GRECIA – Il no stravince al referendum. Tsakalotos Nuovo ministro delle Finanze: “Non possiamo accettare una soluzione non praticabile”
Solo una trentina di righe in cui viene chiesto un prestito triennale e in cambio vengono promesse una serie di riforme. Questa la proposta della Grecia di Tsipras e del neo ministro Euclid Tsakalatos all’Europa dei creditori, inviata al fondo salva-stati “Esm”.
“La repubblica greca è pronta a varare un comprensivo pacchetto di riforme e misure incentrato ad assicurare la sostenibilità del bilancio, la stabilità finanziaria e la crescita economica di lungo periodo”. Oltre alle riforme immediate di fisco e pensioni, il governo promette di includere anche delle “misure aggiuntive per rafforzare e modernizzare l’economia”. “Per evitare ogni dubbio questa missiva sovrascrive le nostre precedenti richieste inviate nella lettera datata 20 giugno 2015” conclude la lettera.
Riportiamo le analisi del successore di Yanis Varoufakis dei problemi che affronterà come nuovo ministro delle Finanze di Atene:
“La nostra tesi principale è che la crisi greca non sia assolutamente da considerarsi un caso particolare. Al contrario, essa costituisce il paradigma di una più generale crisi dell’assetto politico ed economico neoliberista.
In questo senso, è necessario non solo comprendere le origini della crisi economica globale ma anche capire perché la struttura economica e istituzionale dell’eurozona si sia rivelata inadeguata per affrontare gli effetti della crisi esplosa nel 2008.
Le politiche di austerità che hanno dominato la scena sin dall’avvento della crisi hanno rafforzato l’impostazione neoliberista dell’economia e della società. Lo spazio per rispondere alle domande provenienti dagli strati più bassi della società si sono andati drammaticamente riducendo, anche rispetto al periodo, comunque contrassegnato dall’egemonia neoliberale, precedente la crisi.
Tale irrigidimento ha coinciso con un sempre maggiore distacco tra le élite la realtà sociale o, alternativamente, con una crescente incapacità delle medesime élite di recepire proposte di soluzione ai problemi provenienti dall’esterno dei loro circoli.
La risoluzione finale della presente crisi non potrà portare alla ricostruzione delle condizioni vissute delle economie neoliberali prima del 2008 né, tantomeno, condurre verso il ritorno di un sistema socialdemocratico di tipo Keynesiano. Dovremmo ricordare che non vi fu nessun ritorno agli status quo precedenti in seguito alle due grandi crisi degli anni ’30 e ’70.
Dunque, da questa crisi si muoverà o nella direzione di un’economia capitalistica caratterizzata da un sostanziale autoritarismo oppure verso un lungo periodo di trascendenza rispetto ad alcuni degli elementi fondamentali del capitalismo.
La nostra visione rispetto alla situazione attuale può essere sintetizzata nelle quattro tesi che seguono.
La crisi che ha investito la Grecia non presenta alcun carattere di eccezionalità
La narrativa che vorrebbe la Grecia come un caso isolato ed eccezionale si fonda su tre elementi tra di loro interconnessi. In primo luogo, l’irresponsabilità fiscale dei politici greci. In secondo luogo, le dinamiche clientelari che affliggono il sistema politico greco. Infine, sia l’irresponsabilità della classe politica che il clientelismo diffuso sarebbero da ricondurre a una generale incapacità di modernizzarsi del paese.
Tutto ciò dovrebbe condurre a una giustificazione dell’austerità fondata sulla favola calvinista cara ad Angela Merkel, per la quale i peccatori debbono essere puniti per gli sbagli da loro commessi nel passato. La nostra visione non potrebbe essere più lontana da quella appena sintetizzata.
La Grecia, all’alba dell’esplosione della crisi, era completamente posizionata all’interno di un’impostazione neoliberista sia dal punto di vista economico che da quello politico. Il paese si trovava a condividere con gli altri Stati membri tutti i tratti caratterizzanti le economie fondate su basi neoliberiste, così come tutti i fallimenti sperimentati dalle stesse economie. In altre parole, la crisi greca è comprensibile solo se la si guarda come una manifestazione della crisi globale del neoliberismo piuttosto che come una crisi dovuta all’incapacità di applicare, in modo efficace, le ricette proprie dello stesso sistema neoliberale.
Siamo di fronte ad una crisi globale del neoliberismo e del capitalismo
La nostra seconda tesi è confermata dal fatto che l’epicentro della crisi è localizzabile nei paesi più avanzati dal punto di vista dell’applicazione delle ricette neoliberiste, piuttosto che in paesi ‘statalisti’ quali la Francia o la Grecia. La nostra interpretazione della crisi, inoltre, rifiuta nettamente l’interpretazione ortodossa sulla base della quale il malfunzionamento dei sistemi economici sarebbe da ricondurre a ragioni esogene al sistema stesso. Le radici della crisi sono, altresì, legate all’incertezza e all’instabilità endogenamente prodotta dal sistema capitalistico.
