I problemi del nuovo Stato. La questione meridionale e la questione romana

Nel 1861 si assiste alla proclamazione del Regno d’Italia con capitale Torino; nel 1866 viene annesso il Veneto e la capitale è spostata a Firenze; nel 1870, approfittando della sconfitta francese nella battaglia di Sedan, l’esercito sabaudo entra a Roma e ne fa la capitale del Regno, nonostante i precedenti accordi con la Francia prevedessero di non toccare la città papale. La costruzione del Regno d’Italia non è stata tanto un’unificazione nazionale quanto piuttosto l’espansione di uno Stato sugli altri della penisola: ne è prova anche la scelta del Re Vittorio Emanuele II di non cambiare nome in Vittorio Emanuele I. Con queste premesse, la formazione del Paese non può certo essere un processo democratico e indolore.

L’Italia si è formata mettendo insieme zone con economie diversissime, creando quindi un confronto diretto tra ricchi e poveri che non poteva non danneggiare gli ultimi. I primi passi dell’economia nazionale sono tutti a vantaggio delle zone corrispondenti all’ex Regno di Sardegna. Nei decenni iniziali dello Stato unitario si forma il cosiddetto «triangolo industriale» tra Torino, Genova e Milano, area a forte sviluppo non solo di fabbriche ma anche di servizi e infrastrutture.

Tutta la crescita è a vantaggio del Nord della penisola, andando a peggiorare una situazione di partenza già abbastanza squilibrata.

Nel 1859, prima della proclamazione ufficiale del Regno, era stata istituita in Piemonte la legge Casati che imponeva l’obbligo scolastico fino a nove anni indipendentemente dal reddito e sottraeva l’istruzione al controllo ecclesiastico. Quando vari Stati della penisola diventano uno Stato unico occorrerebbe una nuova legge che pareggi le differenze regionali, e invece si decide di limitarsi ad estendere la vecchia legge piemontese. Per le famiglie ricche o quantomeno benestanti del Nord, mandare i figli a scuola non è certo un problema; ma per quelle povere del Sud, che vivono di quel poco che la terra offre, avere braccia in meno senza aiuti economici statali è una difficoltà in più per la sopravvivenza. A togliere braccia utili in famiglia e rendere impossibile la sopravvivenza dei poveri contribuisce anche la leva militare imposta dal nuovo esercito nazionale.

Mentre al Nord si producono armi e ferrovie, la maggior parte dei beni alimentari che il Paese consuma è prodotto nel Meridione da contadini e pastori, pagati poco e tassati molto di più. Infrangendo le promesse portate dall’esercito garibaldino, nell’ex Regno delle Due Sicilie il latifondo e lo sfruttamento dei braccianti non vengono aboliti, cambiano solo i nomi dei proprietari terrieri. Inoltre, il nuovo Stato privatizza tutte le terre del Sud: prima della conquista sabauda, molti pascoli e boschi erano di proprietà pubblica, usati dai nullatenenti per raccogliere frutta, legna e animali, mentre ora i più poveri sono in preda alla miseria e possono scegliere se morire di fame, essere sfruttati come braccianti nei latifondi o emigrare a Nord o all’estero a fare gli operai delle nuove industrie. Così, nel complesso, l’espansione piemontese ha determinato nel Mezzogiorno italiano un forte aumento della povertà e un immiserimento della qualità della vita. L’unico modo equo di organizzare un’unione politica nazionale che non soffocasse il Sud sarebbe stato quello di porre dei dazi regionali per proteggere le merci meridionali senza esporle alla schiacciante concorrenza con quelle del Nord. Quando invece c’erano Stati separati, la Napoli borbonica aveva un’economia industriale rigogliosa proprio perché le sue fabbriche, per quanto piccole, non dovevano competere con quelle lombarde e piemontesi.

In risposta alle troppe ingiustizie, tanti uomini e donne del Sud di tutte le età e di varie estrazioni sociali si uniscono in bande dando vita a una fitta resistenza antisabauda.

La brigante Michelina Di Cesare uccisa sul monte Morone il 30 agosto 1868 dall’esercito regio, denudata ed esposta in piazza

Alcune bande sono nostalgiche dei Borbone, altre sono indipendentiste, altre ancora chiedono solo un’Italia giusta ed equa, molte vogliono semplicemente veder abolito il latifondo una volta per tutte, con la redistribuzione delle terre, e avere il diritto di partecipare ai processi decisionali del Paese. Questi gruppi armati sono costituiti da alcuni ex soldati dell’esercito borbonico insieme a tanti contadini, pastori e artigiani depredati delle proprie terre e risorse, molti cattolici ma anche tanti laici. Nascosti tra i boschi e le montagne di Abruzzo, Molise, Campania, Basilicata, Puglia e Calabria,  “partigiani e partigiane ante litteram” combattono contro il nuovo Stato, che considerano invasore: dalla propria parte, oltre all’appoggio della popolazione locale in parte fedele ai Borbone e in parte delusa dalla mancata realizzazione delle promesse garibaldine di democrazia e fine del latifondo, hanno il vantaggio di conoscere il territorio meglio dei conquistatori.

La stampa piemontese (ormai nazionale) cerca di far passare il fenomeno non come una richiesta sociale ma come una semplice questione di ordine pubblico e attribuisce agli abitanti delle regioni meridionali l’epiteto di «terroni» e ai partigiani sudisti il nome di «briganti», accusandoli anche di depredare gli stessi paesi del Sud. Ma la popolazione locale è schierata con i ribelli. Lo Stato centrale risponde con una repressione feroce. Sotto il comando del generale Enrico Cialdini, le truppe sabaude sterminano interi villaggi del Meridione non risparmiando neanche i civili di tutti i sessi, le età, le estrazioni sociali e le condizioni personali e fisiche. Così le baionette piemontesi ripristinano l’ordine al Sud.

Intitolazione ad Angelina Romano (Longobardi, CS), scomoda testimone della violenza sabauda, fucilata a Castellammare del Golfo (TP), a soli nove anni, il 3 gennaio 1862

L’altro grande problema aperto nel nuovo Stato è il difficile rapporto con il Papa. La maggior parte della popolazione italiana è cattolica, quindi il Pontefice ha una forte influenza sulle questioni interne al Paese. Fino al 1870 Roma è stata difesa dagli accordi diplomatici con la Francia. Quando il 20 settembre dello stesso anno i bersaglieri entrano a Roma attraverso una breccia aperta a cannonate nelle mura vaticane, il Papa Pio IX sceglie di non difendersi: militarmente sarebbe inutile e l’appoggio francese è venuto a mancare a causa della Guerra franco-prussiana, Napoleone III è caduto e la nuova III Repubblica Francese è profondamente laica. L’anno seguente il governo italiano emana la Legge delle Guarentigie, con cui stabilisce che l’interno delle mura vaticane, il palazzo di Castel Gandolfo e la basilica di S. Giovanni in Laterano restano di proprietà papale, mentre lo Stato italiano versa un indennizzo per i beni espropriati allo Stato della Chiesa, misero rispetto a quanto sottratto. Il Papa si dichiara prigioniero in Vaticano e ribadisce che potere politico e potere spirituale sono inseparabili. Nel 1874 Pio IX emana il Non expedit (dal latino «non è opportuno»), una disposizione in cui intima ai sudditi del Regno d’Italia di fede cattolica di astenersi dal partecipare alle elezioni e a tutta la vita politica del Paese. Proprio in questi anni, per provocazione contro la Santa Sede, il governo Crispi fa erigere a Roma la statua di Giordano Bruno, considerato anticlericale, in Campo de’ Fiori, luogo dell’esecuzione del filosofo da parte del tribunale della Santa Inquisizione nel 1600, come simbolo del libero pensiero.

La repressione del Sud e l’astensionismo dei cattolici minano ulteriormente la già scarsa rappresentanza politica vigente nel Regno. Al momento della formazione del Regno, ad avere il diritto di voto sono soltanto i maschi adulti alfabetizzati che possiedono oltre una certa soglia di ricchezze e pagano in tasse almeno quaranta lire all’anno, ovvero circa il 2% della popolazione. Va da sé, di conseguenza, che ad avere posti in Parlamento sia una ristretta minoranza di aristocratici e una piccola cerchia di imprenditori dell’alta borghesia.

