Rita Atria, testimone di giusizia

Fra le figure di donne Giuste segnalate dalle scuole nell’ambito della quarta edizione del concorso nazionale “Sulle vie della parità”, la più giovane delle venti selezionate dalla giuria è Rita Atria, appartenente alla categoria delle donne che si sono ribellate alla mafia, hanno lottato contro l’organizzazione e la mentalità mafiosa, hanno rischiato e spesso perso la vita, solo apparentemente sconfitte, in realtà vittoriose contro l’indifferenza, l’omertà e la paura.

Rita Atria, testimone di giustizia, è stata indicata da tre scuole diverse: l’IIS Vaccarini di Catania, l’ITE Bassi e il Liceo Vegio di Lodi; anch’essa è stata poi posizionata, il 10 marzo 2017, all’interno del Viale delle Giuste nella Libera Università di Alcatraz.

Foto 1. Il pannello dedicato a Rita Atria nella Libera Università di Alcatraz

Rita ha 17 anni quando la sua coscienza le impone di denunciare il sistema mafioso che soffoca il territorio di Agrigento, nella cui provincia (Partanna), era nata nel 1974. Aveva solo undici anni quando suo padre, Don Vito, un boss il cui compito consisteva nel mantenere “la pace” fra i vari clan locali, era stato ucciso in un agguato. Dopo sei anni era venuta la volta di suo fratello, Nicola, a cui Rita era molto legata. Dal fratello, “pesce piccolo”, che girava sempre armato e con una grossa moto, aveva appreso importanti informazioni relative agli affari criminali del paese: Rita scrive tutto ciò che sa e che le accade sul suo diario, col quale si sfoga e parla di una vita che non le piace. In quell’ambiente malavitoso, era stata allora sua cognata, Piera Aiello, ad aprire la strada della ribellione e a decidere di mettersi dalla parte della giustizia, denunciando alla polizia gli assassini che aveva visto con i suoi occhi. Grazie alle sue rivelazioni, vennero arrestati diversi mafiosi.

La scelta della denuncia comporta per Rita una terribile solitudine. In quel mondo è ritenuta un’infame, tutti l’abbandonano, anche sua madre, che le ripete: “Rita, non t’immischiare, non fare fesserie”. Quella figlia così poco allineata, per niente assoggettata, le procurava stizza e preoccupazione, non le perdonava di aver “tradito” l’onore della famiglia. L’abbandona anche il fidanzatino, Calogero, un giovane del suo paese, troppo spaventato per poter rimanere legato a chi vuole scontrarsi con i capi mafia. Ma lei non desiste.

Dopo l’incontro con il giudice Paolo Borsellino, che all’epoca era procuratore di Marsala, nel suo animo fiorisce la speranza che la giustizia possa fare il suo corso. Si fida di quell’uomo che diventa per lei come un padre. Gli rivela particolari che tra l’altro consentono di avviare un’indagine sul sindaco di Partanna, Vincenzino Culicchia, esponente della Democrazia Cristiana.

Rita Atria si trasferisce a Roma con la cognata, sotto protezione, ma quando nell’estate del 1992 apprende la notizia dell’assassinio di Paolo Borsellino, in preda alla disperazione si lancia nel vuoto dal settimo piano del palazzo di viale Amelia, in cui viveva in clandestinità, sotto falso nome. Dopo la sua morte viene considerata come una “fimmina dalla lingua longa e amica degli sbirri” e per questo al suo funerale non si presenta nessuno, nemmeno la madre, che l’aveva già ripudiata in vita, e che distruggerà, mesi dopo, a colpi di martello il marmo tombale e la fotografia della figlia. Per 20 anni la sua tomba è rimasta in stato di abbandono.

Foto 2. Intitolazione a Roma. Foto di Barbara Belotti

Le classi hanno riconosciuto in Rita una Giusta, una giovane donna libera, che ha la legge morale dentro di sé e la fa valere ovunque, contro uomini e donne che vogliono spegnere la dignità e la gioia di vivere liberi. È stata vista come un’eroina per la sua capacità di rinunciare a tutto, persino all’affetto della madre. Hanno scritto: “È dovere di tutti noi ricordare la figura di Rita, noi che viviamo in un Paese dove la mentalità omertosa la fa ancora da padrona.”

