Gesta e opinioni del dottor Faustroll patafisico

da Giusi Sammartino

Avrebbe compiuto 120 anni tondi. Ma si sarebbe ostinato (e sicuramente si ostina) a mantenere testardamente l’età della sua nascita: sessantatré anni. Mancavano ancora due anni per il XX secolo e nasceva la Patafisica, il cui rappresentante è appunto il dottor Faustroll, protagonista eccentrico di Gesta e opinioni del dottor Faustroll. Romanzo neo-scientifico uscito dalla penna di  Alfred Jarry. Un autore troppo scomodo per le coscienze “abitudinarie” di tutti gli anni passati e a venire e indiscutibilmente punto di partenza di tutte le avanguardie.

Ci ritroviamo così oggi a festeggiare un ultracentenario, nato in Circassia nel 1898, come detta il secondo capitolo del libro a lui dedicato, all’età di sessantatré anni e a questa età rimasto per tutta la vita.

A quell’età, che conservò per tutta la vita – troviamo scritto nel testo fondatore della scienza Patafisica –  il dottor Faustroll era una persona di statura media, cioè, per essere perfettamente veridico, di (8 × 1010 + 109 + 4 × 108 + 5 × 106) diametri di atomi; di pelle giallo-oro, con il viso glabro, salvo un baffi verde mare uguali a quelli che portava il re Saleh; i capelli alternativamente, pelo per pelo, biondo cenere e molto nero, ambiguità biondo-rame cangiante con l’ora del sole; gli occhi, due capsule di semplice inchiostro per scrivere, preparato come l’acquavite di Danzica, con dentro spermatozoi d’oro.

Come tutti i grandi personaggi letterari, dal Don Quijote di Cervantes al Cyrano di Rostand o al Bloom di Joyce e, meglio, al Faust di Goethe, Faustroll, che già dal nome prende corpo dalla figura goethiana, vive di vita propria alternandosi nella coscienza dell’autore all’autore stesso, scrivendone la sua biografia spirituale. Spesso la critica ha voluto offrire questo posto nell’autore Jarry a Père Ubu, ma Ubu risulta essere, alla fine, un’ulteriore prova perché si arrivi a Faustroll, dottore in patafisica e navigatore in “terra” parigina. Jarry definì la Patafisica come: «… scienza delle soluzioni immaginarie, che accorda simbolicamente ai lineamenti le proprietà dgli oggetti descritti per la loro virtualità».

Il Dottor Sandomir la spiegò in questo modo:  La Patafisica pazienta; è benigna; la Patafisica non compete mai, non deraglia mai, non è obesa, non ambisce affatto, non cerca il suo vantaggio, non si irrita, non pensa male; non ride dell’iniquità: non gioisce della verità scientifica; sopporta tutto, crede tutto, spera tutto, essa sostiene tutte le cose.

Albert Einstein ha scritto: Quello che è più incomprensibile è che ci sia ancora qualche cosa di comprensibile. Questa affermazione del grande premio Nobel è la prova, oseremo dire “scientifica”, della rivolta della realtà a se stessa proprio attraverso i metodi dell’indagine scientifica. Faustroll, più degli altri personaggi di Jarry, rappresenta in maniera ancora più globale la sovversione di qualsiasi luogo comune del linguaggio e della realtà, è la Patascienza fattasi “uomo” arrivando a misurarsi con Dio, indicandone in numeri matematici la superficie così come, lo abbiamo visto, all’inizio del romanzo lo aveva fatto con lo stesso Faustroll.

L’operazione che Jarry compie è di costante violenza su una realtà che non deve obbedire alle regole del metodo induttivo, ma che deve costantemente essere osservata secondo le leggi delle eccezioni dato che il consenso universale è di per sé un pregiudizio miracoloso e incomprensibile.  Questo modo di concepire la scienza come scienza delle eccezioni e quindi delle soluzioni immaginarie è l’essenza stessa della patafisica che si aggiunge alla metafisica, sia in essa, sia fuori di essa estendendosi così ampiamente al di là di questa quanto al di là della fisica e che trova i suoi predecessori in Democrito, Zenone, Lucrezio, ma soprattutto in Platone, citato da Jarry per le sue concezioni della verità apparente relativa alla conoscenza dell’uomo, oltre che in Rabelais al quale l’autore di Faustroll guarderà sempre.

Il viaggio “via terra” di Faustroll sul suo “vaglio allungato” (il cui nome francese as si potrebbe condurre a quello della moneta romana che era appunto di rame) attraverso le “isole” culturali di Parigi rispetta il principio trino fondamentale in Jarry: Dio trascendente è trigono e l’anima è trascendente è teogona e quindi similmente trigona. Con questo è chiaro che gli occupanti dell’ as debbano essere necessariamente tre: Faustroll, il funzionario Pammuphle e Bosse-de-Nage, scimmia-babbuino il cui viso, irriverente opera d’arte di trapianto del dottor Faustroll, può ricordare il motivo tricolore della bandiera francese e che  lo stesso Bosse-de-Nage , con la sua succinta esclamazione “ha ha”,  sia la negazione a sua volta del suddetto principio perché denuncia dello strano animale: lo sforzo, la fatica servile e obbligatoria, la coscienza della propria inferiorità, riprova, come il bastone-da-fisica, dell’identità dei contrari ed ennesima irrisione e violenza di Jarry sul linguaggio e sulle sue funzioni

Questa “esplorazione geografica” fatta da Jarry-Faustroll è ulteriore argomento della sua “lotta” contro la quarta dimensione che, da I giorni e le notti a L’amore a tempo fino a La costruzione della Macchina per esplorare il tempo e a La Dragonne, forma un filo rosso serpeggiante lungo tutta l’opera jarriana. La grande distorsione che Jarry ha operato sul modello goethiano per Faustroll è l’abolizione dell’angosciosa necessità di vittoria sul tempo, come notò Carlo Bo, facendo nascere il suo personaggio a sessantatré anni e facendolo poi, di contro, rimanere fisso a quell’età. Jarry “veggente ispirato” delle future rivelazioni della scienza si pose a sfida di questa einsteiniana quarta dimensione. E Jarry non sfiderà forse “faustrollianamente” il tempo scrivendo alla fine delle Gesta: “Questo libro non sarà pubblicato integralmente fino a che l’autore non avrà acquistato sufficiente esperienza per gustarne tutte le bellezze”? Ora noi sappiamo che il libro su Faustroll fu pubblicato nel 1911, a quattro anni dalla morte dell’autore. Forse un buon motivo per intuire il forte, metafisico coinvolgimento dell’autore con il suo personaggio. Auguri dottor Faustroll!




La Poesia è donna: AfroWomanPoetry

Di Arianna Marziali

La poesia è donna da sempre, dalle sue origini: già nell’antica cultura greca, è stata utilizzata dalle donne per parlare di loro stesse e della propria  condizione di vita, il linguaggio poetico si è dimostrato quello  che più si addice all’universo femminile perché fortemente simbolico ed evocativo. La poesia può parlare di amore senza doverlo nominare, può trattare di libertà senza dover dichiarare di esserne privati, può raccontare del coraggio e della forza senza doverli ostentare. La poesia è donna perché è un linguaggio per tutti, caldo e accogliente come il ventre materno ma, allo stesso tempo, difficile da cogliere nella sua profondità, perché richiede coraggio: il coraggio di immergersi negli abissi della propria anima.