All’interno del Parlamento si vengono a creare due macrofazioni, provenienti da aree culturale ideologiche diverse ma di fatto abbastanza simili nelle iniziative politiche. La prima di queste, guidata da Agostino Depretis, è liberista nell’economia, laica nella politica interna e accentratrice nell’amministrazione: prende il nome di Destra storica e rappresenta gli interessi dei proprietari terrieri e degli industriali. Un importante obiettivo dei governi della Destra storica è raggiungere il pareggio di bilancio, ovvero saldare tutti i debiti contratti con le guerre d’indipendenza; ma tale obiettivo viene raggiunto tassando pesantemente i beni di consumo, quindi le classi sociali più povere.

L’altra corrente, guidata da Francesco Crispi, prende il nome di Sinistra storica: costituita prevalentemente da ex mazziniani ed ex garibaldini che hanno accettato la monarchia sabauda, è altrettanto laica rispetto ai rapporti dello Stato con la Chiesa e altrettanto autoritaria nella politica interna, ma punta al decentramento amministrativo e al suffragio universale maschile. Sotto la Sinistra storica, nel 1889 il ministro della Giustizia Giuseppe Zanardelli abolisce la pena di morte, salvo per i reati di guerra puniti dalla legge marziale.

Strano ma vero, è sotto il governo Depretis che viene allargato il suffragio elettorale dal 2% al 7% della popolazione, una cifra di per sé irrisoria ma che coinvolge pur sempre il triplo dei precedenti votanti: ora possono votare anche borghesi di basso livello e alcuni operai del Nord. Con questa nuova legge, nelle elezioni del 1882 entra in Parlamento il primo deputato socialista, Andrea Costa. Fuori dalla politica si sono chiamati invece i cattolici, offesi per l’invasione di Roma, e i repubblicani, che non si riconoscono nel Regno della famiglia Savoia.

In copertina. La Real Colonia Serica di San Leucio (Caserta), un eccellente esperimento sociale e produttivo devitalizzato dall’annessione




L’Europa dalla Belle Époque al colonialismo e la Triplice Alleanza

Dopo la fine della Comune di Parigi, in Europa si spengono le rivolte sociali. L’industria va avanti florida, le scoperte tecnologiche procedono a gonfie vele, il ciclo produzione-sfruttamento ha raggiunto un compromesso per cui gli scioperi diminuiscono e la ricchezza aumenta. Londra, Parigi e Berlino vedono crescere la propria rete ferroviaria e metropolitana e la luce elettrica si diffonde in tutte le città rendendo più sicura la vita notturna. Questo periodo di pace, ricchezza e splendore prende il nome di «Belle Époque». Tra gli ultimi decenni del XIX secolo e i primi del XX, l’Europa, e in particolare la Francia, è sede di un rigoglioso laboratorio culturale e intellettuale.

Durante gli stessi anni nella ricca Europa si assiste anche a una serie di fenomeni preoccupanti. Tra i settori più sviluppati e moderni dell’industria vi è quello siderurgico e dell’acciaieria pesante, finalizzato a costruire non solo ferrovie ma anche armi. E se le armi non si usano l’industria va in crisi. Nasce da qui la “corsa agli armamenti” che nel corso di mezzo secolo porterà a far scoppiare una nuova guerra, stavolta molto più grande e drammatica delle precedenti: tutti gli Stati si armano fino ai denti, anche in assenza di guerre imminenti.

Francia e Gran Bretagna arrivano alle porte del XX secolo con un impero marittimo molto esteso e redditizio. La Spagna e il Portogallo, potenze marittime dei secoli precedenti, hanno perso tutta l’America Latina e le Filippine, la Francia ha ristretto i confini europei ma conserva ancora numerosi territori d’oltremare; la Regina Vittoria e i suoi discendenti hanno perso gli Stati Uniti ma detengono l’India e buona parte dell’Africa. La Germania è lo Stato-Nazione più recente d’Europa ma militarmente è il più forte e di conseguenza rivendica un maggiore peso internazionale.

L’Africa è il terreno in cui si scontrano le pretese europee, a volte con vere e proprie guerre di conquista e altre volte con l’istituzione di protettorati locali in mano a deboli governi obbedienti agli Stati europei. Per evitare nuove guerre, le potenze europee si riuniscono e a tavolino si spartiscono gli Stati africani, i cui abitanti vengono chiamati «selvaggi» e ridotti in schiavitù, come secoli prima era successo con le popolazioni native americane. L’altro grande elemento di contrasto è dato dal rapido declino dell’Impero Ottomano, Stato islamico che si espandeva dalla Persia (attuale Iran) fino ai confini settentrionali della penisola balcanica. Le potenze europee sostengono l’indipendenza balcanica, ma si apre immediatamente la contesa tra Austria, Inghilterra e Russia per l’egemonia su queste terre. Nel 1876 scoppiano delle rivolte indipendentiste nei Balcani. Come con la Grecia nel 1820, di nuovo le potenze europee appoggiano le sommosse popolari per togliere peso all’Impero Ottomano ed evitare l’espansione russa. Viene riconosciuto il Regno di Bulgaria e la Serbia viene lasciata autonoma, mentre la Bosnia-Erzegovina passa sotto il controllo austriaco. Germania e Austria stringono un’alleanza antirussa.

Dal momento che l’Italia, violando gli accordi internazionali con la presa di Roma, ha perso credibilità agli occhi francesi e inglesi, nel 1882 entra nell’alleanza austro-tedesca, nonostante lo Stato italiano sia nato proprio dalle guerre contro l’Austria. Questa coalizione prende il nome di Triplice Alleanza. È un accordo esclusivamente difensivo: se uno dei tre Paesi viene attaccato gli altri sono tenuti a intervenire in sua difesa, ma se attacca per primo gli alleati non hanno doveri nei suoi confronti. Si apre così una nuova fase di tensioni.

Schema di date




La Guerra ispano-americana e la Rivoluzione messicana

Abbiamo già analizzato le caratteristiche e le contraddizioni degli Stati Uniti, dove, nonostante gli strascichi della schiavitù e la massiccia industrializzazione, il sistema elettorale è allargato anche agli stranieri, vige il sistema meno autoritario del mondo basato sulle libertà civili individuali e la società liberale permette ottime possibilità economiche e imprenditoriali; paradossalmente la grande apertura e accoglienza ai nuovi arrivati convive con un forte razzismo verso le minoranze etniche, soprattutto quella nera. Negli ultimi decenni dell’Ottocento e nei primi del Novecento, il Nord America è il sogno e la meta di tutta la gente povera che emigra dall’Europa: la speranza di fare fortuna lì crea il “mito americano”. 

Cartina dell’America

A livello di politica estera, già nel 1823 era stata emanata la “dottrina Monroe” che, con lo slogan «l’America agli americani», intendeva in un primo momento cacciare dal continente tutte le potenze europee e in un secondo tempo assoggettare l’intero territorio, dall’Alaska alla Terra del Fuoco, agli interessi statunitensi. Ma a questo punto occorre spiegare in modo più approfondito come cambia il significato della dottrina Monroe. Tra il 1893 e il 1896 la floridissima economia americana si blocca in una crisi di sovrapproduzione: se già tutti hanno tutto, la merce diventa superflua e il meccanismo industriale rischia di incepparsi. A questo punto, per non soffocare nella propria sovrabbondanza di produzione eccessiva rispetto ai bisogni e ai consumi, è necessario allargare il mercato; così l’opinione pubblica, prima isolazionista per rispetto all’idea di libertà su cui la mentalità americana è basata, diventa favorevole a una politica coloniale espansionistica. 

Nel 1898 a Cuba scoppia una rivolta guidata da José Martí per cacciare dall’isola l’esercito spagnolo ancora occupante. Contemporaneamente, la stessa rivolta antispagnola esplode alla Filippine, vicine alla Cina (e la Cina ha sempre fatto gola ai commerci europei fin dal Medioevo). Per gli Stati Uniti sono occasioni d’oro. L’esercito USA interviene in difesa di Cuba e delle Filippine e in poco tempo sconfigge la Spagna. Ma né José Martí (ucciso da soldati spagnoli durante la guerra) né il movimento indipendentista filippino ottengono ciò che speravano: le isole del Pacifico sono ridotte a colonie USA e Cuba viene riconosciuta come Repubblica sotto il protettorato statunitense. La popolazione cubana si ritrova senza diritti, amministrata da governi fantoccio, a lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero i cui profitti andranno ad arricchire le casse di Washington: la situazione sull’isola rimarrà tale fino al 1959. Oltre alla produzione agricola, Cuba è sfruttata dagli statunitensi per il turismo sessuale, tanto che fino al 1959 l’isola sarà soprannominata «il bordello d’America».