A lei sono stati dedicati tanti libri, spettacoli teatrali e film. A lei sono state dedicate tante vie e beni confiscati alla mafia, come per esempio il capannone di Calendasco, in provincia di Piacenza, inaugurato il 12 maggio 2018 alla presenza di Enza Rando per l’associazione Libera e don Luigi Ciotti, che di lei ricordò queste parole: «Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c’è nel giro dei tuoi amici, la mafia siamo noi e il nostro modo sbagliato di comportarci. Borsellino sei morto per ciò in cui credevi, ma io senza di te sono morta».

Foto 3. Intitolazione a Pontefelcino (PG). Foto di Paola Spinelli




The Mother of the Civil Rights Movement. Rosa McCauley Parks

Alla fine dell’anno scolastico si susseguono molti eventi che hanno lo scopo di far conoscere anche al pubblico di genitori e genitrici, cittadini e cittadine esterne alla scuola le imprese più belle e significative sviluppate da ragazzi e ragazze che non solo si stanno preparando a entrare in società, ma che ne sono già parte attiva e propositiva. Una di queste occasioni è stata a Lodi la ManifestAzione ASL, il 31 maggio scorso, che ha presentato le buone pratiche dell’Alternanza Scuola Lavoro tra presente e futuro.

Lo stand del Liceo Maffeo Vegio – insieme a tanti altri progetti e attività di ASL realizzate nel triennio 2015-2018 in cui gli stage sono diventati obbligatori per legge (la famosa o famigerata 107, detta della “Buona scuola”) – ha presentato l’allestimento della mostra del Viale delle Giuste, che le studenti della classe 3 E del Liceo delle Scienze Umane hanno saputo ben illustrare a chi si fermava a chiedere notizie e informazioni sulle attività. 

Foto 1. La classe all’opera

Tra le tante figure di Giuste rappresentate (per la definizione di Giusta e il progetto di Alternanza Scuola Lavoro attinente vedi https://www.impagine.it/toponomastica/ricerche/4487-2/) ha particolarmente colpito il pubblico una donna forse mai ben identificata come Giusta ma appartenente al popolo e capace di rivendicare diritti fondamentali, come quello della libertà e dell’uguaglianza, senza grandi parole e tuttavia con l’azione silenziosa quanto ferma e decisa.

Foto 2. Il pannello della mostra dedicato a Rosa Parks

Rosa McCauley era una sarta, che si guadagnava da vivere lavorando in un grande magazzino di Montgomery, in Alabama, dove risiedeva. Allora, nei primi decenni del ‘900, non c’erano molte alternative per una donna, figuriamoci per una donna nera! Chi apparteneva alla cosiddetta razza inferiore, poteva a malapena stare negli stessi luoghi degli altri: dappertutto vigevano minuziose e intransigenti leggi che ponevano i bianchi a un livello superiore rispetto ai neri.

Nel 1932 sposa Raymond Parks, un attivista del movimento dei diritti civili, e frequenta la Highlander Folk School, un centro educativo per i diritti dei lavoratori e l’uguaglianza razziale, negli anni in cui Martin Luther King lottava per far valere i diritti dei neri, che nel XX secolo, venivano ancora oppressi dai bianchi.

Montgomery, 1° dicembre 1955: Rosa McCauley sta tornando a casa in autobus. Sale, prendendo posto dietro alla fila dei bianchi, nei ‘posti comuni’. Un bianco, invece, rimane in piedi. Il conducente se ne accorge e le ordina di cedergli il posto. Rosa non si muove: è un silenzioso segno di ribellione, un NO determinato, pronunciato sommessamente. Il conducente ferma il pullman, chiama gli agenti di polizia: Rosa è imprigionata per comportamento improprio e per non aver rispettato le leggi cittadine.

