare rustiche sporte. Si usavano anche il biòdano e la gaggìa (acacia), dai rami flessibili, per completare il cesto robusto che veniva posto alla base della damigiana.                                                                                                                                                               

Si raccoglieva poi la legna, indispensabile per scaldarsi e cucinare, che però non doveva superare precise dimensioni e quantità, verificate dal “fattore”. Venivano raccolte anche le cannelle che servivano a realizzare cannicci di protezione per orti o coltivazioni e a far essiccare l’uva nei sottotetti (con cui produrre vin santo). Tutti gli avanzi delle erbe (“pattume”) si usavano come lettiera per gli animali per diventare poi letame; era una società con una cultura naturalmente ecologica, senza sprechi e senza rifiuti.                                                                                                                                                            La saggina invece non era una pianta spontanea, ma era coltivata; se ne ricavavano soprattutto spazzole, scopini, scope che alimentarono anche una discreta attività economica, specie nel larcianese, fino agli anni Settanta-Ottanta del XX sec. 

Sulla via Provinciale Lucchese che da Serravalle porta verso Pistoia, fuori quindi dalla Valdinievole, al n. 336 in località Spazzavento, sulla facciata di un’abitazione una piccola targa ricorda questi mestieri, diffusi in vari luoghi della provincia. Posta il 2 maggio 2012, la targa menziona anche le “portantine”, ovvero le donne che con i carretti trasportavano i fiaschi nelle case delle lavoranti, prima e dopo l’impagliatura.

Foto 2. Le Morette. Foto di Alessio Bartolini

Molti sono gli itinerari possibili nel Fucecchio: a piedi, in auto, in mountain bike, in barchino.

La passeggiata consigliata, in primavera, parte dal Porto delle Morette, che deve il suo nome alle omonime anatre tuffatrici. Superato il ponte sul canale e il Casotto dei Criachi, tristemente noto per l’eccidio del 1944 perpetrato dai tedeschi, inizia il percorso lungo l’argine, dove passano, sostano o nidificano circa duecento specie di uccelli. Punto privilegiato di osservazione è il Casotto del Biagiotti, dalle cui feritoie si intravedono i nidi di sette diverse specie di aironi. Si tratta della più importante colonia di nidificazione dell’Italia centro meridionale, per numero di coppie, e per varietà di specie (aironi cenerino, guardabuoi, bianco maggiore, rosso e poi nitticora, garzetta, sgarza ciuffetto).

Foto 3. Il casotto. Foto di Alessio Bartolini

I casotti, posizionati in prevalenza lungo i canali, fungevano un tempo sia da rimesse per agricole e da pesca, sia da ricovero temporaneo per contadini, pescatori e cacciatori.

In autunno, nei giorni di silenzio venatorio, nelle acque libere s’incontrano tranquille anatre svernanti, svassi e cormorani.

Nel complesso, le aree fangose sono il regno di beccaccini e pavonelle, chiurli e pittime, mentre i canneti sono prediletti da passeri e folaghe.

 

Foto 4.  In Padule, dal barchino. Foto di Alessio Bartolini.

 

Certamente suggestivo e indimenticabile è il percorso in barchino, mezzo tipico dei cacciatori, scurito dal catrame e a fondo piatto. È l’unica imbarcazione che percorre ancora oggi il Padule, un tempo importante via d’acqua. Nel medioevo, infatti, il canale dell’Usciana raccoglieva e convogliava le acque in Arno, collegando Pistoia e la Valdinievole con Firenze e Pisa. A fine Settecento sopravvivevano ancora una cinquantina di approdi e strutture portuali.

Agli inizi di aprile è stato varato un barchino destinato alla settima tappa della via Francigena: pellegrini e pellegrine, tra Altopascio-San Miniato, potranno seguire il percorso alternativo che scivola a ritmi lenti nel silenzio dei canali.

 

 




Isola di Pasqua

Sbarchiamo in lancia ad Hanga Roa, saliamo su un minibus con accompagnatore locale – Jorge – e partiamo alla scoperta dei moai. Ce ne sono 887 sull’isola abitata da poco più di cinquemila persone, patrimonio dell’Unesco dal 1996. Ne vediamo subito uno non lontano dal porticciolo. Ma l’emozione è palpabile quando ci fermiamo sul bordo di una vallata e vediamo il moai con gli occhi e l’acconciatura. Poco distante, altra piattaforma (ahu in lingua locale) e quindici giganti senza occhi, imponenti solenni silenziosi giganteschi custodi di… ma cosa dovevano proteggere? Nelle piattaforme (sono nel complesso 270 sparse sul territorio dell’isola) che li sorreggono forse c’erano sepolture di uomini illustri che vivevano lungo la costa; nell’interno invece abitavano i poveri. L’80% dei moai è stato ricavato dalla caldera del vulcano Ranu Ranaku: noi ci andiamo arrampicandoci lungo la collina, accompagnati da moai di varie dimensioni, finché arriviamo all’imboccatura della cava, dove scorgiamo il moai non-finito, volto abbozzato e corpo saldamente ancorato alla pietra. Come un nonfinito michelangiolesco. Forse non è stato scolpito per intero perché gli abitanti sono fuggiti (per andare dove? erano in pericolo? chi li minacciava?). Scendendo verso la pianura vediamo ancora la piattaforma dei quindici, lontani e soli. Incontriamo un moai particolare, forse è inginocchiato: prega? si nasconde? Jorge ci dice che non si sa se sia il primo o l’ultimo… Aggiunge che i moai potrebbero essere espressione di culti religiosi, di luoghi di cerimonie, di allineamenti astronomici, di potere politico. Potrebbero essere semplicemente dei monumenti nei cimiteri. In realtà davanti alle piattaforme ci sono pietre in fila. L’unica cosa certa è che gli abitanti cominciarono a scolpire i moai nel 600 d.C. e si estinsero nel 1630, forse vinti in guerre tribali o vittime di fame e sete. Si dice che per far arrivare i moai vicino al mare li facessero scivolare su tronchi, quindi dalla distruzione della flora deriverebbe anche quella della fauna e della popolazione stessa. I 1000 anni di storia sarebbero rappresentati dai 15 moai, dunque la piattaforma sarebbe cresciuta secolo dopo secolo. Dopo un pranzetto nella trattoria “Tia Berta” a base di empanadas di tonno e formaggio, serviti da una giovane e gentile cameriera dalla pelle ambrata e dagli occhi espressivi, scuri, leggermente a mandorla, camminiamo lungo la strada che porta al molo, intorno alla quale vediamo pochi negozi e qualche bar. La vita è semplice, ragazze e ragazzi, studenti, il lunedì mattina partono per Santiago (5 ore di volo) e il venerdì tornano a casa; le donne forse sono alle prese con i lavori dell’orto o in casa a preparare il pranzo; i turisti vengono qui per amore dell’archeologia o della natura, quindi niente vip da strapazzo. Trascorriamo un po’ di tempo in un bar per connetterci e recuperare il rapporto con il mondo; vado in bagno uscendo dalla porta posteriore del locale e vedo un portico, fiori bellissimi, piccole curatissime case che creano una specie di quadrato verde al loro interno. Fotografo un ibiscus gigantesco. Il w. c. è pulito, pareti dipinte a colori vivaci: pesci coralli fiori. Lungo il mare ci sono piscine naturali dove sguazzano i bambini con le loro tavole. Il mare, appena mosso da un vento leggero e costante, ha un colore intenso, i moai sono lontani, eppure presenti con le loro suggestioni.  Il ricordo un po’ malinconico dei misteriosi custodi del nulla mi fa compagnia. Intorno, silenzio.