Foto di José Martí

Il colonialismo USA non finisce qui: subito dopo vengono annesse agli Stati Uniti anche le isole Hawaii. Quando il Panamá insorge per ottenere l’indipendenza dalla Colombia, gli USA l’appoggiano in cambio di un contratto centennale che assicuri loro il controllo del canale che collega l’Oceano Atlantico al Pacifico, fondamentale per le comunicazioni e gli scambi commerciali intercontinentali. Per tutto il Novecento, gli investimenti degli Stati Uniti in America centrale saranno vincolati all’accettazione delle loro politiche economiche.

Le ingerenze statunitensi condizionano pesantemente soprattutto i processi sociali e politici in corso in Messico, Paese confinante e ricco di materie prime. Dopo l’indipendenza, il Sud del Messico si è sviluppato con un’economia di tipo latifondista: poche persone possiedono da sole terre estese più di interi Paesi europei in cui lavoravano braccianti senza alcun diritto; il Nord invece è industrializzato sotto il controllo degli Stati Uniti. Nessuna legge tutela contadini e operai dallo sfruttamento né controlla i salari e i prezzi dei prodotti alimentari; per sopravvivere, molte famiglie sono costrette a indebitarsi e, non avendo abbastanza soldi, pagano il cibo con il lavoro, fino a ritrovarsi incastrati a vita in condizioni disumane come i servi della gleba nel feudalesimo europeo. Le terre su cui sorgono la haciendas (i latifondi) sono state espropriate alle popolazioni indigene (prevalentemente Maya e Azteca) nei secoli successivi alla conquista europea. A gestire questa situazione di ingiustizia è il dittatore Porfirio Diaz, al potere dal 1876 con lo slogan «Pace, ordine e progresso». La situazione è destinata ad esplodere. Nel 1910, dopo più di trent’anni di dispotismo di Diaz, varie città messicane insorgono sotto la guida di Francisco Madero, un proprietario terriero di idee liberali. Scoppia così una lunga guerra civile. Gli USA, che prima appoggiavano Diaz, lo lasciano deporre per il troppo potere che ha accumulato. Madero apporta al sistema politico messicano varie riforme di stampo liberale, come l’allargamento del suffragio elettorale e il divieto di ripetere il mandato presidenziale, ma non risolve i problemi economici strutturali e non fa nulla per alleviare la fame e la miseria delle masse contadine e operaie. Esplodono di conseguenza nuove rivolte, stavolta tra i ceti più poveri. A Sud del Paese Emiliano Zapata (foto in copertina) guida contadini e Indios con gli slogan «Terra e Libertà» e «La terra è di chi la lavora», chiedendo una riforma agraria che abolisca i latifondi distribuendo le terre tra i contadini e restituisca alle comunità indigene le zone a loro sottratte. A Nord Francisco Pancho Villa organizza un esercito popolare composto da operai, minatori, Indios e nullatenenti in appoggio a Zapata.

Gli USA in un primo momento appoggiano Madero ma, davanti all’insurrezione contadina, temono di perdere il controllo della situazione: su mandato dei latifondisti, del clero e degli Stati Uniti, nel 1913 il generale Victoriano Huerta assassina Madero e prende il suo posto, dando inizio a una nuova guerra civile. In seguito a nuove insurrezioni popolari e alla stesura di una Costituzione democratica con diritti sociali fortemente avanzati, l’esercito degli Stati Uniti entra in Messico e riprende il controllo della situazione mettendo al potere il liberale Venustiano Carranza. Nel 1919 Emiliano Zapata viene assassinato: la fase rivoluzionaria può considerarsi conclusa. Segue un lungo periodo di forte instabilità politica in cui è frequente l’intervento militare USA: la Rivoluzione messicana apre a tutti gli effetti la pesante ingerenza politica statunitense sull’America Latina. Dal 1940, per i settant’anni a venire, il potere rimarrà sempre nelle mani di un unico partito, il Partido Revolucionario Institucional (PRI) che, con il beneplacito dei vicini del Nord, applica una minima parte degli obiettivi della Rivoluzione del 1910 ma trascura i problemi dei contadini, delle donne e dei popoli Indios. Eppure Emiliano Zapata è sempre rimasto un mito per tutti gli abitanti del Sud del Messico, mito che riesploderà a sorpresa molti decenni più tardi.

Schema di date




Tre diverse forme di modernità europea: Germania, Gran Bretagna e Russia

La Germania viene unificata nel 1870 ma, già da prima, la Prussia era la potenza militare più forte del mondo e la seconda nazione dopo la Gran Bretagna per industrializzazione, con i conflitti sociali che ne conseguono: la Germania è infatti il Paese europeo con il più forte movimento operaio. 

Nel 1875 viene fondato il Partito Socialdemocratico Tedesco (SPD) unendo la corrente socialista statalista a quella comunista marxista: in breve tempo, l’SPD diventa il principale partito politico tedesco e il più numeroso elemento di aggregazione operaia in Europa. 

Non riuscendo ad arginarlo né a reprimerlo, il governo di Bismarck è costretto a varare importanti riforme sociali, come le pensioni di invalidità e di vecchiaia, l’assicurazione in caso di infortuni sul lavoro e il riposo pagato in caso di malattia; lo scopo di tali riforme è ridurre la conflittualità sociale – in particolare gli scioperi – e quindi aumentare la produzione a vantaggio dei padroni (altrimenti non si spiegherebbe come mai queste riforme provengano da un governo fortemente conservatore), ma di fatto la vita della classe operaia ne riceve notevoli benefici. 

La società tedesca è comunque controllata, non tanto dalla borghesia imprenditoriale quanto da una ristretta nobiltà terriera ultraconservatrice e quasi feudale, detta Junker, di cui fa parte lo stesso Bismarck, che esercita il suo potere sull’esercito e su tutto l’apparato statale. Il sistema elettorale tedesco è assai significativo: il Parlamento è diviso in due Camere, un Senato ereditario che rappresenta l’aristocrazia e una Camera eletta a suffragio universale maschile in cui Junker, borghesia e lavoratori hanno la stessa ripartizione di seggi pur rappresentando fasce sociali numericamente tutt’altro che pari. A questo bisogna aggiungere che il Parlamento non ha alcun controllo sull’operato del governo, che è interamente dominato dal Kaiser (Imperatore) e dal Cancelliere (Primo Ministro), quindi le elezioni per la Camera sono di fatto ininfluenti. La Germania è quindi il Paese con il Parlamento meno rappresentativo nonostante abbia il suffragio elettorale più esteso d’Europa. Di conseguenza, lo stesso movimento operaio, per quanto numerosissimo, è del tutto ininfluente sul piano istituzionale in quanto nessuno è tenuto ad ascoltare le sue istanze.

Fig. 1. Unificazione della Germania

La Gran Bretagna ha sempre goduto di una situazione molto particolare, anche grazie alla sua posizione geografica: vicina all’Europa ma fisicamente distaccata, sciolta da vincoli stretti con gli altri Paesi, è sempre stata l’autonoma egemone di gran parte dei traffici marittimi, mantenendo un piede dentro e uno fuori rispetto a tutte le tensioni internazionali grazie anche all’impero, che ha costruito oltreoceano in tutti gli angoli del mondo. Dunque, la Gran Bretagna non ha nessuna convenienza nel legarsi all’Europa né a intervenire nelle vicende europee che non siano di natura commerciale.

Dal 1837 al 1901 siede sul trono di Londra la Regina Victoria. Il suo regno è ricordato come il più prosperoso per l’impero e come il secondo più lungo (superato oggi soltanto dalla Regina Elizabeth II, regnante dal 1952). Durante l’età vittoriana, la Gran Bretagna raggiunge la sua massima espansione imperiale e ricchezza economica. Lo Stato si sviluppa in una forma sempre più liberale: formalmente il governo è nominato dalla Regina ma di fatto è responsabile davanti alla Camera dei Comuni; le cariche pubbliche vengono attribuite per merito, anziché in base alla ricchezza; viene esteso il suffragio elettorale grazie a una legge che ridefinisce i collegi elettorali, dando più spazio ai centri urbani e sottraendo all’aristocrazia terriera il controllo sulle votazioni. 

