Scienza e femminismo in Italia dopo Cernobyl

Di Sara Sesti

Nel femminismo italiano, il dibattito sui fondamenti della scienza è iniziato tardi, solo a metà degli anni Ottanta. La svolta decisiva avvenne subito dopo il disastro di Cernobyl del 26 aprile 1986, il più grave incidente mai verificatosi in una centrale nucleare. Fu causato dall’esplosione del reattore che rilasciò una quantità di radiazioni cento volte maggiore rispetto a quella delle bombe atomiche lanciate su Hiroshima e Nagasaki. Il materiale nucleare si depositò in Ucraina, in Bielorussia, in Russia e in tutto l’emisfero nord del pianeta, provocando danni all’ambiente e alla salute rilevabili ancora oggi.

Il cambio di rotta del movimento femminista ebbe luogo perché quel disastro venne riconosciuto non più come un incidente isolato, come nel precedente caso di Seveso del 1976, ma come la manifestazione di uno squilibrio da affrontare nelle sue origini profonde. La prontezza e la competenza con cui si espresse la critica femminista non furono improvvisate: furono il risultato delle esperienze e delle pratiche del movimento delle donne che, partito negli anni ’70 dai temi del personale, della sessualità e dell’inconscio, arrivò a confrontarsi anche con gli oggetti tradizionali del sapere. Fondamentale fu il lavoro del “Movimento per la salute e per la medicina delle donne” portato avanti nei consultori e nei gruppi di self-help.

Fino ad allora, la critica di sinistra era bloccata sulla distinzione tra “uso e abuso della scienza”. Si riteneva cioè che la ricerca fosse di per sé buona e neutrale, mentre invece potessero diventare cattive le sue applicazioni. Gli scienziati erano ritenuti colpevoli degli esiti distruttivi, in quanto non erano loro a decidere l’uso delle scoperte scientifiche, che erano scelte dei politici, dei padroni o dei militari. La critica delle donne apportò una vera e propria rivoluzione, perché mise in discussione proprio la presunta neutralità della ricerca, rivendicando la presenza dell’elemento soggettivo e sessuato anche nel processo di produzione di conoscenza.

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Dal 1986 al 1991 vennero pubblicati in Italia i libri più importanti sull’argomento. Erano dapprima traduzioni di articoli di ricercatrici anglo-americane come “Alice al microscopio” del 1985 e “Donne, tecnologia e scienza” del 1986. In seguito arrivarono i testi delle ricercatrici definite “fondative” come “Sul genere e la scienza” e “In sintonia con l’organismo” di Evelyn Fox-Keller del 1987; “La morte della natura” di Carolyn Merchant del 1988 e la prima ricerca storica: “L’eredità di Ipazia” di Margaret Alic del 1989. Soprattutto le opere di Evelyn Fox-Keller, fisica, biologa e filosofa, considerata l’esponente di maggior spicco dell’epistemologia femminista, volsero uno sguardo critico sulla base linguistica che accompagna la ricerca, mostrando le conseguenze operative e scientifiche dei presupposti culturali e di genere di cui gli scienziati sono portatori, presupposti che emergono nelle metafore e nei termini che vengono utilizzati. Secondo Fox-Keller, “le donne non fanno scienza in modo diverso dagli uomini, ma si fa scienza diversamente solo se la consapevolezza di genere agisce in chi fa ricerca”.

Più tardi vennero pubblicati testi italiani come “Donne senza Rinascimento” di Enrica Chiaromonte, Giovanna Frezza e Silvia Tozzi, 1991 e “Immagini di cristallo” di Luisella Erlicher e Barbara Mapelli, 1991; “Conversazioni con Evelyn Fox-Keller” del 1991 e “La nube e il limite” del 1990 di Elisabetta Donini, una puntuale e approfondita analisi critica del formarsi della scienza e delle sue categorie. Furono libri molto importanti perché ricostruirono la presenza delle donne, svelarono le metafore usate nel linguaggio scientifico e smascherarono gli stereotipi secolari sul rapporto donne e scienza.

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Nacquero in quegli anni in varie città italiane i luoghi di ricerca
dove le donne cominciarono a interrogare le discipline: a Bologna nel 1986 si formò il “Coordinamento Nazionale Donne e scienza, a Milano nel 1987 furono fondate l’”Università delle donne”, la rivista Lapis diretta da Lea Melandri e la “Comunità scientifica Ipazia”, a Roma nello stesso anno il “Centro culturale Virginia Woolf”.  In questi luoghi le donne sperimentarono la possibilità “di pensare e di parlare di scienza in modo nuovo, senza cancellare le esperienze mute del corpo, di creare una scienza diversa capace di tenere insieme il corpo sessuato con la mente” come scriveva sulla rivista Lapis Agnese Seranis, una delle protagoniste del movimento femminista di critica alla scienza.
Allora collaboravo con Lapis e tenevo i primi corsi di “alfabetizzazione informatica” all’Università delle donne. Contemporaneamente insegnavo Matematica in un Liceo e soffrivo moltissimo nel constare che, nonostante i contributi del femminismo allo studio delle discipline scientifiche, nei libri di testo le scienziate venivano ignorate e nell’immaginario comune la scienza continuava ad avere un volto maschile.  Proprio per rimediare a questa cancellazione è nata la prima ricerca italiana sul rapporto delle donne con la scienza che ho promosso presso il Centro di ricerca Pristem dell’Università Bocconi nel 1997, Uno studio collettivo che produsse la mostra fotografica “Scienziate d’Occidente. Due secoli di storia” e il libro “Scienziate nel tempo”, un progetto ancora in corso con l’obiettivo di dare visibilità alle scienziate, di indagare i contenuti e le modalità con cui si è espresso il loro lavoro nel corso dei secoli e di capire i motivi della scarsa presenza femminile nella ricerca. 

Il disastro di Chernobyl ha cambiato molte vite e le future scelte energetiche di molti paesi: se negli anni Ottanta il nucleare ne deteneva la maggioranza, a partire dagli anni successivi la situazione si è rovesciata indirizzandosi a favore delle energie rinnovabili, ma il “pericolo nucleare” rimane una grande minaccia. Anche il rapporto delle donne con la scienza è certamente migliorato da allora, ma molti problemi rimangono ancora aperti e vanno indagati.