 

 

 




Sulle tracce della Resistenza in Valdinievole

La Valdinievole – in provincia di Pistoia, in Toscana – dopo l’8 settembre 1943 si trovò attraversata dalla Linea Gotica che dalla costa adriatica arrivava fino al confine con la Liguria, direttamente sul mare Tirreno. Vari nuclei partigiani si organizzarono, anche con il contributo di militari sbandati e della popolazione; in questo quadro la situazione, come in quasi tutta l’Italia centro-settentrionale, divenne sempre più difficile a causa della presenza delle truppe tedesche occupanti, aiutate dai fascisti locali. Sequestri di beni, vere e proprie ruberie di animali e provviste, lavoro coatto per gli uomini ritenuti abili, rastrella-menti, violenze di ogni genere divennero elementi della quotidianità, a cui si accompagna-vano i raid aerei degli Alleati che – quando colpivano – non distinguevano certo fra amici e nemici.

Molto si è detto, rievocato, narrato su questo periodo e soprattutto sul secondo terribile inverno, fra il 1944 e il 45, quando le forze erano ridotte al minimo e la fiducia vacillava, come magistralmente ha raccontato Beppe Fenoglio parlando della sua esperienza nelle Langhe. Il fatto di sangue più grave avvenuto in queste terre fu l’eccidio del Padule di Fucecchio – compreso fra le province di Pistoia e Firenze – nel territorio pianeggiante ai margini dell’area palustre, fra campi coltivati, canneti e boschi. Iniziamo da qui il nostro percorso per ricordare vicende e luoghi che ancora ci parlano dell’accaduto.

Non lontano da Montecatini Terme, a Ponte Buggianese, in cerca di tracce e personaggi, si può partire dalla piazza centrale dove sorge il santuario e percorrere la “ruga”; si arriva a un ampio spazio alberato dedicato agli eroici fratelli Banditori: Lenin Giulio (detto Leo), ferito nel ’44 in un bombardamento, morì presso Volterra, e Nicola (soprannominato Tarzan per la forza e la resistenza al freddo e alle fatiche) fu ucciso “in seguito a ferita prodotta da mitraglia” a Porretta Terme, a pochi giorni di distanza, mentre voleva arrivare fino a Berlino, nel cuore del Reich. 

Foto 1. Intitolazione ai fratelli Banditore

Anche il campo sportivo, situato accanto al fiume Pescia, è dedicato a loro fino dal 16 settembre 1945. Della loro vicenda si occupa un volume collettivo, edito nel 2005 dall’amministrazione comunale, e intitolato in modo significativo Non fermarsi al Ponte che ricostruisce la vita della famiglia da sempre antifascista, la passione politica, l’entusiasmo giovanile dei due fratelli. Nella piazza, su un piano rialzato, si ammira dal 1993 la monumentale opera in bronzo dell’artista pistoiese Jorio Vivarelli dal forte significato simbolico: “Parabola storica- via della Resistenza- l’ultima sfida”.     

Nei pressi del centro del paese si trova un’area verde con la piazza inaugurata nel 1990 e dedicata a Giovanni Magrini. Era un giovanissimo carabiniere di Ponte Buggianese – in servizio a Praticello, presso Gattatico, sull’Appennino Tosco-Emiliano – e fu protagonista il 9 settembre 1943 di uno dei primi atti della Resistenza. Senza direttive e ignorando l’armistizio e quanto stava accadendo nel resto d’Italia, si trovò a difendere con i commilitoni la caserma assaltata da soldati della Wehrmacht, che volevano prendere le armi e le munizioni; dopo aver respinto due bombe a mano e ferito i nemici, fu colpito in pieno al braccio sinistro da una raffica di mitra per cui rimase mutilato; nel 1952 gli fu conferita la medaglia d’argento al valore militare. Gli è stata dedicata anche la caserma dei Carabinieri di Montecatini.

Foto 2. Area verde dedicata a Giovanni Magrini

Da Ponte Buggianese, in circa due chilometri si raggiunge la frazione Anchione dove sorge un monumento in ricordo dell’eccidio, proprio davanti alla chiesa; poco dopo appare la Dogana del Capannone, importante edificio mediceo recentemente restaurato e aperto (saltuariamente) al pubblico. Ospita un piccolo Centro di documentazione sulla strage che si svolse nelle campagne intorno. Oggi in questa vasta area è bello passeggiare (o andare in bicicletta) lungo gli argini e i canali, osservando i tabacchifici abbandonati e le case ormai in disuso. Incontrando cippi, piccole edicole e la grande lapide sul tabacchificio del Pratogrande è impossibile non soffermarsi sulla strage nazifascista avvenuta il 23 agosto 1944, di cui pure tanti hanno scritto e su cui si continua a indagare.

Foto 3. Tabacchificio di Pratogrande

Le vittime – scelte casualmente in un territorio molto ampio – furono 176 (altre fonti parlano di 174 o di 175): fra di loro non c’erano partigiani/e, nessun militare, ma tante famiglie locali e altre sfollate fuggite dalle città bombardate, come Pisa, Livorno, Pontedera; 31 avevano oltre 55 anni, 22 ragazzi erano sotto i 15 anni, 3 sotto l’anno di età (fra cui le piccolissime Maria Malucchi di 4 mesi, Silvana Tognozzi e Rosa Maria Silvestri), 3 bambini di due anni e una donna invalida di 93: Maria Faustina Arinci, detta Carmela, a cui fu gettata una bomba nella tasca del grembiule. Questi sarebbero stati i pericolosi cospiratori!  Nessuna regione come la Toscana – è bene ricordarlo – ha dato un tale tributo di vittime civili: 4.461, sul totale di 9.980; e la provincia di Pistoia – in soli quattro mesi – ne ebbe 680.

Foto 4. Lapide di Pratogrande

Dalla parte opposta dell’area palustre, dopo Monsummano Terme, lungo la via Francesca, in direzione Fucecchio, si nota sulla destra il piccolo nucleo abitato di Castelmartini (Larciano); nella breve via di accesso spicca il candido monumento eretto alle vittime dell’eccidio dallo scultore Gino Terreni. All’interno del Centro Visite del Padule, poco distante, si possono osservare da vicino alcuni bozzetti preparatori realizzati in creta o gesso.