Da dopo la Rivoluzione del 1688, l’impero britannico ha vissuto un periodo di stabilità politica e pace sociale, fatta eccezione per l’Irlanda, le cui richieste di autonomia politica e di maggiore rappresentanza nel Parlamento imperiale vengono sempre represse nel sangue. L’altro fattore di repressione è il cattolicesimo irlandese, mai tollerato dall’Inghilterra protestante: si tratta dell’unico caso di guerra di religione ancora aperto in Europa alle porte del Novecento.

Durante l’età vittoriana si estende anche alle classi lavoratrici l’idea di perbenismo e di rispettabilità tipica della nobiltà britannica. La miseria delle campagne, lo sfruttamento in fabbrica e la prostituzione diffusa, note a chiunque, sono tenute nascoste da un velo di ipocrisia che nasconde le questioni nel silenzio senza affrontarle; durante il cosiddetto compromesso vittoriano, il tabù sessuale è tale che l’etichetta prevede di nascondere non solo le gambe umane ma anche quelle dei tavoli. 

Fig. 2. L’Europa negli anni 1890-1995

All’inizio del Novecento, con la salita al trono dello Zar Nicola II Romanov (che rimarrà al potere fino alla Rivoluzione dell’ottobre 1917) e in minima parte anche con il suo predecessore Alessandro III, la parte europea della Russia vede iniziare un timido processo di industrializzazione su modello occidentale. Si tratta di uno sviluppo lento, non paragonabile alla situazione economica inglese o tedesca: la Russia rimane un Paese principalmente agricolo. La spinta industriale, per quanto debole, permette la formazione di moderni partiti di stampo occidentale: tra questi il partito socialdemocratico, che si sviluppa clandestinamente sotto la guida di Lenin, esiliato dalla polizia zarista e rifugiato in Svizzera. Sono rilevanti anche il partito costituzionale democratico e il partito socialrivoluzionario. Quest’ultimo fa spesso ricorso al terrorismo come forma di lotta politica.

Nel 1905 la situazione è in fermento. I nobili premono per la fine dell’assolutismo e i contadini per avere le terre, inoltre la guerra con il Giappone ha esasperato gli animi degli strati più disagiati della popolazione. E guerra e Rivoluzione sono strettamente collegate. A gennaio una imponente manifestazione di operai a Pietroburgo vuole presentare una petizione allo Zar ma, davanti al Palazzo d’Inverno, viene accolta a mitragliate. Centinaia di persone restano sul selciato. Questo episodio, noto come «la domenica di sangue», accende una polveriera enorme. Il movimento operaio si infiamma, sotto la guida del soviet (consiglio operaio) di Pietroburgo, presieduto dal giovane socialista Lev Trozkij; anche i contadini formano dei soviet; si susseguono vari ammutinamenti di militari; a ottobre uno sciopero generale paralizza il Paese. Spaventato dalla situazione incandescente, lo Zar emana un documento in cui proclama la fine dell’assolutismo e l’istituzione di un parlamento (Duma) con funzione legislativa ma praticamente impotente. Per tre volte di fila lo Zar scioglie la Duma non appena questa tenta di affrontare la questione agraria.

Nonostante una parvenza di monarchia parlamentare e in via di sviluppo industriale, la Russia rimane un Paese di stampo feudale. La situazione sociale è quindi destinata a esplodere nuovamente alla prima scintilla, che non tarderà ad arrivare.

Fig. 3. Schema di date

In copertina: Queen Victoria and her family, including King Edward VII, Tsar Nicholas II, Tsarina Alexandra, Kaiser Wilhelm II and Empress Frederick at a wedding in Coburg, Germany, 1894




Il voto in Turchia. La diretta al centro culturale curdo di Roma

Nel primo pomeriggio del 24 giugno il centro culturale Ararat si comincia a riempire. Pane, frutta e piatti mediorientali occupano la tavola dove è riunita la comunità curda di Roma. Mentre i bambini giocano a biliardino o si rincorrono nel cortile e gli adulti sorseggiano il çay bollente appena versato, il collegamento con la televisione turca inizia a mandare le prime notizie. Tutti i presenti hanno il fiato sospeso.

Nel frattempo, dall’altra parte del Mediterraneo, la popolazione turca sta votando per le elezioni parlamentari e presidenziali anticipate, indette dal presidente uscente Recep Tayyip Erdogan per frenare il calo di consensi che la sua politica di odio sta affrontando. «Se oggi cambiano le cose in Turchia, forse potremo finalmente tornare a casa», dicevano commosse alla vigilia delle elezioni alcune donne curde che vivono in Italia con lo statuto di rifugiate politiche.

Prima di indire le elezioni, per assicurarsi di rimanere al governo, Erdogan ha scritto una Costituzione che trasforma la Turchia in Repubblica presidenziale con un enorme potere in mano a un solo uomo, capo dello Stato e dell’esecutivo, ridimensionando di molto il ruolo del Parlamento. Tutt’altro che democratica è anche la legge elettorale turca, che presenta una soglia di sbarramento al 10%, la più alta al mondo, e i seggi che spetterebbero ai partiti che hanno mancato il quorum vengono attribuiti d’ufficio alla lista di maggioranza relativa (che è il partito di Erdogan); la legge prevede la possibilità di formare coalizioni di più partiti che si presentino separati alle parlamentari ma con un unico candidato alle presidenziali. 

Questa campagna elettorale è stata segnata da toni violentissimi. La faccia di Erdogan era presente su ogni muro del Paese, i suoi slogan citavano Dio e accusavano di terrorismo gli avversari e in particolare il popolo curdo. Per ottenere consensi ha attaccato la città curdo-siriana di Afrin e poi i villaggi curdo-iracheni del Qandil, muovendosi fuori dal proprio territorio e dal diritto internazionale. Era chiaro che il dittatore turco avrebbe fatto qualunque cosa pur di vincere la sfida. 

Quando inizia lo spoglio delle schede la tensione è alta. 

A effettuare lo scrutinio non sono persone indipendenti ma un’agenzia legata al partito di governo. Tramite gli osservatori internazionali (molti dei quali legati a Rete Kurdistan) arrivano notizie di brogli e violenze. Si parla di cinque italiani arrestati senza un’accusa chiara, di diecimila soldati inviati nelle zone a maggioranza curda, di schede sparite e altre truccate e di rappresentati di lista aggrediti. In alcuni seggi del Bakûr (il Kurdistan turco) l’esercito ha tolto le cabine elettorali e costretto i cittadini e le cittadine a votare apertamente davanti ai soldati in armi e un elicottero ha portato via urne piene di schede votate.

Ararat, fila di bandiere

Il clima ad Ararat è teso. Sono presenti ovunque le bandiere dell’HDP, il Partito Democratico dei Popoli, la principale opposizione al regime turco. 

La prima notizia che arriva è un duro colpo per chi sperava di poter tornare in Turchia da cittadino libero: con il 52% di voti della sua coalizione, Erdogan è di nuovo presidente.

Non tutti i dati sono attendibili per via dei brogli, risulta addirittura che Erdogan abbia vinto in città che hanno sempre sostenuto la guerriglia del PKK. Arrivano informazioni di numeri poco credibili. Le sorti dell’HDP sono ancora incerte, in condizioni normali potrebbe superare il 20%, ma con i voti che spariscono nel nulla è difficile fare previsioni attendibili. Alle presidenziali Selahattin Demirtaş, leader dell’HDP e fondatore della sezione turca di Amnesty International, candidato alla presidenza dal carcere in cui è rinchiuso da mesi, risulta essersi attestato all’8%. Far sparire l’HDP dalle istituzioni è il sogno del dittatore turco. I deputati e le deputate dell’HDP, che hanno sempre difeso i diritti umani e la causa curda, sono in carcere, accusate da Erdogan di avere legami con il PKK, ma la magistratura turca non ha mai emesso una condanna nei loro confronti.