Il mondo moderno ha bisogno più che mai di poesia per sensibilizzare gli animi e per metterci in condizione di saper ascoltare noi stessi e gli altri. Questo è il grande dono che ci viene offerto oggi da una giornalista italiana, Antonella Sinopoli, direttrice della testata giornalistica on-line “VOCI GLOBALI”https://vociglobali.it, attraverso il progettoAfroWomanPoetry.

Si tratta di un progetto che ha come obiettivo raccontare l’Africa “delle donne” attraverso la voce delle donne che utilizzano la narrazione poetica. Si è partiti dal Ghana, Paese dell’Africa sub-Sahariana, dove le donne rivestono ruoli di spicco nel mondo politico, economico e sociale ma dove le tradizioni culturali e le condizioni socio economiche delle classi meno abbienti hanno ancora un peso determinante rispetto alla questione della parità di genere. E Il Ghana è tra l’altro anche il Paese dove, Antonella Sinopoli, l’ideatrice di AfroWomenPoetry vive. Il Paese successivo è stato il Togo.

L’ambizioso obiettivo dunque è quello di raccontare la storia delle donne di diversi Paesi dell’Africa sub-Sahariana, per poter dar voce a tutte coloro che sono state bersaglio di violenza,  private dei loro diritti, vittime di pregiudizi legati alla società maschilista di appartenenza o derivati dall’arrogante e supposta superiorità della civiltà occidentale. Ma ci sono anche storie di riscatto, di forza, di emancipazione.

La descrizione del progetto, la formazione dello staff e la divulgazione delle opere è affidata al sito internet https://afrowomenpoetry.net/it nel quale vengono presentati i video delle poetesse mentre interpretano i loro poemi, sotto la schermata del video è possibile leggere i versi della poesia tradotti in lingua italiana, dagli originali inglese o francese. Attraverso il menu possiamo ritrovarci a curiosare nel backstage durante le riprese delle interpreti, leggere le interviste fatte all’ideatrice del progetto o gli articoli inerenti il progetto stesso. Ed è proprio grazie al sito che abbiamo la possibilità di cogliere la magia delle parole di questi testi attraverso la voce di coloro che gli hanno dato vita.

Le poetesse, protagoniste di AfroWomanPoetry, sono state raggiunte nei contesti a loro familiari all’interno delle proprie comunità di appartenenza, si è creato tra loro e le giornaliste di Voci Globali, arrivate lì per filmare le loro interpretazioni, un clima di fiducia ed empatia che ha reso possibile una comunicazione autentica. Le artiste coinvolte nel progetto sono tutte molto diverse tra loro, per classe sociale, appartenenza culturale e territoriale, molte di loro sono note perché hanno già pubblicato oppure ricoprono ruoli importanti in ambito politico, accademico o sociale.

Le autrici che, ad oggi, hanno partecipato al progetto interpretando i loro scritti sono donne originarie del Ghana e del Togo, come dicevamo. Analizzando le loro poesie possiamo già trovare delle differenze circa i temi trattati e la modalità con cui vengono affrontati:  le donne del Ghana mostrano di possedere una capacità espressiva più diretta e sembrano godere di una maggiore libertà; le donne del Togo a volte sono più intimiste e utilizzano una maggiore cautela non tanto nel trattare tematiche sociali quanto politiche.  In tutte comunque c’è chiarezza e coraggio nell’affrontare temi come la violenza, i pregiudizi sociali, la voglia di affrancamento. Questo già ci dà un’idea della variegata realtà culturale dell’Africa e di quanto donne che hanno vissuto vite diverse tra loro abbiano, comunque, raggiunto un alto grado di consapevolezza rispetto al mondo che le circonda.

AfroWomanPoetry ci dà la possibilità di comprendere quante cose accomunino le donne in quanto appartenenti allo stesso genere: nonostante le diverse coordinate geografiche c’è un “fil rouge” che unisce i nostri percorsi di donne e che ci ha portato a lottare per affermare chi siamo e cosa vogliamo, e per liberarci dalle catene di una società che è ancora oggi fortemente patriarcale e maschilista, da qualsiasi latitudine la si voglia osservare. Ora attendiamo le prossime tappe, molto presto il sito avrà esponenti dell’arte poetica femminile di altri Paesi del sub-Sahara.

 




“La Bastarda degli Sforza” di Carla Maria Russo

di Roberta Pinelli

Il libro si presta a una piacevole lettura per il contenuto e la figura di Caterina Sforza, tratteggiata con grande umanità nei suoi pregi e difetti, e per un ritmo serrato che avvince. Anche se non di recente pubblicazione (2015), è un romanzo storico che deve essere letto.

Caterina Sforza (1463-1509), figlia illegittima del Duca Galeazzo Maria Sforza, viene allevata alla corte di Milano dalla nonna Bianca Maria e amata come figlia anche dalla moglie legittima del Duca, Bona di Savoia.

Fin da bambina manifesta un carattere inusuale per le donne del suo tempo: ama la caccia, le armi, la lotta. Pur assoggettandosi alla formazione umanistica prevista per i nobili, Caterina preferisce le attività all’aperto e si rivela ferrata in matematica e scienze. Particolare interesse riveste per lei l’alchimia, che apprende dallo speziale di corte, e per tutta la vita coltiverà lo studio delle erbe per uso medicinale e cosmetico.

Bellissima, bionda, intelligente ed elegante, è per lei impossibile adattarsi al ruolo “femminile” che tutti si aspettano da una nobildonna. Soltanto la nonna Bianca Maria sembra avere qualche influenza sulla sua educazione ed è proprio alle parole della nonna (“Combatti chi ti sfida, ma resta sempre leale alla tua famiglia”) che Caterina si aggrapperà quando la sua condizione di nobildonna pretenderà da lei il sacrificio di un matrimonio precoce. All’età di dieci anni Galeazzo decide infatti di darla in sposa a Girolamo Riario, nipote del Papa, uomo rozzo e volgare, che per avere rapporti sessuali con lei non attende l’età canonica di 14 anni e la violenta la notte delle nozze. Il matrimonio serve a rinforzare i rapporti fra la Chiesa e gli Sforza, per cui viene concordato che Caterina porti in dote al marito la città di Imola, mentre il Papa si impegna a versare a Galeazzo Maria Sforza un’enorme somma di denaro e a donare agli sposi la città di Forlì. 

Inizia a quel punto la vita adulta di Caterina, che rivela ben presto doti politiche di cui il marito è del tutto privo. Dopo un periodo a Roma, durante il quale riesce addirittura a impadronirsi di Castel Sant’Angelo e a minacciare il Conclave perché elegga un papa non ostile agli Sforza, Caterina e il marito si recano a Forlì, dove ben presto gli errori di Girolamo Riario determinano una congiura che lo porta alla morte. Caterina si sposa una seconda volta, per amore, ma dopo pochi mesi anche il secondo marito viene ucciso da una congiura, a cui forse non sono estranei nemmeno i figli di lei, timorosi che la madre perda lo Stato. Caterina però non desiste nella sua politica di difesa della Signoria e ne diventa reggente in nome del figlio Ottaviano. Nel 1498, conosciuto Giovanni de’ Medici detto il Popolano, Caterina si sposa per la terza volta, ma rimane vedova dopo pochi mesi per la morte improvvisa del marito per malattia. 