Foto 5. Bozzetto di Gino Terreni

Anche altrove in Valdinievole si trovano ricordi dell’eccidio sotto forma di lapidi, monumenti e intitolazioni stradali (vedi: Luoghi della memoria- Istituto Storico della Resistenza- Pistoia) riferite inoltre a partigiani locali e a personaggi storici: dai fratelli Cervi a Bruno Buozzi, da Giacomo Matteotti a Giovanni Amendola, che proprio in questa zona fu picchiato a morte, sulla via verso Pistoia, in località Colonna. Fra le tante merita di essere segnalata una intitolazione, avvenuta il 25 aprile 2016 a Pieve a Nievole, grazie ai contatti presi con l’Amministrazione  locale dalla associazione Toponomastica femminile; si tratta di: largo delle Partigiane, unica del genere nell’intera provincia. 

Foto 6. Largo delle Partigiane

Proseguendo la strada verso Fucecchio, andando nell’interno, ci si inoltra sulle belle colline ricoperte di ulivi e di vegetazione; se da Lamporecchio si procede verso Pistoia, si attraversa la località San Baronto; qui, lungo la via Montalbano, un breve tratto – iI 20 febbraio 2016 – è stato intitolato dal comune a Maria Assunta Pierattoni, vittima del nazifascismo e protagonista di una drammatica vicenda. Nata a Lamporecchio nel 1895, rimase vedova con tre figli; il grave disagio economico la portò a cercare ogni genere di lavoro, finché fu avvolta in una spirale di sospetti e di fraintendimenti che la condusse in carcere. Dopo la fuga, nuovi errori ed equivoci la riportarono in carcere fiduciosa che venisse dimostrata la sua estraneità ai fatti imputati. In seguito fu catturata dagli Alleati e accusata di essere una spia perché aveva con sé un salvacondotto firmato dal coman-dante repubblichino del carcere di Parma. Le sue tracce diventano sempre più labili e la sua fine non è chiara; si sa solo che morì in un giorno imprecisato del novembre 1944 in località Arni di Stazzema, proprio là dove il 12 agosto le SS avevano ucciso 560 persone.

Foto 7. Intitolazione a Maria Assunta Pierattoni

A proposito di vittime innocenti, ricordiamo fra le tante i tre giovani che trovarono la morte su una mulattiera a San Gennaro (presso Collodi) il 26 luglio 1944; una croce di ferro con una lapide alla base, situata nell’oliveto di Aldo Michelotti, ne tiene viva la memoria. Si tratta di due ragazzi di 19 anni (Aldo Giannoni e Livio Frateschi) e di una donna: Germana Giorgini. Era nata a Pescia il 19 settembre 1918, faceva la cartaia ed era diventata staffetta partigiana; fu fucilata lì vicino, in località “La Rovaggine”. Un masso, posto sulla via per San Gennaro nel 1997 a cura dell’Anpi di Pescia e del comune di Capannori, reca incisi i nomi dei caduti.  

Foto 8. Centro Polivalente dedicato ad Amina Nuget

Dopo tanto dolore e tanta violenza, concludiamo l’itinerario ideale con un messaggio di fiducia e di speranza. Venendo da Collodi, superata Pescia in direzione Montecatini, si entra nel comune di Uzzano; qui, in località S. Lucia, sulla sinistra una brevissima deviazione porta al Centro Polivalente dedicato ad Amina Nuget, uno dei tanti nomi di persone sconosciute ai più che però hanno contribuito con la loro oscura opera al bene dell’umanità. Amina e il marito Umberto Natali, infatti, durante la Seconda guerra mondiale nascosero e protessero tre sorelle ebree, salvandole dalla deportazione. Per questo sono stati nominati “Giusti fra le Nazioni” nel 2003.




Brescia – Memorie divise, memorie non dette (parte seconda)

A Brescia negli anni Venti del secolo scorso vengono messe in cantiere numerose opere pubbliche per modernizzare la città e si decide di redigere un nuovo piano regolatore, in sostituzione del precedente, risalente al 1897 e scaduto nel 1922. Nel 1927 è indetto un concorso nazionale per un piano di ampliamento del nucleo urbano, che disegni “ un centro degno delle tradizioni artistiche della città, adeguato al suo sviluppo economico e demografico”, secondo le parole del podestà Ugo Calzoni. Le ambizioni dei tredici progetti presentati vengono decisamente ridimensionate dall’amministrazione comunale, che decide di rinunciare al previsto sviluppo di zone periferiche e di concentrarsi esclusivamente sul centro storico, e affida l’incarico a Marcello Piacentini, “architetto del regime” e autore del riassetto del centro di Bergamo. La sua idea di fondo è aprire la città storica per farla attraversare dai nuovi flussi veicolari che ruotano attorno al suo cuore vivo e pulsante, la nuova piazza, in diretto contatto con Piazza della Loggia, Piazza Duomo e Piazza del Mercato, e lambita dai nuovi flussi, ma mai attraversata dal traffico veicolare. L’area prescelta per l’apertura è quella dell’antico quartiere delle Pescherie, che sorge nel luogo in cui i Longobardi, dopo aver messo la città a ferro e fuoco, insediano nel VII secolo il loro primo accampamento, a ovest delle antiche mura romane e sulle rive del torrente Melo, rinominato Garza in età medievale, per svilupparsi poi nei secoli a ridosso delle principali piazze cittadine (Piazza della Loggia, Piazza Duomo e Piazza del Mercato) e diventare uno dei principali luoghi del commercio di pesce, formaggio, carne e granaglie in città. Popolarmente noto anche come “serraglio” e ricco di osterie e bordelli, è popolato da oltre seicento famiglie, più di tremila persone, che vivono in case strette e alte fino a 25 metri, affacciate su vicoli oscuri e tortuosi, in condizioni igienico-sanitarie che sono considerate le peggiori della città, tanto che la cultura fascista paragona il quartiere a un tumore da estirpare.

FOTO 1. Cartolina d’epoca. Piazzetta delle Pescherie, 1929

Con i fondi stanziati dal Regio Decreto n. 787, del 25 aprile 1929, si espropriano oltre duecento fabbricati, sistemando gli oltre tremila abitanti in precari alloggi di periferia, in alcuni casi semplici baracche, in aree che diverranno nei decenni successivi simbolo del degrado urbano, e i cui abitanti, ancora alla fine degli anni Sessanta, sono indicati come “gli sfrattati”, o sbandinell’icastica definizione dialettale, che sintetizza la loro condizione di marginalità e la memoria dell’espulsione coatta. In meno di due anni si completa lo sventramento, che rade al suolo, oltre a laboratori artigianali, botteghe e facciate affrescate, una delle quali, particolare per i notevoli affreschi del ‘500 con scene di storia romana di Lattanzio Gambara, è stata inglobata nell’edificio delle poste; edifici di importante valore storico quali le antiche pescherie, il macello risalente al Quattrocento, la chiesa romanica di Sant’Ambrogio, i resti della curia ducis romana, le fondamenta della cinta urbana tardo-antica, di una torre, di un palazzo ducale di età longobarda, tre resti di ponti sul torrente Garza. Nel 1970, durante gli scavi per la costruzione del parcheggio sotterraneo terminato nel 1974, vengono ritrovati altri  importanti resti risalenti alle età imperiale e longobarda e, nel 2008, durante gli scavi per la realizzazione della metropolitana di Brescia, vengono alla luce le fondamenta di una torre di epoca medievale.

