Lisa Giua, narrata da Anna Foa

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La famiglia F., uscito pochi mesi fa, alla fine del 2017, è un esperimento di ricostruzione storica e narrazione che intreccia la storia di più famiglie, Foa, ma Giua, Della Torre, Luzzati, Agnini e altre ancora, unite fra loro da legami matrimoniali e di sangue, ma pure, e con altrettanta forza, da lotte politiche che si rivelano subito e definitivamente solidali e necessarie ai legami fra le persone, proprio come la carne e il sangue. Donne e uomini uniti, separati, riuniti e separati ancora dallo slancio ideale, da prigioni, da esili, da morti spesso eroiche o tragiche, annunciate o, più sottilmente, prefigurate. Tutte le famiglie coinvolte in questi legami e in questo racconto, che è storico, ma insieme intimo, sono riunite nel titolo, dalla nota studiosa Anna Foa, come famiglia F., con un tratto di nascondimento discreto, ma anche allusivo, probabilmente come a dire che è questa la storia di una famiglia italiana come altre ce ne sono state nel periodo dall’Unità d’Italia alla faticosa fine dei comunismi, o almeno alla fine delle speranze di milioni di uomini e donne su ciò che il comunismo avrebbe potuto realizzare. Ma certo è pure un gruppo familiare che ha avuto un’esperienza intensissima e viva, di primo piano, nella lotta politica italiana e internazionale per più di cento anni.

Fra i tanti personaggi, uomini e donne, desidero soffermarmi su Lisa Giua, madre di Anna Foa e moglie di Vittorio, il grande sindacalista: Lisa, della quale sembra essere indagato e sottoposto al tentativo di scioglimento il mistero non solo suo, ma di un’intera generazione che credette in una generosa ideologia, continuamente contraddetta nella sua attuazione e tuttavia continuamente inseguita e perseguita. E appaiono anche il ricordo affettuoso ed una commozione sempre trattenuta, ma non celata.

Lisetta Giua, poi detta Lisa, nacque nel 1923 a Torino. Il padre Michele, socialista, fu tra i pochi professori universitari italiani a rinunciare alla cattedra per non giurare fedeltà al fascismo, e nel 1935 fu condannato a quindici anni di carcere per attività eversive del regime (nello stesso processo in cui fu condannato Vittorio Foa), condanna che scontò fino al 1943, quando venne liberato. La madre di Lisetta, Clara Lollini, donna austera, rigorosa, piena di forza, condivise sempre le idee del marito e con lui patì la morte del primo figlio nella guerra di Spagna, poi del secondo, molto cagionevole, per malattia e ne condivise i timori per l’attività partigiana nella quale la figlia cominciò a militare giovanissima. 

La piccola, vivace Lisetta di Lessico famigliare di Natalia Ginzburg, la Lisa intellettuale autorevole nel commosso ricordo di Adriano Sofri, nel 2005, alla morte di lei, viene confermata in toto nel racconto che Anna Foa ci consegna. Precoce nelle letture, precoce nella lotta antifascista, incapace di timori per sé e straordinariamente schiva. Comunista con un’evidente vena anarchica, spregiatrice di ogni titolo, di ogni potere personale, di ogni carica istituzionale. Brava a scuola, dove però si annoiava, ironica verso l’accademia, di cui non volle mai far parte, non volle neppure laurearsi. Indifferente al matrimonio come istituzione, sposò Foa un bel po’ dopo la loro unione e dopo la nascita della prima figlia. Così, non si curò di divorziare, dopo la separazione, alla fine degli anni Settanta. Ben presto suo padre le era apparso un uomo superato dai tempi, come storia vecchia le parve sempre il femminismo. Diceva “mia nonna era femminista”. Dopo la liberazione, imparò il russo, viaggiò moltissimo nell’Est Europa, collaborò con Togliatti, tradusse, scrisse per “Rinascita”. Dai fatti d’Ungheria, però, cominciò il suo lungo percorso di ripensamento e critica del comunismo sovietico, fino alla rottura, quasi silente, col PCI, nel 1969, all’ingresso dei carri armati a Praga, ma continuò incessantemente il suo impegno, in varie riviste, e in Lotta Continua dal 1972, aiutando la lotta polacca per la caduta del comunismo sovietico, occupandosi del Vietnam, della rivolta africana contro il colonialismo, aderendo quindi al maoismo, nella cui esperienza iniziale coglieva una vena fantasiosa ed anarchica che le corrispondeva bene e arrivando al punto di indossare per molto tempo la casacca blu dei maoisti cinesi. Anche questa nuova speranza sarebbe caduta. Ma Lisa, infaticabile, passò ad aiutare i profughi bosniaci, con la figlia Bettina approfondì la questione del genocidio dei Tutsi. Dalla fine degli anni Ottanta, si era dedicata allo studio della Shoah, questione che, ammise con Anna, “avevamo trascurato”.

