Un’analisi sociologica: le musiciste nella storia e nella lotta per i diritti sociali

In Occidente, fin dal Medioevo, furono numerose le compositrici attive nella creazione musicale, nella vita sociale e politica, ma l’Enciclopedismo Universale del ‘700 e la specializzazione delle diverse discipline cancellarono del tutto la loro esistenza e di conseguenza nei manuali di storia della musica.

Oggi è possibile rintracciare e definire anche un numero approssimativo della loro presenza: nel New Grove of Music se ne contano 900, la Fondazione “Donne e Musica” registra 27.000 presenze tra compositrici, interpreti, pedagoghe, musicologhe presenti in 108 paesi e 84 associazioni. Presenze dimenticate nei conservatori e nella storia della musica, nel sapere formalizzato e istituzionalizzato.

Centrale e sicuramente sorprendente è il fatto che molte compositrici furono riconosciute e ammirate in vita dai loro contemporanei  –  editori, circoli intellettuali, comunità scientifiche, personaggi istituzionali  –  i loro nomi sono continuamente presenti nelle recensioni, nella fitta rete degli scambi epistolari con i maggiori intellettuali e artisti del tempo.

Gli spazi di affermazione pubblica si chiudono paradossalmente quando i processi di democratizzazione del sapere – l’illuminismo e l’enciclopedismo del ‘700, l’istituzionalizzazione delle diverse discipline, la scolarizzazione di massa – impediscono gli accessi all’alta formazione delle donne, per evitare che divenisse prassi consolidata e generalizzata l’esempio di un’artista autonoma, creativa, geniale. Tutt’oggi le musiciste sono oggetto di censura, pregiudizi e stereotipi ghettizzanti e marginalizzanti, tanto da stigmatizzarle in una tripla devianza: quella di essere donne ribelli ai costumi dell’epoca, di esercitare un’arte ancora oggi considerata marginale rispetto ad altre espressioni artistiche, quella di essere artiste e dunque per tradizione individui devianti, o stravaganti nel migliore dei casi.

Una, tra le storie di vita delle compositrici, che più di altre emerge a fine ‘800, nella lotta per i diritti civili e politici, è quella di Ethel Mary Smyth, (Londra 1858- 1944 – foto di copertina),Ethel Mary Smyth, (Londra 1858- 1944) si impegnò attivamente nella lotta per i diritti civili e politici delle donne, compose la famosa “March of the women”; riscuotendo un tale successo: per anni fu suonata per le strade inglesi. Scrittrice e saggista, fu proclamata Dama dell’Impero Britannico e le sue pubblicazioni furono diffuse e vendute anche in America e in Germania. Purtroppo, ad oggi le sue musiche sono state dimenticate, non solo non é citata nei manuali di storia della musica, ma anche la sua famosa “Marcia per le suffragette” resta tutt’oggi anonima anche nei titoli di coda dei film in cui viene utilizzata.Scrisse Smyth: “Ciò che mi sta davvero a cuore è quanto accade nel campo della musica. Durante la guerra divenne impossibile proseguire senza introdurre donne nelle orchestre e, detto spassionatamente, poche cose mi impressionarono maggiormente del nuovo suono ottenuto, più brillante e caldo. Si percepiva uno spirito nuovo e fresco – senza dubbio il risultato, almeno in parte, di una rivalsa di ‘genere’, nel miglior senso del termine. (…) L’atteggiamento degli Inglesi verso le donne nei vari settori artistici è ridicolo e incivile. Non c’è sesso nell’arte. Come si suona il violino, come si dipinge o si compone è ciò che veramente conta. Nei paesi in cui l’istinto estetico è grande, e coltivato – in Francia, per esempio – il giudizio è pulito e oggettivo, e una donna che pratichi un’arte è semplicemente un’artista fra gli artisti. Qui in Inghilterra, dove l’istinto langue, e non viene educato, il primo e l’ultimo giudizio sulla sua opera provengono dal sesso […]”[1].

Pierre Bourdieu, ispirato da Virginia Woolf, svelò pienamente i meccanismi dell’ordine stabilito dal potere maschile: il rapporto di dominio, il modo in cui viene imposto e subìto è l’esempio per eccellenza di sottomissione paradossale alla violenza simbolica, invisibile alle stesse vittime, e che si esercita attraverso l’uso della comunicazione e della conoscenza, in cui la doxa è doppiamente paradossale quando smonta la trasformazione della storia e dei costumi culturali in qualcosa di naturale.[2]

La giustizia sociale deve essere dunque ridefinita, re-immaginata e condivisa, utilizzando nuove narrazioni, ricostruendo universi simbolici.

Se la storia delle compositrici non entrerà a pieno diritto nei programmi di studio dei Conservatori, nei libri di storia, non si farà altro che confermare un ordine naturale dominato da una costruzione storica oramai inverosimile.

Per rispondere a questo vuoto istituzionale, è in corso di stampa il primo volume di una collana editoriale “Voci di Musiciste”, (a cura di Luca Aversano, Milena Gammaitoni, Orietta Caianiello, Angela Annese), per le Edizioni Italiane di Musicologia; ci aspetta un grande lavoro di formazione e di divulgazione nel quale impegnarci e coinvolgere le nuove generazioni a partire dal linguaggio[3]: in Wikipedia, l’enciclopedia più consultata nel web, e principalmente dai giovani, le compositrici rispondono alla definizione: “Compositori donne”. A chi verrebbe mai in mente di cercare la storia delle musiciste scrivendo la parola chiave al maschile?

 

 

[1] E. Smyth, Streaks of life (trad. Stralci di vita, secondo dei volumi dell’autobiografia di E. Smyth a cura di Orietta Caianiello), London, Longmans, Green, 1921, pp. 237-240.

[2] Pierre Bourdieu, Il dominio maschile, Feltrinelli, Milano, 1998,  p. 22.

[3] La Presidente della Camera dei Deputati, On. Laura Boldrini, dall’inizio del suo mandato ha promosso il bisogno di declinare la lingua italiana al femminile in ogni ambito della vita pubblica e privata; l’Associazione Toponomastica femminile sta collaborando attivamente con Wikipedia per un cambiamento radicale del linguaggio.