FOTO 2. Particolare dell’affresco di Lattanzio Gambara in via XXIV Maggio lungo una parete dell’edificio delle poste

 

Il progetto di Piacentini è classicheggiante, ricco di volumi squadrati e ricoperti di lucente marmo bianco. La piazza ha una forma a L, cioè quella di un rettangolo con il lato lungo parallelo all’asse nord-sud e, nell’angolo nord-ovest, la rimanente porzione d’area che costituisce la L, richiamando la forma di un’altra piazza cittadina, Piazza del Foro, di età romana, sulla quale si affaccia il Tempio Capitolino o Capitolium (79 d.C.).

Piazza della Vittoria è progettata come spazio solenne per le celebrazioni e, allo stesso tempo, spazio di vita quotidiana.

FOTO 3a. Cartolina d’epoca. Piazza Vittoria

FOTO 3b. Cartolina d’epoca. Piazza della Vittoria dall’aereo

Secondo alcuni studi l’impianto si ispirerebbe, sia pure con alcune differenze, alla disposizione della piazza minore di San Marco a Venezia, quella che, oltre il Canal Grande, guarda alla chiesa di S. Giorgio.Come nella chiesa palladiana infatti il lato meridionale della piazza, su cui si affaccia l’edificio della Banca Commerciale, è l’unico ad avere un prospetto scolpito dalla presenza dell’ordine gigante; l’unico lambito dal “fiume veicolare” che ricorda il canale, mentre la piazza resta chiusa ai mezzi da due pennoni, ora vicini al palazzo delle poste, allineati agli spigoli dei palazzi laterali, anche se poi, già dal 1935, è utilizzata come area di sosta per automobili private, parcheggiate anche in doppia fila.

Come a Venezia il lato sinistroè il più classicoe si chiude sull’angolo retto interno alla piazza con il Torrione; unico edificio in mattoni come il celebre campanile di S. Marco, ovvero il grattacielo di proprietà dell’INA, il primo in Italia e uno dei primi in Europa, una struttura di cemento armato alta 57 metri, che ricalca il gusto eclettico dei primi grattacieli statunitensi, nonostante il regime imponga di definirlo “edificio multipiano” o “torrione”.

FOTO 4. Grattacielo INA

Marcello Piacentini, in effetti, ricicla per Brescia il progetto di grattacielo con cui nel ’22 aveva partecipato, con esito negativo, al concorso americano per la Chicago Tribune Tower. L’intero edificio si discosta dal candore della bicromia marmorea degli altri edifici della piazza e, ad eccezione del porticato e della parte inferiore del fabbricato, è interamente rivestito con mattoni a vista, a richiamare cromaticamente i tetti in tegola delle costruzioni circostanti e inserirsi armonicamente tra le cupole e le torri medievali.  La facciata principale, rivolta verso la piazza, presenta dodici grandi archi, racchiudenti ognuno le finestre di due piani, e una decorazione di dodici bassorilievi in terracotta, realizzati dal ceramista Vittorio Saltelli, che raffigurano le attività produttive tipiche di Brescia. Sul basamento porticato campeggiava un bassorilievo di Arturo Martini, l’Annunciazione, forse distrutto durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale, forse trafugato, oggi non più visibile. All’ultimo piano, raggiungibile per mezzo di un modernissimo ascensore elettrico, si trovava un ristorante panoramico, poi divenuto lo studio dell’architetto Fedrigolli. Secondo le retoriche cronache dell’inaugurazione, Mussolini avrebbe disdegnato l’ascensore per salire a piedi, “con passo giovanile e rapido”, i tredici piani del grattacielo, raggiungendo per primo la terrazza panoramica, dopo aver seminato chi aveva seguito il suo esempio. L’edificio, archetipo del grattacielo italiano, suscita una vasta eco nella stampa italiana dell’epoca e viene preso a modello per la costruzione di altri simili, in una sorta di “corsa al grattacielo”, bruscamente interrotta allo scoppio della seconda guerra mondiale. Durante il conflitto i suoi sotterranei sono utilizzati come rifugio antiaereo. Affiancato al torrione, sempre sul lato ovest della piazza, si trova il palazzo delle Assicurazioni Generali di Venezia, sulla cui facciata classico-déco spicca un leone alato in bronzo, modellato da Alfredo Biagini, fronteggiato, sul lato opposto della piazza, da un altro simile scolpito sull’edificio della Riunione Adriatica di Sicurtà.

FOTO 5. Il leone alato in bronzo sulla facciata dell’edificio delle Assicurazioni Generali

Sul lato settentrionale della piazza si affaccia la sobria facciata del palazzo delle Poste, con il suo rivestimento in bicromia bianco-ocra; un simbolo civico, in quanto l’edificio sarebbe dovuto diventare il nuovo palazzo comunale, in sostituzione della storica sede di Palazzo Loggia, di cui riprende la triplice apertura, abbandonando però gli archi a favore di tre alti fornici sormontati da architravi. La fitta cortina muraria del lato settentrionale è attraversata da vie pedonali, il quadriportico e una galleria, volutamente allineate alle strade provenienti dalla piazza delle cattedrali per creare un legame con la maglia viaria scomparsa,e a  nord-est della piazza una grande scalinata, che  contorna il Palazzo delle Poste, colma il dislivello creatosi tra Piazza Vittoria e il piano costituito da Piazza della Loggia e via X Giornate.

Unico elemento anomalo nel richiamo ai riferimenti veneziani resta la Torre della Rivoluzione dedicata alla vittoria nella Grande Guerra, una torretta celebrativa piuttosto semplice, con un orologio alla sommità, dalla superficie volutamente liscia, che ospitava le scomparse scritte celebrative del regime e un altorilievo monumentale in bronzo raffigurante il Duce a cavallo, dello scultore Romano Romanelli. L’opera suscita vivaci polemiche già al suo apparire e la critica del tempo “ne disconosce il significato di rimando simbolico fascista e ne sottolinea piuttosto il richiamo a un faro portuale o a una torre comunale, nonché altri edifici palesemente ispirati all’architettura classica”[1]

FOTO 6. La Torre della Rivoluzione

Nel 2014 lo scomparso duce trionfale a cavallo è sostituito dall’istallazione temporanea, realizzata per celebrare il centenario della nascita dell’artista e collezionista d’arte Guglielmo Achille Cavellini, noto anche come GAC.  Sotto la Torre della Rivoluzione resta invece l’arengarioin pietra rossa di Tolmezzo, che fungeva da palco per gli oratori durante le adunanze cittadine,  utilizzato anche da Benito Mussolinidurante la cerimonia di inaugurazione della piazza. È decorato con lastre di marmo lavorate a bassorilievoda Antonio Maraini che raffigurano allegorie della storia di Brescia: dalla Vittoria alata, a ricordo della dominazione romana, al longobardo Re Desiderio, dall’eretico Arnaldo da Bresciaal vescovo Berardo Maggi,dai santi patroni Faustino e Giovitaalle glorie della pittura locale del Cinquecento Romaninoe Moretto, dalle Dieci giornate di Bresciaalla Prima guerra mondialefino all’Era Fascista, recante la scritta, scalpellata via nel dopoguerra ma ancora leggibile, “FASCISMO ANNO X” in riferimento al decimo anniversario dalla nascita del fascismo.

