Checché ne dicano molti pseudospecialisti, le preferenze cromatiche non sono inscritte nei cromosomi.
Fino agli anni ’50 del secolo scorso non c’era una netta distinzione tra colori “maschili” e colori “femminili”: il rosa e l’azzurro erano intercambiabili, anzi il ‘cilestrino’, così etereo, era ritenuto adatto alle donne (si pensi al velo della vergine Maria; di contro spesso Gesù è rappresentato con un manto rosso sangue).
Fin dall’antichità bambini e bambine indossavano fino all’età della pubertà tuniche bianche, più facili da lavare e meno costose da riparare se rovinate o strappate.Verso la metà dell’800 iniziarono ad apparire i primi colori “pastello”, ma non si faceva una distinzione basata sul genere: tutti potevano indossare di tutto.
Gli uomini hanno a lungo indossato tranquillamente il rosa, come dimostra il celebre “pink suit”, indossato da Jay Gatsby nel Il grande Gatsby, il capolavoro di F. Scott Fitzgerald (1925). Il colore era infatti considerato simbolo di dinamismo e di mascolinità, una versione smorzata del rosso più adatta alla vita sociale, più lontana dall’accezione bellicosa che il sangue richiamava.Ancora: la mitica Cadillac rosa appartenne ad Elvis Presley, una specie di super maschio. Rosa è ancor oggi il colore del Giro ciclistico d’Italia.
In un’edizione del 1918 di Earnshaw’s Infants’ Department , rivista di moda per l’infanzia, si legge: Il rosa, essendo un colore più deciso e forte, risulta più adatto al maschio, mentre il blu, che è più delicato e grazioso, risulta migliore per le femmine.
Il cambiamento cominciò in Italia con il fascismo (blu era la bandiera dei Savoia, l’azzurro fu scelto per le squadre sportive nazionali), poi fu consacrato ovunque dall’arrivo – nel 1959 – della bambola Barbie, icona massima di femminilità.
A partire dai decenni successivi, e soprattutto dagli anni ’80, il marketing abolì i vestiti unisex e impose la regola per cui il colore di riferimento per le donne era il rosa, per i maschi l’azzurro (così sarebbe stato più probabile raddoppiare le vendite).
Oggi è la regola, diventata un automatismo, intoccabile quasi come un dogma religioso. Quando ne parlo nelle scuole, gli e le studenti strabuzzano gli occhi: “Ma come? è così naturale!”.
Pinkizzare, pinkizzazione sono stranierismi che si riferiscono alla tendenza a colorare di rosa tutto ciò che attiene al femminile: rosa il fiocco alla nascita, la tutina da neonata, il grembiulino all’asilo; rosa i vestiti e i giocattoli delle bambine, le pareti e i soprammobili delle camerette; rosa gli oggetti e gli accessori delle donne, rosa perfino i loro tablet e i loro telefonini.
Letteratura rosa, stampa rosa. Principessa rosa (e ovviamente Principe azzurro, in francesePrince charmantche significa solo ‘bello’). Lo sport in rosa. Le quote rosa. Il codice rosa. Fabbricano perfino moto e automobili rosa, che un uomo non comprerebbe mai.
Non è solo una questione cromatica: anche un ruolo sociale viene di fatto inculcato grazie anche a questa segregazione nell’educazione di tutti e di tutte. Anche un’identità.
Mentre il celeste, benché indichi preferibilmente il maschio, può essere portato anche dalle femmine senza temere che l’identità sessuale ne soffra, il rosa, quando è attribuito al maschio, chiama lo scherno, pare beffa della virilità: non a caso, rosa era il triangolo che nei campi di concentramento nazisti gli omosessuali erano costretti a esibire sulla giubba.
In America di tutto questo si è occupata Jo B. Paoletti, storica e autrice del libro Pink and Blue: Telling the Girls from the Boys in America.
In Italia ne parla Pink is the new black,un testo di Emanuela Vannicola e Luisa Stagi (ed. Rosenberg & Sellier) che indaga, con l’approccio della sociologia, il tema degli stereotipi di genere. Un bel libro che consiglio.
E invito a scegliere per sé e per i pargoli vestiti e giochi perché piacciono e non perché si è abituati così. ‘Scegliere’ è un verbo bello, che sa di libertà. Un’altra parola bellissima.