A trentasei anni e con otto figli, Caterina Sforza deve difendere la Signoria da Cesare Borgia, figlio del nuovo Papa Alessandro VI. Nonostante una disperata resistenza, che provoca 500 morti, Caterina è costretta a cedere; arrestata, viene imprigionata per sei mesi a Castel Sant’Angelo, dove subisce ogni tipo di angherie e di violenze. Sopravvive ancora una volta, onorando il soprannome di “tygre di Forlì” che le è stato attribuito. Liberata per l’intervento dei francesi, si rifugia a Firenze con il figlio Ludovico, ribattezzato Giovanni in memoria del padre, che diventerà il famoso condottiero Giovanni dalle Bande Nere e padre del primo Duca dei Medici, Cosimo I. Caterina muore a quarantasei anni di polmonite fulminante, mentre sta ancora brigando per riprendere Forlì, 

Il romanzo si conclude però molto prima, quando Caterina riesce ad impadronirsi della rocca di Forlì dopo la cosiddetta “Congiura degli Orsi” e a resistere ai suoi oppositori, nonostante la minaccia di impiccare i suoi figli e pur essendo incinta al nono mese. L’autrice ha promesso di continuare a raccontare la storia di Caterina e vedremo come sarà il prossimo romanzo.

Da queste brevi note, si comprende che la figura di Caterina, descritta in maniera molto più articolata nel libro, merita un’attenzione particolare, sia per gli eventi che la videro protagonista sia per le sue caratteristiche. Caterina è l’ultima grande donna del Medioevo ma anche una rappresentante delle donne del Rinascimento. Ne sono la prova non solo le sue imprese militari e politiche, ma anche la sua passione per l’alchimia, di cui si è detto. Nel 1499, mentre si prepara a difendere Forlì da Cesare Borgia, dà alle stampe gli Experimenti della excellentissima signora Caterina da Forlì, libro espressamente pensato per un pubblico femminile e contenente 454 ricette. Con questa pubblicazione, Caterina conferma il ruolo attivo delle donne del Rinascimento nella circolazione di teorie e pratiche alchemiche, uno spazio autonomo di potere attraverso la conoscenza. In quest’ottica il mondo della cosmesi, centrale nel lavoro di Caterina e a prima vista relativo solo alla dimensione estetica, si lega alle pratiche mediche e curative, interessando un vasto pubblico non solo aristocratico ma anche borghese.

Come si vede, una grande donna, un’abile politica, un soldato senza paura, un’esperta diplomatica, una madre affettuosa, una nobildonna fuori dai rigidi schemi riservatile dalla mentalità del tempo.

È un libro che si legge con grande interesse, che scorre veloce per un linguaggio semplice ma diretto e coinvolgente. Piacevole anche l’alternarsi di capitoli descrittivi, in cui gli avvenimenti sono narrati in terza persona, e altri capitoli in cui l’autrice dà voce alla stessa Caterina. Se è adatto in particolare a chi ama le ricostruzioni storiche (e quella di Carla Maria Russo è corretta e documentata), si lascia leggere con piacere anche da chi vuole scoprire una donna di eccezionale valore, come le tante che hanno dato buona prova di sé e di cui non veniamo mai a conoscenza.

Carla Maria Russo

La Bastarda degli Sforza

Milano, Edizioni PIEMME, 2015

pp. 363

€ 17,90




Generare, partorire, nascere. Una storia dall’antichità alla provetta, di Nadia Filippini

di Eleonora de Longis             

“Si nasce da un corpo di donna; tutti, uomini e donne, nascono da un corpo di donna: non c’è nascita senza la gravidanza e il parto di una donna […]. Tuttavia questo fatto non ha trovato nella cultura occidentale un’iscrizione simbolica o un adeguato rilievo a livello rappresentativo, almeno non da quando la società indoeuropea ha imposto il proprio Olimpo maschile, declassando le Dee madri di più antica tradizione (Iside, Ishtar, Demetra)” (p.11).  

Il percorso di Nadia Filippini attraverso le vicende della generazione, del parto, della nascita è un itinerario articolato, che si muove tra le diverse pieghe non solo della storia sociale e istituzionale, ma anche di quella culturale, delle mentalità, della religione e mostra come la rappresentazione della maternità sia in continuo movimento nel corso del tempo “anche se in forme tutt’altro che lineari e progressive, con fasi di improvvisa accelerazione e lunghe continuità e permanenze, accanto a innovazioni e mutamenti» (p. 10). Continuità e rotture di una vicenda ultramillenaria sono indagate nella parte del volume che affronta fecondazione, gravidanza, aborto, parto e nascita dall’antichità al Settecento. Le molte raffigurazioni della nascita di Maria nel corso dei secoli offrono uno specchio fedele dell’esperienza del parto nella tradizione dell’occidente cristiano. Anche sulla scorta di queste fonti iconografiche Nadia Filippini osserva con attenzione la scena del parto e della nascita, l’occupazione degli spazi, le figure coinvolte, le pratiche, i ruoli, tra i quali, centrale, quello della levatrice, un ruolo anch’esso destinato ad attraversare nel corso del tempo molte trasformazioni. O, per dir meglio, un ruolo plurale, che, fin dal mondo antico, comprendeva figure dotate di competenze diverse in merito alla fisiologia e alla patologia delle donne e del parto.

Il Settecento rappresenta uno snodo determinante, una cesura nella storia occidentale della nascita: mutano figure, luoghi e tecniche del parto. Si afferma il “chirurgo-ostetricante” che introduce pratiche e terapie nuove, sorgono gli ospedali specializzati nell’accoglienza delle partorienti, si modifica ulteriormente il ruolo della levatrice, “si avvia insomma quel processo di medicalizzazione che si dispiegherà più ampiamente nel secolo successivo” (p. 181) e sarà indice di profonde trasformazioni sociali e culturali che coinvolgeranno soprattutto l’interesse specifico – e “politico” –  per la popolazione e una diversa sensibilità nei confronti del feto. 

La lotta alla mortalità materna e infantile, combattuta fieramente da politici, intellettuali, medici, comporta in primo luogo la colpevolizzazione delle tradizionali forme di assistenza al parto e in primis della levatrice, come figura priva delle necessarie conoscenze mediche e scientifiche. Si avvia nei paesi occidentali il lungo processo di professionalizzazione e istituzionalizzazione delle levatrici mentre, con tempi e modalità diverse, si afferma sulla scena del parto il chirurgo-ostetrico. Anche le prime teorie della fecondazione – che diedero avvio alla ricerca embriologica come si svilupperà nell’Ottocento – contribuirono a far sorgere una nuova sensibilità degli ambienti religiosi e laici verso il feto come “cittadino non nato”. Johan Peter Frank, consigliere di vari sovrani europei e direttore di sanità nella Lombardia austriaca aveva affermato: “I cittadini che sono ancora racchiusi nell’utero materno non sono anch’essi membri dello Stato? Non abbisognano o non meritano essi la protezione dei magistrati?” (p. 240). Da tali premesse discendevano misure volte a controllare e tutelare da parte di medici e amministratori non solo il momento della nascita ma tutto il periodo precedente, la gravidanza. In questa prospettiva anche il taglio cesareo sulla donna in vita, a lungo considerato come un’indebita interferenza con un processo naturale, veniva legittimato come estremo tentativo di salvare la vita del nascituro (raramente della madre): in realtà solo i progressi nella conoscenza della sepsi e dell’antisepsi acquisiti nel corso del Novecento renderanno sicura tale pratica anche per la madre.    