FOTO 7. L’arengario in pietra rossa

Come nella città lagunare, il lato destro della piazza, su cui prospettano palazzo Peregallo, l’edificio della Riunione Adriatica di Sicurtà, il nuovo albergo Vittoria e le sale per le contrattazioni commerciali volute dal Consiglio provinciale dell’economia, contrappone alla monocromia del sinistro il colore, ma del bianco e del verde della scacchiera che impreziosivano le facciate ora resta solamente un labile alone.

Servizio fotografico di Maria Paderno

Cartoline d’epoca dal sito www.bresciavintage.it

 

[1]Paolo Corsini e Marcello Zane, Storia di Brescia. Politica, economia, società 1861-1992,Bari, Laterza, 2014, p. 257

 




Brescia – Memorie divise, memorie non dette (parte prima)

La memoria della Grande Guerra è ampiamente e variamente rappresentata nel reticolo urbano di Brescia attraverso le date di inizio e fine del conflitto per l’Italia, Ventiquattro Maggio e Quattro Novembre; luoghi fortemente evocativi del fronte – dal Monte Grappa all’Isonzo, dal Piave a Vittorio Veneto – e di coloro che vi hanno combattuto, dagli alpini ai “ragazzi del ’99”, dagli “eroi” come Enrico Toti e Francesco Baracca, passando per gli irredentisti come Cesare Battisti e Damiano Chiesa, fino ai maggiori esponenti degli alti comandi militari come Armando Diaz e Luigi Cadorna, per non citare che qualche esempio.

Foto 1-2-3-4.

 

 

 

Luoghi e nomi della Grande Guerra nell’odonomastica cittadina.

Il giudizio storico sulla conduzione della guerrada parte di quest’ultimo è quasi unanimemente negativo, non soltanto per le centinaia di migliaia di caduti al fronte (circa 650.000 su un esercito di un milione e mezzo), ma soprattutto per la sua assoluta mancanza di rispetto per le sofferenze atroci dei soldati nell’inferno delle trincee e per il trattamento disumano riservato ai prigionieri italiani in mani austriache. Oltre centomila sarebbero morti  letteralmente di fame nei campi di prigionia perché Cadorna non agevolò mai l’afflusso di pacchi viveri da casa e attraverso la Croce Rossa. Udine, sede del comando operativo del generale piemontese, modifica l’intitolazione, da Piazzale Cadorna a Piazza Unità d’Italia, nel 2011. Nel 2015 anche a Brescia, come in altre città italiane, tra cui Genova, Lecco, Bassano, Verona e Milano, viene avanzata la proposta, peraltro rimasta inattuata, di togliere Luigi Cadorna dall’odonomastica, poiché, come aveva affermato qualche tempo prima Ferdinando Camon, sostenendo un’analoga proposta a Padova, «aver dato il nome di Cadorna è stato, ieri, un errore. Mantenerlo ancora diventa, ormai, una colpa”.

Foto 5. Intitolazione a Cadorna

Alla memoria della Grande Guerra a Brescia è dedicata anche una piazza, Piazza della Vittoria (in copertina), inaugurata personalmente da Benito Mussolini, nel decennale della marcia su Roma, il 1° novembre 1932, con una cerimonia molto seguita dalla stampa e immortalata anche da un cinegiornale dell’Istituto Luce. In fondo alla piazza, all’esterno dell’abside della chiesa di Sant’Agata, di origine longobarda, è addirittura collocato, come parte dell’arredo urbano, un masso granitico dell’Adamello, a ricordo dei mutilati della prima guerra mondiale.

Foto 6. Il monumento all’Adamello

 

Servizio fotografico di Maria Paderno

 

 

 

 

 

 

 

 

 




La Lungara (terza parte)

Il piano nobile di Palazzo Corsini alla Lungara ospita una quadreria settecentesca, giunta a noi pressoché intatta, con opere pittoriche per lo più italiane e fiamminghe, raccolte dai diversi rami dell’omonima famiglia.

L’allestimento espositivo tiene conto degli antichi inventari corsiniani del 1771 e del 1784 e propone dunque un’attenta una ricostruzione filologica della quadreria originale.

Oltre alla presenza di Cristina di Svezia, che visse e plasmò questi spazi, l’itinerario di genere percorre le otto sale attraverso le protagoniste di alcuni celebri dipinti che consentono una rilettura storica dell’immaginario femminile e si chiude sui pastelli di Rosalba Carriera.

  1. La quadreria Corsini

 

Si inizia, nel vestibolo, con la Cleopatra di Olivieri, esempio di donna coraggiosa che, per non subire umiliazioni, preferì porre fine ad una discussa esistenza con la scelta del suicidio; si continua, nella prima sala, con la Giuditta del Piazzetta, donna eroica, strumento di una volontà superiore, quella divina, che rischia la sua stessa vita per la salvezza del suo popolo e si prosegue nella seconda galleria (la galleria del Cardinale) con gli esempi di Artemisia, simbolo di eterno amore coniugale, e Lucrezia, emblema di pudicizia e virtù, entrambi di Giovan Gioseffo Dal Sole. Incontriamo poi la Andromeda di Furini, figura di esaltata bellezza e sensualità; la Salomè di Reni, protagonista-vittima della vendetta della madre Erodiade,  donna corrotta (opera di Vouet nella sala dei capolavori) e, nello stesso tempo, simbolo della riduzione dell’essere femminile a puro aspetto estetico.

Meritano inoltre una particolare considerazione i ritratti femminili di Faustina come Allegoria della pittura di Maratti e della discussa Fornarina copia da Sebastiano del Piombo, oltre che i saggi di bravura, nella pittura del ritratto a pastello, di Rosalba Carriera, esponente di fama internazionale della pittura femminile del XVIII secolo.

(Arianna Angelelli)

 

Tornati sulla via principale e oltrepassati a sinistra gli edifici della John Cabot University e a destra il palazzo Torlonia, si varca porta Settimiana, con i suoi tipici merli ghibellini.

Il passaggio conserva la capacità di separare due ambienti: alle spalle la Lungara, ricercata e colta nei palazzi d’epoca e le ville affrescate, discreta e ovattata nei giardini appartati e le corti interne, riottosa e sfuggente dietro le vetrate socchiuse e le sbarre dei reclusori; di fronte il cuore vivo di Trastevere, che pulsa nei vicoli mediterranei, sfaccettati, tolleranti, chiassosi, dove tutto è esterno, dai tavolini alle mercanzie, dalle chiacchiere ai panni stesi.