Il gesto di Rosa però non rimane senza conseguenze: si verifica infatti un effetto a catena e, grazie a lei, si accende la voglia di lottare per la libertà e l’uguaglianza di tutti. La notizia della sua carcerazione, la notte stessa, porta decine di organizzatori e capi delle comunità afroamericane a dare inizio a una rivolta. Da allora è conosciuta come The Mother of the Civil Rights Movement. Guidata da Martin Luther King, la rivolta provocata dal coraggio di Rosa è “l’espressione individuale di una bramosia infinita di dignità umana e libertà”, come ebbe a dire lo stesso pastore protestante, che organizzò dal pulpito della sua chiesa il boicottaggio pacifico delle autolinee di Montgomery. La comunità nera di Montgomery non userà gli autobus per ben 381 giorni.

Nel 1956 la Corte Suprema degli Stati Uniti d’America, dopo essere stata informata dell’episodio, ordinò, all’unanimità, che la segregazione sui pullman pubblici dell’Alabama fosse, da quel momento, considerata incostituzionale.

Foto 3. Genova Voltri. Intitolazione a Rosa Parks. Foto di Daniela Domenici

Dare visibilità a questa donna e raccontare la sua storia è stato un grande piacere per le studenti del Vegio. Il pubblico della ManifestAzione ha ringraziato le ragazze e ha apprezzato il lavoro svolto da tante classi di tutta Italia che hanno partecipato alle due edizioni scorse del concorso “Sulle vie della parità”, indetto dall’Associazione Toponomastica femminile.

In copertina. Sedile di un autobus a Miami. Foto di Luciana Grillo




Yoryanis Isabel Bernal Varela

I popoli indigeni dell’America Latina stanno combattendo una battaglia impari contro gli ingenti interessi economici delle multinazionali che sfruttano e distruggono il loro ambiente naturale, spesso con la connivenza dei governi locali che si spartiscono “la torta”. Donne e uomini, leader nella difesa delle loro terre e dei diritti umani, lottano per una sopravvivenza culturale che diventa sempre più anche fisica: è solo di venti giorni fa l’assassinio di Olivia Arevalo Lomas, ma le persone uccise sono centinaia e per la maggior parte di esse non c’è stata giustizia.

Una Giusta è stata senz’altro Yoryanis Isabel Bernal Varela, leader della comunità indigena Golkuche del popolo Wiwa, uccisa il 26 gennaio 2017, a soli quarantatré anni, con un colpo di pistola alla testa (anche questa, come altre, una vera e propria efferata esecuzione) vicino a Valledupar, città situata nella Sierra Nevada, all’estremità settentrionale delle Ande, nel nord della Colombia.

Nella Sierra Nevada di Santa Marta il territorio è ordinato da bacini, l’acqua è sacra, i cicli della Madre Terra vanno rispettati e l’equilibrio dell’universo va mantenuto. Gli indios devono prendersi cura del cuore del mondo (per esempio si oppongono con forza alle dighe idroelettriche che già esistono o che sono progettate nella loro regione, perché interferiscono col ciclo naturale dell’acqua, minacciando le colture e il bestiame delle tribù), devono ricompensare la natura di ciò che viene tolto per il sostentamento umano… se la natura viene saccheggiata, derubata, colpita… ciò è vissuto come un sacrilegio. Contro tutto ciò, mantenendosi fedele alla grande spiritualità del suo popolo, lottava Isabel Varela e per questo è stata assassinata.

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Il segretario dell’organizzazione Wiwa Golkuche, José Gregorio Rodríguez,ha denunciato fortemente tutte le intimidazioni e le minacce che subiscono i popoli indigeni, e ha affermato: “Hanno assassinato una nostra compagna e violato i nostri diritti. Gli altri leader devono essere protetti.” Infatti le ricchezze naturali della Sierra Nevada attirano sempre di più pericolosi progetti di “sviluppo”, che occidentalizzano quei popoli, militarizzano alcuni gruppi per farsene degli alleati, distruggendone l’atavica cultura e impossessandosi anche di tutti i profitti. Isabel difendeva i diritti delle donne, tutt’uno con l’origine, il nutrimento, la cura del mondo. “Hanno portato via una grande leader, e quando questo accade, la nostra cultura corre gravi pericoli, perché non ci sono molte persone abbastanza coraggiose da affrontare i nostri problemi di ordine pubblico, rischiando la vita”, ha detto il capo del consiglio tribale dell’Arhuaco, Kogui e popoli Wiwa, Jose de los Santos.

