Biji Serok Apo

Il 4 aprile presso il centro culturale curdo Ararat di Roma si è celebrato il sessantanovesimo compleanno di Abdullah Öcalan, noto anche come Apo, presidente e fondatore del PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan).

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Öcalan, nato nel Kurdistan turco nel 1949 (anche se alcune fonti sostengono nel 1948), ha studiato scienze politiche all’università di Ankara partecipando alle agitazioni studentesche dei primi anni Settanta. Nel 1978, su posizioni marxiste-leniniste, Apo ha fondato il PKK, il quale nel 1984 è entrato in clandestinità dando inizio a una lotta armata contro Turchia, Iraq e Iran volta a costituire uno stato curdo indipendente.

Tra il 1984 e il 2003 l’esercito turco ha ucciso più di trentamila persone curde, alcuni combattenti ma moltissimi civili, nel tentativo di schiacciare la lotta del PKK. I decenni successivi al 1984 hanno visto il leader curdo peregrinare continuamente alla ricerca di un luogo dove ottenere asilo politico, che nessuno Stato gli ha mai concesso: le pressioni della Turchia, membro della NATO e importante partner commerciale dell’Europa, hanno spinto sia gli Stati Uniti che l’Unione Europea a inserire il partito curdo nella lista delle organizzazioni terroristiche internazionali.

Giunto in Italia nel 1999 sotto il governo D’Alema, Öcalan si è consegnato alla polizia italiana nella speranza di ottenere asilo politico, ma la Turchia ha minacciato di boicottare le aziende italiane, costringendo il governo a mantenere la prudenza (quando in Italia la facoltà di concedere o negare un asilo politico spetterebbe alla magistratura e non al governo). Su implicito consiglio italiano, Öcalan si è recato in Kenya, dove è stato catturato dai servizi segreti turchi.

Pochi giorni dopo, la magistratura italiana ha riconosciuto che Abdullah Öcalan avrebbe effettivamente avuto diritto all’asilo politico in Italia in quanto i suoi diritti democratici in Turchia non erano garantiti. Peraltro, la Costituzione italiana sancisce chiaramente che «lo straniero, al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica» (articolo 10) e che l’estradizione «non può in alcun caso essere ammessa per reati politici» (articolo 26). Ad aggravare il tutto, va ricordato che all’epoca dei fatti in Turchia era ancora in vigore la pena di morte (abolita solo nel 2002 su pressioni dell’UE). Da allora Öcalan, condannato prima a morte poi all’ergastolo, è rinchiuso in un’isola-carcere turca nel Mar di Marmara.

Negli anni, il PKK ha abbandonato le posizioni marxiste-leniniste di partenza e, al posto di uno Stato curdo indipendente, ha iniziato a lottare per una convivenza pacifica tra i popoli del Medio Oriente. Dal carcere Öcalan ha elaborato la teoria del confederalismo democratico, proponendo una società basata sul rispetto dell’ambiente e sull’emancipazione delle donne che punti a liberare l’umanità del capitalismo e dal patriarcato. È stata addirittura proposta una commissione d’inchiesta bilaterale che valuti i crimini di guerra commessi sia dall’esercito turco che dalle milizie curde. Ma questo non ha fermato la repressione da parte dello Stato turco.

Durante le guerre del Golfo la NATO ha continuato ad accusare di terrorismo il PKK ma ha contemporaneamente finanziato la lotta indipendentista del Kurdistan iracheno per indebolire il governo di Saddam Hussein a Baghdad. Per evitare gli attacchi turchi, le basi del PKK sono state trasferite sui monti del Qandil, nel Kurdistan iracheno. Nel frattempo, a partire dal 2011, la guerra civile in Siria ha permesso alla popolazione del Kurdistan siriano di organizzarsi autonomamente approfittando delle difficoltà del governo di Damasco e rendendo così effettivo il confederalismo democratico, grazie anche alle Unità di difesa del popolo curdo (YPG) e alle milizie femminile (YPJ) che si possono considerare sorelle siriane del PKK turco.

Nel 2013 a Parigi sono state assassinate tre donne curde, tra cui la cofondatrice del PKK Sakine Cansiz: i responsabili degli omicidi, molto probabilmente legati ai servizi segreti turchi, non sono mai stati identificati e lo Stato francese non è intervenuto nella vicenda. Per assolversi da ogni responsabilità, il governo di Ankara ha fatto circolare la voce di una resa di conti interna al PKK.

Nel centro culturale Ararat il volto di Öcalan è raffigurato ovunque, insieme alla bandiera rossa del PKK. Nel pomeriggio del 4 aprile in omaggio al leader curdo è stato piantato un albero di ulivo: a mettere la nuova pianta nel terreno del giardino sono state le donne della comunità curda, in quanto le donne, per loro natura, generano la vita.

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Poi le danze si sono protratte fino a sera sotto lo slogan Biji serro Apo (Viva il presidente Apo). Tra le persone presenti alla cerimonia regna l’entusiasmo ma anche la tristezza: Apo è in carcere da diciannove anni e da due non se ne hanno notizie, soffocato da un isolamento che non permette di conoscere nemmeno le sue condizioni di salute.

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Nel 2016 la giunta De Magistris gli ha conferito la cittadinanza onoraria della città di Napoli.

Oggi la nipote di Apo, Dilek Öcalan, eletta nel parlamento turco con l’HDP (Partito democratico dei popoli, disarmato ma filocurdo) è in carcere: secondo il dittatore Erdogan, l’HDP costituirebbe il braccio legale del PKK. Ma la colpa di Dilek Öcalan, formalmente accusata di «propaganda per un’organizzazione terroristica», consiste nell’aver partecipato al funerale di un partigiano curdo ucciso nel 2016 dalle truppe di Ankara.