L’attuale porta fu ricostruita da Alessandro VI nel 1498, ma la sua funzione divisoria ha radici ben più antiche: inglobata nelle mura aureliane intorno al III secolo, segnò a lungo i confini della città. Oggi è ancora visibile il punto da cui veniva calata la saracinesca che escludeva dall’urbe la campagna periferica.

  1. Le mura aureliane

A pochi metri dal fornice cinquecentesco s’incontra la prima trasteverina doc, confusa tra storia e leggenda e divisa tra amore e lavoro. Abitava, forse, al numero civico 20 di via di Santa Dorotea, in quella casa d’angolo del’400 che usa colonne di spoglio per sostegno e una finestrella a sesto acuto in ricordo dello sguardo languido di Raffaello. Margherita Luti cuoceva il pane nel cortile dell’attuale ristorante Romolo, quando il pittore, alle prese con gli affreschi di Psiche e Galatea, passando e ripassando sotto quella porta, la vide e se ne innamorò. La Fornarina divenne una leggenda. E forse per dar lustro a qualche vicolo popolare affamato di notorietà, di lei si inventarono troppe case: Santa Dorotea 20, Governo vecchio 48, Cedro 31… E di lei si fecero molti ritratti originali e copie. A pochi metri in linea d’aria, arroccata sulla collina del Gianicolo, la cinquecentesca Villa Lante ospita un’altra Fornarina, disegnata e affrescata da mani anonime, ispirate ai disegni raffaelliti.

Raffaello comunque perse la testa, per il suo corpo, come sostenne il Vasari, o per il suo sguardo, come vuole il racconto popolare. Fatto sta che Agostino Chigi acconsentì a ospitarla in villa pur di veder progredire i suoi affreschi arenati per troppo amore. Forse, come sostengono alcuni, l’innamorata fedele che alla morte dell’artista si rinchiuse nel convento di Sant’Apollonia non è mai esistita e la modella altri non era che una cortigiana affacciata alla finestra per adescare i clienti; in ogni caso Raffaello ne immortalò quell’espressione intensa e la diffuse, nelle sue molteplici forme, tra Firenze, Foligno, Bologna, Roma, a suggerire la complessa poliedricità della bellezza femminile.

  1. La Fornarina di Raffaello alla Galleria Borghese di Roma

Prima di risalire la via Garibaldi alla volta del Gianicolo, vale la pena affacciarsi su via della Scala, naturale estensione della Lungara, e visitare l’omonima farmacia: il piano superiore, risparmiato dal trascorrere dei secoli, conserva l’antica spezieria papale, con i laboratori e gli arredi originari. L’attigua chiesa, Santa Maria della Scala, fu trasformata in ambulanza ai tempi della repubblica romana e vide all’opera le tante infermiere laiche e patriottiche che, a disprezzo delle critiche, continuarono a offrire i loro preziosi servigi.

  1. La spezieria papale

Voltato l’angolo destro, si risale la viuzza fino al primo incrocio, che immette su via del Mattonato dove, al numero 17 ha trovato i natali “la donna più bella del mondo”: Lina Cavalieri.

 

Estratto da: Maria Pia Ercolini, Roma. Percorsi di genere femminile. Volume 1. Iacobelli edizioni (2011)

 

 




Viaggiatrici. Le tournée di Clara Schumann Wieck

Di Federica Chmielewski

 

In un contesto culturale e sociale come quello del XIX secolo dove l’ambito della musica era prevalentemente riservato agli uomini, sono riuscite a distinguersi grandi esecutrici e compositrici, tra le quali emerge la figura di Clara Wieck.

Clara è una donna determinata: pianista, compositrice, manager di se stessa e del marito Robert, insegnante, madre di otto figli e artista completa che riesce a calcare con successo i più grandi palcoscenici d’Europa per sessant’anni.

Figlia di un musicista, comincia molto presto la sua carriera di pianista, tanto da essere considerata “Wunderkind”, una bambina prodigio, e, successivamente, la più grande pianista dell’Ottocento.

I segni di modernità e di indipendenza sono da ricondurre ai suoi genitori: sua madre non rinunciò mai alla sua carriera di insegnante di musica, sebbene dovesse conciliare il suo lavoro con il ruolo di madre e governante di casa; suo padre, Friedrich Wieck, insegnante di musica ambizioso e molto severo, accetta il divorzio dalla moglie ma non vuole rinunciare alla figlia Clara, che nei piani del padre, avrebbe dovuto essere la rappresentazione vivente degli esiti positivi del suo metodo didattico.

Friedrich introduce la sua figlia prediletta allo studio della musica; la sua mente aperta e orientata al successo induce Clara a intraprendere il primo viaggio musicale già nel 1831-32 a Parigi, all’età di 12 anni; pur essendo ancora una bambina, il papà è cosciente che la figlia non deve essere considerata un genio solo perché ancora molto giovane ma ha intenzione di formare una pianista solida, virtuosa e improvvisatrice. A partire dalla sua prima tournée (durata 4 mesi e mezzo) la vita di Clara è scandita da continui viaggi in Germania e all’estero; ciò le permette di visitare città, di esibirsi e di incontrare personalità di spicco come Johann Wolfgang von Goethe, il quale, in occasione di un suo concerto a Weimar, rimane talmente colpito dalla giovane Clara da inviarle un biglietto di ringraziamento e una medaglia di bronzo che lo ritraeva.

Durante il viaggio che l’avrebbe condotta a Parigi, Clara si esibisce non solo a Weimar ma anche a Erfurt, Gotha, Arnstadt, Kassel, Francoforte sul Meno e Darmstadt; malgrado il grande lavoro da impresario e la precisa organizzazione del padre nella prima tournée non sembra aver dato alla famiglia la soddisfazione attesa da un progetto così grande per una musicista così giovane. Ciò non scoraggia Wieck, che tra il 1834 e il 1835 progetta una seconda tournée; nell’inverno del 1835 Clara si esibisce con grande successo ad Hannover con 5 concerti, a Magdeburgo, Schönebeck; Halberstadt, Brunswick, Brema, Amburgo.

Clara Wieck at the age of 16, in Hannover, Germany. On the piano is the solo part of the third movement of her Concerto op. 7. Lithograph by J. Giere, 1835.

FOTO 1. Clara Wieck all’età di 15 anni. Litografia di Julius Giere, 1835 conservata presso la “Robert-Schumann-Haus”, Zwickau

A poco a poco Clara Wieck da promessa della scena musicale europea diventa concertista acclamata e prosegue i suoi viaggi negli anni successivi: nel febbraio del 1837 la sua tournée parte da Berlino, prosegue poi a Praga, dove, alla fine del primo dei 3 concerti in programma, viene chiamata sul palcoscenico ben 13 volte ad accogliere il plauso del pubblico. La sua tournée approda a Vienna, dove rimane 6 mesi.

