Sul limite
Nella Divina commedia Ulisse, secondo Piero Boitani, “non è una statua, ma una fiamma: è la lingua di fuoco che dice di un greco condannato a morte dal Dio di un’altra cultura” (Piero Boitani, Parole alate, Milano, Mondadori, 2004, p. 241).
Nel finale della trasposizione cinematografica di Frankenstein di Mary Shelley realizzata da Kenneth Branagh nel 1994, in uno scenario ghiacciato, ai limiti del mondo, lo scienziato, che ha osato sfidare le leggi della natura e di dio, giace morto sulla banchina che, improvvisamente comincia a spaccarsi, proprio durante la cerimonia funebre, inducendo il capitano Richard Walton e il suo equipaggio a mettersi in fuga per raggiungere la nave. Sarà l’essere da lui creato a sottrarsi alla salvezza – ma è possibile per il “mostro” la salvezza? una vita tra gli esseri umani? – e a nuotare fino a raggiungere il banco di ghiaccio su cui è coricato il corpo del suo creatore, brandendo una fiaccola con la quale gli dà fuoco e perendo insieme a lui nel rogo. Anziché Ulisse e Diomede, creatore e creatura, uniti nella stessa fiamma, che arde in un paesaggio livido come il Cocito dantesco, cupo e senza speranza. Il capitano Walton, che attraverso mille perigli voleva insieme ai suoi uomini raggiungere il Polo Nord, invece di proseguire verso la meta come Ulisse, interrompe il folle volo e decide di volgere la prua verso casa.
Il romanzo epistolare di Mary Shelley si chiude invece sul “mostro” che, raggiunto Frankenstein, ormai morto, sulla nave di Walton, si allontana poi dall’imbarcazione camminando sulla banchisa per darsi fuoco, affinché dai suoi resti carbonizzati non sia possibile comprendere come dare vita a un altro essere come lui.
Entrambi i finali, quello del libro e quello del film, sono drammatici; entrambe le opere si concludono con un rogo, elemento di catarsi, nel romanzo solamente evocato dalle parole del Demone, come Frankenstein era solito definire l’essere che aveva creato, mentre nel film il fuoco è mostrato a rischiarare la cupa notte artica, sottolineando in questo modo il contrasto tra la luce e le tenebre, il calore del fuoco e il gelo dei ghiacci. È un’immagine di sapore dantesco che richiama in modo immediato e potente uno dei Leitmotiv dell’Inferno, il contrasto tra luce e oscurità, caldo e freddo, l’occhio luminoso del Creatore e il buio cui sono dannati per l’eternità coloro che hanno vissuto nelle tenebre del peccato. Nell’Inferno il Creatore è Dio, in Frankenstein è l’omonimo scienziato, ovvero un uomo, alla fine punito per la sua hybris, come l’Ulisse dantesco. Il titolo integrale del romanzo di Mary Shelley è Frankenstein, o il moderno Prometeo, a richiamare la figura dell’eroe mitologico orribilmente punito dagli dei per avere condiviso con i mortali il dono del fuoco. Prometeo, l’Ulisse dantesco e Frankenstein incarnano in modo diverso il tema del limite umano e del suo superamento, ma sono tutti egualmente e tragicamente sconfitti. Prometeo e l’Ulisse di Dante oltrepassano il limite segnato per i mortali dalle entità divine, mentre Frankenstein addirittura si sostituisce a Dio nell’atto della creazione della vita. In epigrafe a Frankenstein, o il moderno Prometeo Mary Shelley pone la seguente citazione dal Paradiso perduto di John Milton: «Ti ho forse chiesto io, Creatore, di farmi uomo dall’argilla? Ti ho forse chiesto io di trarmi fuori dall’oscurità?». È Adamo che parla a Dio, ma le sue parole non stonerebbero se fossero rivolte dal Demone a Frankenstein, il suo creatore. La prima edizione del romanzo esce esattamente duecento anni fa, nel 1818, seguita da quella definitiva, in parte rimaneggiata, nel 1831.
Negli stessi anni Giacomo Leopardi fa poesia delle sue riflessioni sull’infelicità.
Il piacere, illimitato e assoluto è agli esseri umani inattingibile, se non nell’immaginazione, poiché il limite è insito nella condizione umana; la continua e sempre frustrata ricerca della felicità, sancita pochi decenni prima addirittura come diritto inalienabile dalla Dichiarazione dei Diritti, si trova tutta in questo impari scontro tra finito e infinito, nell’impossibile superamento del limite. L’antagonista della “letteratura del limite” di cui sono protagonisti Prometeo, l’Ulisse dantesco e anche Frankenstein si incarna negli dei dell’Olimpo oppure nel dio cristiano; in Leopardi invece lo sguardo si sposta e la potente e invincibile nemica è la “natura matrigna”. Combatterla è impossibile e inutile, stolto è confidare nelle “magnifiche sorti e progressive” dell’umanità, saggio è accettare la propria umana insignificanza nel cosmo poiché alle stelle “L’uomo non pur, ma questo/ Globo ove l’uomo è nulla, / Sconosciuto è del tutto”.
Dal tentativo di superamento del limite si passa all’accettazione dolorosa del limite, sia pure in parte lenita dall’immaginazione; dalla dialettica essere umano/divino si passa a quella essere umano/natura, ma il problema del limite resta. Anche oggi; e forse proprio per questo le figure di Prometeo e dell’Ulisse di Dante e l’opera di Mary Shelley e di Giacomo Leopardi, una giovane donna e un giovane uomo di duecento anni fa, ci parlano così da vicino e ancora ci interrogano.
Su noi stessi e le grandi questioni del nostro presente.
In copertina. Particolare di Ritratto di Mary Shelley (Richard Rothwell, 1840)