La crisi ha messo a nudo la fragilità del sistema politico post 2008.
Dopo una breve fase in cui i principali elementi caratterizzanti l’impostazione neoliberista – la deregolamentazione del sistema finanziario, i superbonus dei manager, gli squilibri macroeconomici tra paesi o gli effetti dell’individualismo sulla coesione sociale – sono stati messi in discussione dalle stesse élite, vi è stato un rapida e rinnovata convergenza verso lo status quo ideologico.
In tale contesto, la domanda da un milione di dollari è stata: per quale motivo la crisi del 2008 non è stata colta, dalla socialdemocrazia, come un’opportunità per riaffermare le proprie ragioni sull’ideologia neoliberista?
Perché la crisi del 2008 non è stata colta dalla socialdemocrazia come un’opportunità per riaffermare le proprie ragioni sull’ideologia neoliberista?
La nostra ipotesi è che i socialdemocratici siano intrappolati in quel che viene definito da Blyth nel 2002 il «cognitive locking». Dopo tanti anni di egemonia culturale neoliberista i socialdemocratici si son scoperti non più in grado di guardare il modo da un’altra prospettiva.
Dalla crisi attuale non è possibile tornare indietro.
La nostra tesi conclusiva è che dalla crisi che stiamo sperimentando non è possibile tornare indietro. Le strade possibili sono due. Una svolta verso una forma di capitalismo autoritario o una trascendenza di alcuni degli elementi fondamentali del capitalismo. Nel secondo caso si avrà un disvelamento degli effetti corrosivi prodotti da una visione ingegneristica della economia in cui un unico modello è valido per tutte le società.
Il razionalismo-tecnocratico fa di concetti quali la «competitività» o la «flessibilità del mercato del lavoro» elementi di per sé pregni di valore e sulla base dei quali i paesi vengono costantemente classificati. Questa visione ha avuto un effetto devastante sullo stato di salute delle democrazie occidentali. E sulla capacità di costruire una narrativa basata sulle domande crescenti provenienti dagli strati più bassi della società.
Il legame fondamentale tra la democrazia e il funzionamento del sistema economico dovrà, dunque, essere posto al centro della risposta della sinistra alla presente crisi.”
* Quello qui è presentato è un estratto da «Crucible of resistance. Greece, the Eurozone and the World Economic Crisis» di Euclid Tsakalotos e Christos Laskos (PlutoPress 2013).
E’ uno dei testi migliori sulla crisi tra Grecia e Europa e presenta le analisi del successore di Yanis Varoufakis sui problemi che ora affronta come nuovo ministro delle finanze di Atene.
Traduzione di Dario Guarascio
LE POSIZIONI DELL’EUROGRUPPO:
Taglio del debito? Non se ne parla, ma la Grexit è cosa buona
LETTONIA: «Se in un sistema c’è un elemento che non funziona, rimuovere quell’elemento può essere positivo» per l’insieme dell’Eurozona. Il ministro delle Finanze della Lettonia, Janis Reirs, non ha lasciato alcun dubbio sulla sua posizione. E arrivando all’Eurogruppo straordinario sulla Grecia ha ricordato che il suo Paese ha fatto grandi riforme strutturali che comprendevano anche «il taglio del 30% del personale e dei salari» nel settore pubblico.
ESTONIA – Il 6 luglio con un provocatorio tweet il presidente estone Toomas Hendrik Ilves aveva proposto di chiedere con un referendum negli altri 18 paesi se i cittadini vogliono aumentarsi la tasse per un altro salvataggio della Grecia.
FINLANDIA – I piccoli Paesi del Nord sono più duri della Germania, aveva dichiarato qualche giorno fa il ministro delle Finanze francese Michel Sapin. E tra i più duri c’è la Finlandia. Il ministro di Helsinki Alexander Stubb ha chiarito subito: «Non vogliamo alleggerire il debito greco, è stato già fatto nel 2011 e 2012». E ha chiuso anche al progetto di un prestito ponte da elargire attraverso lo European Stability mechanism (Esm).Tuttavia il 6 luglio aveva spiegato di essere disponibile a discutere di una eventuale estensione dei prestiti. La linea morbida nei confronti della Grecia rischia in Finlandia di alimentare il partito euroscettico.
SLOVACCHIA – La ristrutturazione del debito «è la questione più delicata per la maggior parte dei Paesi» dell’eurozona e per la Slovacchia «è assolutamente impossibile», sono state invece le parole nette del ministro slovacco delle Finanze Peter Kazmir.