Il soggiorno viennese la consacra tra i più grandi virtuosi del tempo, Clara regge il confronto con musicisti quali Thalberg, Henselt e Liszt; l’autore Franz Grillparzer, che aveva tenuto l’elogio funebre ai funerali di Beethoven, le dedica un componimento nella Wiener Zeitschrift; a Vienna scoppia una “Clara-Wieck-Fieber” tanto che alcune pasticcerie della città partecipano a un concorso per la creazione della migliore “torte à la Wieck”. In tutto questo l’apoteosi della sua grandezza è data dalla nomina a “Kammervirtuosin” (pianista di corte imperiale) da parte dell’imperatore Ferdinando I.

La scelta da parte dell’imperatore non è scontata poiché Clara è donna, straniera in territorio viennese e protestante in un impero cattolico.

Nel 1839 Clara Wieck affronta uno scontro molto accesso con il padre a causa del suo fidanzamento con Robert Schumann, ex allievo di Friedrich Wieck, e parte per la prima volta da sola per un secondo viaggio a Parigi.

Terminata questa prima fase della sua carriera, il secondo grande periodo di viaggi e tournée coincide con l’inizio della vita matrimoniale con Robert Schumann e con i concerti con lui intrapresi.

Testimonianze dirette sono riscontrabili in un diario che i due coniugi cominciano a scrivere il giorno del loro matrimonio e dove sono annotati momenti quotidiani della loro vita familiare e considerazioni sui luoghi, i concerti, e le personalità conosciute in occasione di alcune tournée.

Sono particolarmente interessanti i racconti dei viaggi che Clara descrive minuziosamente, caratterizzati talvolta da un tono critico e pungente a causa di contrattempi e disagi; la sua narrazione della Svizzera Sassone, ad esempio, con i suoi paesaggi rocciosi e i suoi castelli caratteristici è solo la prima di una lunga serie.

La sua vita quotidiana la pone di fronte alla ricerca continua di un equilibrio tra i suo ruoli di pianista, madre e moglie:

“Vorrei davvero viaggiare, quest’inverno e anche il prossimo, e poi lasciare il pubblico, tornarmene alla mia vita di casa e dare delle lezioni. Potremmo vivere senza problemi – pensaci ancora una volta davvero seriamente, mio caro marito” (Schumann R., Wieck C.; Casa Schumann, Diari 1841-1844, EDT, Torino, 1998, p. 25.).

Non sempre riesce nell’intento, tanto da scrivere con evidente rammarico che si trova costretta a non poter studiare la mattina per non disturbare l’attività lavorativa del marito.

Schumann, dal canto suo, si rende conto della difficoltà della moglie di conciliare vita privata e carriera musicale, si chiede cosa pensi il mondo di una coppia così anticonformista per il periodo e non vuole che Clara rinunci al proprio talento tanto da pensare a una soluzione estrema:

“E tu dovresti […] lasciare inutilizzato il tuo talento perché io sono incatenato alla mia rivista o al mio pianoforte. Proprio ora che sei giovane, fresca e piena di energia? Abbiamo trovato una soluzione. Tu hai un’accompagnatrice e io sono tornato a casa dalla bambina e al mio lavoro. Ma cosa dirà il mondo? Questi pensieri mi tormentano. Bisogna che troviamo il modo di utilizzare e sviluppare parallelamente i nostri talenti. Sto pensando all’America” (Ivi, p. 94).

In realtà due non andranno mai oltreoceano ma, nonostante le difficoltà, la carriera di Clara prosegue e, oltre alle numerose esibizioni in Germania, la pianista intraprende diversi viaggi all’estero: a Copenaghen, ad esempio, città che entrambi i coniugi descrivono da due punti di vista differenti nel loro diario.

Le narrazioni di Clara dei viaggi sono sentite, particolarmente dettagliate e suggestive, come nel viaggio di ritorno in Germania dalla Danimarca:

“Il viaggio è stato meraviglioso, la nave procedeva quasi immobile. Per dieci ore rimanemmo all’ancora a causa della nebbia, ma la mattina vedemmo l’aurora più incantevole che mai, proprio mentre giungevamo davanti all’isola di Möhen” (Ivi, p. 111).

Nel 1844 Clara si esibisce in una tournée in Estonia, in particolare a Riga, durante la quale non sembra essere particolarmente felice del gusto musicale degli estoni; da Riga la coppia si dirige in Russia.

Nel diario Clara descrive le peripezie del viaggio, i numerosi incontri, i successi dei concerti, i paesaggi innevati e le temperature gelide; lo fa sempre in modo preciso senza risparmiare critiche taglienti nei confronti di alcuni personaggi o episodi piacevoli:

“In Russia, la gente ricca e potente possiede certo una pazienza infinita, se dopo un intero concerto si adatta ad aspettare ancora per ore la propria vettura – a queste condizioni, nessuno mi trascinerebbe ad un concerto”.

Nel Diario si può evincere che Clara entra in contatto con diverse tradizioni, costumi e contraddizioni, scopre così che alcune maniere che considera inizialmente atteggiamenti bruschi sono, in realtà, solo usi a lei sconosciuti:

“Molto sconcertante fu per me il fatto di non ricevere mai, a Mosca, visite di signore della noblesse. […]. Questo mi colpì e mi offese non poco, poiché non ero abituata a un simile comportamento. […] Più tardi, Rheinardt mi spiegò che a Mosca non si usa far visita a donne che esercitino un’arte: non lo si fa mai” (Ivi, p. 208).

Malgrado le difficoltà della vita di tutti giorni con una famiglia numerosa e un marito fragile fisicamente e mentalmente, Clara Wieck Schumann prosegue la sua carriera da concertista; ciò le offre la possibilità di sostenere il bilancio famigliare anche quando la malattia di Robert comincia ad aggravarsi: esegue concerti in tutta la Germania (Francoforte, Amburgo, Altona, Lubecca, Brema, Berlino, Breslavia, Lipsia…) per poi spostarsi in Olanda.

Nel 1856 Clara Schumann, subito dopo la morte di Robert, supera i confini continentali e si esibisce in ventisei concerti in diverse città tra cui Londra, terza capitale musicale europea del XIX secolo, dopo Parigi e Vienna, Manchester, Liverpool, e Dublino. Cominciano gli anni che Berthold Litzmann, biografo della Schumann, definisce “Wanderjahre”, “gli anni di vagabondaggio”, in cui la pianista calca instancabilmente i più importanti palcoscenici d’Europa mantenendo e confermando il suo talento. Seguono poi diversi viaggi in Inghilterra tra il 1857-1859 e il 1866-1888, soprattutto con l’intento di assicurare una vita dignitosa ai suoi figli rimasti in Germania.

In conclusione, la carriera di Clara si è sviluppata in particolare in territorio tedesco, mitteleuropeo, olandese, belga e inglese con alcuni rilevanti episodi in Russia e Danimarca. Benché non ci siano testimonianze dirette della grandezza delle esecuzioni di Clara Schumann Wieck in incisioni sui rulli di cera, la sua figura è rilevante ancora oggi poiché ha contribuito profondamente a scardinare le vecchie tecniche pianistiche, le idee e i preconcetti sulla figura femminile in ambito artistico, realizzando ciò a cui ha sempre aspirato con costante impegno, ostinazione e determinazione.