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“Si vive una violenza selettiva, che colpisce esponenti politici ed attivisti e che molto si accanisce sulle donne: quelle che hanno conquistato visibilità sono uno schiaffo in faccia a chi storicamente in Colombia ha mescolato l’azione criminale con la sottomissione psicologica e morale della popolazione. Il corpo della donna e il territorio, violare il primo per sottomettere il secondo: è stato il tratto distintivo anche di questa guerra, che ha lasciato almeno 300.000 morti e cinque milioni di sfollati. Metà delle vittime sono donne. Innumerevoli i casi di stupro – almeno 550.000 – perpetrati per la stragrande maggioranza da paramilitari (67%), seguiti da esercito (23%) e guerriglia (8%)di cui solo il 10% fra quelli denunciati ha avuto un processo.” Così si legge in un interessante articolo uscito su Il manifesto del 18 aprile 2017 (http://www.yaku.eu/2017/05/02/la-pace-sul-corpo-delle-donne-in-colombia/)

E noi che cosa possiamo fare? Continuare l’informazione, la denuncia, non dimenticare…

 




Olivia Arevalo Lomas

Appena saputa la notizia, anche sulla pagina fb di Toponomastica femminile, quasi in diretta, sono apparsi i primi affranti, increduli e indignati commenti sull’ennesima uccisione di leader che lottano contro la corruzione e lo sfruttamento criminale delle risorse ambientali del pianeta: giovedì 19 aprile 2018 la Federazione delle comunità native di Ucayali e Affluentes (FECONAU) fa sapere a tutto il mondo (almeno a quella parte che vuole ascoltare e non nasconde queste notizie) che è stata uccisa Olivia Arevalo Lomas, insegnante e attivista nella difesa delle terre ancestrali e dei popoli dell’Amazzonia, a Yarinacoa, nella regione Ucayali, in Perù. “Cade un’altra sostenitrice dei diritti umani!” scrive Anna Luisa, “Ma è una strage, una dopo l’altra” è il grido indignato di Maria Pia, e “Addio, eroina dei diritti della natura e dei popoli indigeni” è il commosso saluto sulla pagina fb di GreenMe. Aveva 80 anni e da una vita combatteva contro le crudeltà e le ingiustizie che subiva la sua gente, massacrata dai Narcos e dai disboscatori illegali, ma non si arrendeva, nonostante il pericolo evidente, finché la sua vita non è stata fermata!

Olivia, chiamata “maraya” la saggia, apparteneva al popolo Shipibo-Konibo del Perù. In uno dei suoi ultimi video, pubblicato sul sito https://www.greenme.it/, Olivia canta immersa nella splendida natura lussureggiante alle sue spalle, in cui si notano già però gli interventi distruttivi umani, e prega che tutto ciò si fermi e si lasci in pace la natura. Difende la sua foresta, la sua cultura, le sue tradizioni. Si sentono i cinguettii degli uccelli unirsi al suo canto: anch’essi in pericolo di estinzione per la scomparsa del loro territorio, così come i popoli indigeni.

Molte altre organizzazione, insieme a FECONAU, hanno condannato quella che definiscono una vera e propria esecuzione, purtroppo da parte di sconosciuti che si teme non verranno mai identificati e condannati, nonostante lo stato peruviano abbia detto di aver iniziato immediatamente la ricerca dei responsabili! Come lei altri leader indigeni sono costantemente oggetto di minacce di morte e persecuzioni, per le loro denunce nei confronti delle multinazionali che saccheggiano in modo incontrollato le risorse ambientali. Sono ben 197 le persone uccise in America Latina, solo nel 2017, “per essersi opposte ai governi e alle imprese che saccheggiano le loro terre e danneggiano l’ambiente tramite corruzione e pratiche inique”, come afferma una ricerca della ONG Global Witness.

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Noi qui vogliamo ricordare alcune delle altre Giuste assassinate in America Latina: da Bertha Isabel Caceres Flores, ambientalista honduregna, a cui è già stata dedicata una ricerca da parte delle scuole, presente nel Viale delle Giuste nella libera Università di Alcatraz, uccisa nel marzo 2016 (foto 3) a Yoryanis Isabel Bernal Varela, leader della tribù Wiwa e attivista per i diritti delle donne indigene in Columbia, colpita a soli quarantatré anni nel febbraio 2017; da Laura Leonor Vásquez Pineda, fiera oppositrice del settore minerario in Guatemala, uccisa nel gennaio 2017 a Miriam Rodriguez Martinez, attivista per gli “scomparsi” in Messico, uccisa nel maggio 2017, dopo che, minacciata di morte dai cartelli della droga, lo Stato non è riuscito a proteggerla.