Nel tardo pomeriggio all’improvviso un forte applauso scuote l’aria sotto la tettoia del centro Ararat. Secondo le ultime proiezioni, l’HDP ha superato lo sbarramento con l’11,2%, ottenendo così quei 66 deputati sufficienti per strappare la maggioranza all’AKP di Erdogan. Qualcuno alza il pugno e sorride, qualcuno telefona ai parenti rimasti in Bakûr, qualcun altro porta un vassoio pieno di bicchieri di çay. Quando vengono proiettati i risultati di Diyarbakir (una delle principali città curde) si sente esclamare Her bijî! (evviva!): nonostante i brogli l’HDP risulta aver ottenuto oltre il 65% dei voti locali. Alle elezioni parlamentari il partito di governo AKP si ferma al 42%, ben lontano dalla maggioranza assoluta cui puntava. 

Oltre all’HDP, all’opposizione parlamentare vi è anche il CHP, moderato partito kemalista nazionalista ma laico, non certo filocurdo ma comunque ostile alla esasperata islamizzazione della Turchia che Erdogan sta portando avanti. È rimasta invece fuori dal Parlamento la candidata ultranazionalista Akşener, anch’essa temuta e odiata dal popolo curdo. 

Persino i bambini interrompono i loro giochi e guardano lo schermo che mostra il nuovo Parlamento turco, dove il giallo dei conservatori occupa adesso meno di metà dell’emiciclo. Ora il vincitore solo formale, rimasto in realtà senza una maggioranza, non può più fare il bello e il cattivo tempo da solo. La Costituzione gli dà la possibilità di governare attraverso decreti d’emergenza, ma questi dovranno comunque confrontarsi con un potere legislativo non più asservito all’esecutivo. E, per poter stipulare accordi che gli permettano di governare, il presidente dovrà comunque rinunciare a parte del suo autoritarismo.




La Guerra franco-prussiana e le sue conseguenze. La III Repubblica francese, la Comune di Parigi e la presa di Roma

Nel 1848 anche in Prussia c’erano stati dei fallimentari moti insurrezionali con il sogno di unire democraticamente i popoli tedeschi. A metà Ottocento la Prussia è la potenza militare più forte del mondo e il secondo polo industriale dopo la Gran Bretagna. La grande Confederazione Germanica ha un enorme peso economico ma manca di unità politica. Il neoeletto Cancelliere Otto Von Bismarck, sotto il Re Guglielmo I, si propone di realizzare una volta per tutte questa unificazione. Bismarck viene dalla nobiltà terriera ed è un uomo autoritario e spregiudicato, poco fiducioso nei cambiamenti dal basso e convinto che i grandi problemi internazionali si risolvano necessariamente col sangue: senza consultare il Parlamento, aumenta drasticamente le spese militari. Nel 1866 usa l’Italia, militarmente poco preparata, per disperdere sul fronte veneto le forze austriache e conquistare le zone tedesche meridionali: il suo obiettivo è la costruzione del Secondo Reich, l’Impero tedesco (il primo era il Sacro Romano Impero Germanico medievale). Per completare tale sogno mancano due regioni fondamentali: l’Alsazia e la Lorena, che si trovano in Francia, delimitate dai Vosgi e dal fiume Reno, da sempre contese tra Francia e Germania in quanto abitate da popolazione mista franco-tedesca e soprattutto ricchissime di materie prime utili per le industrie. È per queste terre che nel 1870 scoppia la Guerra franco-prussiana, breve e con esiti schiaccianti. L’esercito prussiano è il più forte del mondo e quello francese non ha speranza di tenergli testa. 

Il 1° settembre 1870 inizia la battaglia di Sedan, l’indomani l’esercito francese sta già clamorosamente crollando e l’Imperatore Napoleone III in persona viene fatto prigioniero. Il 4 settembre Parigi insorge e proclama la III Repubblica Francese, ricorrendo di nuovo alla Guardia Nazionale, il corpo armato autonomo costituito anche nelle precedenti insurrezioni. 

Appena la notizia della capitolazione di Napoleone III arriva a Firenze, il governo italiano ne approfitta: il 20 settembre, appena due settimane dopo l’insurrezione di Parigi, quando in Francia regna lo scompiglio totale e i pochi soldati di stanza nel Lazio sono stati richiamati per combattere a Sedan, l’esercito sabaudo apre a cannonate una breccia nelle mura vaticane e occupa la città di Roma, nonostante il patto con la Francia prevedesse di non toccarla. 

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1. La breccia di Porta Pia in una litografia del tempo

Violando alle spalle gli accordi internazionali, Roma diventa capitale d’Italia. Pio IX sceglie di non difendersi, militarmente sarebbe inutile, e la popolazione romana non si mobilita, né con il Papa né con il nuovo sovrano. 

Intanto in Francia si tengono nuove elezioni, vinte dai moderati. Il nuovo governo repubblicano, capeggiato dal conservatore Adolphe Thiers, ratifica un armistizio con la Germania, unita nel Secondo Reich. I tedeschi dopo la vittoria infieriscono sulla Francia e la umiliano: come luogo per l’incoronazione a imperatore, Guglielmo I sceglie la reggia di Versailles, simbolo dello splendore francese seicentesco. E la pace prevede condizioni pesantissime: cessione di Alsazia e Lorena, pagamento di cinque miliardi di franchi come risarcimento di presunti danni di guerra (quando l’esercito francese non è riuscito a entrare in Germania quindi danni concreti non ha potuto farne) e occupazione con un contingente militare tedesco a tutela del pagamento. 

Thiers accetta passivamente tutte le condizioni; inoltre sposta il Parlamento da Parigi, città operaia eccessivamente turbolenta, a Versailles. Ma la goccia che fa traboccare il vaso è la decisione di Thiers di requisire i cannoni della Guardia Nazionale parigina. A questo punto la capitale francese insorge ancora una volta. 

Viene proclamata la Comune di Parigi e indette nuove elezioni, stavolta a suffragio universale maschile e femminile, vinte da un largo fronte rivoluzionario: democratici, socialisti, comunisti giacobini marxisti e blanquisti, anarchici bakuniniani e proudhoniani convivono insieme sotto il grido di «Vive la Commune!». Le donne hanno importanti spazi di partecipazione: tra queste si distingue la figura dell’anarchica Louise Michel, a capo della Guardia Nazionale nel quartiere collinare di Montmartre. 

2. Parigi. Square Louise Michel

I rivoluzionari occupano le Tuileries e la Conciergerie, che diventano i luoghi di gestione della Parigi occupata; per provocazione viene scelto come simbolo della città in rivolta al posto del tricolore repubblicano la bandiera rossa, che prima era il segnale militare che ordinava ai soldati di sparare sulla folla in caso di rivolta da reprimere; la Colonna Vendôme, simbolo delle conquiste compiute dalla Francia sotto Napoleone I, viene abbattuta in quanto affermazione del militarismo e dell’imperialismo precedenti. Viene creato un Consiglio con potere esecutivo e legislativo di 90 membri (fra cui molti operai, donne, artigiani) eletti a suffragio universale maschile e femminile, ognuno dei quali è sempre revocabile su richiesta dell’Assemblea popolare e riceve uno stipendio pari a quello di un operaio; il potere giudiziario appartiene alla stessa assemblea popolare; la Guardia Nazionale è un corpo a sé che prevede la leva obbligatoria per tutte le cittadine e tutti i cittadini maggiorenni, «per difendere i cittadini dal potere e non aiutare il potere contro i cittadini», come recita uno dei manifesti con i proclami della Comune, e sono istituiti anche corpi armati volontari di sole donne per tutelarle da eventuali violenze maschili. Vengono inoltre concretizzate riforme sociali importanti, per le quali gli operai e le organizzazioni socialiste di tutto il mondo stavano lottando già da decenni: la più importante di queste è la riduzione della giornata lavorativa, portata a un massimo di dieci ore giornaliere; viene inoltre vietato il lavoro notturno (prima obbligatorio per alcune categorie) e sospeso il pagamento degli affitti, sono bloccati gli sfratti, le fabbriche abbandonate dai vecchi padroni sono occupate dagli operai e il lavoro è portato avanti in autogestione, l’istruzione è effettivamente resa obbligatoria e gratuita per tutti i minorenni di entrambi i sessi e vengono affidati incarichi prestigiosi all’interno del Consiglio anche a intellettuali stranieri. Oltre al settore pubblico, a Parigi nasce il concetto di bene comune: ciò che la società gratuitamente deve fornire a ognuno pur non appartenendo a nessuno, di cui, in caso di mancata distribuzione è diritto dei cittadini e delle cittadine appropriarsene, dato che non è proprietà dell’istituzione statale ma della collettività.