FOTO 2. In omaggio alla grandezza di Clara Wieck Schumann, la sua immagine fu impressa sulla banconota da 100 marchi tedeschi

FOTO 3. Roma. Un viale a lei dedicato all’interno della Villa Pamphili

 




La Lungara (seconda parte)

Di fronte alla villa che ospita l’Accademia dei Lincei, al numero civico 10 di via della Lungara, si entra al palazzo Corsini, la cui struttura originaria risale al primo ventennio del 1500, quando il cardinale Raffaele Riario acquistò una vigna fuori Porta Settimiana facendovi costruire la sua abitazione.

FOTO 1. Palazzo Corsini. Esterno

Il palazzo fu scelto come residenza romana, tra il 1659 e il 1689, dalla regina Cristina di Svezia, giunta a Roma dopo la sua abdicazione al trono e la conversione al cattolicesimo.Con Cristina la villa ebbe il suo massimo splendore: dal parco, dove fece piantare un numero straordinario di piante, edificare terrazze e fontane, fino al palazzo, il cui arredamento fu degno di una sovrana.

Ad abbellire la nuova dimora vi erano, al pianterreno, un susseguirsi di statue e busti antichi e una straordinaria Sala delle Colonne con le statue di Apolloe delle Nove Musee, al centro, una poltrona sotto un baldacchino, dove Cristina riceveva in solenne udienza. Il primo piano era impreziosito da ricchi fregi e tappezzerie; una sala del trono con accessori dorati e arazzi; una galleria di quadri di Correggio, Tiziano, Raffaello, Dürer; un gabinetto delle medaglie, la biblioteca e, in ultimo, l’appartamento privato di Cristina.

Attorno alla regina gravitava un ambiente cosmopolita che faceva del palazzo una reggia capace di competere con qualsiasi corte europea e un centro propulsore di spettacoli, concerti, dibattiti sull’arte e la letteratura, la scienza e la politica.

FOTO 2. Galleria Corsini

La sovrana svedese fu indubbiamente una delle donne più colte, indipendenti e spregiudicate del suo tempo. Ebbe la fortuna di essere educata come un uomo e di avere fra i suoi insegnantiil grande filosofo René Descartes, che era anche matematico e fisico e che probabilmente instillò nella sua allieva un profondo
desiderio di conoscenza e ladotò di una grande apertura
mentale. Certo è che il suo
spirito ribelle e la sua smania
di sapere vennero visti con
grande simpatia dalle menti
più progressiste dell’epoca. La
curiosità che destava Cristina nei suoi contemporanei è testimoniata anche dai pettegolezzi che circolavano circa
la sua vita privata. Si vociferò
di diverse storie d’amore, ma
quella che fece più scalpore fu
la presunta relazione con una
delle più belle dame di corte, Ebba Sparre. Oltre agli amati libri, Cristina apprezzava la vita errabonda all’aria aperta, la musica, la pittura, la botanica e l’alchimia. Non è un caso che a via della Lungara avesse messo su un laboratorio alchemico nel quale trascorreva lunghe ore intenta a rimescolare polveri di piombo, mer- curio, zolfo, antimonio e forse anche diamante alla ricerca della pietra filosofale, e che avessescelto una residenza dotata di un già all’epoca importante orto botanico dove ancora oggi troviamo un albero, il fagus sylvatica, che fu intro- dotto dalla regina insieme ad altre specie e due vasche di marmo a lei appartenute e sistemate all’interno della “serra tropicale”.Essendo una donna forte e volitiva, Cristina temeva solamente una cosa: perdere la libertà. Probabilmente il motivo che la portò nel 1654 ad abdicare al trono in favore del cugino Carlo Gustavo e
ad abbracciare la fede cattolica fu proprio determinato dalla pressione esercitata su
di lei affinché si sposasse per esigenze dinastiche. La scelta religiosa fu poi decisamente arguta. Ben conoscendo lo scenario politico europeo, avendo percorso il continente in lungo e in largo, vedeva nella città eterna il luogo ideale per stabilirvi la sua corte ed esercitare il proprio mecenatismo in ambito artistico-musicale.

(Leila Zammar)

 

Nel 1736, dopo l’elezione al soglio pontificio di Lorenzo Corsini con il nome di Clemente XII, il palazzo venne acquistato dal cardinale Neri Corsini e da suo fratello Bartolomeo che commissionarono il progetto di ristrutturazione all’architetto fiorentino Ferdinando Fuga. Il corpo settentrionale fu destinato ad accogliere nuovi appartamenti e la biblioteca Corsiniana, aperta al pubblico fin dal 1754; alla sezione affacciata sulla Lungara fu aggiunto un corpo centrale destinato a contenere la scenografica scala a doppia rampa e, per ampliare i locali, venne realizzata una seconda ala sul lato destro, speculare a quella cinquecentesca a cui si raccordava sul retro tramite portici terrazzati.

Nuovo fu anche l’assetto conferito al giardino che si estendeva, senza soluzione di continuità, sino alle pendici del Gianicolo. In basso si apriva un giardino all’italiana e la Scalinata delle Undici Fontanedisegnata dal Fuga, in alto un bosco selvaggio, con esedre e fontane ricoperte di edera, e infine orti e vigne. Alla sommità, da un magnifico Casino sempre di proprietà Corsini, oggi perduto, era possibile godere della vista su Roma e sulla vicina campagna.

FOTO 3. Palazzo Corsini nel 1872

Nel 1883 l’intera proprietà venne ceduta allo Stato italiano: la biblioteca e la raccolta di stampe vennero donate all’Accademia dei Lincei, l’antico giardino divenne sede dell’Orto Botanico di Roma e la collezione di dipinti costituì il primissimo nucleo della Galleria Nazionale d’Arte Antica della città di Roma.

La Galleria Corsini offre oggi la possibilità di percorrere le sue sale in ottica di genere, seguendo un itinerario che spazia dalla scultura alla pittura, dalle figure femminili ritratte alle protagoniste dei suoi spazi museali.

FOTO 4. Orto botanico

Per visitare l’Orto botanico, collegato al dipartimento di Biologia Vegetale della Sapienza, si prende a destra su via Corsini e si percorre l’intera strada che va a chiudersi sullo slargo dedicato alla regina svedese.

Foto 5. Largo Cristina di Svezia

Nelle mattinate di sole, è il regno delle mamme e delle baby sitterstraniere, che sembrano apprezzare più delle giovani nostrane il giardino mediterraneo, il roseto storico, il viale delle palme, le specie montane, la foresta di bambù e soprattutto il silenzio, interrotto soltanto a mezzogiorno, quando dall’alto del paradiso giapponese riecheggia il colpo di cannone del Gianicolo.

FOTO 6. Foresta di bambù all’interno dell’Orto botanico

 

Estratto da: Maria Pia Ercolini, Roma. Percorsi di genere femminile. Volume 1.Iacobelli edizioni (2011)