Anche il cancro aggressivo e doloroso, che l’avrebbe uccisa, fu da lei affrontato con serenità e con un distacco dolce e fermo, con l’eleganza anche interiore che pare essere stata la sua cifra essenziale.

Una donna vissuta di idee e per le idee, che aveva subito la detenzione, nel 1944, nella spaventosa Villa Triste di Milano, mentre era incinta, catturata con un’amica, pure incinta, dalla banda Koch. I fascisti chiesero al CNL di trattare la liberazione di alcuni fascisti in cambio di quella delle due donne, offerta che, con la sua sollecitazione ed approvazione, il Comitato rifiutò, e, particolare davvero atroce, ma, oso dire, sublime, Vittorio Foa fu tra coloro che decisero contro la trattativa. Fu il cardinale Schuster a salvare la vita alle due prigioniere, dietro richiesta dei partigiani, segnalando quella prigione irregolare ai nazisti, che la smantellarono, dopo aver fatto portare le donne in ospedale, dove erano piantonate, ma da cui si riuscì a farle fuggire.

Lisa fu pure una moglie che consumò il suo distacco dal marito perché la loro posizione politica si era sempre più divaricata, fra il socialismo anticomunista di lui e la ricerca di un comunismo dal volto umano di lei. E fu una madre che mescolava ironia e tenerezza, come nel rapporto con Anna, da lei considerata con qualche ironia per il suo lavoro nell’Università, ma che anni prima aveva guidato in una delle prime manifestazioni di protesta studentesca, dove era improvvisamente apparsa in aiuto della figlia che era con un’amica francese, perché le due ragazze sfuggissero alle cariche della polizia e agli arresti.

Come della fanciulla fuggevolmente narrata da Primo Levi in Se questo è un uomo, di cui non è detto il nome (ma che sappiamo essere Vanda Maestro), viene da chiederci se siamo dinanzi ad un personaggio completamente storico, che per nessun aspetto tocca il territorio della letteratura. Anche per lei sembra di poter rispondere che la narrazione storica, ove assuma un aspetto di modello esemplare, può sconfinare nella letteratura, se letteratura è narrazione di sogni e desideri umani. Un segnale in questo senso pare trasparire anche da alcune parole con le quali questo breve articolo si congeda da Lisa. Un ricordo di Anna: “[…] Ritorna, attraverso Beethoven, il filo conduttore dell’eroismo che mi ha accompagnata da bambina e da ragazza. Quando Lisa morì, la mattina in cui sapevo che sarebbe stata cremata ascoltai l’Eroica.”

                                                                              

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Alba Coppola è docente di materie letterarie negli Istituti di istruzione secondaria di II grado. Italianista, ha lavorato per sette anni presso l'Università di Salerno per le cattedre di Letteratura Italiana e di Storia della Grammatica e della Lingua. Ha pubblicato su riviste specializzate, atti di convegni, quotidiani e riviste generaliste. Si è accostata da alcuni anni agli studi di genere con particolare riguardo alla toponomastica.