Su Emily Dickinson

Non sempre il primo incontro decisivo con uno scrittore destinato a divenire importante nella nostra esperienza culturale, e quindi esistenziale, passa attraverso la lettura delle sue opere: una frase adattata per noi da un essere amato, un’allusione nel libro di un altro autore, un film biografico, un documentario, l’occasione della stampa di un francobollo commemorativo, una conferenza cui per caso capiti di assistere, la visita occasionale a una casa, poi divenuta museo, abitata dallo scrittore, fino a subito prima poco noto e indifferente, possono suscitare un’improvvisa attenzione, spingerci a una lettura appassionata della sua opera, prima non ancora esperita.

Ma può avvenire che pure approcci diversi non facciano ancora sbocciare l’interesse e che esso ci colga ancora più avanti, in un momento in cui qualcosa che in noi è maturato o è appena nato, ci spinga improvvisamente verso quell’autore, verso la sua opera che a un tratto consuona in noi.

In Mai devi domandarmi, di Natalia Ginzburg, curioso libretto, “qualcosa come un diario”, che raccoglie, salvo pochi inediti, la maggioranza degli scritti da lei pubblicati su La Stampafra il dicembre del 1968 e l’ottobre del 1970, appare la memoria, che è anche riflessione, ma poi si fa per brevi tratti anche racconto, Il paese della Dickinson, del gennaio 1969, sulla sua visita di qualche tempo prima ad Amherst, nella casa vicino a Boston, dove la più grande poetessa americana visse quasi del tutto nascosta e ignota al mondo, dalla nascita, nel 1830, alla morte, nel 1886.

Con un rimpianto quasi indispettito, Ginzburg ci dice che a quell’altezza di tempo Emily Dickinson era per lei poco più che un nome, che ne aveva letto poche rime e forse qualche lettera, non ne ricordava un solo verso. Riferisce di aver guardato la sua casa, i mobili, un quadro, senza partecipazione, distrattamente. Torna alle idee e nozioni confuse che aveva allora su quella zitella che le appariva irritante e antipatica, con le sue strane manie di vestire sempre di bianco e di andare incontro ai rari ospiti con due gigli fra le mani, col suo amore per gli uccellini, coi suoi amori umani non consumati per “un vecchietto e un prete”.

Ma il tempo è trascorso e “In questi giorni mi son messa a leggere le sue lettere, e poi, nel mio debole inglese, i suoi versi. Che grande poeta era, questa Emily Dickinson. Ma tutto in lei è tale da non poter essere compreso, accolto, appena cent’anni dopo la sua morte (siamo nel 1969). Ella era stravagante e noi non amiamo la stravaganza, amiamo la pazzia, che grida e veste colori sgargianti. Come i contemporanei di Dickinson, che la sfiorarono o che la frequentarono più intrinsecamente, ma non per discrezione, o per distrazione, o per animo mediocre, ma per altri motivi, più disprezzabili agli occhi di Ginzburg, più accecanti, cioè perché colmi di bovarismo, scettici, increduli e pieni di pietà per noi stessi, non avremmo potuto comprendere chi mai ebbe pietà per se stessa, mai ebbe lacrime su se stessa, che fu tragica e mai patetica, che mai volle pubblicare le proprie poesie, che definiva il suo solo compagno di giochi, ma che di esse allo stesso tempo diceva “Questa è la mia lettera al mondo, che mai scrisse a me”.