Loro, di cui parleremo nelle prossime settimane, e tante altre, di esempio per l’impegno volto a difendere interessi collettivi, non devono essere dimenticate e soprattutto devono diventare materia di studio e conoscenza della società globalizzata da parte dei e delle giovani studenti.

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Chi di voi, lettrici e lettori di ImPagine, volesse segnalare e vedere qui ricordata una figura di donna Giusta, che abbia messo a repentaglio la propria vita in difesa della giustizia, contro soprusi, discriminazioni e crimini, può scrivere a questa rubrica oppure sulla pagina fb di Toponomastica femminile.

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Emanuela Loi, una vita per la giustizia

Siamo state a Palermo in viaggio d’istruzione, con la guida dell’associazione Libera, che ci ha fatto conoscere i luoghi simbolo della città nella lotta alla mafia e i siti dove, dai beni confiscati, sono sorte imprese pulite che danno lavoro sano e onesto alla gente: dalla cantina Centopassi agli agriturismi del corleonese.

In via D’Amelio, dove si è consumata una delle stragi più terribili della mafia, ci siamo fermate ad ascoltare il racconto dell’esplosione che ha ucciso, davanti all’abitazione della madre, il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta.

Gabriele, il mediatore culturale di Palma Nana (cooperativa aderente all’associazione Libera) che ci accompagna, è commosso nel ricordarci che Borsellino sapeva benissimo di essere in grave pericolo, dopo l’omicidio del suo amico e collega Giovanni Falcone, il 23 maggio del 1992, ma che nonostante questo non aveva smesso di continuare quell’impossibile lavoro, con la tremenda consapevolezza di veder incombere la minaccia non solo su di lui, ma anche sulle persone a lui più vicine.

L’Albero di Borsellino, in via D’Amelio (in foto) testimonia la volontà di non dimenticare e lottare finché la mafia non sarà distrutta e il lavoro dei giudici trucidati portato comunque a compimento.

FOTO. L’albero di Borsellino

Fra i tanti ricordi e omaggi, lasciati dalla gente comune, spicca l’immagine di Emanuela Loi (in copertina), la poliziotta agente della scorta, uccisa insieme al giudice e ad altri quattro agenti. Sentendo la sua storia, l’abbiamo riconosciuta come una Giusta, come una donna che ha agito in nome della giustizia e per questo ha sacrificato la sua vita. Certo, si può dire che stesse semplicemente facendo il suo dovere (lo ripeteva sempre ai genitori preoccupati: “è il mio lavoro!”), ma quel giorno, il 19 luglio 1992, avrebbe potuto non essere lì, essere in ferie, lontana da quello che sapeva essere un grande pericolo, lei giovane ragazza di ventiquattro anni, solo da un mese nel servizio scorte: invece decise di voler rimanere a proteggere quel giudice di cui aveva grande stima e che stava combattendo, isolato e malvisto, contro la criminalità. Ciò che ha particolarmente colpito Roberta, della classe 3 E del Liceo Maffeo Vegio di Lodi, ricercando su Emanuela Loi, è stata una frase spiritosa del giudice Borsellino che, vedendo la giovane agente nella sua scorta sbottò: “E lei dovrebbe difendere me? Dovrei essere io a difendere lei”. Il suo coraggio nel non fuggire davanti al pericolo, ma nel rimanergli accanto, dimostrerà che ne era all’altezza!

Emanuela Loi, diplomata maestra e abilitata all’insegnamento, nell’attesa di ottenere la cattedra, decise di tentare anche il concorso in polizia per far compagnia alla sorella Claudia, di due anni più grande: fu lei e non la sorella a superare il concorso e diventare poliziotta, combattendo contro tanti pregiudizi che non la facevano ritenere adatta a quel lavoro, ritenuto troppo pesante fisicamente e psicologicamente per una donna. Non si fece demotivare dalle voci e si preparò con responsabilità ed entusiasmo, partendo dalla sua Sardegna per andare prima a Trieste e poi via via in altri posti fino a Palermo, assegnata al pool antimafia.

