Giovane Africa scrive
Incontro Bay Mademba nel centro di Ferrara, mentre mi godo un po’ del raro sole di marzo ascoltando un fisarmonicista di strada che suona Sweet Georgia Brown con leggerezza e maestria. Il musicista è biondo, alto e grosso, probabilmente viene da qualche parte dell’Europa dell’Est perché avverto un vago accento slavo quando mi ringrazia dell’euro che appoggio sulla custodia della sua fisarmonica. Anche l’uomo africano che mi si avvicina è alto e grosso, e quando mi saluta mi sento infastidito, sia perché mi distrae dalla musica, sia perché so che vuole vendermi qualcosa. Ha una borsa di tela nera e un pacco di libri in mano. Sarà difficile dirgli di no, anche se non ho voglia di leggere libri di cui non sento la mancanza o almeno la curiosità, perché quelli come lui sono convincenti, bonari, e alla fine un libro glielo compro sempre. Ce ne sono tanti in tante città, davanti alle librerie e alle biblioteche e così, quando ne esco o ci passo davanti, uno di loro mi ferma e mi propone di comprare. Bay Mademba è il nome scritto sulla copertina del volume Il mio viaggio della speranza. Dal Senegal all’Italia in cerca di fortuna, e il venditore mi dice che l’ha scritto lui, che fa lo scrittore, e mi chiede se voglio aiutarlo e comprare il suo libro in modo che possa continuare a scriverne. Sulle prime nicchio ma Bay è convincente: come fa uno scrittore, per giunta immigrato, a scrivere se nessuno poi lo legge? La mia resistenza è flebile, motivi profondi per non aiutarlo non ne ho, anche se so che non leggerò quel libro. Gli do gli otto euro che mi chiede (una voce dentro mi dice che dovrei contrattare, per strada si fa così, ma contrattare non è mai stato il mio forte) e Bay ringrazia, sorride e mi porge il volumetto. Questo, diversamente dall’autore, è smilzo, soppeso una cinquantina di pagine più o meno, ha una copertina marrone dall’aria fai-da-te con una foto di un tale su una piroga, sicuramente africana ma di più non saprei dire, l’Africa è grande. Bay mi saluta, mi dice ciao fratello, buona lettura, e se ne va.
Nel volume non c’è quasi nulla che possa far risalire all’editore, tranne “Giovane Africa Edizioni” stampato in fondo alla copertina. In quarta una scarna sinossi che parla di un diario di un giovane senegalese e delle sue peripezie per arrivare in Italia.
Mentre continuo a godermi il sole e ad ascoltare il fisarmonicista, comincio a sfogliare il libro. Non mi pare esattamente un diario, piuttosto un racconto. Leggo qua e là qualche frase, qualche periodo. Non si tratta neppure di un vero e proprio romanzo, almeno non nel senso che noi normalmente diamo alla parola, né di una cronaca o di una memoria. Non c’è ricerca nel linguaggio, accuratezza nel lessico. Manca del tutto la furbizia professionale, quella che si riconosce nei romanzi, l’architettura della storia che porta alla frase a effetto, al colpo di scena. Però mi piacciono la scarsità delle metafore e l’abbondanza delle similitudini, perché è così che immagino l’Africa. M’imbatto subito in una frase sulla madre dell’autore: «Io sono nato dalla mia mamma, per me la mamma è come una santa. La mamma per farti nascere può anche morire e ciò in Senegal accade molto spesso». La retorica sulla mamma ricorda lacrimevoli canzoni di una volta, il concetto è elementare e può suonare scontato: sappiamo (anche solo per sentito dire) come si vive là, quanto facilmente si muore, quanta gente emigra. «Accade molto spesso». Ma leggerlo nero su bianco, scritto da un io narrante che non l’ha appreso sui social ma l’ha vissuto, ammettiamolo, è un’altra cosa: la voce di chi migra, in genere, non arriva diritta fino a noi.
Proseguo nella lettura a balzi, poi decido che non ho fretta e rileggo in ordine, da pagina 1. La narrazione è piana, comincia dall’inizio e finisce con l’oggi. Terminata la cronaca del viaggio, con il suo elenco di difficoltà e di dolori, inizia un resoconto della vita da immigrato, dei discorsi di strada, dei difficili rapporti con la gente nativa e regolare, con noi che viviamo legalmente nel nostro Stato di diritto. Non tutti, racconta Bay, lo hanno trattato con manifesto razzismo. La storia riporta vari incontri e dialoghi con persone che possiamo definire “buoni” e quelli che “io non sono razzista ma”. Qualcuno, davanti al diverso, riconosce che anche noi «siamo immigrati da noi stessi», abbiamo dimenticato «il sorriso, la voglia di parlare, il gusto di salutarsi, il piacere della compagnia, la disponibilità alla sorpresa, la mancanza di paura verso il prossimo, l’accettazione fatalistica delle difficoltà». A volte si forma intorno a Bay un piccolo capannello in cui si discute e qualcuno impartisce all’“io non sono razzista ma” una breve lezione di storia del colonialismo, e poi compra qualche copia. Il vendere il libro per strada favorisce incontri, dialoghi, a volte bonari e a volte crudi. È un libro che non si esaurisce nell’acquisto e nella lettura, come quelli comprati in libreria o online, ma crea confronti. Questa, nella sua concisione, è anche la sua forza.
Il mio viaggio della speranza non è un libro che qualcuno si prenderà la briga di recensire, né sarà candidato ad alcun premio letterario. La scrittura è elementare, la narrazione priva di trucchi del mestiere. Nel volume non è indicato se sia stato tradotto da un’altra lingua e da chi. In realtà non c’è scritto niente tranne autore, titolo, editore e data di stampa: settembre 2011. Dalla grafia di alcuni nomi deduco che potrebbe essere stato scritto in francese. Non c’è un indirizzo, un telefono, un sito web. Ma fa arrivare ugualmente a chi legge la necessità di scrivere, l’urgenza di raccontare, di trasformare una memoria diaristica e intima in un libro vero. Come questo ce ne sono altri – poesie, fiabe, memorie – venduti per strada ogni giorno da autori e autrici che raccontano storie, una volta tanto, non filtrate dai media. Dobbiamo leggerli. Forse non li considereremo letteratura nell’accezione un po’ spocchiosetta che diamo a questo termine, ma le loro voci ci faranno sentire meno la solitudine delle nostre città.
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