Le riforme sociali della Comune culminano con l’abrogazione del Codice Civile Napoleonico, che prevedeva la famiglia come istituzione rigidamente patriarcale e maschilista. Il Codice è sostituito con una legge che assicura pari diritti ai coniugi e potere familiare equiparato, garantito anche dagli aiuti economici che la Comune dà alle donne disoccupate in caso di eventuale separazione dal marito. Non c’è solo una formale parità dei sessi scritta su carta ma anche un’uguaglianza effettiva e sostanziale: questa è la vera tutela delle donne, ben più concreta del movimento suffragista. Il tutto in poco più di due mesi.

A questo proposito è importante tenere a mente la forte differenza di connotazione sociale tra Parigi e il resto della Francia: la capitale è una città operaia fortemente ribelle abitata da un bel numero di “teste calde” ed è il luogo dove tutte le Rivoluzioni hanno avuto inizio, mentre le altre aree del Paese sono zone agricole popolate da gente di indole prevalentemente conservatrice e poco incline a tentare le strade rischiose dei cambiamenti e degli eccessi. Il principale motivo di fallimento dell’esperienza della Comune è proprio questo: nonostante i continui appelli proudhoniani alla confederazione, Parigi viene lasciata sola.

Il sistema sociale della Comune (la «struttura», per usare termini marxisti) non è mai andato in crisi, ma il buon funzionamento politico ed economico non basta per resistere a un attacco militare sproporzionato. Il 21 maggio Thiers cinge d’assedio la città con le ingenti forze reazionarie francesi e con l’aiuto dei cannoni di Bismarck. La Guardia Nazionale organizza come può la resistenza ma i rapporti di forza sono insostenibili. Peraltro difendere una metropoli di fine Ottocento non è facile: i grands boulevards, appositamente costruiti sotto l’impero di Napoleone III, impediscono la costruzione di barricate in varie parti della città. 

3. Parigi. Mosaico a Louise Michel (Montmartre, rue Véron)

A Montmartre, Pigalle e Glignancourt Louise Michel dà prova di una strenua resistenza, testimoni oculari dichiarano di non averla vista posare il fucile per l’intera «settimana di sangue», insieme a donne e uomini di tutte le età, ma niente è sufficiente contro una repressione così spietata. 

Il 28 maggio Parigi crolla sotto i cannoni tedeschi. I comunardi vengono fucilati nel cimitero di Père Lachaise o deportati nelle colonie francesi d’oltreoceano (tra questi ultimi vi  è anche Louise Michel, deportata in Nuova Caledonia).

4. Parigi. Cimitero di Père Lachaise

Subito dopo il crollo della Comune si scioglie la I Internazionale per gli scontri intestini tra marxisti e anarchici. Il primo a essere cacciato è Giuseppe Mazzini, democratico romantico che auspica che pace e giustizia sociale convivano senza lotta di classe; poi tocca a Mikhail Bakunin, anarchico che teorizza la Rivoluzione di nullatenenti, poverissimi e sottoproletari in Paesi non industrializzati, contrariamente alla dottrina marxista che pone il proletariato urbano dei Paesi già industrializzati come unico soggetto rivoluzionario possibile. Finché, dilaniata dai dissidi interni e dalle espulsioni, muore tutta l’Internazionale. Uno degli elementi che hanno determinato la rottura è stato proprio il giudizio sulla Comune, troppo disorganizzata secondo Marx ed Engels e troppo rigida, accentratrice e verticista secondo le correnti più libertarie. 

La II Internazionale, fondata, tra gli altri, da Paul Lafargue, genero di Karl Marx, sarà costituita solo da comunisti ortodossi, e così le altre a venire. 

Schema di date




L’altro sguardo

A partire dalla scorsa settimana e fino al 2 settembre, il Palazzo delle Esposizioni di Roma ospita la mostra fotografica intitolata L’altro sguardo: fotografe italiane dal 1965 al 2018, dove si trovano opere di decine di artiste e giornaliste di vari ambiti dagli anni Sessanta a oggi. La raccolta, a cura di Raffaella Perna, proviene dalla collezione di Donata Pizzi, archivista per L’Espresso e responsabile della sede romana dell’agenzia americana The Image Bank. 

Le opere meno recenti risalgono alla seconda metà degli anni Sessanta, quando le donne sono entrate nel mondo del fotogiornalismo. Prima di allora erano esistite alcune eccellenti fotoreporter (Tina Modotti, Dorothea Lange, Gerda Taro…) ma erano una nicchia molto ristretta. Perché le fotoreporter siano riconosciute per il loro valore bisogna aspettare gli anni Sessanta e Settanta, quando il movimento femminista ha costretto la società ad accettare la presenza e la partecipazione femminile in tutti gli ambiti della vita pubblica. In seguito, verso la fine degli anni Novanta, la fotografia si è estesa ancora a causa del digitale, fino a diventare un fenomeno di massa a tutti gli effetti.

La prima sezione della mostra è intitolata Dentro le storie. Vi si trovano le fotoreporter che hanno documentato gli ultimi decenni della vita pubblica e di donne e uomini e della politica italiana. 

Foto 1

La più celebre tra le giornaliste qui ospitate è certamente Letizia Battaglia: troviamo un’immagine di una bambina illuminata nella penombra di una stradina palermitana (foto 1) e una testimonianza istantanea dell’omicidio di Piersanti Mattarella da parte della mafia. Tra le immagini di denuncia spicca quelle di Carla Cerati, che testimonia le condizioni di vita nei manicomi prima che Franco Basaglia  trasformasse lo status e la percezione del malato psichiatrico, da delinquente da punire a persona da aiutare.

Quello del manicomio è un tema che negli anni Sessanta e Settanta ha attirato l’attenzione di numerosi reporter italiani come Mario Giacomelli, Gianni Berengo Gardin e la stessa Letizia Battaglia. 

La storia italiana prosegue in questa sezione con uno scatto di Giovanna Borgese che mostra il processo, celebrato a Torino nel 1981, contro le donne che negli anni Settanta avevano militato nel gruppo armato Prima Linea: nell’immagine le donne, chiuse in una gabbia come polli, mostrano rabbia e rassegnazione nell’ascoltare la sentenza emanata dallo Stato che l’addetto alla repressione avvolto nella sua toga sta pronunciando con le spalle rivolte alla fotografa (foto 2). Un’ulteriore immagine di questa sezione che merita decisamente di essere ricordata è opera di Isabella Balena, in cui, con linee dritte e geometrie quadrate, la fotoreporter riprende un albero rinsecchito e un palazzo con dei panni stesi le cui pareti sono crivellate di proiettili: siamo a Mostar, città simbolo della guerra civile che ha insanguinato la Jugoslavia negli anni Novanta, guerra di cui la NATO e l’Italia in particolare sono state protagoniste.

Foto 2

La sezione successiva della mostra ha un titolo molto significativo: cosa ne pensi tu del femminismo? È con questa domanda che si entra nella seconda sala dell’esposizione. La prima immagine che si nota, opera di Gabriella Mercadini, documenta l’occupazione da parte dei collettivi femministi della capitale del reparto di ginecologia e maternità dell’ospedale San Giacomo (oggi in gran parte dismesso a causa dei recenti tagli alla sanità voluti dalle giunte di governo regionale di entrambi gli schieramenti politici). La foto risale al 1978, quando il dibattito sull’interruzione di gravidanza era al centro dell’attenzione politica e mediatica: il principale frutto delle lotte femministe di quegli anni è stata la vittoria al referendum del 1981, indetto dal Partito Radicale, che ha legalizzato l’aborto in Italia, nonostante la propaganda contraria della Chiesa e della Democrazia Cristiana, facendo passare il concetto che la maternità debba essere una scelta consapevole e ragionata e non una sorte da subire passivamente. È legittimo chiedersi se questo scatto, che costituisce un documento importante per chi studia la storia sociale del Novecento, sia più adatto alla seconda sezione sul femminismo o alla prima sui mutamenti storici e sui fatti politici dell’Italia repubblicana. Si trova in questa sezione la fotografia digitale di Anna Di Prospero intitolata Central Park #2 che funge da immagine di copertina per i manifesti che pubblicizzano l’intera mostra: lo scatto, uno dei pochi a colori, ritrae una donna di spalle mentre rema nel lago di Central Park, a New York, con gli alberi del parco e la punta dell’Empire State Building che fanno da sfondo (in copertina). L’immagine più bella delle sala, realizzata da Agnese De Donato, storica femminista e fondatrice della rivista Effe, morta un anno fa, è intitolata Donne non si nasce, si diventa (foto 2), frase di Simone de Beauvoir emblematica del movimento femminista degli anni Settanta. 

