Renata Viganò1ha un viso buono, è questa la prima cosa che mi ha colpito di lei. È una di quelle rare persone che riescono a metterti a proprio agio con un solo sorriso. Così è stata anche con me, dal momento in cui mi ha aperto la porta della sua casa a Bologna.
“Spero tu non abbia paura dei gatti!”
“No, si figuri.”
“Bene, da quando sono nata ho sempre avuto gatti in famiglia, ormai non so stare senza!”
“Com’era la sua famiglia?”
“La mia era una classica famiglia della borghesia bolognese, ma sin da piccola mi è stata stretta questa vellutata, stagnante, bigotta simulazione della classe a cui appartenevo. Poi a un certo punto la famiglia è andata in rovina e, di conseguenza, ho passato l’adolescenza in una situazione economica tutt’altro che rosea, tanto da dover abbandonare gli studi. Andai a fare prima l’inserviente, poi l’infermiera negli ospedali e ti dirò che sotto sotto mi piaceva! Certo, è stato un salto brusco, ma il mio sogno è sempre stato studiare medicina e in questo modo ho potuto farlo. In fondo, per me fu abbastanza facile passare alla condizione proletaria, e di questo devo ringraziare anche i miei, che fin da piccola mi abituarono a non considerare il mondo a strati.”
“Qual è la figura della sua famiglia che ha lasciato l’impronta più significativa sul suo modo di essere oggi?”
“Mi hanno sempre detto che assomiglio tanto alla bisnonna Caterina, che aveva guidato una ditta di vetture per matrimoni, battesimi e funerali che era stata la fortuna economica della famiglia. Sapevamo da vecchi discorsi tramandati che era piccola, vivace, aggressiva, che montava a cavallo come un cow boy e che ha passato la sua vita a mandare avanti la ditta. Vedevano questa somiglianza tra me e la bisnonna forse perché fra i nipoti ero la più piccola, vivace e aggressiva, o forse perché cominciai a scrivere poesie. L’estro poetico, dicevano, veniva di lì”.
“Oltre alla passione per la medicina, ovviamente il suo grande amore è la letteratura. Nel suo romanzo “L’Agnese va a morire” racconta le avventure di Agnese, un’eroina poco eroica, nella Resistenza italiana.
Qual è stato il suo rapporto con la lotta partigiana?”
“Mio marito Antonio nel ’43 si è unito alla Resistenza e io l’ho seguito. Ho mollato la mia casa, le mie cose, ho portato nostro figlio Agostino con me e sono diventata partigiana anch’io. Ho partecipato alla Resistenza come staffetta, sotto il nome di Contessa.”
“Cos’avete in comune lei e Agnese?”
“In comune c’è sicuramente la lotta partigiana, soprattutto perché l’abbiamo vissuta entrambe da donne. Devo però specificare che le ragioni che ci hanno spinto a combattere il fascismo sono profondamente diverse: il percorso politico che ho fatto io, insieme a mio marito, con Agnese non ha nulla a che spartire. Lei nel romanzo aderisce attivamente alla causa antifascista solo dopo l’uccisione della sua gatta da parte dei nazisti, una brutalità gratuita su un essere vivente che rappresentava il legame con il marito Palita, già ucciso dai tedeschi. Da quell’istante Agnese si unisce ai partigiani, spinta da una potentissima forza interiore, che, se vuoi, è un qualcosa di ancora più primordiale rispetto alla coscienza politica. Si muove per un istinto naturale, umano, di giustizia…”
Le sue parole vengono interrotte da un miagolio timido ma insistente: un bel gatto bianco è salito sul tavolo e ha cominciato a strusciare il muso sulla mano di Renata.
“Vedi, io parlo di istinto naturale di giustizia… Ma quale giustizia, tu vuoi i bocconcini, ti conosco, furbacchione!”
1RENATA VIGANÒ: Renata Viganò, scrittrice e partigiana, nacque a Bologna il 17 giugno 1900. A soli dodici anni riuscì a far pubblicare la sua prima raccolta di poesie “Ginestra in fiore”, seguita da “Piccola fiamma” nel 1915, ma l’opera che la consacrò fu “Agnese va a morire” (1949), romanzo di impianto neorealistico capolavoro della narrativa ispirata alla Resistenza. Tra le altre opere sulla guerra di Liberazione spiccano “Donne della Resistenza” e “Matrimonio in brigata”. Morì a Bologna il 23 aprile 1976.