Il Novecento è l’epoca delle “molteplici rivoluzioni”: l’assistenza e la tutela della maternità per le donne lavoratrici, l’ospedalizzazione del parto, la diffusione di nuovi presidi igienico-sanitari volti ad assicurare la salute e il benessere del bambino trasformano profondamente, nel mondo occidentale, l’esperienza del parto e della nascita. Se nella prima metà del secolo aveva prevalso, sulla spinta dei movimenti di emancipazione femminile, l’affermazione dei diritti civili e politici, le esperienze dei movimenti femministi del dopoguerra avevano profondamente ribaltato la prospettiva delle donne nel rivendicare l’autonomia nella gestione del proprio corpo: “l’utero e mio e lo gestisco io” è la parola d’ordine significativa di questa rivoluzione copernicana al cui centro si collocava la libertà di scelta rispetto alla maternità, all’uso dei metodi contraccettivi, all’interruzione volontaria di gravidanza. Con tempi diversi, e attraverso il coinvolgimento dell’opinione pubblica, la legislazione dei paesi occidentali si adegua progressivamente alle rivendicazioni in fatto di contraccezione e IVG, mentre altri tabù sul parto e sulla nascita cadono per effetto degli sviluppi della medicina e delle tecnologie sanitarie e della sperimentazione di tecniche e metodi analgesici, che tendono a ridurre i dolori e le “violenze” associate al parto. 

Tra le trasformazioni più radicali che, nel corso del Novecento, hanno coinvolto il campo della riproduzione si colloca senz’altro la fecondazione artificiale “perché attraversa molteplici piani dell’esperienza umana (dell’immaginario, del simbolico, della rappresentazione) e perché mette in atto cambiamenti profondi che investono, oltre che la maternità e la nascita, anche i ruoli sessuali e la famiglia, sollevando una serie di problemi bioetici” (p. 299). 

Le questioni suscitate dalla fecondazione artificiale e le diverse risposte politiche e legislative che i paesi dell’occidente hanno dato alla crescente domanda di donne e uomini infertili di adire alle tecniche di PMA mettono in luce, secondo Filippini, le profonde ambivalenze e contraddizioni che, alle soglie del terzo millennio, segnano la realtà sociale del parto e della nascita. 

Nadia Filippini 

Generare, partorire, nascere. Una storia dall’antichità alla provetta 

Viella

2017

€ 29

pp. 349




Recensione: “La ragazza di Marsiglia”, di Maria Attanasio

Di Roberta Pinelli

Appena pubblicato da Sellerio, “La ragazza di Marsiglia” di Maria Attanasio è un libro che bisogna assolutamente leggere.

I motivi sono tanti: è un romanzo ben scritto e ben costruito, che si legge d’un fiato e che presenta una storia vera, con il suo carico di gioie e di amarezze. È anche un romanzo storico, poiché l’autrice fonda la sua scorrevole scrittura su una ricca documentazione e sulla visita che ha personalmente effettuato nei luoghi di cui il libro parla. È una storia di sopraffazione dell’uomo sulla donna, con la complicità del potere (politico e giudiziario). È la storia di una donna forte, coerente e coraggiosa, che a un certo punto della sua vita, apparentemente sconfitta, si fa da parte e scompare nell’ombra, complice anche la damnatio memoriae a cui il suo potente marito la condanna. È quindi una storia “al femminile”, che coinvolge in particolar modo (ma non solo) chi si occupa di parità di genere e dei soprusi e delle violenze cui sono sottoposte le donne ancor oggi.

Rosalie Montmasson nasce nel 1823 in Savoia (allora parte del Regno di Sardegna), ma ben presto lascia l’asfittico paesino di Saint Jorioz per recarsi a cercare un lavoro e una nuova vita a Marsiglia. Qui, causalmente, incontra Francesco Crispi, mazziniano esule dalla sua Sicilia. Lo ritroverà di nuovo, ancora per caso, a Genova, dove ambedue si sono trasferiti. Nasce fra i due, lei lavandaia e stiratrice, lui avvocato, una relazione non solo sentimentale, ma anche politica e ideale. Rosalie condivide con il suo “Fransuà” gli ideali mazziniani e collabora con lui nella preparazione della spedizione di Garibaldi. Unica donna, riuscirà a convincere Garibaldi a lasciarla partire con i Mille per la spedizione che sfocia, nel 1860, con la liberazione del Regno delle Due Sicilie e con l’Unità d’Italia. Costretti a un nuovo esilio, i due si recano a Malta, dove solo il lavoro di Rosalie consente alla famiglia di sopravvivere, anche se in modo precario. Quando si profila la necessità di lasciare Malta per Londra, Rosalie e Francesco Crispi si sposano, il 27 dicembre 1854, nella parrocchia di S.Publio. Prima a Londra poi a Parigi, i coniugi Crispi collaborano strettamente con Mazzini e Rosalie viene anche impiegata per segretissime missioni in Europa, per l’organizzazione delle attività rivoluzionarie mazziniane. Viene poi il tempo in cui Francesco Crispi, eletto al Parlamento italiano, può finalmente rientrare in Italia; si stabilisce con la moglie prima a Torino poi, con lo spostamento della capitale d’Italia, a Firenze. Ma “Fransuà” abbandona progressivamente gli ideali mazziniani e nel 1864 pronuncia il famoso discorso che attesta pubblicamente la sua adesione alla monarchia e la sua rinuncia all’idea repubblicana. Rosalie invece rimane sempre fedele a quegli ideali e soffre quello che considera il “tradimento” dei comuni valori e il suo ruolo di prima donna d’Italia, quando “Fransuà” diventa Capo del Governo. Ma il problema più grosso per il loro matrimonio è rappresentato dalla vita sregolata di Crispi, che nel 1871 si innamora di Filomena Barbagallo, detta Lina, giovane e bellissima nobildonna napoletana, che sposa nello stesso anno e dalla quale ha la figlia Giuseppina nel 1873. Nel 1872 ha anche un figlio con un’altra amante, Luisa Del Testa. Per sposare Lina, Crispi dichiara di essere di stato libero, ma viene accusato di bigamia dall’opposizione, in cui molti democratici sono a conoscenza del suo matrimonio con Rosalie. Per evitare lo scandalo che farebbe cadere il governo, Crispi ordina un’inchiesta e i due magistrati incaricati, dichiaratamente filo-governativi, nonostante la documentazione inoppugnabile, nel 1875 dichiarano illegittimo il matrimonio di Malta. Da quel momento Rosalie Montmasson scompare dalla vita pubblica, da ogni documento relativo all’impresa dei Mille e da tutto ciò che concerne il suo “Fransuà”. Il loro matrimonio viene ridotto ad una romantica, breve storia d’amore legata agli anni della militanza mazziniana, nonostante 24 anni di unione, di cui lei conserva religiosamente il certificato di matrimonio insieme alle decorazioni avute da Garibaldi per la sua partecipazione alla spedizione dei Mille.

Crispi diventa per quattro volte Capo del Governo, contribuendo anche al sorgere e all’affermarsi di quel nazionalismo populista che sfocerà poi nel fascismo. Rosalie conduce un’oscura e misera esistenza a Roma, grazie al piccolo mensile che “Fransuà” le riconosce all’atto della separazione. Francesco Crispi muore a Napoli nel 1901 e Rosalie lo segue nel 1904. Per le sue condizioni di estrema miseria, viene sepolta nel cimitero del Verano a Roma, a spese del Comune.