Foto 3

Tutta la mostra, e questa seconda sezione in particolare, insiste sulla rappresentazione del femminile attraverso immagini di donne raffigurate da se stesse e da altre donne. Il fatto di mostrare parte del corpo femminile (nella foto la donna in primo piano con il pugno alzato ha una gonna corta, tipica di quegli anni, e una giacca aperta che lascia vedere buona parte del seno) indica la liberazione dal pudore di cui era piena la società retrograda e sessuofobica precedente all’esplosione del femminismo. Nelle immagini successive la stessa Agnese De Donato ritrae un uomo a petto nudo in pose ostentate che ricordano il modo in cui la fotografia pubblicitaria usa spesso i corpi femminili trasformandoli in semplici oggetti di desiderio e di marketing.

La terza sezione della mostra è intitolata Vedere oltre e si allontana completamente dal percorso storico seguito nel resto dell’esposizione. Qui sono esposte non fotografie ma opere astratte realizzate dopo il 2000 con il digitale, a colori, per mostrare le potenzialità del nuovo mezzo. È difficile trovare un tema unico che faccia da filo conduttore a ciò che si può vedere nella stanza. 

La quarta e ultima sezione, intitolata Identità e relazione, indaga sull’identità femminile nel tempo. In questa sezione Moira Ricci presenta una fotografia autobiografica di confronto tra le immagini di se stessa a Milano con il compagno, nel 1953, e della propria famiglia negli stessi luoghi oggi. Poco distante si trova un interessante fotomontaggio di Anna Di Prospero intitolato Selfportrait with my mother (foto 4), proveniente dalle serie Self portrait with my familiy (non riportata interamente al Palazzo delle Esposizioni): un progetto con cui l’artista intende usare la fotografia per indagare sui propri legami affettivi più intimi. La necessità di dar voce ai vissuti personali e alle esperienze quotidiane delle autrici è nata con la politicizzazione della vita privata, tema che ha costituito uno dei cavalli di battaglia del femminismo novecentesco. 

Foto 4

La mostra è accessibile dal martedì alla domenica dalle 10 alle 20 ed è possibile entrare fino a un’ora prima dell’orario di chiusura dell’edificio.

Da martedì 24 luglio a domenica 26 agosto l’orario di apertura sarà posticipato alle 12 e la chiusura del sabato alle 23. La libreria del museo, per chi fosse interessato al catalogo della mostra, segue gli stessi orari. 

Il prezzo intero del biglietto è di 12,50 euro; è prevista una riduzione a 10 euro al di sotto dei 26 anni (compresi) e al di sopra dei 65; persona invalide o al di sotto dei 6 anni di età hanno diritto all’accesso gratuito; in caso di prenotazione il costo del biglietto aumenta di 2 euro. 

L’ingresso è gratuito inoltre per chiunque abbia meno di 30 anni ogni primo mercoledì del mese dopo le ore 14.00 e ogni prima domenica del mese per tutte le persone residenti a Roma. 

 




Le suffragette e il primo movimento per la parità sessuale

Indice. Capitolo terzo

Nonostante vari Stati europei abbiano allargato il diritto di voto anche ad alcune fasce sociali meno abbienti, ne continuano a rimanere escluse le donne. 

I primi Paesi a concedere il suffragio femminile, non universale ma ancora censitario, sono le isole Pitcairn (nel 1838), le isole Cook e la Nuova Zelanda (nel 1893), seguite poi dall’Australia (che nel 1902 concede il voto alle donne bianche ma non alle aborigene), tutte colonie dell’Impero britannico. 

Invece a Londra il movimento per il suffragio femminile viene represso e le sue protagoniste arrestate: le donne inglesi potranno votare soltanto dopo la I Guerra mondiale.

In tutta l’Europa ricca esplode il movimento delle suffragette. Si rivendica il diritto di voto e di eleggibilità per le donne, alla pari che per gli uomini, fino a quel momento negato. Ma non per tutte le donne: la lotta è portata avanti da signore ricche provenienti dall’aristocrazia e dall’alta borghesia che vogliono il suffragio maschile e femminile ristretto per censo, fedeli alla tradizione del Seicento inglese secondo cui lo Stato esiste in funzione degli interessi da difendere e quindi deve essere amministrato solo da chi detiene una certa soglia di beni materiali. Così le richieste elettorali di queste donne non ottengono alcun seguito presso le lavoratrici salariate. Inoltre le suffragette, seppure con alcune eccezioni, chiedono nel complesso i diritti politici senza alcuna analisi o critica sul ruolo della donna nella società patriarcale: contestano il fatto che le donne non possano votare o sedere in Parlamento ma non si addentrano nella questione che la figura femminile sia sempre stata vista come quella il cui unico compito si limita ad accudire i figli o lavare i piatti. Quella che chiedono è quindi una parità formale dietro cui non vi è nessuna parità sostanziale e nessuna autonomia: in quel tipo di società, pur votando, la donna rimarrebbe succube di una figura maschile. 

Se da un lato sono valide queste considerazioni, dall’altro occorre ricordare che le future leggi a tutela della maternità delle lavoratrici, di molto successive, saranno varate soltanto quando siederanno in Parlamento delle donne, spesso elette da altre donne. Quindi ottenere il voto è un primo passo, insufficiente ma importante, del lungo percorso che porterà poi al voto a tutte le donne e infine verso una parità più completa. 

In ogni caso, anche se in un primo momento non ottengono il diritto di voto o si limitano a poter scegliere tra candidati uomini, con questa battaglia si sono prese la voce, la possibilità di essere ascoltate in pubblico. E non è poco.

Schema di date. Capitolo terzo




Fuego: 114 morti e 197 dispersi. Continua la conta delle vittime

Non è ancora finita la conta degli ingenti danni e delle centinaia di vittime causate dall’eruzione vulcanica che il 3 giugno ha devastato il territorio guatemalteco e la sua popolazione. 

Foto 1. Il vulcano in eruzione

Fonti locali parlano, fino a questo momento, di 114 morti, molti dei quali minori, ma probabilmente i numeri aumenteranno di ora in ora man mano che gli scavi, nonostante la forte pioggia renda ancora più difficile le operazioni di soccorso, consentiranno il ritrovamento di nuovi corpi sotto le macerie. A queste stime va aggiunto che numerose persone travolte dalla lava non saranno ritrovate proprio in quanto carbonizzate o ridotte in cenere dal disastro prodotto dal vulcano Fuego (attualmente i dispersi sono 197).

Foto 2. Famiglia in fuga 

Eventi come un’eruzione di questo genere sono calamità naturali, non causate dall’attività umana. Eppure, come si è visto varie volte anche in Italia, spesso i danni naturali sono aggravati dalla irresponsabilità degli organi addetti alla prevenzione e al soccorso.

Il 3 giugno era chiaro cosa stesse accadendo fin dalla mattina, quando una nube di polvere e cenere ha coperto il cielo nella zona di Escuintla; eppure, né il governo, né la polizia, né la CONRED (Coordenadora Nacional para la Reducción de Desastres, l’equivalente della nostra Protezione Civile) hanno riconosciuto il pericolo e fatto evacuare la zona. Così, quando nel pomeriggio dello stesso giorno alcune consecutive esplosioni particolarmente forti hanno lanciato in aria materiale incandescente, tanto la popolazione quanto le istituzioni centrali e locali si sono ritrovate totalmente impreparate a fronteggiare l’evento tutt’altro che imprevisto. L’area colpita arriva fino alla capitale Ciudad de Guatemala, distante circa 30 chilometri dal cratere da cui l’eruzione è partita. Gli abitanti di San Miguel Los Lotes denunciano che la CONRED non ha dato loro l’ordine di evacuazione se non quando la località era già stata sepolta dalla cenere.