La sorella Claudia è testimone indefessa del suo coraggio e della sua determinazione nel contribuire alla sconfitta della mafia, e parla soprattutto nelle scuole e ai giovani perché ne seguano l’esempio sulla via della legalità e della giustizia, perché diventino, come lei, antidoto alla criminalità, nella convinzione che ognuno deve impegnarsi, perché solo quando gli ideali di onestà e giustizia diventeranno patrimonio universale non sarà più necessario morire per difenderli.

A Emanuela, prima donna in polizia a morire in servizio, sono stati dedicati libri, film e moltissime vie in tante parti d’Italia.

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Intitolazione a Bolsena, foto di Livia Capasso

Intitolazione a Olbia, foto di Enrico Grixoni

 

 

 




Marielle

A Rio de Janeiro, nella notte tra il 14 e il 15 marzo 2018, viene brutalmente assassinata Marielle Francisco da Silva, insieme al suo autista, Anderson Pedro Gomes, in quella che è stata definita come una vera e propria esecuzione.

Attivista per i diritti umani, femminista, difensora di donne, neri, persone LGBT e indigeni, Marielle Franco con coraggio denunciava le violenze contro le donne afroamericane delle favelas (lei stessa era nata e cresciuta a Marè, una favela di Rio, e amava chiamarsi Cria da Marè, Figlia della Marea) e ultimamente aveva aspramente criticato la polizia per le azioni violente che avevano portato all’uccisione di Matheus Melo, l’assistente di un sacerdote, nella favela di Acari.

A febbraio si era pubblicamente dichiarata contraria alla militarizzazione delle forze di polizia decisa dal governo centrale. Forse proprio per questo è stata “giustiziata” a soli trentotto anni, con quattro colpi di pistola alla testa e proiettili provenienti da un lotto venduto alla polizia federale: la sua figura come Giustaci è stata segnalata da moltissime amiche, rimaste attonite e sconvolte di fronte a tanta brutalità per spegnere un impegno e una passione tanto grandi.

A chi dava così tanto fastidio?

Rispondere a questa domanda è trovare i responsabili della sua morte.

Eletta consigliera comunale del Partito Socialismo e Libertà a Rio de Janeiro, nel 2016, con un impegno politico volto a combattere discriminazioni e diseguaglianze, era in prima linea per difendere i diritti, soprattutto delle donne e della comunità LGBT, da quando a diciannove anni si era trovata ad affrontare la vita da sola con una figlia e l’aiuto della compagna, Mônica Benício.

Orgogliosa della sua condizione di donna, povera, nera e omosessuale, si era laureata in Scienze Sociali, specializzata in responsabilità sociale e settore terziario, conseguendo anche un masterin pubblica amministrazione.

È stata consigliera parlamentare del deputato Marcelo Freixo e coordinatrice della Commissione per la difesa dei diritti umanie della cittadinanza. Nel Consiglio municipale ha presieduto la Commissione per la difesa delle donne ed è entrata anche nella Commissione incaricata di monitorare l’azione della polizia federalea Rio de Janeiro, ricoprendo tale incarico sino al suo assassinio.

Migliaia di persone sono scese in piazza in diverse città del Brasile per protesta, ma l’ondata di sdegno si è propagata in tutto il mondo, sulle reti sociali. La figlia Luyaraha scritto: “Hanno ucciso mia madre e altri 46 mila elettori! Continueremo la tua lotta! Ti amo”. In un bellissimo video Marielle appare in tutta la sua forza e bellezza, in tutto il suo impegno contro i poteri forti.

“Per te non un minuto di silenzio ma anni di numerose battaglie”

Fino a quando grandi e Giuste donne, come Marielle – e tante altre, attualissime purtroppo, come, per ricordarne qui solo alcune, Ilaria Alpi, Bertha Caceres, Anna Politkovskaja, Daphne Caruana Galizia…- dovranno morire per rivendicare i diritti di tutti e tutte e per combattere la criminalità?