Tutte queste vicende vengono presentate dall’autrice con ritmo incalzante e con la massima obiettività possibile, dovuta alla grande quantità di documenti da lei consultati. Molto interessanti sono anche i personaggi di contorno, la maggior parte dei quali è realmente esistita e alcuni, pochi, sono di pura fantasia. Tutti contribuiscono a darci uno specchio attendibile e stimolante delle vicende italiane di quegli anni.

Molto utili, in coda al romanzo, i capitoli esplicativi, in particolare quello relativo a due libri che ci consentono oggi di conoscere la storia di Rosalie Montmasson e del suo disgraziato matrimonio. Il primo testo è Una donna fra i Mille di Renato Composto, pubblicato nel 1989, un secolo dopo le vicende di cui il libro parla. L’altro è Il ministro e le sue mogli dei giuristi Enzo e Nicola Ciconte, pubblicato nel 2010, in cui viene analizzata la sentenza che dichiarò nullo il matrimonio fra Rosalie e “Fransuà” e che gli autori definiscono “politica e maschilista”, poiché in base alle leggi allora in vigore il solo certificato di matrimonio bastava a dimostrare la piena legittimità del matrimonio.

In conclusione, un romanzo di grande qualità, il ritratto di una donna eccezionale, un’importante pagina di storia. 

Foto. La targa apposta a Firenze nella casa in cui i coniugi Crispi abitarono prima di trasferirsi a Roma. Si notino la presenza del termine “consorte” per definire Francesco Crispi e l’uso del nome “Rose” al posto del vero nome Rosalie.

Maria Attanasio

La ragazza di Marsiglia

Pagg. 386

€ 15,00

Sellerio editore, Palermo




L’Alchimia e l’oro di Roma. Storia della Porta magica di piazza Vittorio Emanuele II e dei suoi personaggi

Di Giusy Sammartino

Ancora oggi suscitano interesse le vicende di esperienze alchemiche e le storie di coloro che tra fornelli e lambicchi si dedicarono, in tempi non poi così lontani, all’ermetica arte. Ci si domanda ancora chi di loro fu davvero impostore poiché spesso le loro figure sfumano nella leggenda.

Anche i regnanti, e non pochi di loro, vennero attratti o stimolarono questa misteriosa ricerca. Esempi illustri si hanno in Rodolfo II, vero terrore degli alchimisti che non riuscivano, nei loro laboratori praghesi (nella famosa viuzza d’oro), a strappare al miscuglio delle sostanze l’ambita ricetta e venivano mortalmente puniti racchiusi in gabbie sospese nel vuoto. Poi Cristina di Svezia che, dopo l’abiura, probabilmente tradita dal suo stesso seguito, si trasferì a Roma, dove abitò a Palazzo Farnese e Corsini. La regina grazie alla sua conversione al cristianesimo fu tanto ben accetta dal Papa da non essere minimamente disturbata, nonostante la condotta della sua vita non fosse del tutto tranquilla, per le sue ricerche alchemiche.

Ma l’Alchimia non fu certo “scienza” solo del millennio passato e dell’Europa: infatti essa pone le basi già nell’antico Egitto, dove si diceva venisse insegnata agli uomini da Ermete Trismegisto.

Della presenza di monumenti alchemici in Europa ci informa Pietro Bornia in un articolo del 1915 nel quale cita la loro esistenza in Francia, in Svizzera e, quindi, in Italia, a Roma, in quella che oggi è la piazza del quartiere più multietnico della capitale, spesso pieno di tensioni e forti contrasti: piazza Vittorio Emanuele II.

Un monumento marmoreo della ricerca del lapis philosoforumper la trasmutazione delle sostanze in oro svetta dalla parte a nord della piazza -una volta adibita a colorito mercato e oggi trasformata in giardino, con il suo contorno di portici testimoni del discutibile passaggio architettonico dei piemontesi – tra basilica di Santa Maria Maggiore, sullo sfondo, e la chiesa di Sant’Eusebio da un lato.

Misterioso, o almeno ancora da svelare come fosse anche questo un segreto inaccessibile ai non iniziati, il nome dell’autore. Come per tutti gli scritti ermetici rimbalza dal nome del Pellegrino,alchimista che girava le corti europee del Seicento, sempre in fuga a causa dei perenni debiti, al nome del marchese Massimiliano Palombara (1614-1685), che abitava la grande villa all’Esquilino, tra l’odierna piazza Vittorio e viale Manzoni.

Sì, perché caratteristica del filosofo ermetico, dello scrittore dei segreti alchemici, era dire la verità nella menzogna: sussurrare all’orecchio del saggio ciò che aveva intuito e provato e burlarsi invece del profano, incapace d’ascolto.

Un testo in tal senso è La bugia, del Palombara, proprio il presunto e probabilissimo autore delle iscrizioni sulla Porta Magica,che era anche uno degli ingressi laterali alla villa romana dell’eccentrico marchese.

Per gli appassionati, lo scritto, tutto composto da inediti, è frutto di una ricerca (fatta una ventina di anni fa) presso la Biblioteca Apostolica Vaticana e negli archivi dei Prìncipi Massimo, famiglia in cui confluirono i Palombara grazie al matrimonio di Barbara Savelli Palombara e don Francesco Massimo, ambasciatore di papa Clemente XIII.

“Ho voluto ancora sotto la figura dello strumento che tiene il lume, detto volgarmente Bugia, intitolare quei miei discorsi e poesie perché vertendo essi intorno a scienza così alta, non potevo più proportionalmente che sotto tale simbolo propalarli; come fece l’em.mo Cusano ch’intitolò i suoi libri della più fine filosofia e teologia: Dotta ignoranza. E  ciò sia per le raggioni addotte di sopra, sia anche perché tal stromento per lo più si adopera sopra gli altari a’ i Sacrificij Sacri”.

Così il Palombara spiega, questa volta il meno ermeticamente possibile, la scelta del titolo al suo libro e, con il riferimento al Cusano della Dotta ignoranza, ne sottolinea la provocatoria ambiguità del doppio senso insito nel termine: bugia intesa proprio nell’accezione corrente più moderna di menzogna, di cosa non vera, e bugia, come oggetto che metaforicamente sostiene la candela portatrice di luce dell’intelletto.

È importante questo per la comprensione degli alchimisti e della “scienza” alchemica perché la serie di parabole, sonetti, rime e scherzi ermetici, Ludus Hermeticus, il tutto scritto in versi latini che riguardano soprattutto l’effetto fonico, sono esempio di quella “beffa” caratteristica di ogni testo alchemico.

Altro elemento importante, in questo testo fondamentale, è la scelta della lingua di volta in volta latina e toscana. Ce lo spiega lo stesso Palombara:

“Ho voluto con vari metrij tanto di lingua Toscana come Latina soddisfare il curioso Lettore acciò l’ingegno di ogni natione possa havere parte nel Filosofico studio; onde, non paia strano a chi intende l’una o l’altra lingua, se nel leggere trova il medesimo discorso tanto nell’uno quanto nell’altro Idioma. Poiché ciò che si narra nel Latino l’istesso si narra nel Toscano, trattandosi di una sola materia et operatione la quale si potrebbe descrivere in poche righe, onde conforme al proprio genio ciascuno potrà eleggersi quel che più gli aggraderà”.

Il fatto è che il testo non è solo importante per il passaggio da una lingua a un’altra (questo poi accade poche volte) ma è principalmente il voluto dilungamento di ciò che “si potrebbe scrivere in poche righe” che con l’uso essenzialmente sonoro della parola diventa così cerimoniale di un rito introduttivo ai misteri della Grande Opera.