Foto 3. Evacuazione. Donne e bambini

Dopo aver militarizzato la zona impedendone l’accesso anche a chi vi abitava, il presidente della Repubblica James Ernesto Morales Cabrera (più noto come Jimmy Morales) non ha stanziato un solo centesimo per far fronte all’emergenza. Secondo il presidente è la legge di bilancio a non permettergli di usare soldi per i soccorsi necessari ma in realtà, come spiega il quotidiano guatemalteco El Periódico, l‘articolo 101 della stessa legge di bilancio permette di creare un fondo straordinario per le emergenze dopo aver dichiarato lo stato di calamità pubblica, istituito dal governo il 3 giugno stesso e ratificato l’indomani dal Parlamento. 

Foto 4. Prima e dopo. La devastazione dei villaggi

Lo stesso giornale accusa il governo di aver causato il ritardo dell’arrivo degli aiuti umanitari internazionali. Vista la sfiducia nella trasparenza delle istituzioni pubbliche locali, diffusa sia in Guatemala che all’estero, la maggior parte delle donazioni viene consegnata direttamente sul posto senza passare per la CONRED. 

5. Fuego. Veduta aerea

Un’analoga sfiducia ha colpito la Protezione Civile italiana in seguito agli ultimi terremoti nell’Italia centrale, tanto che molte associazioni e singole persone hanno rifiutato di finanziarla e inviato beni di vario genere direttamente alle popolazioni colpite dai sismi. 




L’annessione del Sud e la III Guerra d’indipendenza

Già nel 1844, i fratelli Carlo ed Emilio Bandiera avevano tentato di fomentare un’insurrezione repubblicana in Calabria, ma la popolazione locale non aveva aderito. Di nuovo, nel 1848, Carlo Pisacane aveva tentato una nuova insurrezione antiborbonica, stavolta in Campania, ma l’impresa si era rivelata un ulteriore clamoroso fallimento.

Nel 1860, approfittando dello scontento lasciato dai Borbone in Sicilia, Giuseppe Garibaldi decide di ritentare la conquista del Meridione. Parte da Quarto (vicinissimo a Genova) con circa un migliaio di uomini verso la Sicilia. A casa Savoia il Sud non interessa, a livello economico, e anche Cavour è contrario alla missione, sapendo che Garibaldi ha idee repubblicane e democratiche, quasi socialiste, e rischia di fondare una repubblica nell’Italia meridionale escludendo i Savoia. I volontari garibaldini sbarcano in Sicilia e, promettendo la democrazia e la fine del latifondismo, conquistano subito l’appoggio della popolazione locale. Non tutti sanno che alla spedizione partecipa anche una donna, Rose Montmasson, e altre presenze femminili si registrano in Sicilia: fra queste Jessie White Mario, Antonia Masanello, Maria Martini della Torre.

L’imbarco dei Mille da Quarto, 1860, Gerolamo Induno

Nel giro di poche settimane prendono possesso di tutta l’isola, varcano lo stretto di Messina e puntano su Napoli. Il Re Ferdinando II di Borbone scappa a Gaeta e lascia la città in mano ai nuovi arrivati. A questo punto il governo di Torino non può non interessarsi alla questione.

La situazione si fa preoccupante: Vittorio Emanuele e Cavour temono che Garibaldi conquisti anche Roma, il che provocherebbe la reazione francese in difesa del Papa, e che insieme a Giuseppe Mazzini instauri a Napoli una repubblica democratica con il consenso della popolazione napoletana ma non dei Savoia. Dunque il Re occupa le terre pontificie di Umbria e Marche con il consenso francese e inglese (in quanto è l’unico modo per impedire che Garibaldi prenda Roma e soprattutto che istituisca la repubblica) e punta su Napoli per fermare Garibaldi. Intanto, a Torino, il Parlamento piemontese ratifica l’annessione dell’ex Regno delle Due Sicilie al Regno di Sardegna: non è un’unificazione tra Stati ma una conquista di uno su tutti gli altri. 

A Teano, in Campania, Vittorio Emanuele incontra Garibaldi che ha definitivamente sconfitto i Borbone: senza una sola parola di ringraziamento né il minimo riconoscimento di quanto fatto, il Re gli ordina di smettere la sua marcia. «Obbedisco» è la celebre risposta di Garibaldi, prima di ritirarsi a vita privata in Sardegna. 

2. L’incontro di Vittorio Emanuele II e Garibaldi a Teano (particolare), di Pietro Aldi. Palazzo Pubblico di Siena, affresco del 1886 

Umbria e Marche ratificano l’annessione al Regno di Sardegna con un altro plebiscito, di nuovo a suffragio universale maschile. Il Sud invece è annesso senza plebiscito. I sogni di democrazia, di abolizione del latifondo e di spartizione delle terre svaniscono nel nulla. Garibaldi vorrebbe conquistare anche Roma ma è costretto a rinunciare, vorrebbe la repubblica a Napoli con un’assemblea costituente eletta dalla popolazione ma non gli viene permesso: così, suo malgrado, un uomo di tutt’altre idee si è ritrovato a servire gli interessi di casa Savoia.

3. La bandiera del Regno d’Italia

Il 17 marzo 1861 viene proclamato il Regno d’Italia con capitale Torino: il sogno originario era Roma capitale ma la Francia non lo permette. La Costituzione del Regno è lo Statuto Albertino, il Primo Ministro è Camillo Cavour e il primo Re è Vittorio Emanuele II di Savoia, «Re d’Italia per grazia di Dio e per volontà della Nazione»: per sottolineare la continuità tra il vecchio Stato e il nuovo, il sovrano rifiuta di cambiare nome in Vittorio Emanuele I, come a ricordare che non c’è stata nessuna unificazione ma solo un’annessione in stile medievale. Mentre l’Italia centrale è stata annessa al Regno di Sardegna con plebisciti votati a suffragio universale maschile, per le elezioni del nuovo Parlamento il suffragio ritorna a essere ristretto per censo.

Il nuovo Regno d’Italia si presenta sulla scena internazionale come alleato di Francia e Gran Bretagna e acerrimo nemico dell’Austria.

Pochi mesi dopo Camillo Cavour muore.

Rispetto all’Italia che conosciamo oggi, nel periodo subito dopo la formazione del Regno mancano il Veneto, il Friuli-Venezia Giulia, il Trentino, il Sud Tirolo e il Lazio.

4. Il Regno d’Italia

Nel 1864 l’Italia si impegna nuovamente con la Francia a non toccare la città di Roma, stavolta in cambio del graduale ritiro delle truppe francesi dalla città pontificia. Per rassicurare Napoleone III che Roma non verrà attaccata, la capitale del Regno viene spostata a Firenze. 

Intanto in Prussia è salito al governo Otto Von Bismarck, intenzionato a conquistare parte dell’Austria per dar vita al II Reich (l’impero tedesco). Nel 1866 Bismarck propone all’Italia una nuova alleanza antiaustriaca: in cambio di una guerra comune su entrambi i fronti, in caso di vittoria l’Italia riceverà il Veneto. Inizia così la III Guerra d’Indipendenza. L’Italia perde tutte le battaglie sulle Alpi, solo Garibaldi sta per ottenere alcune vittorie sulla strada verso Trento ma riceve dal Re l’ordine di desistere. La Prussia invece vince contro l’Austria su tutti i fronti. L’Italia di fatto ha perso le sue battaglie ma, in quanto alleata della potenza vittoriosa, siede al tavolo delle trattative in qualità di vincitrice, ottenendo così il Veneto. Per sfregio all’Italia, l’Austria cede il Veneto alla Francia, anch’essa alleata della Prussia, la quale poi lo “consegna” all’Italia: essendo in vigore questo schema di alleanze, l’Italia ha pagato con migliaia di morti ciò che avrebbe potuto ottenere gratis con accordi diplomatici. 

L’anno successivo Garibaldi ci riprova: nonostante gli accordi, nel 1867 con pochi volontari entra nel Lazio alla volta di Roma ma viene tempestivamente fermato e arrestato dai soldati francesi. Il piano prevedeva un’ampia insurrezione popolare a Roma, mai verificatasi per mancanza di partecipazione, fatta eccezione per poche decine di persone guidate da Giuditta Tavani Arquati e dal marito, laica e ostile al Papa e già protagonista della resistenza durante la Repubblica Romana del 1849. Il Re conferma all’Imperatore dei Francesi quanto già concordato: Roma non sarà toccata.

5. Schema di date

6. La formazione dell’Italia