Il linguaggio giuridico rispettoso del genere (seconda parte)

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Se il linguaggio giuridico è una lingua di potere, pare chiaro che i suoi testi esprimano il potere di un parlante/scrivente di genere maschile. Anzi, nei testi si riscontra un uso esclusivo del maschile sebbene essi siano rivolti a persone di generi diversi, rendendo più difficile una corretta comprensione, come si cercherà di dimostrare con gli esempi seguenti, e un non rispetto per un gruppo consistente di persone, cittadine, che possono non sentirsi comprese nell’uso esclusivo del maschile.

Alla base di ogni accoglimento o rifiuto di novità linguistiche sta la percezione del parlante relativamente al concetto di normalità della lingua. Normale è ciò che non si discosta dalla norma. Ma la norma, anche quella linguistica, varia a seconda del contesto sociale e soprattutto del periodo storico. Quando nel 1963 vennero ammesse alla magistratura anche le donne, si creò la necessità linguistica di utilizzare un termine adeguato per rappresentare questa figura professionale. Quanti anni dovettero (e dovranno) passare per un utilizzo costante e coerente del termine magistrata(e non magistrato, donna magistratoper esempio)? Serianni, con un bel paragone, sostiene che la norma linguistica varia nel tempo come il senso del pudore. Entrambi sono legati al variare dei costumi e della sensibilità collettiva, da cui dipende l’accettabilità o meno del gruppo sociale e della comunità linguistica.

La genericità dell’uso del maschile anche per il femminile è intesa da molte persone come complessiva; si usa il maschile ma si intende il maschile e il femminile. È davvero così? La lingua rievoca immagini maschili, nella maggioranza dei casi. Pensare a un avvocato richiama l’immagine di un uomo, non di una donna. Lo stesso vale per il professore, per il direttore, per il chirurgo. Però poi di fronte ad affermazioni come «L’uomo è un mammifero perché allatta il suo piccolo» (Anderson, 1988) l’immagine deve essere necessariamente quella di una donna. Si tratta quindi di costruire delle immagini, attraverso la lingua, che corrispondano alla realtà sociale.

E allora viene da chiedersi, ma perché invece quando si parla di lingua di genere non si possono accettare le modifiche, considerandole brutte, fuori luogo, o addirittura negative per l’immagine complessiva della professione?

Si tratta di una scelta, personale in primo luogo, ma anche istituzionale, perché solo l’uso costante di una lingua adeguata al femminile può entrare nella routine linguistica e diventare norma. Anche nel diritto il linguaggio si può adeguare a nuovi istituti, a nuove richieste sociali, a nuovi diritti (o a vecchi diritti, finalmente attuati).

Eppure, il modello di riferimento è sempre quello maschile: è la lingua declinata al maschile che serve come punto di partenza per la formazione del femminile. “In verità il tratto che ha disturbato maggiormente è che in molte lingue le opposizioni grammaticali e le categorizzazioni semantiche privilegerebbero il maschile, ovvero le lingue si adatterebbero perfettamente all’uomo in quanto iperonimo (l’essere umano) e in quanto iponimo (l’essere di sesso maschile). Il lessico e la grammatica risulterebbero sessisti, perché in essi predominerebbe il maschile per esprimere la referenza umana, che in tal modo assumerebbe una funzione non marcata, generica, detta anche ‘falsa generica’ o ‘pseudogenerica’ (false generic), cioè neutra” (Fusco, 2012, 17). Ma la lingua italiana ha due generi, il genere maschile e il genere femminile. Non esiste, come è stato più volte ribadito nella letteratura, un maschile non marcato, un maschile “neutro”: il maschile è inclusivo, eventualmente, ma non neutro. L’italiano non prevede, nelle sue categorie, un genere neutro(Cavagnoli 2013, Berruto 2004).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Stefania Cavagnoli è professoressa associata presso l’Università di Roma Tor Vergata (abilitata alla I fascia), dove insegna Linguistica generale e applicata e Teoria e prassi della traduzione. È delegata del rettore per il centro linguistico di ateneo e sua direttrice. I suoi campi di ricerca sono l’educazione plurilingue e la linguistica giuridica, con particolare attenzione alla lingua di genere.