Il giardino dei Finzi-Contini narra l’amore della voce narrante anonima per Micòl, ma anche l’intreccio delle amicizie, la vita divisa tra studi, abitudini e riti familiari di alcuni ragazzi di Ferrara, quasi tutti ebrei, che vengono sorpresi e attraversati dalle leggi razziali dell’Italia fascista, che trovano riparo e paradossalmente libertà dall’esclusione nell’orto concluso di due di loro, Micol e il fratello Alberto, ricchissimi e vissuti sempre in un isolamento aristocratico che li tiene per contrasto al centro dell’attenzione nella piccola, tranquilla, solida città. Nel meraviglioso giardino della grande casa, e nel suo campo da tennis, i ragazzi, giocano, parlano, alcuni progettano, malgrado tutto, il futuro. Gli adulti appaiono gentili ed affettuosi, ma in qualche modo distanti e meno consapevoli della catastrofe che sta per abbattersi su un mondo del quale quasi mai mostrano di avvertire la straordinaria precarietà.
Micòl, al contrario, appare più conscia di ogni altro personaggio del futuro incerto e angoscioso. Ella nega il progetto e, negando il progetto, nega l’amore, non solo all’io narrante, che le sembra troppo simile a sé, troppo indifeso per la lotta cruenta che la relazione amorosa le pare richiedere, ma forse anche a sé stessa, che pure forse lo ama e al quale forse preferisce incontri senza progetto col solido Malnate, il giovane comunista, non ebreo, che, lui sì, crede nel futuro, ma che, atroce disinganno, non tornerà più dalla spedizione italiana in Russia.
Micòl sfuggente e misteriosa, Micòl seduttiva e improvvisamente fredda, Micòl saggia e infantile, che sistematicamente spiazza il narratore o ne frustra le attese.
Il romanzo, che muove dal ricordo della tomba monumentale dei Finzi-Contini, arriva improvviso al galoppante epilogo, dove gli anni dalla fine del 1939 al 1943 sono narrati in due pagine, che tuttavia aggiungono quello che dall’Esordio era stato già annunciato, ma non circostanziato, la morte di tutti i Finzi-Contini: di Alberto per tumore, e poi la morte in campo di sterminio di Micol, del padre, il colto e mite professor Ermanno, della madre, la fragile signora Olga, atterrita dai microbi, della vecchissima nonna paralitica, Regina.
Ma a suggello di tutte le vicende, l’io narrante pone le disperate parole di Micòl che dicono la sua indifferenza, anzi la sua repulsione per il futuro: ”Micòl ripeteva di continuo anche a Malnate che a lei, del suo futuro democratico e sociale non gliene importava nulla, che il futuro, in sé, lei lo abborriva, ad esso preferendo di gran lunga “le vierge, le vivace et le bel aujourd‘hui“, e il passato, ancora di più, “il caro, il dolce, il pio passato.”, verace profetessa dell’orrore che stava per travolgere lei e i suoi più cari insieme ad un intero mondo.