Questo spazio è aperto alle segnalazioni biografiche di lettori e lettrici




La ricerca delle “Giuste”. Anna Paolina Pazzaglia Spazio aperto a contributi esterni

Il viale delle Giuste, inaugurato nella Libera Università di Alcatraz, conta a oggi quaranta figure di donne degne di essere definite tali. I pannelli biografici esposti sono il risultato di una selezione operata dalla giuria nell’ambito del concorso nazionale “Sulle vie della parità.  Centinaia di altre proposte hanno raggiunto il tavolo delle giurate: si tratta soprattutto di personaggi poco noti, segno di una grande ricchezza di vite esemplari femminili nascoste nelle pieghe della storia. In questo spazio vorremmo far uscire dall’ombra quei nomi meritevoli e sconosciuti e raccogliere nel contempo, nuove segnalazioni di donne che hanno combattuto contro ingiustizie, soprusi, criminalità o discriminazioni.

Invitiamo pertanto lettrici e lettori a inviare contributi e profili via mail, scrivendo all’indirizzo baldo.d@impagine.it

Esordiamo oggi con la sintesi della proposta pervenuta dalla classe prima del Liceo Maffeo Vegio di Lodi, guidata dai docenti Laura Coci e Ivano Mariconti.

La biografia, inviata al concorso, è già presente nel viale perugino (foto di copertina).

Anna Paolina Passaglia, nata a Gragnano Trebbiense (Piacenza) l’11 aprile 1902 si avvia in giovanissima età alla professione di sarta. Nel 1920 sposa Giovanni Lanzani e si trasferisce a San Colombano al Lambro, nella casa di famiglia del marito, dove mette al mondo quattro figli.

Anna non frequenta la chiesa e non nasconde le sue opinioni socialiste, maturate grazie al confronto con il padre, e pertanto è isolata e malvista in paese.

Nel 1932 Giovanni viene investito da un’automobile guidata da un fascista e muore; l’antifascismo di Anna è rafforzato dall’impunità di cui gode l’uccisore del marito.

Il regime non le rilascia né la tessera alimentare né il materiale scolastico per i figli, uno dei quali, Mario, diventa partigiano dopo l’8 settembre 1943.

Anna entra in contatto con il partito comunista clandestino: procura armi e viveri ai resistenti del territorio e ne accompagna alcuni in montagna, dove andranno a costituire la 167a Brigata Garibaldi. Le viene affidato il delicato compito di ufficiale di collegamento.

Nel 1944 è arrestata e condotta nel carcere di Lodi, dal quale riesce a fuggire. Torna a San Colombano per trasferire i figli in un luogo sicuro e continuare la lotta fino alla Liberazione. Dopo la guerra fonda la sezione ANPI del territorio e si dedica ad aiutare le persone in difficoltà. Muore a San Colombano, il 19 settembre 1998.

La generosità e il coraggio di Anna sono ancor oggi ricordati nelle sue terre, dove le è stata dedicata la sezione locale dell’ANPI.

FOTO 1




Il Viale delle Giuste nella Libera Università di Alcatraz

10 e 11 marzo 2018: due giorni stupendi nella Libera Università di Alcatraz (Gubbio) per il progetto Viale delle Giuste, realizzato dall’associazione Toponomastica femminile e tante scuole di tutta Italia… studenti e docenti di Lodi, Codogno, Milano, Ferrara… e le prime due opere d’arte in onore delle Giuste, create da ACAV Codogno (LO) Associazione Culturale per le Arti Visive e ARTISANE Casalpusterlengo.

Premiazione con Jacopo Fo, Mario Pirovano, Maria Pia Ercolini e le docenti Danila Baldo, Venera Tomarchio, Daniela Fusari, Elvira Risino, Sara Marsico, Alice Vergnaghi, Margherita Falgetano, Maria Rosa Del Buono, Federica Pintus.

Queste le figure di donne Giuste (che hanno operato contro discriminazioni, ingiustizie e soprusi, mettendo a repentaglio o perdendo la vita) esito del lavoro delle/degli studenti in questo a.s. 17/18. Premiazione ulteriore avverrà nell’ambito del concorso “Sulle vie della parità” a Roma il 27 aprile prossimo.