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Foto. Particolare superiore della Porta

Le iscrizioni sulle pareti e sulla Porta della villa del Palombara sono il perfetto esempio di questa lingua scritta che deve essere essenzialmente letta. E poco importa che l’autore sia il Palombara stesso o il Pellegrino, che lasciò gocce del preziosissimo liquido cercato dagli alchimisti, o che invece, svolgendosi al femminile, possa esserne autrice la regina Cristina di Svezia, diventata a Roma grande collaboratrice del Palombara nella ricerca del particolare metallo. Tutto ciò, nulla toglie, anzi aumenta la “segretezza” insita.

Il laboratorio alchemico del Palombara sorgeva al pian terreno del casino della villa dove il marchese conduceva vita austera e, come lui stesso indica, con abbigliamento praticamente monacale: ”All’usanza di Norcia porto i zoccoli”.   Dunque vita monacale e ciò è confermato dalla chiusura alle Rime ermetiche:“Ora et labora, et sic habebis” di chiara impronta benedettina.

Non sappiamo se il Palombara abbia trovato veramente il segreto che sembra invece si sia rivelato al Pellegrino, suo ospite forse per solo una notte. Dilettiamo a pensare di sì, e che in onore del prezioso e mai poco misterioso metallo, la Porta Magica di piazza Vittorio Emanuele II, insieme al vicino Ninfeo di Alessandro Severo, comunemente conosciuto come i Trofei diMario(III secolo) siano curate e tolte dal degrado in cui periodicamente versano e molti possano andare ad ammirarle per sapere di più su ciò che rappresentano e su i loro presunti e misteriosi autori.

 

 

 




Bloomsbury e la casa di Mary Prince, eroina dell’abolizionismo

Di Carlotta Moro

Alla scoperta della straordinaria vita di Mary Prince, abolizionista e scrittrice, prima donna nera a pubblicare un’autobiografia e prima donna a presentare una petizione al Parlamento inglese.

1. Bloomsbury Square

Siamo a Bloomsbury, il quartiere universitario nel centro di Londra, nel quale si trovano il British Museum e la University of London. Bloomsbury ha sempre attratto pensatori, intellettuali e rivoluzionari. Qui hanno vissuto o studiato persone che hanno cambiato la storia, tra cui John Maynard Keynes, Lenin, Gandhi, oltre naturalmente ai componenti del celebre “Bloomsbury Group” (fondato dalle sorelle Virginia Woolf e Vanessa Bell). 

2. La casa di Virginia Woolf. Foto di Livia Capasso

Le loro vite vengono ricordate attraverso numerose “Blue Plaques” e “Bronze Plaques”, targhe commemorative incastonate nelle facciate degli edifici in cui personaggi degni di nota hanno vissuto.

Sulla facciata della Senate House Library, imponente e importantissima biblioteca nel cuore di Bloomsbury, si può osservare una di queste “Bronze Plaques” dedicata a Mary Prince. La vita di Mary Prince è talmente avventurosa e piena di peripezie straordinarie e terribili da risultare quasi incredibile e, infatti, la reazione del pubblico britannico in seguito alla pubblicazione della sua autobiografia fu caratterizzata da sgomento e incredulità.

Mary Prince, originaria delle Bermuda, nacque nel 1788 da una famiglia di schiavi. All’età di dodici anni Mary venne venduta come schiava e separata dalla sua famiglia per sempre. La stessa Mary Prince, nella propria autobiografia, ricorda questa tragica scena: un gruppo di uomini minacciosi la circondava, la scrutava ed esaminava ‘come macellai che intendono comprare un agnello o un vitello’. Da allora, Mary Prince è passata di mano in mano di proprietari crudeli e violenti, ‘da un macellaio all’altro’, come scrive lei. Mary, il cui corpo lentamente si ricopriva di cicatrici, lavorava ogni giorno, sotto la pioggia torrenziale ed il sole più cocente; è stata molestata, picchiata, frustata, e, quando i reumatismi le impedirono di lavorare, fu rinchiusa in una latrina e lasciata lì agonizzante. 

Nel 1826 Mary si è ribellata, sposando uno schiavo liberato, Daniel James, e per questo venne massacrata di botte dal proprio padrone. Nel 1828 Mary fu costretta ad abbandonare il marito per seguire la famiglia dei suoi proprietari a Londra. Qui riuscì a scappare e trovò rifugio presso la Anti Slavery Society, aiutata da Thomas Pringle, al quale raccontò la storia della propria vita e delle torture subite. Susanna Strickland mise per iscritto i ricordi di Mary Prince, aiutandola a pubblicare il proprio libro di memorie nel 1831. L’autobiografia, intitolata The History of Mary Prince: A West Indian Slave, fu la prima autobiografia di una scrittrice nera e venne ristampata in tre edizioni, suscitando grande scalpore e contribuendo enormemente alla campagna volta all’abolizionismo della schiavitù. 

A Londra Mary Prince scoprì però che, se avesse voluto riunirsi all’amato marito che viveva ad Antigua, avrebbe dovuto farlo nel ruolo di schiava e per questo lanciò una campagna per essere liberata, presentando in Parlamento la prima mozione contro la schiavitù stilata da una donna. Purtroppo la sua petizione non ebbe successo e non sappiamo molto altro del resto della sua straordinaria vita.

Sarah Salih, l’editrice di un libro sulla storia di Mary Prince, ci ricorda che Mary non è stata una vittima passiva, come la sua History invece potrebbe suggerire. Infatti, Mary Prince si è ribellata più e più volte, sposandosi senza il permesso del suo proprietario e difendendosi sia verbalmente che fisicamente contro le ingiustizie subite. Come dice Salih: “Invece di accettare passivamente ogni punizione e tortura, Mary Prince ha protestato contro il trattamento subito a ogni occasione. La sua History non è altro che il cumine della sua protesta.”

3. Senate House Library a Bloomsbury. Foto di Mark Nesbitt.

Nel 2007 una Plaque (in copertina) in suo onore venne affissa sulla facciata della Senate House Library, eretta proprio sul sito nel quale Mary Prince ha vissuto nel 1829. Nel 2012 Mary Prince è diventata National Hero delle Bermuda.

Troppo spesso le persone, ma soprattutto le donne, nere sono vittime di razzismo e discriminazione, troppo spesso le loro storie e le loro voci vengono soppresse e cancellate. Oggi più che mai è fondamentale ricordare il messaggio di coraggio, forza e speranza di Mary Prince.




Toponomastica femminile a Milano – primo semestre 2018

di Nadia Boaretto

Le associate del gruppo milanese di Toponomastica femminile interagiscono da anni con le scuole che parteciperanno anche al prossimo Convegno nazionale “On The Road”, che si terrà dall’11 al 14 ottobre a Lodi e Melegnano. Si tratta dell’Istituto Molinari, attivatosi con ricerche legate all’alimentazione delle astronaute, in parallelo con l’Istituto Comprensivo Candia, visitato da Samantha Cristoforetti, in un progetto ideato come modulo continuo, che attende riscontri dalla scuola media Barozzi.

L’idea di estendere il concetto di viaggio alle missioni spaziali è nata dall’inserimento di Toponomastica femminile in due sonde, InSight Mars e Parker Solar Probe, a bordo delle quali stiamo viaggiando rispettivamente verso Marte e verso il Sole, grazie al prezioso aiuto di Ovidio Scarpulla.

