Nel contesto di sostanziale asimmetricità che vede, in modo non corretto, una predominanza del maschile anche per i sostantivi che indicano professioni femminili, soprattutto se ritenute di prestigio, mi sono chiesta che tipo di lingua sarà presente in due dei testi principali che regolano il tema della maternità e della paternità nel mondo del lavoro.
Nella cultura italiana, il tema della maternità è un tema femminile. L’ipotesi è quella quindi di trovare una lingua adeguata al genere, anche dato il contenuto delle norme in esame.
I testi qui analizzati sono la Legge 8 marzo 2000, n. 53: “Disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi delle città” e il decreto legislativo 26 marzo 2001, 151 testo unico; “Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53”.
Il primo atto normativo è una legge, composta di 7 capi e 28 articoli. Si tratta di un testo che riassume sia la tematica dei congedi parentali, familiari e formativi, sia la flessibilità di orario, che ulteriori misure a sostegno di maternità e paternità. Tale legge riporta una serie di indicazioni utili per capire i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici quando decidono di diventare genitori. Le norme esposte riguardano in primis l’astensione, obbligatoria e facoltativa.
Il secondo documento invece è un decreto legislativo nato dopo la scrittura della legge 53, con l’obiettivo di porre ordine alle diverse leggi esistenti sull’argomento. Consta di 16 capi, e di 88 articoli, a cui vengono aggiunti quattro elenchi, con i lavori pericolosi, e le diverse assicurazioni per i lavoratori (sic!). Le tematiche principali coinvolgono i riposi giornalieri per allattamento, il divieto di licenziamento in caso di gravidanza, la tutela contro le discriminazioni e il divieto di adibire a lavori pericolosi la donna in gravidanza.
Legge 53, 2000. Nella prima analisi del testo si riscontra un’attenzione (che si pensava scontata) all’uso di una lingua adeguata al genere. Nel testo si trova infatti spesso la dicitura lavoratrici e lavoratori, con qualche inversione in lavoratori e lavoratrici. Si parla di lavoratrici, madri, di lavoratrice madre e di lavoratore padre (non sempre univoco: si trova anche padre lavoratore e madre lavoratrice), anche di genitori, ma si usano esclusivamente le forme del maschile per tutte le altre parole (e persone) coinvolte: si trova sempre il bambino o il minore, il datore di lavoro, il richiedente, il dipendente, i soggetti, il titolare d’impresa, l’imprenditore, il lavoratore autonomo, in tutti quei casi in cui la generalizzazione indica unicamente il maschile come forma di riferimento. E ancora, nell’art. 25, si indica il sindaco, il responsabile, il rappresentante, il dirigente, i presidenti, gli imprenditori, il provveditore, i cittadini.
In questo testo di legge, anche per la materia disciplinata, emerge che il legislatore (o la legislatrice?) si è sforzato a etichettare, in modo corretto, la persona portatrice di diritti e di doveri, a seconda della situazione illustrata. Ciò però avviene solo quando si intende un unico soggetto, e mai quando si deve generalizzare. È il caso già dell’art. 3, in cui si legge “il bambino” e si intende certamente la possibilità che sia una bambina. O ancora, dell’art. 12, in cui si indicano “le lavoratrici” che devono essere visitate da “un medico specialista”; in una frase successiva, il dialogo è fra la “gestante” e “il nascituro”.
L’art. 15 è molto significativo, dal punto di vista linguistico, perché esplicitamente, alla lettera c), recita, nell’elenco dei passi da compiere per l’attuazione della legge: “ coordinamento formale del testo delle disposizioni vigenti, apportando, nei limiti di detto coordinamento, le modifiche necessarie per garantire la coerenza logica e sistematica della normativa, anche al fine di adeguare e semplificare il linguaggio normativo”.
Tale adeguamento dovrebbe riguardare anche l’univocità dei termini utilizzati, e la ritualità. Nell’analisi del decreto legislativo di attuazione non sempre sarà questa la realizzazione. Un esempio in questo senso nella legge 53 è legato alle espressioni: lavoratrice madre vs. madre lavoratrice, e l’omologa espressione “lavoratore padre vs. padre lavoratore”. Le due locuzioni sono usate come sinonimi, nel testo di legge, mentre la diversa dislocazione pone il focus ora sulla parola madre, ora su quella di lavoratrice.
Decreto legislativo 151, 2001. Il decreto in oggetto è un testo più lungo della legge, completato da tre appendici; si tratta di un testo maggiormente operativo e concreto, proprio per la sua natura di attuazione di una legge. Dovrebbe valere come riferimento normativo per tutte le questioni riguardanti tematiche legate alla maternità, alla paternità, alla conciliazione di tempo di lavoro e tempo di vita personale.
In questo testo è costante l’espressione “lavoratrice o lavoratore”. Nello stesso articolo, 28, si trova la forma “il padre lavoratore e la lavoratrice”, quindi espressione non simmetrica.
Nell’art. 32 la forma utilizzata “genitore richiedente” è una buona soluzione per evitare la ripetizione e allo stesso tempo essere adeguato alla realtà comunicativa. Nel comma precedente, invece, è presente la forma duplicata.
In altre espressioni, come accade nel testo di legge, si usa la forma non declinata al femminile, soprattutto nel senso di inclusiva. Si trovano quindi, anche ripetuti, il datore di lavoro, i dipendenti, i soci delle cooperative, i terzi, i soggetti iscritti al fondo pensioni. Anche in questo testo, la prole è declinata sempre al maschile: si trova la parola figlio, il minore, bambino. Nell’art. 47 il testo “scivola” nel maschile anche relativamente alla locuzione “lavoratrice/lavoratore”.
In conclusione rileviamo che rispetto ad altri testi di legge, la presenza della donna è esplicita (e come potrebbe essere altrimenti, visto il tema?). C’è un’attenzione in entrambi i testi allo sdoppiamento, e quasi sempre all’attribuzione del femminile o del maschile in modo corretto. Quello che emerge è però anche l’uso di un maschile inclusivo per tutti quei ruoli che non riguardano direttamente “la lavoratrice madre o il lavoratore padre”. È chiaro che in questa denominazione l’attenzione del legislatore è quasi costretta ad un uso differenziato del termine; tale scelta però viene ripetuta spesso anche per lo sdoppiamento “lavoratrice e lavoratore”, che secondo le tradizioni del linguaggio giuridico italiano non sarebbe così normale. In questo senso, si assiste, in questi due testi normativi, ad un cambiamento verso la lingua adeguata al genere.
Resta, come detto sopra, un’abitudine all’inclusività per molti ruoli presenti nelle leggi.
E infine, una bibliografia tematica utile.
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