Kabul negli anni Settanta trasudava colori e multietnicità, le donne erano libere di indossare minigonne e tacchi senza dover relegare la loro femminilità all’interno dei confini asfissianti di un burqa. Erano libere di studiare e di sognare un futuro degno delle loro aspettative, prima che i talebani togliessero loro tutto,persino la dignità. Le foto degli anni Settanta, documentano con eloquenza i diritti violati di un popolo che basito, non riesce a risollevarsi.
In questo panorama grigio e algido, il progetto della Cooperazione Italiana, in collaborazione con l’OMS risulta essere una boccata d’ossigeno, sopratutto nei confronti delle donne, infatti è stato concepito con l’obiettivo di creare dei luoghi in cui le donne vittime di violenze potranno rivolgersi senza il timore di rischiare d’essere punite con la lapidazione. Le utenti saranno seguite da personale qualificato,ogni singolo intervento sarà analizzato e seguito fino alla risoluzione dei casi, affrontandoli anche con un approccio diretto alla giustizia. Il programma avrà la durata di cinque anni e coprirà un raggio d’azione di sette province: Kabul, Badakshan, Balkh, Bamyan, Nangharar. Herat e Parwan. Questa ed altre iniziative, come quella di alcune ragazze afghane che ogni giorno attraversano il paese in sella alle loro bici, pedalando contro un sistema autoritario, pronte a rischiare la loro vita lottando contro i pregiudizi, creano uno spiraglio di luce contro i diritti violati. La storia di queste donne diverrà il tema principe di un documentario chiamato Afghan cycles e diretto dalla regista Sarah Menzies.