Foto 1: Boarding Pass Mars Insight 2018

Con piacere abbiamo rafforzato il legame con “Milanosifastoria”nelle due direzioni di ricevere e dare contributi. Silvana Citterio, della Segreteria, parlerà di Cristina di Belgioioso al Convegno di Lodi/Melegnano. Il gruppo milanese di Toponomastica femminile confluirà sul tema della segregazione scolastica (White Flight) nell’evento specifico di Milanosifastoria.È allo studio la possibilità di ricostruire una vicenda storica di esodo familiare attraverso la testimonianza della toponomasta Patrizia Gallo, in merito alla figura di Isotta Gaeta, all’interno di un percorso sulle “Migrazioni al femminile”. Inoltre, l’associata Luigia Giubertoni collabora al seminario di apertura su “Trasformazioni urbane e sociali a Milano dal Secondo Dopoguerra a oggi”, coordinato da Cristina Cocilovo.

In contemporanea abbiamo accolto la proposta di accedere al bando regionale Aidia, di cui parleremo nel caso l’iniziativa venga approvata.

Foto 2: Milanosifastoria

Le collaborazioni non finiscono qui.

Con “Donne In Quota” è già in atto la condivisione di due idee:

1) creazione di una lista di eccellenze femminili cui attingere obbligatoriamente ogni anno per l’inserimento nel Famedio, in un rapporto almeno doppio rispetto ai nomi maschili previsti;

2) creazione di percorsi al Cimitero Monumentale che abbiano come tappe le tombe di donne illustri, da inserire ritualmente nelle giornate di visite guidate (es. prima domenica del mese con gratuità musei).

Abbiamo sempre seguito le iniziative di Donne In Quota riguardanti prostituzione e tratta. Di recente questa problematica ci ha offerto la possibilità di stringere contatti con le richiedenti asilo della struttura di accoglienza di Villa Amantea, un luogo sequestrato alla ‘ndrangheta, a Trezzano sul Naviglio. Proprio su loro richiesta ha preso vita un evento svoltosi alla Casa delle Donne per festeggiare l’abolizione da parte del re/sacerdote nigeriano del giuramento juju, che vincolava a debiti enormi con gli “schiavisti”, pena la morte per sé e per le famiglie rimaste in patria. Il tema della tratta è molto sentito dal Consiglio Comunale, con cui si pensa di avviare un discorso in merito.

Foto 3: Villa Amantea

Toponomastica femminile è stata presente alla tavola rotonda su Rosa Genoni, femminista, pacifista e fondatrice di corsi di sartoria nelle carceri. In occasione della tavola rotonda sono stati esposti dei manufatti realizzati dalle ragazze delle Case Famiglia in tessuti africani, gli stessi utilizzati per la sfilata finale dell’atelier africano di Abi, ospite di Villa Amantea (in foto). Da cosa nasce cosa ed è così che siamo state contattate da tre giovani videomaker della scuola di cinema, interessate a intervistare le ospitinigeriane e senegalesi di Villa Amantea.

Foto 4: Iniziative per Rosa Genoni

Sempre centrale nei nostri interessi è comunque il tema delle intitolazioni. Il 16 giugno a Tirano, luogo natale di Rosa Genoni, le sono stati dedicati dei giardini e alla cerimonia ha presenziatoper noi Melissa Rigoli.

A settembre riprenderemo i contatti per analoga intitolazione a Milano, come concordato con Raffaella Podreider, nipote e biografa ufficiale, già invitata al nostro convegno milanese del 2015.

Foto 5: Iniziative per Rosa Genoni

Altra iniziativa, sollecitata da Anna Albanello e per ora agli esordi, riguarda il cambio di nome della piazza General Cantore, in appoggio alla proposta del Centro Sociale Orso e della Sezione ANPI di Porta Genova (Raffaele De Grada).

Si chiede che il nome della partigiana Salvatrice Benincasa sostituisca quello del Generale Antonio Cantore, feroce protagonista della campagna di Libia e antesignano del fascismo. Salvatrice Benincasa rappresenta l’altra umanità: giovane donna, di origine catanese, entra nella Brigata Matteotti, partecipa nel dicembre del ’44 a una pericolosa missione nella sede del Comando Tedesco di Monza. Viene catturata, resiste alla tortura e infine è fucilata, appena ventenne. Monza la ricorda con una lapide in via Mentana e con un murale dedicatole dal Centro Sociale Foa Boccaccio. A Milano, nella piazza interessata alla nuova intitolazione, il suo nome già figura in una targa, accanto a quelli di altri martiri della Resistenza.




L’identità multiculturale di Palermo

Di Grazia Mazzè

Pan e Hòrmos, tutto porto: Palermo non ha mai rinnegato l’identità multiculturale contenuta nel suo nome. Porto accogliente, approdo naturale, la sua storia è un crocevia senza pari di civiltà.

I secoli di cultura e tolleranza li troviamo stratificati tra le particolarità del centro storico, come le grandi targhe marroni usate per la toponomastica cittadina, in cui i nomi di piazze e vicoli sono impresse in caratteri bianchi nelle lingua italiana, araba ed ebraica

(Foto 1-2-3-4).

Palermo è multietnica, accogliente, in lei si fondono culture, filosofie e religioni diverse.
La sua immagine è singolare, la sua apertura all’immigrazione controcorrente, soprattutto nell’attuale momento storico e politico in cui la chiusura razzista raccoglie consensi.

Nella città capitale della cultura 2018, nella sede di Manifesta 12, del Festival della Letteratura migrante, nel Centro di cultura araba e del Mediterraneo, l’immigrazione è sentita come un bene comune, anche con le sue difficoltà, irregolarità, con il disagio e i tentativi di integrazione.

Il primo cittadino di Palermo, riferendosi agli ultimi avvenimenti dei naufraghi bloccati sulla nave Aquarius a largo dell’isola di Malta, ha condannato la chiusura dei porti italiani imposta dal Governo. 629 donne, bambine/i, uomini, non solo naufraghe, 629 persone sulle quali si è giocata una partita di rimpalli che ha il sapore più della propaganda che della politica.

Ha protestato contro la scelta, il Sindaco, ha aperto alla possibilità di accogliere la nave dell’ONG nel porto di Palermo, sostenendo la disponibilità con l’origine e l’attitudine naturale della città alla mescolanza e alla convivenza. Che affermi l’esistenza di una sola razza non ci stupisce, non stupiscono neanche le sue parole dure, usate senza timore verso chi non riconosce l’essere umano nelle persone migranti.

Negli ultimi anni la città ha lavorato molto sull’integrazione straniera, proponendosi come esempio per l’Italia e l’Europa. La Consulta delle Culture non è uno specchio di attrazione mediatica: è fatta di sostanza, di politica della differenza tra cittadine/i della comunità e non. La Carta di Palermo è la sfida, sintetizzata in un documento, per l’abolizione del permesso di soggiorno, per il diritto alla mobilità come diritto della persona umana.

La città negli ultimi anni ha dato la cittadinanza a circa 3000 stranieri, circa la metà sono di origine asiatica; le etnie si mescolano, si concentrano per quartieri, alcune comunità sono più precarie, altre più inserite, gli uomini sono più delle donne. Sono invece moltissime le bambine e i bambini stranieri nati a Palermo, radicati come seconda generazione nella vita scolastica e professionale della città, esempi concreti di percorsi di integrazione e identità portati a compimento.

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Tutte le comunità possono esprimere la loro forma di credo, addirittura in una delle chiese cattoliche cittadine si celebra la Messa in tredici lingue; l’altare a forma di barca avvicina il sacrificio di Cristo a quello dei tanti esseri umani inghiottiti dal mare, si eleva a simbolo dell’unione tra Gesù e le persone migranti.