Ayse Deniz                   Diritti civili
Gisella Floreanini Antifascismo
Renata Fonte               Legalità
Mary Harris Jones         Lavoro minorile, emarginazione
Ipazia                          Matematica
Wangari Maathai          Politiche di genere
Lise Meitner                 Antimilitarismo
Anna Maria Mozzoni      Diritti delle donne
Alice Paul                     Diritti delle donne
Anna Politovskaja         Attivista per i diritti umani
Salwa Salem                Femminista e pacifista
Teresa Sarti Strada       Attivismo sociale
Sophie Scholl               Resistenza tedesca
Irena Sendler               Nazifascismo
Settimia Spizzichino     Campi di concentramento
Ecaterina Teodoroiu      Prima Guerra Mondiale
Jeanne Antide Thouret Emarginazione
Harriet Tubman            Abolizionismo schiavitù
Jessie White Mario        Moti risorgimentali
Saamiya Yusuf Omar    Migrante per ottenere diritti




Il viale delle Giuste

È un progetto che nasce nel Parco della Libera Università di Alcatraz (Gubbio) durante un’esperienza di Alternanza Scuola Lavoro, nel marzo 2016.

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Dopo aver conosciuto il villaggio gestito da Jacopo Fo, individuato come sede del quinto Convegno nazionale dell’associazione Toponomastica femminile nel settembre 2015, ci era sembrato interessante pensare a un’attività che permettesse di continuare il nostro cammino di toponomaste con la Libera Università di Alcatraz. Così era nata l’idea di portar lì una classe, affinché imparasse la conduzione e l’organizzazione di un villaggio turistico-culturale quale quello di Alcatraz, con una progettualità che avrebbe implicato tematiche inerenti la Toponomastica femminile.

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Utilizzando la tecnica del brain storming, stimolata a illustrare le proprie idee, a scatenare la fantasia, una classe terza del Liceo Maffeo Vegio di Lodi, alla fine del percorso ha individuato un progetto che è stato chiamato “Viale delle giuste“, con l’intento di ricordare le numerose donne che hanno ben agito per la collettività, figure di donne non più viventi e preferibilmente non ancora riconosciute come Giuste in uno dei tanti giardini dedicati, a partire dal Giardino dei Giusti di Gerusalemme.

Per “Giuste” s’intendono donne laiche che in ogni tempo e in ogni luogo si sono distinte, anche a rischio della propria vita, sia per le loro attività volte alla salvezza di singole persone oggetto di persecuzione e di discriminazione, sia per la loro lotta e denuncia dei soprusi e delle ingiustizie, in difesa di un ideale superiore di dignità e umanità.

Il progetto “Viale delle giuste“ è diventato, poi, una sezione del concorso nazionale “Sulle vie della parità”, indetto da Toponomastica femminile e FNISM, invitando scuole di tutta Italia a ricercare e riflettere su figure femminili che in società hanno denunciato e combattuto ingiustizie o discriminazioni, sia nel passato sia nell’attualità, sia in Italia sia nel mondo.

Nel marzo 2017 il Viale delle Giuste, dedicato a Franca Rame, si è concretizzato nella tenuta della Libera Università di Alcatraz, in un percorso di circa tre chilometri, lungo il quale sono state esposte le biografie delle prime venti donne meritevoli del titolo di Giuste, selezionate dalla giuria del concorso fra centinaia di nomi mandati dalle scuole, inizialmente rappresentate con totem lignei, che poi verranno sostituiti da opere d’arte in materiali non deperibili.

Nel frattempo le biografie, appositamente stampate, sono divenute una mostra itinerante per scuole e biblioteche. (FOTO_04)

Quest’anno, domenica 11 marzo 2018, ad Alcatraz si completerà il Viale, con il ricordare altre venti donne Giuste e verranno istallate le prime tre opere d’arte, che andranno a sostituire i totem.

Obiettivo è però continuare la ricerca di donne Giuste da far uscire dall’ombra e ricordare come esempio, per le nuove generazioni: l’impegno è realizzare nei paesi, nelle città, nelle scuole… tanti Viali delle Giuste, sino a ricordarne cento, mille… di donne che hanno lottato per rendere questo mondo migliore!