Dopo anni di lotte, arresti, insulti, vessazioni, dopo campagne social planetarie come “Io guido con Manal”, a sostegno di Manal ash-Sharif che si fece riprendere alla guida violando la legge saudita che impediva alle donne la possibilità di conseguire la patente e di mettersi al volante, il re Salman ha fatto decadere il divieto.
Dunque non più ostaggio dei ritardi, dei capricci, delle dispute con gli indispensabili traghettatori, parenti maschi o autisti di professione, cui doversi sottomettere per potersi muovere, ma libere dal loro “guardiano”, a dispetto dei teologi wahabiti, esponenti del tradizionalismo sunnita che vige in Arabia Saudita, sempre ostili e contrari a questa incredibile autonomia femminile, più intangibile che il diritto di voto: guidare l’automobile.
La revoca è entrata in vigore il 24 giugno scorso, celebrata dalla versione araba della rivista di moda Vogue, con la principessa Hayfa bint Abdullah al Saud, una delle figlie del defunto re Abdullah, ritratta al volante di una decapottabile rossa.
Il permesso di guida sostenuto dal principe ereditario Mohammed Bin Salman, che ha avviato un programma di riforme per innovare un Paese, tra cui la possibilità di entrare negli stadi o di essere imprenditrici senza il consenso di un parente uomo, potrebbe cambiare la vita delle saudite. La ragione del via libera si fonda principalmente su motivazioni economiche.
Ma perché proprio ora?
Per la prima volta dopo sessant’anni l’Arabia Saudita è in una grave situazione economica; non più sostenuta dagli ingenti introiti petroliferi ha bisogno dell’apporto lavorativo di uomini e donne. Una popolazione giovane sotto i trent’anni in rapido incremento non permette di mantenere i livelli attuali di assistenza sociale ai ventidue milioni di abitanti della monarchia assoluta. L’ambizioso programma economico promosso dal principe Bin Salman, SaudiVision2030 vuole trasformare l’economia basata sul petrolio in un’economia post-petrolio dipendente, e immettere la maggior parte della popolazione nel mercato del lavoro con criteri rivoluzionari per la tradizione del paese: rinuncia all’apporto dei milioni di immigrati forza lavoro, accesso alle carriere per merito e capacità, non per appartenenze tribali familiari.
Le donne sono la chiave di volta del cambiamento: meglio istruite, meno riluttanti degli uomini a svolgere lavori di cura, più desiderose di assumere ruoli attivi.
La tradizione saudita le pone in una posizione subordinata nella rigida società patriarcale e tribale. La sottomissione alla custodia maschile e il divieto di guida sono stati finora l’ostacolo insormontabile per far crescere il numero di donne impiegate come forza lavoro. La classe media odierna non può sostenere le spese di un autista per portare le donne al posto di lavoro; istituzionalizzare l’assenza dal lavoro del marito per portare la moglie dal medico dal dentista o a fare la spesa in assenza di mezzi pubblici adeguati e fruibili per le donne, è inconcepibile. Alla fine meglio togliere il divieto alla guida per le donne, per il bene dell’economia del Paese, con l’intento di alzare il rapporto di solo una donna su cinque occupati, beneficiando del loro sapere e dello stimolo inevitabile che la loro presenza pubblica darà al mercato del lavoro.
In uno Stato in cui la situazione dei diritti umani resta in ogni caso critica, decine di attiviste per il loro impegno nella difesa dei diritti delle donne sono in carcere: far guidare l’automobile alle donne è insieme uno specchio per le allodole e una questione cruciale.
L’istallazione dell’artista Manal Al Dowayan, uno stormo di duecento colombe di carta in volo realizzata con i permessi di viaggio delle donne, era la denuncia delle leggi di tutela che interdicevano possibilità alle saudiane di guidare e di essere indipendenti. Oggi grazie alla patente le donne potranno spiccare il volo. Questa riforma davvero farà valicare quei confini di autonomia, gli hudud inviolabili, o si limiterà a spostare gli steccati?
Figura 1