La Banca centrale svizzera ha annunciato di avere abbandonato la politica di ancoraggio all’euro, che negli ultimi tre anni ha fissato il tasso di cambio del franco a un rapporto di 1,20 contro la moneta unica. In contemporanea, nel tentativo di frenare la corsa alla moneta di Berna, il banchiere ha anche stretto i tassi sui depositi nelle banche: d’ora in poi chi decide di parcheggiare la liquidità a Ginevra o a Zurigo pagherà un interesse negativo dello 0,75 per cento (mezzo punto in più del precedente). Ma le barriere antispeculazione sono state spazzate via nel giro di pochi minuti. L’euro è precipitato, fino a una punta del 30 per cento in meno, mentre il franco s’è pericolosamente avvicinato alla parità con la moneta unica (1,026 alle 12) prima di stabilizzarsi al 15 per cento circa. Poco meglio ha fatto il dollaro, in caduta libera attorno al 14 per cento. Ma i prezzi, in una giornata unica nella storia di un paese che fa della stabilità il suo marchio di fabbrica, sono destinati a variare ancora, all’insegna di una volatilità degna dell’Argentina.
Mai, nella storia, si è assistito ad un crollo dell’11 per cento della Borsa di Zurigo, che dopo l’annuncio – nessuno dei 22 analisti del panel di Bloomberg ha previsto la mossa – ha lasciato sul terreno più di 100 miliardi di capitalizzazione, ovvero il valore di Credit Suisse e Ubs messi assieme, le due ammiraglie del sistema bancario che hanno perduto circa il 14 per cento, Meno di Richemont, la casa madre di Cartier e di Montblanc, in ribasso del 17 per cento. Non sarà facile far digerire il “Francogeddon”, come è stato subito battezzato il cambio di rotta della Banca centrale, che mette seriamente a rischio la competitività dell’industria e del turismo, principali fonti di lavoro della confederazione. Ma la Banca centrale, a ben vedere, non aveva alternative.