LA GERMANIA E I SUOI ALLEATI: NO ALLA GREXIT
GERMANIA – In Germania non c’è solo il falco delle finanze Wolfgang Schauble a imporre la linea dura. Ma anche i nomi più in vista della Spd, che fa parte della Grosse Koalition di governo. I tedeschi sulla carta vogliono evitare la Grexit, ma le posizioni sono distantissime. Schaeuble ha dichiarato: «Chi conosce i trattati Ue sa che il taglio del debito è vietato». Mentre la cancelliera Angela Merkel ha avvertito: «Mancano ancora le basi per negoziare». E al termine dell’Eurosummit ha aggiunto: «Stasera molti attorno al tavolo hanno detto che un haircut del debito greco non avrà luogo perché questo è vietato nell’euro zona». «Prima di parlare di una ristrutturazione del debito», ha concluso, «vediamo quel che la Grecia può fare».
LITUANIA – La Lituania chiede riforme, ma è disponibile al negoziato: «Siamo qui per ascoltare il nuovo ministro greco Tsakalotos» in quanto è «necessario rendere le cose più chiare e trovare una strada da seguire», perché «in politica c’è sempre spazio per un compromesso», ha detto il ministro delle finanze lituano Rimantas Sadzius. La Grexit, ha sottolineato, «per noi non è un’opzione per noi».
AUSTRIA – Il giorno successivo al referendum, il cancelliere austriaco Werner Faymann, considerato nell’ultimo periodo ben disposto verso Atene, aveva spiegato: «Non vedo una strategia» del governo greco, «Un ponte si può costruire solo se anche l’altra parte contribuisce un po’».
SPAGNA – Il governo Rajoy era tra i più intransigenti verso Atene, ma il 7 luglio il ministro delle Finanze De Guindos che aspira al ruolo di presidente dell’Eurogruppo sostiene che Madrid «rispetta l’esito del referendum» ed è «aperta» ad un «nuovo round di aiuti». «Non contemplo l’uscita della Grecia dall’euro».
IL CASO: L’ITALIA
ITALIA – L’Italia dovrebbe essere, a guardare le sue condizioni finanziarie, tra i migliori alleati della Grecia. Ma per ora si tiene strategicamente ben distante. Il premier Matteo Renzi ha institito sulla necessità di una maggiore integrazione politica europea. E per l’apertura di una fase sempre più necessaria di crescita e investimenti che superi le rigidità dell’euroburocrazia. Ma il primo ministro ha cercato in questi mesi di dialogare direttamente con Berlino. E il carico del nostro debito rende la sua posizione assai scomoda in questo frangente. Uscendo dall’Eurosummit, Renzi ha dichiarato: «Rispetto all’ultima volta non mi pare ci siano le condizioni per parlare ‘in modo strategico del debito’ della Grecia». «La palla», ha aggiunto, «ora è nel campo del governo greco, che domenica dovrà presentare le sue proposte: se saranno ritenute accettabili, si troverà l’intesa, come credo e spero».
SI’ ALL’ACCORDO
IRLANDA – Stupisce la totale apertura irlandese. La nazione Smeraldo che ha subito i colpi duri della crisi del debito si è schierata a fianco dei greci. La ristrutturazione del debito «fa parte delle discussioni» sulla Grecia, ha detto il ministro delle Finanze irlandese Michael Noonan. Il premier Enda Kenny è stato ancora più caloroso: «È giunto il momento ora di dare un po’ di speranza al popolo greco».
LUSSEMBURGO – Il Lussemburgo membro fondatore dell’Unione e Paese del presidente della Commissione Jean Claude Juncker è aperto a tutti gli scenari: «Dobbiamo ascoltare tutte le opzioni», inclusa quella della ristrutturazione del debito, «anche se questo non vuol dire che io sia d’accordo», ha dichiarato il ministro delle finanze del Gran Ducato, Pierre Gramegna.
BELGIO – Il Belgio fa parte del gruppo dei Paesi più concilianti nei confronti di Atene. Eppure il premier Charles Michel non nasconde la stanchezza: «Aspettiamo da parte di Tsipras proposte concrete, precise e convincenti, e innanzitutto ascolteremo quello che ha da dire». Per fare un accordo, ha aggiunto Michel, «bisogna essere in due».
FRANCIA: «Tsipras faccia proposte serie e credibili», chiede il presidente Hollande, che sempre a fianco della cancelliera tedesca ha definito «urgente per la Grecia e l’Europa» che si arrivi a un’intesa. Altri esponenti francesi si sono sbilanciati di più. Il ministro dell’Economia Emmanuel Macron, subito dopo il risultato del referendum di Atene, aveva invitato i governi europei a essere ragionevoli: «Sarebbe un errore storico schiacciare il popolo greco». Lo stesso ha ribadito il collega alle Finanze Michel Sapin: il posto della Grecia «è in Europa ed è nell’euro», h affermato Sapin, dicendosi convinto che Atene sia «capace di fare proposte concrete, solide, durevoli, che sono indispensabili per il dialogo con i partner». Il ministro ha inoltre sottolineato che la Francia, considerata da alcuni più accomodante della Germania, ha «le stesse esigenze degli altri in materia di serietà delle proposte», ma «ha forse un po’ più il senso della storia dell’Europa».