Palermo dissente e questa opposizione si avverte nell’aria, tra le vie, sui muri. Ancora più dirompente appare un messaggio che viene dal mondo dell’arte. Igor Palminteri usa lo spazio pubblico per gesti di accusa: con le sue opere rappresenta il pensiero critico della cittadinanza palermitana, innalzando ancora una volta questa città a simbolo di un’integrazione ben radicata nelle coscienze.
L’artista ha realizzato, nel cuore di Ballarò, un murale raffigurante San Benedetto il Moro, il frate nero figlio di schiavi arrivato dall’Africa sulle nostre coste nel 1500, che Palermo celebra come uno dei suoi Santi Patroni. Nel grande dipinto il suo viso ha un aspetto fiero, imponente e bello.

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Igor non vuole dimenticare neanche l’uccisione di Socko Soumaila, avvenuta in Calabria alcuni giorni fa. Lo fa decorando una barriera antiterrorismo in cemento con una scena capace di richiamare l’attenzione, sollecitare la sensibilità e favorire la riflessione di chi passa per il centro storico. L’arte diviene, secondo una missione che le è propria da tempo immemorabile, portatrice di messaggi alti, quelli dell’unità razziale, religiosa e culturale, in grado di demolire i pensieri stereotipati e i tanti e diffusi luoghi comuni.

Palermo, con la sua toponomastica e le sue forme di arte, è qui a dimostrarlo.




L’isola di Eleonora e la Toponomastica femminile: scuole, comuni, regione all’opera!

Ricca e articolata si presenta l’attività di Toponomastica femminile nel territorio sardo. Dai risultati ottenuti in questo semestre, si ha la sensazione che un’ondata d’aria fresca sia entrata nei comuni, laddove la toponomastica di genere è troppo spesso ignorata dalle amministrazioni locali. 

Dalla riflessione sulla ridotta presenza delle intitolazioni femminili nell’odonomastica cittadina, si è passati alle iniziative e alle buone pratiche. 

Col supporto metodologico della ricerca-azione in molte scuole si sono raggiunti risultati d’indagine che hanno avvalorato quelle percentuali, ovunque bassissime, di strade intitolate alle donne, creando nelle giovani generazioni il desiderio di adoperarsi per colmarne il vuoto. 

Sono scaturite con forza dal mondo della scuola, proposte di nuove intitolazioni, sia a donne famose sia a donne meno note ma comunque legate alla memoria collettiva del proprio comune, di cui è stato bene riconoscerne meriti e qualità nell’esercizio del proprio mestiere: tessitrici, ostetriche, infermiere, mediche, insegnanti…

Nel panorama dell’isola è nata una condivisione d’intenti anche attraverso il gruppo di donne guidate dalla presidente della Commissione delle Pari Opportunità della Regione, Gabriella Murgia, con la proposta di un progetto condiviso chiamato Toponomastica al femminile, a sua volta monitorato nel territorio dalla commissaria Chiara Furlanetto. 

A Oristano, l’11 novembre 2017, l’incontro “Memorie, saperi, sguardi: dalle targhe stradali alla ricostruzione delle storie femminili”, promosso dalla Commissione regionale per le Pari Opportunità, ha lanciato l’iniziativa a scuole, sindache e sindaci, consigliere e commissarie della Pari Opportunità di otto comuni sardi. 

Il progetto, che in Sardegna porta la firma della Commissione regionale per le pari opportunità, s’ispira alla ricerca nazionale promossa dall’associazione Toponomastica femminile, la cui presidente, in quella giornata, coadiuvata dalla referente regionale dell’associazione, lo ha presentato a primi cittadini e capi d’istituto degli otto Comuni aderenti: Borutta, Ploaghe, Lotzorai, Fonni, Lunamatrona, Santulussurgiu, San Nicolò Gerrei e Villamassargia.

Ed ecco i risultati in chiusura dell’anno scolastico.

Foto 1-2. Villamassargia: intitolazioni a Nadia Gallico Spano e Fanny Trastu

8 Giugno 2018, Villamassargia (SU)

Cerimonia di intitolazione di tre targhe: 

Nadia Gallico Spano, costituente e partigiana; 

Luisa Orrù. antropologa dell’Università di Cagliari; 

Fanny Trastu, maestra tessitrice del paese. 

Il Museo “Casa Fenu” ha ospitato l’iniziativa organizzata dalla sindaca, Debora Orrù. 

Le ragazze e i ragazzi della classe III/A della Scuola Secondaria di Primo grado di Villamassargia hanno presentato il video vincitore del concorso nazionale “Sulle vie della parità”.

Presenti i genitori, i parenti delle donne cui sono state intitolate le strade; il Gruppo cagliaritano dell’associazione Toponomastica femminile – con Agnese Onnis, Rita Sanna e Maria Cocco; Simona Spada per la Commissione P.O. Regione Sardegna.

Foto 3. Ploaghe

8 Giugno 2018, Ploaghe (SS)

Presso il Centro di aggregazione sociale “Don Quirico Usai”, alla presenza del sindaco Carlo Sotgiu, l’assessora alle Pari opportunità del Comune di Ploaghe Maria Grazia Medde e la classe II/B, guidata dalla docente Delia Garau, sono state presentate le figure di prossima intitolazione: 

Maria Francesca Canu, maestra di Ploaghe e prima donna con la patente di guida – necessaria per raggiungere le scuole dei piccoli comuni – insignita del premio di benemerenza;

Eva Mameli Cubeddu Calvino, botanica di fama e figlia della concittadina ploaghese Maddalena Cubeddu;

– Caterina Angela Uleri, “levatrice” condotta della comunità ploaghese dal 1926 al 1967, nata e vissuta nel Comune;

Maddalena, la maestra di Dottrina, una sostituta tra le maestre donne pie, che supplì il parroco nell’insegnamento del catechismo nel paese, amata e stimata dalla comunità.

9 Giugno 2018, Borutta (SS)

Presso il Centro di Educazione ambientale (ex asilo) a Borutta, il progetto sostenuto dall’Amministrazione comunale e dall’Istituto comprensivo di Thiesi, ha riportato alla luce tre protagoniste della storia e della cultura locale:

– Ninetta Bartoli, prima sindaca d’Italia, alla quale sarà intitolata l’attuale piazza Kennedy per gli «altissimi meriti in campo professionale e politico». Ninetta Bartoli venne eletta prima cittadina nel 1946, con un vero plebiscito (89% delle preferenze) e rimase in carica fino al 1958.

– Maria Carta, di Siligo, artista sarda di fama e cultrice del canto locale, etnomusicologa, attrice e deputata nel PCI;

– Gemina Fernando di Pozzomaggiore, scrittrice e traduttrice.

Alle tre donne, cui sono state intitolate tre strade nel paese, è stato dedicato un suggestivo reading letterario: la classe II/B di Thiesi ha simulato un incontro narrativo: Ninetta  Bartoli racconta l’inaugurazione del monastero di San Pietro di Sorres; Maria Carta legge “Canto Rituale”e Gemina Fernando legge un brano tratto da “Gli Shardana dal cuore ribelle”. Il reading si è concluso con l’esecuzione di un brano musicale suonato dalla classe.

Foto 4-5. Una delle brochure elaborate dalla classe

Alla riapertura delle scuole si attende una nuova tornata di iniziative.