È questa la vicenda di una scrittrice che è insieme personaggio di un dramma amoroso, narrato nelle lettere degli stessi protagonisti: Sibilla Aleramo e Dino Campana.
Quando i due si incontrano, nel 1916, Sibilla ha quarant’anni ed è già inserita, come figura di rilievo, nell’ambiente intellettuale, tanto milanese che fiorentino e romano; già da un decennio ha pubblicato il suo romanzo Una donna, che testimonia, attraverso temi allora considerati ‘scabrosi’, come la follia e le molestie sessuali, del costituirsi di una coscienza femminista, destinata in lei a consolidarsi negli anni.
Dino Campana, nato nel 1885, fin dall’adolescenza aveva manifestato disagi contro i quali la medicina del tempo, e in un soggetto povero e solitario, del tutto sradicato quale sempre egli fu, non era in grado di fare molto. Vagabondò e visse sempre in povertà, non uscendo mai da questa condizione. La vicenda stessa della pubblicazione dei Canti Orfici si inserisce del tutto in una vita di estreme difficoltà.
La storia fra i due, che si innamorano di un amor de lohn, che l’incontro reale, concordato per via epistolare, conferma e rafforza, si dipana lungo il biennio 1916-1918, anche se la relazione vera e propria sarebbe durata poco più di sei mesi nel corso del 1916 e se dopo il gennaio del 1917 i due si incontreranno una sola volta, nella circostanza tragica del ricovero coatto di lui.
Le prime settimane del rapporto d’amore recano a entrambi sentimenti nuovi, emozioni mai prima vissute con tanta intensità, malgrado entrambi avessero avuto numerosi incontri, più o meno significativi per la poetessa, non incidenti per Campana. Entrambi trovano accenti appassionati e intimi. Notevole la differenza delle lettere di lei, di tono un po’ dannunziano e recitato all’inizio, ma presto, dopo i primi incontri, intimo e tenero, pieno di abbandono affettuoso, come quando si firma col piccolo, modesto suo vero nome: Rina, o addirittura Rinuccia, che, gli scrive, “non ho usato mai”. Ma presto la follia del poeta si manifesta col suo carico di dolore e di violenza. E se la malattia che lo tormentò è la motivazione sostanziale delle sue ripetute violenze, pure, la manifestazione di esse sulla donna amata, accusata immotivatamente di infedeltà e colpevolizzata per le precedenti relazioni, ha la forma storica del sentimento di proprietà cieco e violento in tanti rapporti uomo/donna che tuttora sono sotto i nostri occhi. Una poesia di straordinaria intensità e bellezza, che reca la data dell’8 settembre 1916, scritta da Sibilla e spedita al suo amato Dino, apre uno scenario sconvolgente delle atrocità cui ella era stata sottoposta.
Rose calpestava nel suo delirio
e il corpo bianco che amava.
Ad ogni lividura più mi prostravo,
oh singhiozzo, invano, oh creatura!
Rose calpestava, s’abbatteva il pugno,
e folle lo sputo su la fronte che adorava.
Feroce il suo male più di tutto il mio martirio.
Ma, or che son fuggita, ch’io muoia del suo male!
L’autrice del primo romanzo italiano di sentire femminista, che giovanissima aveva conosciuto violenze fisiche e psicologiche in famiglia e che a fatica si era liberata, reagisce, tuttavia, per qualche tempo in modo che sta pur’esso dentro il canone storico: si sottomette, subisce, spera in un cambiamento, le pare perfino di comprendere che la sofferenza di lui, folle, è più grande della propria, che subisce la violenza, ma non ne viene ingoiata. Ben presto i due s’incontrano ancora. Tuttavia il ripetersi delle violenze convince Sibilla, dopo alcuni mesi, che la situazione è irrecuperabile, che la storia va troncata. Ama ancora, lo dichiara nelle lettere a lui e ad amici, e la sua sincerità, il suo dolore, il suo rimpianto sono evidenti, ma ha ampie risorse, sa difendersi e comprende che la sua unica difesa è interrompere il rapporto.
Il 21 dicembre 2016, scrive a Leonetta Cecchi Pieraccioni, amica sua e di Dino:
“Leonetta, non so se vedrai Campana. Dopo averlo ritrovato, e con lui qualcuna delle nostre ore più belle, stanotte s’è di nuovo abbandonato al suo delirio d’odio e questa volta credo non ci ritroveremo più […] Non avevo mai impegnata così totalmente la mia esistenza: era adorazione, sottomissione, negazione mia totale. Ora non saprò mai più amare. Sibilla”
Spaventata, ma soprattutto ferita, Aleramo, dispera in un cambiamento positivo e non vuole più incontrare Campana, malgrado la successione insistita, appassionata, a tratti straziante, dei messaggi di lui, nei quali invoca perdono e le chiede almeno un ultimo incontro. Eppure il sottrarsi di lei è colmo di dolore e rimpianto, malgrado il rapporto con Campana le appaia adesso come “martirio”.
Il 26 febbraio 2017 scrive infatti all’amico Vittorio Baldini: “Ho vissuto sei mesi di martirio, appetto a cui tutto ciò che avevo prima sofferto si è parso gioco. Ma era vita, e ora ch’è finito…”. E nelle lettere che continua a inviare al poeta, pur negandogli un nuovo incontro, gli dichiara un amore appassionato, la speranza disperata che il futuro insieme sia ancora possibile.
Nel 1918, su indicazione medica, Campana entra nel manicomio dal quale non uscirà mai più, morendovi nel 1932. Aleramo vive fino al 1960. Quello che era stato l’amore più perturbante della sua vita, fu una ferita definitiva, una vicenda della quale seppe e volle pochissimo parlare, autorizzando solo nel 1958 la pubblicazione del carteggio in suo possesso e che ha conosciuto una storia editoriale pure singolarmente tormentata e non ancora giunta a conclusione.
Le citazioni sono tratte dal carteggio Sibilla Aleramo – Dino Campana, Un viaggio chiamato amore, Lettere 1916-1918, a cura di Bruna Conti (Feltrinelli, 2000), ma si veda pure l’edizione del 2015, per la stessa curatrice e ancora per Feltrinelli.