Che genere di scuola
Non so se e come il nuovo Governo del Paese affronterà il tema dell’educazione di genere, che fu sia pur sommariamente e vagamente inserito dal Governo Renzi nella legge chiamata “Buona scuola”.
Nessuno ha la minima idea dell’opinione in materia del nuovo responsabile del Miur. Io so solo ciò che è accaduto finora. So solo che è profonda e diffusa l’esigenza di un cambiamento (sì, quella parola che tanto piace ai nuovi poteri).
All’interno dell’istituzione scolastica si è assunto sempre che contenuti e metodi della formazione fossero neutri rispetto alle differenze, e che bastasse non nominarle per contrastare le disuguaglianze.Èstata spesso presente una forma di negazione dell’aspetto sessuato della persona, ma l’imbarazzo o il silenzio sono anch’essi una potente trasmissione di messaggi, che consegnano alla clandestinità emozioni, desideri, interrogativi. Se gli e le adolescenti non fanno domande, questo non significa che non ne abbiano, in un momento storico in cui si incrociano possibilità plurime di essere e divenire donne e uomini.
I nostri ragazzi sono liberi di crescere ed esprimersi secondo le loro inclinazioni, o sono ancora soggetti a una “prova di virilità” che ne condiziona comportamenti e modi di fare? Quali sono le loro reazioni alla nuova libertà femminile nel mondo, alla crescente presenza delle donne nel lavoro, nella cultura, nella politica? E quali resistenze oppongono le ragazze alla crescente mercificazione dei corpi femminili che è la faccia regressiva, distorta e mistificata di quella libertà?
La scolarizzazione di massa è stata probabilmente il fenomeno che con maggior forza ha segnato il mutamento femminile della percezione del sé, introducendo percorsi uguali e condivisi, ponendo tutti e tutte di fronte agli stessi obiettivi. La scuola però non ha accompagnato questa sua straordinaria funzione con una riflessione adeguata, ma si è limitata a far convivere in modo casuale e frammentario la pratica del nuovo con l’andazzo tradizionale.
Nonostante queste premesse mi colpisce – quando vado in giro per l’Italia – il fatto che da parecchi anni siano tante e tante le docenti che manifestano il desiderio e la necessità di introdurre nella didattica quel doppio sguardo (uno sguardo non in-differente) che non hanno trovato nella propria formazione di base. Dovrebbero essere sostenute da sponde politiche autorevoli, e questo non avviene.
La critica profonda e corrosiva alla cultura patriarcale non ha trovato ancora nei vertici della scuola una sponda forte.
Come si fa a contribuire all’evoluzione democratica di una società, se le competenze di chi va a insegnare non prevedono la conoscenza del percorso storico, culturale, sociale e politico di metà della popolazione? In che modo si possono formare giovani cittadine forti e consapevoli, quando le discipline scolastiche non parlano di loro, non parlano a loro? Come si fa a superare la visione androcentrica del mondo?
Che lo si voglia vedere o no, le femministe han già scardinato, e non si stancano di farlo, le impalcature del logosoccidentale e del discorso incentrato su di esso. Questo sì, è stato un cambiamento radicale.
L’alternativa ora non è se tenere conto o meno del genere a scuola, ma se assumerlo come si è sempre fatto, con un ordine implicito, invisibile e dunque immutabile, oppure se fare dei percorsi di apprendimento e delle relazioni pedagogiche un’occasione per una maggior consapevolezza dei modelli di riferimento che naturalizziamo ed eternalizziamo senza prevedere aree di problematizzazione.
Se vogliamo andare avanti, o se accettiamo di essere rimandate indietro. Il pericolo esiste.